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FAVOLE MINUSCOLE
L’ANGELO NERO
La giovane donna entra nel cimitero in cui si reca spesso, portando tra le braccia un fascio di narcisi gialli e bianchi, luminosi comprati al banco di un fioraio aperto proprio dinanzi al cimitero.
Luminosi, come quella mattinata fresca d’estate che mette nell’animo un’assurda gioia di vivere, tanto estranea a quel luogo.
Ester – così si chiama la giovane donna – si inoltra nel lungo viale dopo aver attraversato l’ampio portale d’ingresso di marmo candido scolpito e lo percorre a passo lento, assaporando l’intensa sensazione di pace che la pervade, girando intorno lo sguardo ad abbracciare le cupole dei piccoli monumenti funerari che oggi, anziché la grave freddezza del marmo, le comunicano una leggerezza ed una soavità mai provate prima.
Percorre i vialetti ben tenuti, ricchi di verde, ai cui lati si innalzano tombe d’ogni foggia: dai grossi mausolei ricoperti ormai da una patina polverosa e bruna alle cappelle gentilizie, dalle urne di marmo da cui prorompono volti, per lo più tristi, quelli degli adulti o giovinetti, agli angeli di ogni dimensione con le ali ripiegate intorno al corpo etereo, i volti composti nell’immobilità eterna, altri invece che guardano in alto, quasi pronti a spiccare il volo, fino alle piccole e semplici croci bianche disseminate sulla terra bruna in lunghe file geometriche.
Ester cerca una sagoma che ben conosce e da cui è quasi affascinata: un Angelo di metallo bruno che, sotto la polvere del tempo e il verderame, se colpito da un raggio di sole, riluce di un’aurea iridescente.
Esso s’innalza su di una piazzuola di piccole croci segnate solo da una data, senza nomi né fotografie. Si erge diritto, alto quasi due metri, da un piedistallo marmoreo poco rialzato dal suolo, col viso leggermente chino verso terra e il suo occhio non è perso nel vuoto, freddo e vacuo come di solito in tutte le sculture, ma vi si intravvede il riflesso d’una profondità inimmaginabile in cui si perde chi alzi lo sguardo a contemplarlo.
Il viso affilato non è né severo né triste…sul labbro minuto lievemente arrotondato, balena l’ombra d’un sorriso confortatore, come di chi prometta qualcosa di meraviglioso che le sole parole umane non riescono a condensare.
Ogni volta che passa nel vialetto adiacente, la giovane donna si ferma ad osservare l’Angelo bruno e talora s’addentra nella piazzuola e sta lì, in silenzio, davanti a lui, quasi che quella sosta le infonda un po’ di coraggio a proseguire in quella città dei morti.
E, infatti, poi per continuare il suo cammino lungo una stradina che porta ad una moderna costruzione, così diversa da quelle antiche e monumentali, quasi un palazzo d’abitazione sulla cui facciata esterna si susseguono piccoli loculi rettangolari, rallegrati da foto, da lumini, da fiori…
Tra gli altri sconosciuti, proprio in basso, vi riposa, ormai in pace, suo padre, quel padre che per un susseguirsi di vicende, lei non ha mai conosciuto da vivo e che con la sua pertinace assenza ha segnato negativamente la sua infanzia e la sua giovinezza… E quando a lei sarebbe stato, forse, possibile, non ha mai voluto né tentato di conoscerla… non poteva perdonargli di non aver fatto nulla per quella figlia nata senza la sua presenza, di non aver nemmeno provato ad avvicinarla, rivelandole almeno la sua inettitudine, i suoi rimorsi…
Ora, lei andava da lui, in quel luogo sospeso tra la pace e la desolazione, senza amore, anzi con una certa acrimonia, come a voler sottolineare, di contrasto, la sua assiduità verso il morto che in vita non l’aveva curata minimamente. E’ questo un piccolo rito che ogni volta la ferisce, ma più la ferisce, più lei è contenta d’esservi fedele…
Oggi, in questa giornata straordinaria di sole, nel grande cimitero c’è un silenzio compatto che non incute paura, anzi alleggerisce il cuore da ogni pena e lei cammina con quel fascio leggero e allegro di fiori bianchi e gialli che le riflettono sul volto una luce dorata…
Ma … l’Angelo bruno… dov’è…? Oggi non è al suo solito posto... forse l’avranno tolto per ripulirlo dallo strato di polvere e verderame che s’andava addensando tra le pieghe dell’abito, tra i capelli disciolti che gli ricadevano composti attorno al volto bruno…
Un po’ delusa, Ester si incammina per la stradina adiacente che la porta alla sua meta.
Dinanzi alla costruzione, c’è già un’alta figura vestita di nero, un giovane dal capo chino, il volto affilato di cui non riesce a scorgere i lineamenti, nascosti da una lunga capigliatura bionda e fluente. Prima ancora di arrivare alla tomba, Ester si accorge che nel piccolo vaso di ceramica azzurra, al posto dei fiori, ormai sicuramente appassiti che lei vi aveva deposto nell’ultima sua visita, bianco e bellissimo, c’è un grande fiore a cui lei non sa dare il nome, non l’ha mai visto…
E’ tale la sua sorpresa – non c’è che lei che si prenda cura di quella tomba – che la nuvola gialla e bianca di fiori che si agitava al vento, le sfugge di mano…
Il giovane, distolto dai suoi pensieri, si china a raccoglierlo con movimento elastico e rapido, glielo porge con un sorriso… lo stesso sorriso quasi ilare dell’Angelo bruno…
“A ben pensarci – commenta Ester tra sé – un po’ sconvolta, gli assomiglia moltissimo, sembra l’esatta copia umana della statua…”. “Grazie… grazie…”, ripete intanto tutta sossopra per la scoperta, e un po’ tremante solleva il vaso da cui occhieggia quel fiore così raro e meraviglioso che emana un profumo incantevole poi, senza quasi attendersi una risposta chiede al giovane: “E’ stato lei a portarla?”.
“Sì – annuisce il ragazzo – è la prima volta che vengo a trovare mio padre… finora – continua, con un po’ di commozione – non ho mai potuto lasciare il luogo in cui mi trovo. E il fiore l’ho portato da lassù”.
“Suo padre…?” esclama la donna”… suo padre….”- ripete come a se stessa “mio padre, invece…!”. Afferma decisa con tono duro che non nasconde il risentimento che cova in lei, come se una cosa debba escludere l’altra…
“Sì, lo so… - annuisce il giovane – so che era stato sposato, non felicemente, ma per sopravvivere era poi emigrato in Australia dove, lavorando senza mai riposo, stava mettendo dei soldi da parte per farsi raggiungere dalla moglie che era in attesa di un figlio.
Ma i soldi tardavano ad arrivare… nacque una bimba… Le vicende della vita e la difficile situazione economica lo costrinse a rimanere lontano anche dopo, quando sua moglie morì e la bimba venne affidata ad un istituto di suore.
Tentò parecchie volte di rintracciarla, era un cruccio che lo seguì per tutta la vita e mi ricordo anch’io – che sono nato dopo il secondo matrimonio – che questo era il suo pensiero fisso, un tormento continuo, non averla potuta rintracciare, nemmeno quando, tornato in Italia con la nuova famiglia e co qualche soldo, aveva fatto numerose e lunghe ricerche…
Ester ascolta ma è quasi come se non lo facesse, tanto è stata presa alla sprovvista da questa rivelazione… eppure un vago ricordo di qualche discorso ascoltato per caso in quel triste orfanatrofio, la subitanea sospensione d’un discorso tra due anziane suore che avevano a cuore la sua situazione, riguardo ad un giovane morto in un banale incidente… “ecco, anche l’ultima persona che le era rimasta, le muore…”. No, non poteva essere lui… forse stavano parlando di qualche altra ragazza…
Ester pensa a testa china, non ha vogli d’incontrare lo sguardo del ragazzo, la sua anima è un groviglio di sentimenti disparati e nient’affatto benevoli nei confronti di colui che le sta dinanzi…
Ma poi è quasi costretta ad alzare gli occhi e a fissarli in quelli di lui, d’un azzurro incredibilmente intenso, quasi gioiosi, densi di un’indicibile serenità, tanto che a fissarli lei sente cadere dentro di sé quelle barriere di rabbia e di contrasti, di disamore che lei stessa ha innalzato tra la sua vita ed il suo mondo esterno e che hanno condizionato i suoi rapporti con gli altri sempre, fin dagli anni della sua infanzia…
Ora nella sua anima sente una vibrazione che assomiglia al rombo d’un corso d’acqua possente che dirompe dagli argini sicuri di poco prima e si tramuta in cascata, distruggendo in lei ogni preesistente pensiero e dilaga dentro di lei, come un mare di benessere e di dolcezza…
Quasi senza accorgersene, con gli occhi umidi di pianto, un pianto consolatore e silenzioso, si trova in ginocchio davanti alla tomba del padre, non più ostile né creditrice, ma solamente compassionevole e pietosa col capo chino verso terra, persa in pensieri nuovi: “Mio padre mi cercava disperatamente… un fratello, un compagno con cui ripercorrere l’infanzia spezzata, attraverso i cui racconti ricostruire l’immagine distorta che avevo di mio padre…” E, finalmente prega, prega senza rancore per suo padre…
Un tocco leggero sui suoi capelli, come una carezza, come il tocco d’ala d’un uccello invisibile, le fa rialzare il capo, mentre già la sua mano è protesa verso l’alto, là dove il giovane stava ritto, per fargli intendere che fra loro non c’era alcuna barriera…
Ma intorno non c’è più nessuno, il giovane si è volatilizzato…
Impaurita da quella sparizione, Ester non vede che alcuni gruppi di persone avviati verso varie direzioni, ma del giovane vestito di nero, alto e biondo, non è rimasta traccia, se non quel fiore bellissimo e profumato di cui non conosce neanche il nome.
Dopo un primo momento di smarrimento, Ester razionalizza l’avvenimento spiegandoselo in vari modi: “l’avrà contrariato il mio atteggiamento aggressivo… avrà pensato che era inutile insistere…” rimugina tra di sé, con malinconia per aver già perso quel fratello da poco acquisito… “avrà avuto un appuntamento e forse era già in ritardo… concluse fra sé, riscuotendosi e guardando l’orologio, rendendosi conto che anche per lei si era fatto tardi.
Con l’anima turbata, Ester compie i gesti soliti: prende il vaso già colmo d’acqua e, accanto a quell’unico fiore immacolato, aggiunge i suoi, lo ridispone davanti alla tomba, si stacca quasi a fatica da quel luogo così silenzioso ma così sereno e ripercorre il vialetto che la porterà verso l’uscita…
E’ ancora confusa dagli avvenimenti e posa intorno lo sguardo senza soffermarsi sulle cose che la circondano… ma, ecco, al solito posto, la bruna sagoma dell’Angelo di fero che si erge, composta e confortevole come sempre.
Ester non può fare a meno di avanzare fino al piccolo spiazzo in cui si trova la statua, scrutando con occhio indagatore quel volto levigato e giovane scolpito nel metallo confrontandolo mentalmente al viso di quel fratello sconosciuto e ritrovato, scolpito ormai nel suo cuore…Che pensare? Tanti pensieri confusi tra cui se ne delinea uno, quasi impossibile e meraviglioso… e se fosse vero?
… Un profumo etereo, persistente la distrae da quell’idea e l’occhio le cade sul lembo di prato che circonda il basamento della statua… nel verde intenso dell’erba, diritto ed elegante, s’innalza sullo stelo un fiore bianco proprio uguale a quello che il suo giovane fratello aveva deposto sulla tomba di suo padre…
Ester alza gli occhi verso l’Angelo, quasi a chiedergli conferma di quella strana idea che le è passata per la testa… un raggio di sole colpisce proprio in quel momento il volto bruno dell’Angelo…
Sbaglia o le sue palpebre di ferro pesante hanno vibrato, il suo sorriso si è accentuato ed il viso si è chinato impercettibilmente in un cenno d’assenso…?
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IL CHERUBINO
(IN RICORDO DI FRANCESCA, GRAZIELLA E FRANCESCO)
In un angolo della grande città, in una piazzetta ombrosa, s'innalzava un’antica chiesa costruita addirittura, ai tempi dell'Impero romano e nel corso dei secoli era stata ingrandita ed abbellita all'esterno e all'interno con marmi, stucchi, dipinti, statue di buona fattura.
A lato della ampia navata centrale c'era una piccola cappella dedicata alla Madonna e sopra l'altare campeggiava un enorme quadro che raffigurava Maria con un Bambinello in braccio e tutt'intorno le faceva corona una schiera d'angeli di marmo.
Davanti all'altare sfilava tanta gente di tutte le età e di tutte le condizioni che si recava in chiesa per assistere alla Messa, per pregare e per impetrare qualche favore alla Beata Vergine o per ringraziare Lei, Gesù ed il Buon Dio.
La Madonna, col suo tenero sorriso osservava tutti e dispensava grazie.
Anche gli Angeli, disposti intorno al Suo altare, sembravano interessarsi agli avvenimenti che accadevano proprio sotto di loro e spesso intercedevano per qualcuno in particolare, pregando Maria di compiere qualche miracolo.
Alcuni degli Angeli erano imponenti con delle belle e grandi ali spiegate, tranne uno, proprio là in alto, col piccolo viso rivolto verso la cupola.
Quel minuscolo cherubino sembrava farsi largo tra le voluminose ali degli altri, tanto che delle sue alucce non se ne vedeva che una anche un pò piegata.
Inoltre quella posizione a capo all'ingiù gli risultava assai scomoda: guardava sotto di sè ma non poteva vedere se non capovolto il volto soave e bellissimo della Madre e lo sguardo del Bambino.
Ma sopportando con stoicismo quella penosa situazione, si rammaricava però tra sè e sè: "Ah che scomoda posizione... come vorrei poter guardare la Mamma di Gesù negli occhi... come vorrei essere uguale agli altri angeli...!".
La Vergine, che sembrava non accorgersi nemmeno di lui, invece, ben conosceva i suoi pensieri e gli parlò chiedendogliº "Cosa posso fare per te?".
L'angioletto sorpreso dell'interessamento e commosso ci pensò solo un attimo e rispose: "O Madre generosa, dà anche a me due ali forti e grandi come quelle di questi miei compagni che ti fanno corona e fà che io possa guardarti negli occhi senza tanti contorcimenti".
Maria sorridendo fra sè annuì...
Ma proprio in quel momento all'altare s'accostò una coppia di coniugi, già avanti con gli anni, che spingeva una carrozzella su cui sedeva una ragazza già grande che, colpita da un'infezione celebrale in tenera età, non aveva potuto svilupparsi come gli altri bambini e a malapena riusciva a balbettare.
I suoi genitori la curavano amorevolmente e si preoccupavano per lei e più che un miracolo che la risanasse, pregando, chiedevano alla Madonna di custodire il futuro della loro figliola.
L'angioletto guardava con senso di gran compatimento la triste famigliola e si scoprì a pensare che la sua personale situazione benchè così precaria non era nulla in confronto a quella della fanciulla.
E, senza neanche pensarci due volte, spenzolandosi il più possibile verso l'immagine di Maria così l'apostrofò:
"Madre misericordiosa posso disturbarti ancora? Non desidero più che Tu mi trasformi in un grande angelo... mi accontento del mio stato e di esserti comunque così vicino.
Vorrei invece che tu guarissi subito quella fanciulla in carrozzella... sarei così contento...", aggiunbse con foga, volgendo lo sguardo mentre le guance candide gli s'arrossavano per l'ardire.
La Vergine sorrise dolcemente guardando il suo Figlio celeste che alzando la manina grassoccia diede il Suo benestare.
Maria, fissando il cherubino, chinò la testa in cenno d'assenso e nello stesso momento una scintilla d'intelligenza divina animò la ragazza in carrozzella che, dopo essersi alzata in piedi con un grido di gioia, prima d'ogni altra cosa si prostrò dinanzi all'altare, ringraziando a gran voce la Madre di Dio.
I suoi genitori ammutoliti dalla sorpresa imitarono il suo esempio, mentre lacrime di gratitudine e di gioia inondavano i loro volti.
L'angioletto aveva osservato tutta la scena con occhio attento e commosso ed una lacrimuccia di soddisfazione gli brillava al di sotto delle palpebre.
Era felice come non lo era stato mai e non gli importava davvero d'aver rinunciato al suo bel sogno di diventare un angelo dalle grandi ali...
Gesù però non l'aveva dimenticato e con un solo battito di ciglia avverò anche il desiderio del suo fedele cherubino: l'angioletto si sentì improvvisamente dilatare, il suo vestitino bianco si rigonfiò e in un attimo eccolo diventato un imponente Arcangelo dalle impalpabili quanto maestose ali...
Provò ad agitarle... che sensazione meravigliosa… Era alfine uguale agli altri che, meravigliati e gioiosi, si felicitarono con lui.
Esultante, l'angelo si staccò dal gruppo marmoreo e con un rapido frullo d'ali si slanciò a mezz'aria, facendo due capriole di contentezza...
Poi, un pò confuso, si fermò proprio di fronte alla Madonna e al suo Bambino per ringraziarli di cuore. Infine, con un ultimo battito d'ali tornò al suo posto fra gli altri con un sorriso di perenne felicità…
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L'APPARIZIONE
Il bimbo giace in un lettuccio d'angolo d'una stanza sovraffollata ed è madido di sudore per la febbre alta, rosso in viso e s'agita di tanto in tanto, con un affanno che gli impedisce di respirare mentre sua madre, una donnetta un pò pingue dal sorriso accattivante, che tira avanti per i suoi figlioli, gli sta accanto e spia su quel volto emaciato, l'evoluzione della malattia sperando in qualche miracolo.
Difatti, ella pensa che se la temperatura non cadrà, per il piccolo ci saranno poche probabilità di salvezza...
E mentre sta lì accanto a lui, pensa al marito lontano per la guerra, in pericolo anche lui. I giovani di casa, quasi maggiorenni, lavorano per mantenere la numerosa famiglia ed uno di essi s'è preso carico di cercare una costosa e quasi introvabile medicina in quel clima di ristrettezze che la guerra ha portato con sè.
I fratelli più piccoli intanto giocano, silenziosi e rispettosi, nell'altro angolo della grande camera, seduti su di una vecchia coperta e spesso gettano uno sguardo al piccolo disteso sul letto o si rivolgono alla madre che li zittisce con fare gentile.
La sorella maggiore, un'esile donnina dagli occhi sorprendentemente grandi e di solito allegri, ora però velati di tristezza, si dà un gran daffare per la casa, sostituendo la madre in cucina e nelle altre faccende e se si trova in difficoltà, allora s'avvicina alla donna che la comprende al volo e, dopo aver passato una mano sul capo del bimb, lascia il suo posto per attendere alle sue incombenze.
La ragazza allora si siede sul bordo del letto e cerca con delle spugnature fredde di alleviare la sofferenza del fratelo che, a malapena apre gli occhi e le indirizza un breve cenno di ringraziamento con un battito
impercettibile delle palpebre, ma poi ricade in quel torpore greve che sa quasi di morte...
Passa così tutta una giornata e s'avvicina la notte... si preannuncia ancora più difficile del giorno appena passato... il bimbo s'affanna a respirare ed un rantolo cupo gli esce dalla piccola gola infiammata e a nulla valgono gli impacchi e la medicina solo un palliativo per la febbre che il fratello ha trovato, dopo lunghe ricerche, in una delle poche farmacie fornite e che gli subito viene somministrata.
Dopo una rapida e frugale cena, i bimbi piccoli sono stati messi già a letto, la sorella maggiore rigoverna e i due giovanotti sono fuori all'aria aperta per due chiacchiere e per rilassarsi dalle fatiche del giorno.
La madre, invece, è seduta nella solita poltrona, lì accanto a quel lettino dove il malato a tratti s'assopisce e poi si ridesta di soprassalto, come in preda ad una grande paura. In quei momenti lei gli stringe la manina sudata e gli ravversa un ricciolo bruno che gli ricade sulla fronte. Lui le rivolge un piccolo sorriso stento e poi ricade nel torpore.
Ma non sa stare ferma, non può stare ferma senza fare qualcosa per il suo piccolo ed è attenta ad ogni suo respiro, gli ricompone il letto, gli asciuga la fronte, gli ravversa il guanciale... ed ogni qualvolta lui agitandosi lo scompone, gli scherma la luce della lampadina di fortuna posta su di un traballante tavolino da notte, attorno a cui silenziosa gira una grande falena dispettosa.
I giovani rientrano e dopo uno sguardo al malato ed un bacio alla madre se ne vanno a letto... Passano le ore e nella piccola stanza silenziosa s'ode solo il respiro affannoso del bimbo ed i sospiri trattenuti della madre che, piano piano, stanca dell'intensa giornata, cade anch'essa in un sonno pesante.
E’ quasi l'alba ed un alito fresco di vento entra da una sconnessura della finestra e fa vibrare le ampie ali della falena posata sul bordo del piccolo tavolo, che, come richiamata da una voce imperiosa, s'invola improvvisamente verso l'esterno, trovando subito una via d'uscita, prima sfiorando il volto della donna addormentata che a quel lieve contatto si desta.
Subito il suo sguardo si posa sul bimbo il cui volto non è più acceso come lasera prima ma roseo ed anche il respiro affannoso sembra essere sparito. Essa tira un sospiro di sollievo ed il suo volto, dai lineamenti delicati come quelli del piccolo, si distendono in un sorriso ed il suo sguardo si posa con riconoscenza sull'immagine d'una Madonnina con il picclo Gesù in braccio, appesa a capo del letto, un piccolo altarino su cui, qualche giorno prima, il piccolo ha deposto una rosa selvatica trovata nella macchia.
Poi, s'alza, quasi a fatica, senza far rumore per non svegliare i figli e si reca nella stanza accanto per preparare un pò di latte caldo da far inghiottire al bimbo quando si sveglierà…
Intanto il piccolo malato si desta e non avverte più quel gran male che gli attanagliava la gola, anzi si sente quasi in forza persino per saltellare nella stanza e che meravigliosa sensazione prova una gioiosa serenità... gli sembra di librarsi nell'aria... anzi è come se fosse immerso in un'atmosfera liquida e risonante di mille lievi accordi musicali... tutt'intorno a lui colori tenui e visi di bimbi intenti ad annunciargli qualcosa... ma lui non riesce ad afferrare quello che vogliono dirgli... tende le manine verso quel mondo bellissimo e proferisce qualche suono senza senso...
La madre, subito vigile, rientra nella stanza e s'avvicina al lettuccio, rincalza le coperte disfatte e bacia il piccolo che la ricambia con affetto e un pò stentatamente cerca di trasmetterle le sensazioni provate poco prima.
Ma lei dà punta importanza a quelle allucinazioni derivate dal brusco cadere della febbre alta e, rassicurata, s'affaccenda intorno al malato, riassettando la stanza.
Tuttavia un pò perplessa e un pò preoccupata, ogni tanto lo guarda di sottecchi ed al vedere quel visetto, che ora sembra proprio lo specchio della salute, continua a sfaccendare... eppure ecco il bimbo ora guarda alla sua destra con aria di grande meraviglia con un sorriso solare... il suo sguardo si sposta lentamente, come se seguisse qualcosa… ora si posa verso un punto definito alla sua sinistra e allunga una manina nell'aria... il suo viso risplende quasi dalla contentezza e s'illumina tutto...
La madre, impensierita, poveretta, da queste alterazioni, lo chiama a bassa voce: Ninì, che c'è? Che succede?".
E il bimbo, con voce chiara, ora le addita un punto della stanza e le dice con energia: "Ma non lo vedi che là c'è la Madonna?". E continua con lo sguardo a seguire l'immagine che solo a lui si mostra.
La donna pare impietrita, con una ramazza in mano poi, emettendo un alto grido, cade in ginocchio a fianco del letto dove il piccolo delirante s'è ora acquietato.
Gli altri figli accorrono nella stanza e la trovano così, sempre inginocchiata, col viso chino sul letto e le mani giunte.
Accanto a lei il malatino è inerte, disteso ormai nella pace eterna, ma col viso trasfigurato da una gioia immensa, sovrumana.
Tra le sue mani, giunte in un'ultima preghiera a quella Madonnina discesa dal suo altarino inaspettatamente, è comparsa la rosa canina da lui deposta qualche giorno prima... non è più sfiorita, ha colori vividi e petali intatti ed emana un sottile, intenso, dolcissimo profumo. |
STORIA DI UNA MANO
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Una mano può scrivere storie di un'altra mano...
... di una mano che al telaio dipinge paesaggi, volti ed altre storie, intrecciando sveltamente la trama e l'ordito di fili multicolori...
... di una mano che inforna una pagnotta e quando sarà cotta e fragrante, la taglierà in larghe fette che un'altra mano afferrerà e porterà alla bocca per saziare la sua fame...
... di una mano che raccoglie fiori e li deposita in un cestino, per poi regalarli alla mamma...
... di una mano che dipinge con cura la cuccia del suo cagnolino, per renderla più graziosa ed accogliente...
... di una mano che stringe al cuore la sua bambola preferita...
... di una mano che offre un fiore come fosse un gioiello...
... di una mano che si tende a stringere un'altra mano per trasmettere amore, aiuto, pace...
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STORIA DI UNA FOGLIA
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... che nasce su un ramo insieme ad altre foglie...
... che vibra ad ogni alito di vento e garrisce come una piccola bandiera..
... che si nutre dell'essenza stessa dell'albero, come un bimbo si nutre della madre...
... che fa corona, insieme ad altre foglie, attorno ad un frutto o ad un fiore...
... che durante l'estate assorbe il calore ed il colore del sole e d'autunno, ormai stanca, si stacca dal ramo per il suo primo ed ultimo viaggio...
... che lentamente si disfa sul terreno e diventa humus...
... che dà vita, così, ad altre piante ed alberi, carichi di mille altre foglie...
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LA SPIGA SUPERBA
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In un campo di grano una spiga gonfia di chicchi dorati si pavoneggiava in mezzo ai papaveri e ad innumerevoli fili d'erba. Canticchiava tra sè e sè, ma con voce abbastanza udibile da tutti gli altri abitanti del campo:
"Come sono bella, tutta d'oro e colma di chicchi preziosi! Come sono utile con questi chicchi gonfi. Diventerò pane fragrante sulla tavola del re!"
Così, crescendo, ripeteva questa cantilena ai fiori ed alle altre spighe che sopportavano pazientemente la sua vanità.
Dei piccoli insetti che volavano di fiore in fiore, di spiga in spiga, ascoltarono anch'essi il ritornello e, golosi ed incuriositi, si diressero
verso di essa per gustarne la polpa soda e deliziosa, si avventarono sui chicchi dorati e ne fecero una grande scorpacciata, lasciando in pace le altre spighe meno belle e tronfie.
... E la spiga superba morì lì, proprio dov'era nata, con tutte le sue illusioni e non diventò mai pane fragrante sulla tavola del re. |
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LA NUVOLA VANITOSA
Un giorno, una nuvola vanitosa pensò: "Se riuscissi ad avvolgere tra le mie braccia bianche il sole, m’inonderei di calore, brillerei di luce dorata e tutte le altre nuvole invidierebbero la mia bellezza!".
Così veleggiò bassa nel cielo dove una piccola sfera dorata ondeggiava ad ogni alito di vento, allungò le braccia circondando con la sua bianca ombra quello che credeva fosse il sole ma che in realtà non era altro che un palloncino giallo legato ad un filo, che danzava nell'aria insieme ad altri palloncini.
A terra un bambino col capo rivolto all'insù, ne seguiva le evoluzioni e sorrideva felice...
La nuvola non si diede per vinta, salì più in alto e raggiunse, finalmente, l'enorme sfera del sole e tentò di racchiuderla in un abbraccio.
Ma, a contatto di tanto calore, la nuvola vanitosa che voleva diventare tutta dorata e destare l'invidia delle altre nuvole, evaporò lentamente, nell'immenso, mentre il sole continuò a splendere, alto nel cielo, con tutta
la sua potenza...
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LA TAZZINA DI CAFFÈ
Sullo scaffale d'un negozio d'antiquariato, faceva bella mostra di sè una tazzina da caffè di fine porcellana, su cui erano dipinti dei rami di pesco dorati.
Guardandosi intorno osservava certe sue sorelle panciute e golose che avevano due manici ed una linea più armoniosa e lamentosamente interpellava il suo piattino, dicendo: "Perchè mai ho solo un manico? Vorrei essere come quelle mie sorelle più grandi!".
E si lamentava così accoratamente che un giorno l'antiquario, che si dilettava anche di restauro, dopo aver cercato a lungo una tazza simile a quella da caffè di cui parliamo, ne trovò una con il bordo sbreccato, ormai inutilizzabile.
L'uomo le tolse il manico e si accinse ad incollarlo sulla tazzina di nostra conoscenza che, non appena si accorse di tutto quel lavorio intorno a sè, se ne stette buona e zitta fino alla fine dell'operazione.
Però, concluso il lavoro, l'antiquario non ne fu soddisfatto e decise di relegare la tazza nel buio retrobottega dove conservava alcune carabattole che aveva scartato poichè non erano all'altezza di far bella mostra di sè nella
grande vetrina.
La mise quindi accanto ad altri piccoli oggetti di poco valore, tra un piattino di Limoges sbreccato che ostentava la sua regalità ed una damina di Capodimonte, che aveva quasi perso la testa per un cavaliere azzimato che le faceva una buffa riverenza tenendo in mano un immaginario cappello.
Ma la tazzina da caffè soddisfatta, invece, dei suoi due manici, si sentiva finalmente fiera ed orgogliosa di sè e non si lamentò più nemmeno una volta nella sua vita. |
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UN UOMO PICCOLO PICCOLO
C'era una volta un uomo molto piccolo di statura che si sentiva a disagio tra uomini e donne più alti di lui e camminava con il capo chino verso terra, tanto da sembrare ancora più piccolo.
Un giorno, mentre camminava per una trada di campagna, si sentì molto stanco, si fermò sotto un grande albero per riposare un pò e, riflettendo tra sè e sè disse a voce alta: "Ah, come vorrei essere alto e robusto!".
Lì accanto c'era un formicaio brulicante di vita che lo incuriosì: si mise ad osservare attentamente le piccole lavoratrici che andavano e venivano con alacrità, trasportando pesi enormi per la loro corporatura.
Guardava affascinato il loro daffare che quasi dimenticò il dispiacere che gli procurava l'essere così piccolo.
Una formichina che s'era fermata accanto a lui lo interpellò con una vocetta allegra:
"Perchè sei così triste? È forse per la tua statura? Non ne vale la pena, credimi, dovresti già saperlo: non è la statura che decide della grandezza d'un uomo.
Sono il suo animo, i suoi sentimenti, i suoi pensieri, la sua bontà.
Eppoi, il buon Dio, guardando dall'alto dei cieli giù sulla terra, vede gli uomini tutti uguali, alti o bassi che siano, tutti piccoli come noi formiche. Anche voi umani, infatti, guardandoci dall'alto ci credete identiche, tutte ugualmente piccole...
Mettiti l'animo in pace e sii contento. Sarai grande se il tuo animo, la tua bontà, i tuoi gesti saranno grandi e più piccolo ti farai tra gli uomini, più grande Dio ti vedrà dall'alto delle sue nuvole.
Arrivederci, dunque, mi sono fermata anche troppo a chiacchierare" e se ne andò trascinando il suo grosso carico gioiosamente.
"Arrivederci - la salutò il piccolo uomo - e grazie infinite!".
S'alzò subito e canterellando con allegria si avviò per tornare in mezzo al vasto mondo, senza più desiderare d'essere alto e robusto ma solo buono e generoso.
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LO SPAVENTAPASSERI TRISTE
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Uno spaventapasseri che viveva in mezzo ad un campo di grano, si sentiva molto triste perché le lunghe giornate della sua esistenza si snodavano solitarie, l'una dopo l'altra. Mai nessuno che gli rivolgesse la parola, neanche un uccellino che gli si avvicinasse a rallegrarlo con il suo cinguettio.
Le sue lunghe braccia di paglia stringevano solo aria e per non sentirsi troppo solo, spesso cantava con una vocina flebile e dolce delle canzoni armoniose ma tristi.
Sulle ali del vento, il suo canto giunse fino al Regno delle Fate ed una di esse, commossa, decise di usare la sua magia per far felice lo spaventapasseri.
Di lì a poco, il poverino che quel giorno si sentiva particolarmente triste, cominciò a piangere: grosse lacrime rotolarono sul terreno formando un rigagnolo, fermandosi in una cavità del suolo.
Ma, al contatto di quelle lacrime la terra divenne fertile ed improvvisamente, per incanto, vicino allo spaventapasseri apparve un meraviglioso albero, ricco di foglie lucenti e verdi e carico di mele rosse.
Tanti uccellini, richiamati dall'avvenimento, cominciarono ad arrivare da ogni direzione, riempiendo l'aria di garruli cinguettii, battendo festosamente le ali, preparando tra il fogliame dei comodi nidi in cui passare le loro giornate.
Alcuni di essi intrecciarono voli intorno allo spaventapasseri che era infisso nel terreno a pochi passi dall'albero fatato e guardava stupito quel via vai festoso, di cui non riusciva a capire la ragione.
Quasi quasi avrebbe pianto di felicità, ma ora era troppo allegro...
Un uccellino variopinto e cinguettante si posò sulla sua spalla senza timore, chiedendogli se poteva fargli un pò di compagnia.
Un gran sorriso soddisfatto si dipinse sul volto di paglia dello spaventapasseri, finalmente non più triste.
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L'UOMO-MONGOLFIERA
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Un uomo, convinto di non aver avuto fortuna nella vita e di non valere molto, si mise a bere per consolare la propria insoddisfazione.
Così facendo non si accorgeva di sprecare del tempo prezioso, senza compiere nulla di utile e passava intere giornate in casa senza fare alcunchè, senza parlare con nessuno.
Un giorno, camminando per le strade affollate della città, mentre stava per attraversare una via molto trafficata non s'accorse che nello stesso momento stava sopraggiungendo, a tutta velocità, una carrozza a cavalli che sicuramente l'avrebbe travolto.
La paura lo inchiodò al suolo mentre riuscì a pensare solo: "Vorrei saper volare...".
Non aveva finito neanche di pensarlo che improvvisamente, si gonfiò come una mongolfiera e cominciò a salire nel cielo, così in alto che anche le nuvole rimasero sotto di lui come soffici guanciali.
Nel volo incontrò numerosi uccelli che lo guardavano meravigliati e a cui lui rispose con un sorriso soddisfatto. Finalmente faceva parte anche lui delle alte sfere e così si fermò su di una nuvola, si sdraiò per riposarsi e intanto guardava giù verso terra.
Che brulichio d'uomini à in fondo: chi andava,chi veniva, correvano tutti come matti in cerca di chissà cosa; quelli che avevano soldi, ne volevano ancora, quelli che non ne avevano, cercavano disperatamente di ammassarne quanti più potevano per vivere meglio.
Le facce, sia degli uni che degli altri,erano ugualmente insoddisfatte, tiranniche e crudeli quelle dei ricchi, meschine e grette quelle dei poveri.
L'uomo, che nel suo animo non nutriva alcun sentimento di avidità o di meschinità, si convinse d'essere un uomo fortunato e felice; desiderò di scendere di nuovo sulla terra per convincere chi stava laggiù che non valeva la pena di vivere così ed avvertirli di quale brutto effetto facessero, visti dall'alto.
Si lanciò giù dalle nuvole, vagando nel cielo chiaro e man mano che scendeva si sgonfiava finchè, giunto in un gran prato ben curato e ricco di fiori, dove molti bimbi giocavano felici, s'accorse d'essere ritornato alla sua corporatura normale.
I ragazzini, incuriositi da quell'apparizione che scendeva dal cielo, lo seguirono nel suo volo col naso all'aria, poi si raccolsero attorno a lui, facendogli molte feste.
"Chissà, forse mi credono un angelo del cielo!" pensò l'uomo.
E con la gioia nel cuore, cominciò a raccontare la sua grande avventura ai piccoli che lo stavano ascoltando a bocca aperta, senza perdere una parola di ciò che diceva.
La tennero a mente e, tornati a casa, raccontarono ai loro genitori, agli amici ed ai parenti la storia dell'uomo che era salito nel cielo ed aveva visto gli abitanti della terra, così piccoli e stupidi, correre freneticamente, follemente per raggiungere cose che in fondo non hanno una così grande importanza: denaro, potere, successo...
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IL TRENINO STANCO
Un trenino che correva bofonchiando a tutta velocità tra cittadine, paesi e campagne, diceva tra sè:
"Quando potrò fermarmi a riposare tranquillo e per sempre?
Vorrei tanto poter sostare in una di queste piccole stazioncine allegre davanti a cui passo ogni giorno.
Sono così graziose con quelle aiuole piene di fiori, le fontanelle che gorgogliano ininterrottamente... e che pace!
Pochi passeggeri che salgono e scendono, molti vecchietti che si riposano sulle panchine e la domenica bande di ragazzi che si rincorrono intorno ai carri e vi si nascondono dentro per giocare, sognando di partire alla volta di paesi lontani e di vivere avventure fantastiche.
Che vita felice sarebbe quella!".
Così sognando, il trenino correva e correva e a sua vecchia locomotiva ansava attraversando tanti luoghi, alcuni caotici e rumorosi, altri che ispiravano pace.
Alle volte si fermava sbuffando e gettando verso il cielo ampi pennacchi di fumo bianco, ma per la maggior parte del tempo era impegnato nel viaggio.
Un giorno, però, la vecchia locomotiva non ce la fece più: aveva arrancato faticosamente in giù e in su per tante salite e non aveva più fiato.
Il treno si fermò definitivamente proprio in una di quelle stazioncine che piacevano tanto al trenino e decise che da quel giorno sarebbe andato in pensione.
Gli operai della ferrovia trainarono il trenino sino ad un binario morto e insieme alla popolazione decisero di tributargli un ultimo saluto.
Organizzarono una bella festa, inghirlandarono i binari, decorarono la locomotiva con bandierine colorate e brindarono tutti insieme alla salute del trenino.
Che era finalmente soddisfatto: aveva proprio
ciò che desiderava!
A festa finita la stazioncina si svuotò ed il trenino potè dormire tranquillamente per un'intera notte, come mai aveva potuto fare prima d'allora.
Ormai aveva per sè tutto il tempo che voleva, non aveva bisogno d'altro.
L'indomani mattina, il primo treno che passò sul binario adiacente, salutò allegramente il trenino allungato sul binario morto e la vecchia
locomotiva, per non essergli da meno, di rimando gli rispose con un gioioso sbuffo di vapore..
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DUE ZOCCOLETTI AVVENTUROSI
Due zoccoletti di legno vivevano una vita tranquilla in campagna, all'aria ed al sole, lavorando sodo, ma uno di essi sognava d'andarsene e di girare il mondo e poichè era anche un pò sciocchino ed impulsivo, il fratello più saggio decise d’accompagnarlo.
Una mattina partirono, camminarono a lungo ed arrivarono alfine in un’affollatissima città dove la gente che andava e veniva per le strade era come un fiume inarrestabile.
Gli zoccoli si chiesero dove andassero così in fretta tutte quelle persone, dove trovassero tanta energia e, già stanchi, si fermarono presso un lussuoso albergo davanti al quale faceva la guardia un portiere dagli imponenti, lucidi stivali di pelle morbida e scura.
Un pò vergognosi, i due zoccoli si avvicinarono ai lustri stivali e chiesero:
"Scusate Generali, potreste dirci come mai qui tutti corrono come fossero incalzati da qualche imminente minaccia? Dove vanno, cosa fanno, come mai...?"
Con sussiego gli stivali risposero:
"Carini miei, si vede proprio che venite dalla campagna con quell’ aspetto polveroso e le vostre ingenue domande. Qui si lavora, si gira, ci si diverte, non si ha un minuto da perdere nè per riposare nè per riflettere.
Sapeste quanta gente ho visto di ogni Paese che viene per affari o in vacanza; sta qui qualche giorno e poi via, parte per un'altra destinazione.
E quante vostre sorelle scarpe di fogge diverse ho visto: di pelle, di stoffa, persino di serpente, di coccodrillo, di seta o di velluto, con la punta piatta, arrotondata, persino all'insù...
Ricordo una volta delle babucce di seta ricamate con filo d'oro e d'argento, indossate da un principe della Cina. Erano così graziose con quella punta rivolta verso l'alto..."
Gli stivali si persero per qualche istante in pensieri romantici, poi continuarono:
"Questo non è posto per voi, qui alloggiano solo scarpe più fortunate, che non hanno il vostro aspetto impolverato.
Esse vengono indossate ogni tanto, solo per brevi periodi poichè i loro padroni usano comode macchine per spostarsi in città e quando rientrano in albergo, esse vengono deposte fuori della porta di ogni stanza. Prelevate da camerieri addetti a tal scopo, vengono ripulite a dovere, poi depositate in armadi enormi dove dormono tutte in fila.
E la mattina sono di nuovo belle e linde, pronte per essere indossate di nuovo".
"Oh…" fecero i due zoccoletti di legno – era un'esclamazione di ammirazione o di commiserazione nei confronti delle loro fortunate sorelle? - poichè lo zoccolo che amava le avventure avrebbe voluto imitarle, mentre l'altro, più riflessivo e saggio, non voleva davvero finire dentro uno di quegli oscuri armadi.
"Noi abbiamo vissuto una vita dura - disse il primo - sempre a lavorare all'aperto, nei campi, nel fango, sotto il sole o sotto pioggia. Mai un momento di riposo. Oh, mi piacerebbe vivere qui, con tutte le comodità!".
L'altro, il saggio, invece disse: "Non dire così: pensa a ciò che abbiamo avuto, una vita all'aria aperta, sotto il sole caldo, godendo delle bellezze della natura, sguazzando nell'acqua fresca del ruscello. Non ricordi le meraviglie che potevamo vedere dal nostro povero ma accogliente stanzino?"
"Si' - fece il primo zoccolo - ma qui è un'altra vita!".
"Bella vita! - incalzarono gli alti stivali - sempre sull'attenti, sempre "Sissignore, Nossignore", respirando lo sgradevole odore delle auto, vedendo solo un cielo coperto di smog! Potessi anch'io andarmene da qui!".
Lo zoccolo saggio disse al fratello: "Vedi, anche i generali qui, sono stanchi di questa vita e credo che anche le nostre sorelle fortunate non siano così felici come credi, sempre in giro o rinchiuse nelle macchine o negli armadi! Io ho nostalgia della vita semplice di tutti i giorni, qui c'è solo caos e ti saluto, me ne torno a casa senza rimpianto Ma tu se vuoi, puoi restare qui".
Lo zoccolo più intraprendente ci pensò un pò su e riconobbe spontaneamente che il fratello aveva ragione: meglio una vita dura ma all'aria e al sole, circondati dalle bellezze della natura, che una vita forse più facile ma caotica...
"Avete proprio ragione - commentarono gli stivali - Avete convinto anche noi, veniamo via con voi". E, cantando allegramente, lasciarono insieme la città...
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L'ORSETTO ROSA
L'orsetto rosa piangeva a dirotto, impacchettato in una scatola infiocchettata posata sotto un enorme Albero di Natale splendente di luci.
Un nastro azzurro stringeva il pacchetto così strettamente che il povero orsacchiotto non riusciva a respirare. Eppoi, quanto buio là dentro, quante voci al di fuori, voci di quel mondo che lo attendeva.
Come rimpiangeva il bel negozio caldo ed illuminato che lo aveva accolto appena nato e gli altri orsetti di tutti i colori che lo avevano circondato con il loro affetto e con cui poteva parlare e ridere tutto il giorno!
Ogni mattina, una signorina allegra lo spolverava amorevolmente e gli carezzava il pelo roseo finchè non ritornava lucente.
Quanti bambini lo avevano guardato in quei bei giorni e gli avevano sorriso. Come era infelice, ora, tutto solo in quel fagottino scuro e stretto!
D'un tratto, tra le esclamazioni di gioia e di allegria, sentì che qualcuno prendeva l'involto,lo scartava e finalmente poteva rivedere la luce, quanta luce nella stanza, tutt'intorno!
"Com'è bello quell'abete verde carico di lampioncini! - pensò l'orsetto - quanta gente", poi si guardò attorno e vide molti bambini che correvano e gridavano e tutti lo ammiravano con occhi colmi di desiderio e dicevano:
"Che bellino!", "Lo voglio!"...
In un angolo, poi, notò un bimbo più piccolo degli altri che se ne stava fermo con un faccino triste, silenzioso ed avvertì che le braccia di una giovane donna lo avevano afferrato e lo conducevano verso di lui.
Egli guardò l'orsetto rosa con il desiderio di correre incontro a sua madre e toglierglielo dalle mani; le sue labbra si schiusero leggermente come se volesse parlare, ma non proferì parola, non poteva; sulla sua bocca si spense anche l'ombra del sorriso che stava nascendogli dentro.
La mamma gli andò incontro, lo prese in braccio e gli porse l'orsacchiotto.
Il bimbo sembrava un pò restio, si ritraeva, poi il lieve contatto con quel pelo morbido, setoso e caldo sembrò rassicurarlo e piano piano se lo strinse al petto.
L'orsetto rosa aveva seguito la scena un pò confuso ma i suoi occhi brillanti fissarono quelli del bambino e vi colsero una timida gioia che andava crescendo nell'animo del piccolo triste mutino.
Sentì che gli sarebbe stato amico fedele ed inseparabile e che questa amicizia avrebbe aiutato il bimbo sempre chiuso nella sua silenziosa solitudine.
L'orsetto non provò più alcun sentimento di infelicità o di rimpianto per il bel negozio dove aveva vissuto e per i giocattoli che aveva lasciato.
Si sentì felice poichè era certo che quando il suo pelo non sarebbe stato più così lucente e folto, il bimbo non lo avrebbe accantonato, come fanno tanti con i giocattoli vecchi, ma se lo sarebbe sempre tenuto stretto al cuore nei lunghi sonni notturni...
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LA RIVOLTA DEI GIOCATTOLI
C'era una volta un birillo di legno su cui era dipinto un soldatino della Guardia Reale Inglese. Gli avevano disegnato una bella divisa rossa e nera ed un alto copricapo di pelo scuro. Teneva le braccia diritte lungo i fianchi ed in mano reggeva un fucile color argento.
Stava ritto e impettito nella stanza d'un bambino insieme a molti altri giocattoli, ultimo superstite d'una folta schiera di birilli identici a lui.
Ma il bambino cui apparteneva era davvero disordinato ; benchè nella stanza vi fossero dei grossi cesti di vimini e un enorme armadio a scaffali, i giocattoli erano sparsi sul pavimento e negli angoli della stanza e a quasi nulla servivano le punizioni e i rimbrotti della madre, a cui toccava ogni sera rimettere in ordine, nonostante la stanchezza, dopo una giornata d'intenso lavoro.
Il soldatino, dal canto suo, era stanco di essere buttato di qui e di là, senza un posto fisso, sempre mescolato insieme agli altri giochi. Lui, ligio al proprio dovere di montare la guardia, amava l'ordine, la pulizia, la gentilezza.
Anche gli altri giocattoli mormoravano il loro malcontento, ma non sapevano come uscir fuori da questa situazione.
Finchè, una fatidica notte, il soldatino che aveva già chiaro in mente un piano d'azione, lo spiegò ai più importanti rappresentanti della categoria: l'orso di pelo, il trenino, il pallone e altri soldatini di dimensioni ridotte ma con il loro fucile pronto a sparare.
Confabularono fino a notte alta e decisero di agire non appena se ne presentasse l'occasione.
Qualche giorno più tardi, il bambino, dopo aver finito i compiti (perchè in questo era giudizioso, prima studiava e poi giocava!), sparpagliò sul pavimento tutti i suoi balocchi, toccando ora questo ora quello, buttandoli poi in un cantuccio, prendendone di nuovi, finchè tutti si ritrovarono fuori posto.
Giunse l'ora di cena, il bimbo abbandonò la sua stanza, lasciandola in un caotico disordine.
Il soldatino fece ai suoi compagni un cenno d'intesa e subito ognuno prese il suo posto di battaglia e quando il bimbo rientrò, la rossa locomotiva fischiò a tutto vapore e gli andò contro, contemporaneamente al pallone che partì sparato dal suo angolo.
Il colpo lo fece cadere lungo disteso sul pavimento. Una miriade di indiani Sioux, che di solito prendevano d'assalto il fortino dei soldati, per l'occasione si coalizzarono con quest'ultimi e con un gruppo di cow-boys. Con delle funi immobilizzarono le gambe e le braccia del bimbo, punzecchiandolo con delle lance, frecce e coltelli aguzzi.
Il soldatino di legno da un angolo della stanza gridò: "Carica!" e un folto drappello composto dai più svariati giocattoli, capeggiato dall'orso bruno di pelouche, avanzò a passo di marcia verso il bimbo che terrorizzato guardava con occhi sgranati questa inspiegabile rivoluzione.
Avanzando verso di lui, i giocattoli emettevano gridolini d'incitamento e quelli più agguerriti gridavano:
"Combattiamo il disordine", "Avanti contro l'oppressore", "Non vogliamo più il caos","Non gettarci nel dimenticatoio".
Il bimbo, impaurito, chiamò disperatamente la madre che, intenta nel suoi lavori domestici in cucina non lo sentì.
Con voce flebile si rivolse quindi ai suoi giocattoli dicendo: "Fermatevi, non fatemi del male. Cosa volete da me?"
Il soldatino di legno avanzò speditamente verso di lui e a nome di tutti i giocattoli prese la parola:
"Questa rivolta contro di te è stata causata dal tuo comportamento. Noi giocattoli ti vogliamo un gran bene, ti facciamo passare il tempo, ti facciamo divertire, ti stiamo accanto quando non riesci a dormire, ti consoliamo quando sei triste, ma tu... ci prendi, ci butti di qua e di là, ci accatasti l'uno sull'altro, ti dimentichi, insomma, che anche noi giocattoli abbiamo un animo sensibile.
Il bimbo, commosso dal fiero atteggiamento del soldato e dei suoi compagni, vergognandosi del suo agire distratto e poco rispettoso disse:
"Avete proprio ragione non sono stato un buon amico per voi, mi sono comportato da egoista sia nei vostri confronti che verso la mamma che, poverina, ha sempre tanto da fare eppure vi ripone con cura e vi ripara se siete un pò sciupati.
Perdonatemi!. Prometto solennemente che da oggi in avanti non sarò cosi ingrato, dopo aver giocato con voi vi metterò in ordine, ognuno nel suo cantuccio a riposare finalmente dopo una giornata faticosa".
Il soldatino di legno diede un ordine ed i giocattoli ubbidirono, slegando il bambino che, alzatosi, cominciò a mettere a posto i vari giochi sugli scaffali, nei cesti e nell'armadio, dando ad ognuno un posto definitivo.
Li guardò e carezzò lungamente e se ne andò a letto dopo aver salutato teneramente sua madre che, non vedendo il solito disordine, rimase meravigliata.
Al caldo tra le coperte, il bimbo alzò una mano per salutare il soldatino di legno che sopra uno scaffale stava sull'attenti impettito, poi cadde in un sonno profondo e tranquillo.
Il soldatino strizzò l'occhio al grosso orso che sedeva in un cesto di vimini, il quale in risposta alzò la zampa pelosa.
Ambedue felici e soddisfatti del loro operato, vegliarono sul bimbo addormentato.
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I VESTITI DELLA NONNA
Due sorelline, Miria e Minia, che vivevano in città, andarono un giorno dalla loro vecchia nonna che abitava in campagna, tra il verde dei prati, alberi carichi di frutta, pulcini, uccellini ed altri animali domestici.
Le due bimbe si entusiasmarono subito a quella vita ed aiutavano volentieri la nonna nelle sue faccende: raccoglievano le uova appena scodellate dalle tre gallinelle nel pollaio, davano loro da mangiare dorati chicchi di grano, coglievano la frutta dagli alberi, mungevano la magra capretta che pascolava nel prato.Lavoravano sì, ma si divertivano un mondo!
Un pomeriggio un pò nuvoloso - stava quasi per piovere - le due bimbe decisero di rimanere in casa a giocare e, mentre la nonna riposava accanto al caminetto, salirono le scale che portavano in soffitta.
"Quassù - disse Minia - troveremo certo qualche bel gioco, qualche bambola della nonna di quand'era piccola".
Miria annuì, anche se aveva un pò di paura di tutto quel buio, ma si fece coraggio ed aprì la piccola finestra sul tetto, rischiarando l'ampia stanza.
Quanta polvere sui vecchi mobili! Qualche ragnatela argentea negli angoli pendeva dal soffitto come una tenda preziosa, a decorare un vecchio specchio con la cornice dorata, un pesante comò intarsiato, dei libri polverosi ed un baule.
"Quanta roba! - esclamò Minia - Forse nel baule troveremo dei giocattoli!".
Si rimboccarono le maniche, spolverarono la superficie del baule e lo aprirono ma dentro non vi erano altro che vestiti.
Un pò deluse, le due bimbe li tirarono fuori e li appesero ad un'asse che correva lungo un muro della soffitta.
"Così prenderanno un pò d'aria - disse Miria, la più giudiziosa -. Eppoi potremmo provarceli, sembrano fatti apposta per la nostra statura.
Guarda che strano, non sono per niente impolverati, benchè siano anni ed anni che nessuno li indossi, sembrano proprio nuovi!".
E così dicendo, ne prese uno tutto pizzi, farpalà, con grandi balze colorate ed una cintura ricoperta di piccoli fiori di pesco di stoffa.
"Io lo misuro" disse Minia e si tolse il suo abitino di cotone ed indossando il frusciante vestito, si sistemò alla vita la bella cintura e si pavoneggiò per la stanza.
"Aspetta... - ribattè Miria - ne voglio provare uno anch'io" e di fretta prese un bell'abitino alla marinara, bianco con righine azzurre, un buffo colletto ed un gran fiocco sul retro che fecero ridere di cuore la sorellina.
Le bimbe avevano appena indossato i due vestitini che la nonna, ormai sveglia, le chiamò; esse risposero che stavano per scendere ma, poco dopo, eccola lì in soffitta anche lei, gioiosa ed affannata.
"Vi ho trovato, biricchine - esclamò la vecchina con un sorriso - lo sapete che anch'io adoro venire quassù a rivedere le mie care vecchie cose.
Quanti ricordi mi suscitano, quante persone care che non ci sono più!"
"Che buffo cappellino, nonna - disse Miria, mettendoselo in testa - com'è grazioso! Di chi era? Era tuo? Quando lo portavi?...".
Una sequela di domande si affollava alla mente delle due bimbe che si strinsero intorno alla vecchia signora che, felice di poter rispondere alle sue nipoti, s'immerse nell'atmosfera radiosa della sua infanzia, traendo dallo scrigno della memoria i preziosi ricordi che conservava gelosamente.
E raccontò loro dei bei momenti d'allegria, dei momenti tristi, dei giorni di vacanza, di quelli di studio, degli amici, dei parenti...
Le bimbe l'ascoltavano affascinate dalle storie, sedute accanto a lei su due vecchie seggioline.
Il volto pieno di rughe dell'anziana signora sembrava liscio e levigato come un tempo, il suo sorriso era dolce e i suoi occhi ridevano quasi fosse una bimba anche lei; i bianchi capelli brillavano quasi fossero d'argento, mentre lei
instancabile parlava del tempo passato.
Fuori della finestrella la pioggia, preannunciata da qualche tuono qua e là, si era allontanata in altre direzioni ed un timido sole quasi al tramonto era tornato.
Le due bimbe si affacciarono a guardare i meravigliosi colori del cielo.
La nonna taceva, ora. La magia evocata dai suoi bei vestitini d'un tempo, era finita. Le sue care vecchie cose giacevano lì nel baule ormai inutilizzabili!
Miria e Minia si tolsero di dosso gli indumenti, i cappellini, le cinture e li riposero accuratamente, chiudendo il pesante coperchio pieno di borchie di ferro con un pò di tristezza.
Miria, con una vocetta acuta che cercava di scacciare la malinconia, disse alla nonna:
"Sono dei vestiti bellissimi, cara nonna, quasi magici!
Mentre noi li indossavamo e tu ci raccontavi di quando li portavi, a me e a Minia sembrava proprio di essere lì, in quei posti che ci descrivevi, con quelle persone, amici e parenti che ti erano intorno.
Ed il tuo viso, in quel momento, era così giovane e bello che anche tu sembravi una bambina, come allora".
Miria e Minia si avvicinarono alla vecchia signora e l'abbracciarono forte, con affetto.
La nonna era commossa, ma cercava di non darlo a vedere alle sue nipoti, le abbracciò dicendo:
"È stato un pomeriggio molto bello, non è vero?Torneremo ancora insieme quassù, un altro giorno, guarderemo tra gli altri miei ricordi e vi racconterò altre belle storie...".
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UNA GITA IN CAMPAGNA
Jenny e Giacomo sono due fratellini che vivono in una grande città soffocata dalle costruzioni, con pochi alberi e fiori. Vanno a scuola e sono molto diligenti; ogni giorno studiano con piacere e dopo aver fatto i compiti
giocano con i loro balocchi preferiti.
Un giorno i loro genitori decidono di condurli in campagna ed i due piccoli attendono con ansia di arrivarci.
Eccola, finalmente, la campagna: prati d'erba verde e setosa, fiori a non finire, alberi altissimi ed ombrosi ed un piccolo fiume in cui nuotano anatre e cigni...
Jenny e Giacomo guardano tutto con occhi meravigliati ed assaporano l'aria fresca e fragrante, ascoltando gli uccellini che cinguettano allegri sui rami.
Si aggirano intorno correndo ed esclamando ad alta voce: "W la campagna! ".
Arrivata l'ora del pranzo, la mamma stende sull'erba una tovaglia tutta fiori che si confonde col prato e distribuisce arrosto e panini ed infine un dolce saporitissimo. La mamma e il papà s'addormentarono poi sull'erba, mentre i due bimbi decidono di esplorare i dintorni: improvvisamente un cagnolino appare tra gli alberi e si avvicina ai due fanciulli guaendo in cerca di carezze e seguendoli poi, passo passo, durante la loro escursione.
I due fratellini si dirigono verso il fiume che è tutto un ondeggiar di papaveri lungo le rive; tra i sassi gracidano le rane, grossi pesci escono dall'acqua e vi si rituffano compiendo balzi nell'aria, dei funghi colorati fanno capolino tra le radici degli alberi.
I bimbi e il cagnolino si stendono sull'erba con le mani immerse nell'acqua e parlottano tra di loro: "Non avrei mai immaginato che la campagna fosse così bella - dice Giacomo entusiasta - Mi piacerebbe proprio vivere qui". E Jenny gli fa eco: "Anche a me!".
Improvvisamente accanto a loro s'alzano delle vocine flebili che dicono: "Bravi, siete proprio due bravi bambini". Sono i fiori rosa e azzurri che muovendo delicatamente le corolle stanno parlando tutti insieme.
Un rospo, che è il principe dello stagno, con voce roca li ammonisce: "Quando tornerete in città non dimenticate questo giorno. Ricordate di parlare con gli altri ragazzi, raccontate loro quanto è bella la campagna...".
E un altro, fermo su una splendente ninfea, continua: "Raccomandate loro, però, di aver rispetto della natura, di non inquinarla con i distruttivi
prodotti che provengono dalle città e dalle fabbriche. Altrimenti, tra poco la natura si ribellerà: i campi non daranno più frutti, i prati non più fiori, i fiumi non più pesci! Ditelo a tutti i vostri compagni, affinchè sappiano cosa li attende se infrangeranno le regole della natura!".
E dopo questa lunga filippica, il rospo si tuffa nel fiume e ne raggiunge il fondo melmoso dove vive.
Jenny e Giacomo, seguono a bocca aperta per lo stupore tutto ciò che accade intorno a loro ed annuiscono, approvando le parole che hanno appena ascoltato. Si alzano in fretta e, seguiti sempre dal cagnolino, tornano presso i genitori che li stanno cercando. È ora di far ritorno in città, purtroppo.
I due bimbi vorrebbero tanto che il loro piccolo amico li seguisse nel loro appartamento in città, ma poi pensano che il cagnolino sarà molto più felice lì in campagna,all'aria aperta,tra i fiori e i colori della natura. Lo accarezzano con affetto e lui guaisce come se avesse capito.
Poi prendono posto sull'auto e mentre stanno partendo si voltano indietro a guardare quell'angolo di mondo così perfetto
E Giacomo, senza esitazioni, annuncia, con quella voce già da adulto: "Da grande studierò le piante e gli animali e verrò a vivere in campagna per poterli curare da vicino!".
Jenny che è ancora piccola per prendere grandi decisioni, dice solo:"Anch'io voglio venire con te!”.
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LA FARFALLINA IMPAURITA
Una farfallina, dipinta di mille bellissimi colori su di una scatola di dolciumi, stanca di star sempre ferma sulla dura superficie di latta, decise un giorno di andare in giro per il mondo. Mosse le piccole ali, spiccò il volo e si fermò sul davanzale della finestra aperta, tutta allegra per quella sua decisione.
Il mondo se l'era immaginato tutto azzurro e verde, come nel dipinto da cui era fuggita: un cielo terso con tante nuvolette serene, la terra carica di frutti, con tanti alberi ricchi di fiori bianchi e rosa e intorno, nell'aria profumata, uccellini cinguettanti...
Che delusione! Dalla strada salivano i rumori del traffico cittadino, esalazioni che la stordivano, una polvere scura che le impediva di respirare.
Eppoi, un andirvieni frenetico di mostruosi veicoli a due, tre, quattro ruote e di esseri umani che correvano più che camminare, scuri in volto, gli occhi chini a terra anzichè rivolti al cielo, protesi in una folle corsa senza meta.
E i palazzi grigi, gli alberi grigi, il selciato grigio...
Neanche le grida gioiose dei pochi bambini che ancora giocavano per le vie, sembravano poter spezzare quella coltre di tetraggine e di apatia.
La piccola farfalla battè, sconvolta, le piccole ali e silenziosamente tornò indietro, riprendendo il suo posto di prima, nel suo mondo limitato sì, ma accogliente. Immobile, sul ramo di pesco odoroso, attorniata da uccellini e fiori multicolori, essa era immensamente felice...
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IL PAVONE E LA CICOGNA
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Nel parco d'un castello abitato da un re s'aggirava, solitario e maestoso, un pavone dalle magnifiche piume che sembravano tempestate di pietre preziose.
Passava lì, tranquillamente, tutte le sue giornate specchiandosi nelle acque placide d'un piccolo lago, dicendo a voce alta:
"Sono davvero bello con questo piumaggio ricco di colori. Nessuno è bello come me!".
E tutto il giorno lo trascorreva così, senza far nulla dall'alba al tramonto, dimenando nell'aria la sua coda multicolore.
Una cicogna che passava sopra il lago con un involto stretto nel becco, incuriosita da quello scintillio di colori, discese lentamente a terra, per vedere di cosa si trattasse. Si avvicinò al pavone e l'apostrofò con voce dolce: "Come sei bello, tu devi essere il principe degli uccelli, il pavone; ho sentito molto parlare di te!".
"Sì - annuì il pavone con sussiego - io sono il principe degli uccelli, decantato per la mia bellezza, per il mio portamento, per i miei colori!".
"E cosa fai in questo bel parco? - aggiunse la cicogna, curiosa.
"Niente - le rispose il pavone - giro per il giardino, mi specchio..." .
"Non ti annoi? - chiese la cicogna - non ti senti inutile, senza far nulla?".
"Inutile io, brutta screanzata?! Io sono l'immagine stessa della bellezza e quindi non sono inutile. Tu, piuttosto, con quelle tue gambette magre e quel collo e quel becco così sottili! Certo non sei affatto bella! Tu sì che sei inutile!".
"Sarò anche brutta - disse la cicogna per niente avvilita - ma io ho un'importantissima missione da compiere: volo tutto il giorno portando a destinazione i neonati che vengono al mondo. Li consegno ai loro genitori che mi ringraziano affettuosamente e poi ritorno a prenderne degli altri... ho sempre un gran daffare, mai un attimo d'ozio. E sono contenta così! Anzi, ho già fatto tardi, debbo andar via... mi aspettano... Addio!".
E s'innalzò, leggera e felice nonostante il fardello che portava.
Il pavone l'osservò scuotendo la testa e rimase sulle rive del lago a specchiarsi, compiaciuto, nelle limpide acque...
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IL PALLONCINO COLORATO
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All'angolo d'una strada, un venditore di palloncini esortava i passanti ad acquistarne uno per i propri figli o nipoti.
Molti si fermavano a comprarne uno da portare a casa come un dono, alcuni tirati per la manica dai loro bimbi appena usciti dalla scuola.
Uno zingarello che passava per caso lì davanti si fermò a contemplare il grappolo dei palloncini colorati; ne avrebbe voluto tanto uno anche lui, per mostrarlo fiero ai suoi compagni. Ma non aveva neppure un soldino e non voleva chiederlo al venditore che forse l'avrebbe scacciato in malo modo.
Decise, così, di rubarlo approfittando d'un momento di distrazione dell'uomo, intento a contare il gruzzolo che aveva guadagnato nella mattinata. Gliene staccò abilmente uno rosso dalla cintura a cui erano assicurati uno ad uno e stava per scappar via felice ed inosservato, quando il venditore, voltandosi di scatto per non so quale ragione, si trovò faccia a faccia col ladruncolo.
Tentò di afferrarlo ma l'uomo era goffo e pesante ed il fanciullo leggero ed esile, tanto leggero che la spinta verso l'alto del palloncino lo fece subito staccare da terra e salire in alto, sempre più in alto, sotto gli occhi esterrefatti dell'ambulante che, cominciò a gridare affinchè qualcuno si ingegnasse a riportarlo a terra.
Il piccolo zingaro, invece, era contento come non mai: saliva sempre più in su, finchè non incontrò un gruppo di nuvole bianche che l'inghiottirono alla vista di grandi e bambini che osservavano la scena col viso rivolto verso
l'alto.
Dopo il primo momento d'euforia, però, il bimbo si sentì sgomento poichè le nubi lo avvolgevano tutto, tanto che ormai non distingueva più nulla; poi all'improvviso, si diradarono facendogli scorgere un lembo di terra sollevato nel cielo pieno di tutte le cose che piacciono ai bimbi: prati per correre, ruscelli per immergere i piedini affaticati dalle lunghe corse e giochi a non finire sparsi sull'erba.
Più in là una giostra colorata ed invitante girava, girava e sopra vi erano tanti bambini che l'incitarono a salire in groppa ad un cavallino nero.
Lo zingarello non se lo fece ripetere due volte e mentre girava scorse in lontananza un castello, proprio come l'aveva sempre immaginato e desiderò di potervisi recare.
Neanche un attimo dopo, il cavallino su cui si dondolava con un balzo si staccò dalla giostra e si avviò in direzione del maniero.
Il bimbo salutò i ragazzi che continuavano a girare sui loro cavalli e senza timore galoppò verso quella sua nuova avventura.
Il ponte levatoio era stato calato giù da invisibili guardiani ed il cavallino entrò al trotto nel grande cortile dove il bimbo smontò, guardandosi intorno e cominciando a provare un pò di timore; ma ecco, una voce dolcissima lo chiamò dalla finestra.
Il bimbo senza porsi domande si avviò per una scalinata ed entrò in un vasto salone dove, su un trono d'oro, una signora dal viso delicato e dagli occhi ridenti gli fece cenno di avvicinarsi :
"Vieni, - gli disse – ormai qui sei al sicuro. Avrai ciò che vorrai, non dovrai più mendicare e nessuno ti chiamerà ladro. Potrai mangiare e giocare a sazietà ed io ti amerò come un vero figlio".
E si chinò su di lui maternamente.
Lo zingarello la guardò un pò intimorito ma poi si fece coraggio, le andò in grembo e l'abbracciò; quella era davvero la sua mamma mai conosciuta che lo cullava con amore!
Era proprio stanco, adesso, dopo quel lungo viaggio ed appoggò sulla spalla della bella signora la sua testolina scura.
Gli occhi gli si chiusero lentamente ma, fece ancora in tempo a guardare, oltre la finestra aperta, un vasto campo dove tanti altri bambini della sua età giocavano spensieratamente.
Ed ognuno di essi stringeva tra le mani un bel palloncino colorato...!
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LA GALLINA CHIACCHIERONA
Una grossa gallina padovana dalle belle piume multicolori si pavoneggiava, fiera della propria bellezza e passava la giornata a parlottare con le altre galline: "Cocò, cocò, cocò...".
Era un continuo di pettegolezzi, notizie, impertinenze.
Ed anche le galline più chiacchierone, alla fine, quando la vedevano da lontano, cambiavano strada per non doversi fermare troppo a lungo.
Ognuna di esse aveva un gran daffare nel pollaio e non poteva perdere tempo.
Ma la gallina ciarliera riusciva sempre a trovare qualche giovane faraona ancora sprovveduta, che non riteneva gentile scappar via di corsa prima che essa avesse terminato i suoi discorsi.
Così passava l'intera mattinata: ora fermandosi sul ciglio della strada, ora in qualche altro pollaio dove ferveva un alacre lavoro, ora accanto a qualche pozza d'acqua ove vedeva riflessa la sua immagine e, credendo di parlare con qualche
gallinella d'acqua, s'intratteneva a lungo.
Erano quelli monologhi in cui poteva esprimere il meglio di sè, poichè l'interlocutrice pareva attenta ed interessata, annuiva di tanto in tanto e la gallina padovana poteva toccare ogni argomento, esprimere le proprie idee senza esser interrotta o contraddetta.
Le altre galline del pollaio che non erano così stupide come si dice e, tanto più intelligenti della gallina chiacchierona, visto che non riuscivano in alcun modo a toglierle il vizio di disturbarle durante il lavoro, decisero di risolvere la situazione.
Nella rimessa accanto al pollaio il padrone aveva molti vecchi oggetti ormai fuori uso e tra di essi un grande specchio senza cornice.
Una notte, mentre la gallina chiacchierona finalmente dormiva, le altre galline unendo i loro sforzi, riuscirono a trasportare lo specchio nel pollaio, proprio dinanzi al pagliericcio della loquace pennuta.
La mattina dopo, non appena essa si svegliò trovò dinanzi a sè una nuova interlocutrice e cominciò a parlare, a spettegolare ed informare la nuova venuta, sciorinandole addosso un fiume di parole.
Non si mosse più di là e gli abitanti del pollaio, felici di quella trovata, riuscirono a compiere i loro lavori senza tema d'esser più disturbati.
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GLI UCCELLI CANTERINI
Alcuni uccelli appollaiati su un ramo stavano cantando in coro una bellissima canzone; la loro dolcissima voce si spandeva nell'aria con armonia e tutti gli animali del bosco si fermarono ad ascoltare quell'improvvisata orchestrina.
Solo il serpente continuò a vagare nell'erba in cerca di possibili prede e intanto sibilando, diceva tra sè:
"Ma sì, cantate, incantate tutti gli animali del bosco; così non mi sentiranno arrivare alle loro spalle e potrò facilmente afferrarli tra le mie spire e farne un solo boccone!".
Era gonfio di velenosa invidia verso i piccoli cantori a cui la natura aveva dato un così bel dono, mentre a lui aveva regalato solo quell'insistente sibilo che incuteva terrore in ogni essere umano.
Strisciò furtivamente alle spalle degli animali che si erano fermati in una radura ad ascoltare la voce degli uccellini e, nonostante le intenzioni, si fermò anch'esso, rapito dai modulati gorgheggi di quegli esseri piumati, così
piccoli eppure così potenti.
Non si avvide, quindi, che dietro di lui, acquattata nell'erba, c'era una mangusta che, sorpresolo così immobile dinanzi a sè, gli si avventò contro e ne fece un sol boccone.
Gli altri animali della foresta non si erano accorti di nulla e tantomeno se ne accorsero gli uccellini intenti ai loro vocalizzi che tranquillamente continuarono a riempire l'aria circostante con il loro coro.
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IL COLOMBO VIAGGIATORE
Un colombo viaggiatore che girava il mondo in lungo e in largo portando segreti e notizie importantissimi, un giorno tornando verso casa (una colombaia modernissima dotata di tutti i comforts), stanco di volare, decise di fermarsi in una fattoria al centro di un grande campo che vedeva sotto di sè.
Sull'aia davanti alla casa, un gruppo di colombi ben nutriti si pavoneggiava al sole caldo del pomeriggio; ogni tanto qualcuno si allontanava per andare a beccare qualche chicco di grano disperso sul terreno circostante e poi tornava accanto agli altri.
Il colombo viaggiatore planò vicino ad essi, apostrofandoli con un gorgoglio: "Buongiorno amici, mi chiamo Pic, sono un viaggiatore che porta messaggi da una parte all'altra del cielo, ma oggi ho deciso di riposarmi. Posso rimanere qui con voi?".
Un colombo più pettoruto ed imponente degli altri, che si chiamava Cosimo, si fece largo tra la folla e rivolgendogli un cenno d'assenso gli disse:
"Senz'altro Pic, puoi fermarti da noi quanto vuoi. Ti stabilirai sull'ultima grondaia a destra; è rimasta libera da quanto nonno Beniamino è morto, qualche mese fa, di vecchiaia. Accomodati, sarai stanco e la sera è ormai vicina.
Domani, poi, ci racconterai le tue avventure di viaggio".
Pic, desideroso di riposo, non se lo fece ripetere due volte, volò nel suo nuovo appartamento che trovò confortevole, nascose il capo sotto le ali e s'addormentò subito.
Al mattino, un raggio di tiepido sole lo destò: intorno a lui la giornata di lavoro nella fattoria era già iniziata. Uomini e donne andavano e venivano trasportando grossi cesti carichi di frutta e verdura che caricavano poi su alcuni camions in partenza, pecore che andavano al pascolo, bambini che giocavano allegramente... E i colombi e gli altri uccelli volavano nel cielo indisturbati, tubando con allegria.
Contagiato da tanta alacrità e rasserenato da quello spettacolo di vita agreste, si mise in volo anch'esso per esplorare i dintorni della fattoria. Vide estesi campi di grano, filari di alberi di frutta saporita, un fiumicello che sfociava in un laghetto e, nell'erba folta, animali d'ogni genere: conigli, cagnolini, gatti, tacchini, oche che convivevano tranquillamente.
Tutti sprizzavano contentezza e lo salutavano al suo passare nel cielo, come fosse un vecchio amico.
Questo sì che era un paradiso! Non c'era nell'aria tersa il frastuono di quegli aerei rumorosi che incontrava nei suoi lunghi viaggi, non c'erano bufere di neve o di pioggia da cui ripararsi e, sopratutto, c'era quell'aria di felicità che riscaldava il cuore.
Altro che lo smog e la fitta nebbia grigia che lo intristivano e gli appesantivano le ali quando tornava nella grande città in cui viveva. E la scortesia e il nervosismo dei suoi abitanti, con le facce lunghe sempre rivolte a terra...
D'altra parte, se avessero guardato in alto non avrebbero visto che ciminiere e grattacieli e un denso fumo attraverso cui il sole non riusciva più a penetrare!
"Eppoi - pensò Pic - non aver più l'onere di portare messaggi a destra e a sinistra, non dover più rischiare di disperdersi nell'immensità del cielo, non sentire più quegli odiosi tubicini di plastica, in cui vengono racchiusi i messaggi, battermi continuamente contro le ali e le zampe.
Non avere fretta, lasciar passare una giornata dopo l'altra in tutta calma...
Sì, sì, ho deciso, non tornerò più in città. Darò le dimissioni".
Presa tale risoluzione, Pic si recò da Cosimo per confidargli il suo proposito e per chiedergli se v'era qualche essere umano nella fattoria che conoscesse l linguaggio dei colombi, poichè, dovendo avvertire i suoi superiori, sarebbe stato necessario scrivere un biglietto e affidarlo, in uno dei famosi tubicini, al primo colombo viaggiatore di passaggio.
Nella fattoria, fortunatamente, viveva un uomo molto sapiente che tutti chiamavano il "Ventriloquo", il quale amava moltissimo gli animali e conosceva molti dei loro linguaggi. Cosimo si offrì di accompagnarvelo.
Il Ventriloquo, un ometto rubicondo e calvo dagli occhi curiosi e ridenti, accolse i due colombi con un gorgoglio di saluto e, appena apprese le ragioni che spingevano Pic a lasciare il suo lavoro, si complimentò con lui per la saggia decisione presa. Subito si mise all'opera, scrivendo la lettera di dimissioni più breve della sua vita, in maniera da poterla introdurre nel tubicino di plastica. Preso poi un pezzetto di spago, lo legò alla collottola del colombo, in modo che Pic potesse facilmente sfilarselo di dosso ed affidarlo a qualche compagno ancora in servizio.
Pic lo ringraziò tubando rumorosamente, fece un piccolo inchino per salutarlo e s'avviò verso l'alto, lungo le vie del cielo più battute dai viaggiatori piumati ed attese, battendo senza sosta le ali.
Di lì a poco, passò una graziosa colombella e Pic, volandole accanto, le chiese se poteva portare il suo messaggio.
"Non posso proprio, mi dispiace - rispose la piccola viaggiatrice che si chiamava Bea - ho una lettera davvero urgente da consegnare. È l'ultima di tante che il signore della Guerra mi ha ordinato di portare ad ogni generale sui campi di battaglia. Da quello che vi è scritto dipendono le sorti del mondo, ovunque vi sia una guerra in atto. Debbo proprio consegnarla al più presto, ma sono solo a metà strada e mi sento già molto stanca. Se tu mi accompagnassi, potrei appoggiarmi a te e giungere fino a destinazione in minor tempo".
Pic ci pensò su solo un momento e decise che avrebbe accompagnato Bea fino in capo al mondo se avesse voluto; così si misero in viaggio e la colombella si poggiava ogni tanto sulle forti ali del maschio.
Dopo molto giunsero al di sopra di un campo dove si combatteva un'aspra battaglia. Il rumore delle armi era assordante ma i due colombi, benchè spaventati, girarono a lungo finchè non trovarono il Generale Tiranno che impartiva ordini ai suoi subordinati.
Bea si posò sulla sua spalla e gli consegnò il messaggio che il generale lesse con la massima attenzione. Subito sul suo viso apparve un sorriso di contentezza e con quanta voce aveva cominciò a gridare:
"Attenzione, attenzione; la guerra è finita! Mettete via le armi. Questi sono gli ordini del nostro signore; da oggi in poi, sulla terra regnerà la Pace.
Gettate le armi, sotterratele, bruciatele, fatele sparire!".
A queste parole tutti i guerrieri si fermarono poi, con alte urla di gioia si disfecero delle armi e si divisero andando ognuno per la sua strada: chi tornava a casa, chi partiva per terre lontane, chi tornava a coltivare la terra.
I due colombi, soddisfatti d'aver portato a termine quella delicatissima missione, si fermarono a bere ad una pozza d'acqua fresca; si rifocillarono beccando un frutto maturo e sugoso e, poichè ormai si faceva notte, decisero di riposarsi sul ramo di un albero. S'appollaiarono l'uno accanto all'altra e Pic le cinse il collo delicato con la sua forte ala protettrice, lei gli si strinse contro e così si dichiararono il loro amore.
Il mattino dopo si misero in volo di buonora, diretti verso la fattoria: dovunque,
sotto di essi, vedevano lunghe file di guerrieri che, posate le armi, tornavano a casa, interi paesi in festa per la grande notizia, suoni, luci, rumori, bambini allegri, donne ed uomini dai volti sorridenti che attaccavano ai muri dei grandi cartelli con enormi scritte: "W LA PACE - PACE PER SEMPRE - NON PIÙ GUERRE...".
I due colombi si guardarono soddisfatti e tenendosi teneramente per le ali ripresero la via del cielo che li condusse sino alla fattoria.
Là, intanto, si era sparsa la notizia dell'impresa compiuta da Pic e dalla sua compagna e i due vennero accolti da tutti gli abitanti - uomini ed animali - con un "Hurrà" di gioia.
Pic e Bea vissero lunghi anni alla fattoria, mettendo su una numerosa famiglia e finchè vissero, nel mondo intero regnò la Pace!.
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LA TARTARUGA TIMIDA
Una giovane tartaruga soffriva di timidezza e per questo viveva da sola nel fosso, in un angolino tranquillo dove nessuno poteva vederla; solo le rane di tanto in tanto le facevano terribili scherzi.
Un giorno, però, stanca di questa vita solitaria e noiosa, decise di andarsene per il mondo, perciò s'incamminò lentamente; di tanto in tanto tirava fuori la testa per guardare la strada che stava percorrendo e poi di fretta la rimetteva
dentro affinchè nessuno si accorgesse di lei.
Difatti, là in mezzo alla strada sembrava solo un sasso scuro e tutti passavano diritto senza curarsi di lei.
Ma una lucciola che volava lì attorno s'incuriosì e le si avvicinò cacciandosi dentro la piccola apertura buia; accese la sua piccola lampada e si trovò faccia a faccia con due occhi grigi ed impassibili che la spaventarono.
Non fece in tempo a fuggire poichè la tartaruga la interpellò e le disse:
"Non aver paura di me, non faccio mai del male a nessuno, io. Resta un pò qui con me e fammi luce. Nessuno ci disturberà".
La lucciola acconsentì e per quella notte rimase a farle lume.
All'alba, la tartaruga tirò fuori la testa e disse:
"Il sole è già alto, posso riprendere il cammino!".
"Dove vai ?" le chiese la lucciola che invece sbadigliava dal sonno.
"Vado in giro per il mondo - rispose la tartaruga - vuoi venire anche tu ?. Di notte mi terrai sveglia e allegra finchè non mi addormenterò e di giorno potrai riposarti sulla mia groppa mentre io camminerò".
"Sì- disse la lucciola dopo un attimo - è proprio una bella avventura quella che mi manca. Andiamo in giro per il mondo !".
Si stese sul dorso della tartaruga e si addormentò mentre essa lentamente si metteva in moto.
Fatti quelli che a lei sembravano chilometri e che invece non erano che pochi passi umani, la tartaruga stanca, si addormentò anch'essa.
Accanto alle due dormienti si fermò un millepiedi affaticato da una lunga corsa a cui l'aveva costretto uno scarabeo un pò vorace.
Il suo respiro affannoso destò la tartaruga che tirò fuori la testa dal guscio e, visto il millepiedi appena arrivato, l'invitò ad entrare per porsi al riparo.
In quel nuovo mondo che le si apriva dinanzi stava perdendo persino la sua innata timidezza, tanto che con voce altera rimproverò aspramente lo scarabeo verde che continuava a ronzarle attorno:
"Smettila - disse - d'inseguire il povero millepiedi! Non vedi che è ormai vecchio e sciancato?".
La lucciola si destò proprio allora di soprassalto e confusa mormorò:
"Che succede ?".
La tartaruga la mise al corrente di ciò che era avvenuto, omunicandole che un altro compagno s'era aggiunto a loro nel viaggio.
Visto che ormai era sveglia, la tartaruga si mise a camminare di nuovo; lentamente giunse sull'altro ciglio della strada: a lei sembrava d'aver già fatto il giro del mondo !
Di là dalla strada scorreva un piccolo rigagnolo che alla tartaruga parve immenso come il mare, di cui aveva sentito parlare quand'era piccola.
Svegliò i suoi due compagni che ancora dormivano: "Dobbiamo scegliere - disse - se andare per mare o se rimanere sulla terra ferma."
Il millepiedi e la lucciola si consultarono e decisero per il viaggio in mare.
I tre si posero il problema di come affrontare quel viaggio: la tartaruga entrò in acqua e nuotò capovolta dato che il suo guscio era forte ma leggero e galleggiava come una piccola barca, il millepiedi agitava nell'acqua le zampette come tanti remi e la lucciola faceva luce durante la notte.
Di giorno, invece la lucciola e il millepiedi riposavano tranquilli nel carapace.
Il rigagnolo traversava prati fioriti, lambiva sassi bianchi grossi come scogliere ed alla fine si restringeva, per poi riallargarsi in un'ampia rada ombrosa e verdeggiante.
Ad un certo punto, non essendoci più la spinta della corrente nè un filo di vento, la tartaruga andò alla deriva e si arenò su una zolla di terra che emergeva dalle acque come un'isoletta.
Il sole appariva e spariva tra la vegetazione dipingendo l'erba d'un colore dorato, mentre nell'aria s'innalzava un concerto di grilli e di cicale e poco lontano un'orchestrina di rane.
"È un bellissimo posto " pensò la tartaruga e svegliò i suoi due compagni che furono entusiasti di quel nuovo mondo.
Tutti d'accordo, decisero di restare in quel luogo e fecero amicizia coi piccoli animali che già vi vivevano, mangiando le tenere erbe intorno e guardando il panorama.
Più di tutti era contenta la piccola tartaruga che aveva capeggiato l'impresa e che ora non soffriva più di timidezza.
Ma chissà come sarebbe delusa, se le dicessi che il luogo dove ora lei, la lucciola ed il millepiedi vivono così felicemente, è lo stesso fosso da cui un giorno, tanto tempo fa, preferì allontanarsi per andare in giro per il mondo!
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IL PESCIOLINO ROSSO
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Una pesciolina rossa che viveva nella grande vasca d'un bel giardino tutto verde ed allegro, nuotava serenamente nascondendosi di tanto in tanto negli anfratti del fondo o salendo alla superficie per sentire i caldi raggi del sole accarezzarle il dorso.
Era molto felice e lo fu ancora di più quando un giorno nella vasca arrivò all'improvviso un bel pesce di cui s'innamorò; misero su casa insieme e dopo poco nacque una bella nidiata di pesciolini.
Un giorno però la loro tranquilla esistenza venne stravolta: arrivò un uomo con una rete e catturò tutti i piccoli che erano saliti alla superficie per giocare e li rituffò nell'acqua d'un catino, grande sì ma non abbastanza per quei giovani pesci desiderosi di correre in lungo e in largo.
I fratellini vennero presto separati poichè il catino venne trasportato in un luogo che a prima vista appariva bello e gaio, ma era così rumoroso ed affollato!
Era un grande Luna Park dove i pesciolini vennero separati gli uni dagli altri: ognuno di essi venne preso e tuffato in un barattolo di vetro piuttosto piccolo, dove a malapena riuscivano a batter la coda e le pinne.
I barattoli vennero sistemati sopra un ripiano insieme ad altri contenitori vuoti, attraverso i quali i pesciolini potevano guardarsi e salutarsi agitando appena la coda, ma non riuscirono mai a scambiarsi neanche una parola.
Cosa facevano lì quei barattoli?
Facevano parte di un gioco: i bambini che arrivavano a frotte nel Luna Park compravano delle palline bianche e leggere e le tiravano cercando di farle cadere proprio nei barattoli. Ed ogni volta che ci riuscivano, il piccolo pesce rosso che vi nuotava dentro diventava di loro proprietà.
Il pesciolino guardava spaventato tutta quella confusione, l'andirvieni dei bambini ed il chiasso del Luna Park lo rendeva nervoso. Desiderava un posticino silenzioso in cui vivere tranquillo.
Così accadde che un pomeriggio d'estate uno dei nostri pesciolini che si chiamava Gluck, venne vinto da una bambina bruna; il padrone del Luna Park lo trasferì dal suo barattolo in un sacchetto di plastica dove il malcapitato riusciva a fatica a respirare.
La bambina, tutta allegra e trionfante, lo portò a casa, lo mise in una boccia di vetro e gli diede da mangiare.
Travolto dalla novità di quel cambiamento, il piccolo pesce non aveva avuto il tempo di porsi alcuna domanda, ma galleggiava contento di stare finalmente in un posticino tranquillo.
La sua padroncina non gli dava mai fastidio, gli portava dei buoni bocconcini ed ogni tanto si fermava ad osservarlo attentamente mentre lui nuotava in lungo ed in largo.
Il pesciolino crebbe e si allungò tanto che la boccia cominciò a sembrargli troppo stretta eppoi... che noia stare sempre solo e non poter scambiare una parola con qualcuno dei suoi simili! Che nostalgia aveva dei suoi fratelli, dei suoi genitori! Come rimpiangeva quella grande vasca accogliente nel giardino della sua infanzia! Chissà dov'erano finiti i suoi fratellini. Erano stati vinti anche loro da qualche bambino?
Con tutte quelle domande per la testa cominciò a deperire; mentre in un primo momento era diventato bello grasso e lucente, ora aveva perso gli splendidi colori rosso dorati sul dorso.
Stava ore ed ore a girare freneticamente nella boccia; quando la sua piccola padrona si fermava a guardarlo o gli portava da mangiare, lui apriva disperatamente la bocca, tentando di farle capire quello che lo angustiava.
La piccola parve alfine comprendere la disperazione del suo piccolo amico e, presa la boccia, si avviò verso il vicino giardino, dove spesso si recava a giocare e dove c'era una grande vasca piena di pesci. Qui giunta, salutò il pesciolino rosso e, augurandogli una vita lunga e felice, lo fece scivolare nell'acqua fresca della vasca.
...Che felicità provò il pesciolino cominciando a nuotare in quell'ambiente così vasto: fece tutto il giro mentre una folla di pesci gli si fece attorno e gli chiese di dove venisse.
Esso raccontò la sua storia di trasferimenti da una boccia all'altra, della sua solitudine, delle facce dei bimbi...
I giovani pesci amanti delle avventure, lo stavano a sentire a bocca aperta. Quanto aveva girato! Com'era stato fortunato! Loro avevano vissuto sempre in quello stesso posto e ne erano già stufi. Insomma, nessuno è mai contento del suo stato!
- Devi venire a raccontare la tua storia alla nonna - disse un pesciolino dal simpatico musetto - Ormai è anziana e vive sempre nella sua tana in fondo alla vasca. Scendi giù con me!"
Il nostro pesciolino lo seguì e quando arrivò dinanzi alla vecchia sentì che le sue branchie tremavano: quella era la sua mamma! Nonostante avesse vissuto con lei solo poche ore, nonostante fosse passato tanto tempo, poteva ancora riconoscerla.
Essa, appena vide Gluck gli corse incontro dicendo:
"Figlio mio, quanto ho atteso questo momento, il momento di riabbracciare te o uno dei tuoi fratelli! Sapevo e speravo che almeno uno dei miei figlioli sarebbe ritornato."
Si fecero molte feste e si scambiarono colpi di coda, madre e figlio, felici di poter di nuovo stare insieme.
Nella grande vasca del giardino si rallegrarono tutti gli abitanti che, venuti a galla, parlottavano tra loro raccontandosi l'un l'altro le avventure di Gluck.
L'ultimo arrivato venne festeggiato a lungo e visse finalmente tranquillo nella grande vasca fino alla fine dei suoi giorni.
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I CAGNOLINI ABBANDONATI
Orazio è un cagnolino bianco a macchie scure dal carattere vivace ed allegro che gioca spesso con i suoi padroncini, Fulvia e Fausto.
Ma oggi, nonostante sia padrone d'un osso enorme e pieno di carne, che tiene strettamente tra i denti, ha un'aria triste e le sue orecchie che di solito sferzano lietamente l'aria, ricadono inerti lungo il collo.
"Cosa ti è successo?" s'informano preoccupati i due bambini.
"Penso a tutti quei poveri cagnolini abbandonati dai padroni che stanno fuori al freddo dell'inverno e che non hanno da mangiare. Non possono neanche cercare gli ossi sotterrati perchè la terra è tutta coperta d'una coltre gelata. E non so cosa fare per loro", rispose lui.
I due bimbi sono ora pensierosi, anch'essi non sanno cosa fare, ma pregano il buon Dio affinchè agisca a favore dei cagnolini abbandonati.
Il buon Dio al momento è molto occupato e non può dar loro retta, ma affida al sole l'incarico di aiutare tutti i piccoli amici di Orazio.
Il sole, che durante l'inverno è spesso nascosto dietro nuvoloni grigi, squarcia adesso le nubi e manda sulla terra i suoi benefici raggi che sciolgono la dura crosta di ghiaccio e rendono il terreno molle e facile da scalzare.
I cagnolini affamati che gironzolano in cerca di cibo rincorrono gioiosamente i raggi caldi, si fermano sulle zolle morbide e scavano nella terra con facilità, ritrovando così succosi bocconcini da spolpare.
Orazio è contento, il buon Dio ha ascoltato il desiderio del suo cuore e dei suoi padroncini.
Fulvia e Fausto, che vivono in un'ampia villa con un grande giardino, pensano che sarebbe molto bello poter tenere presso di loro quei piccoli trovatelli.
Essi decidono di chiederne il permesso ai loro genitori, raccontano quanto era infelice Orazio e quant'è contento ora che i suoi piccoli amici hanno trovato di che sfamarsi.
I genitori dei due piccoli anfitrioni, dopo aver confabulato un pò acconsentono, così Orazio avrà compagnia e i cagnolini sperduti avranno una casa e molti ossi da spolpare!
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IL MAGO WALT
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C'era una volta un mago che si chiamava Walt.
Non era il solito mago cattivo delle novelle, anzi aveva un cuore generoso ed un viso simpatico con due occhi vispi e profondi ed un paio di baffetti allegri. Il suo cuore palpitava per ogni essere umano, in specie per i bambini di tutto il mondo e più di tutto, forse, amava gli animali di cui comprendeva ogni linguaggio, ogni desiderio.
L'aspirazione massima di ogni specie animale era, infine, proprio questa: essere compresi e rispettati dagli uomini che spesso non tenevano in gran conto le loro esigenze, poter comunicare con gli umani e far capire che anche nelle loro anime albergavano sentimenti e pensieri.
Così, il mago Walt decise di aiutarli a mettersi in sintonia con il mondo degli uomini.
Gli piaceva molto disegnare e spesso andava in campagna, in qualche spiazzo erboso ai limiti dei boschi dove a suo piacimento poteva dipingere, con quello sfondo di panorami bellissimi, all'aria aperta e attorniato da scoiattolini, da cervi e daini, da mille piccole creature che subito si radunavano vicino al piccolo sgabello portatile e al suo cavalletto e che con i loro squittii e
mugolii, sembravano esortarlo al lavoro.
Egli non ritraeva altro che quei piccoli amici che, come li disegnava lui, sembravano avere tutte le caratteristiche degli esseri umani e provare tutti i loro sentimenti... insomma, parevano vivi!
Durante queste sue scorribande tra boschi e parchi naturali, riempì centinaia e centinaia di fogli che poi portava a casa.
Ma, una volta là, racchiusi in grandi cartelle, i suoi amichetti dipinti perdevano quell'aria di felicità, quei loro atteggiamenti vivaci e ritornavano ad essere semplici, immobili figure.
Un giorno, proprio accanto al luogo in cui viveva il mago, scoppiò un'importante fabbrica di colori: il cielo e la terra divennero d'improvviso un arcobaleno ricco di mille sfumature.
Il giovane mago ebbe un'idea fantastica: con le sue arti magiche riuscì a inscatolare tutti quei colori dispersi nell'etere, ne riempì bottiglie e vasetti di tutte le fogge, li sistemò su lunghissimi scaffali e si propose di utilizzarli per un'ideuzza che da un pò di tempo gli ronzava in testa...
Infatti, gli era venuto in mente che quell'amalgama di colori poteva essere utilizzato per dipingere tutti i suoi disegni.
Piano piano si mise all'opera e, con l'aiuto della sua magia, quei personaggi a lui tanto cari si animarono: i suoi piccoli cerbiatti, i topolini, gli uccellini, ognuno di essi, non appena toccato dalla punta del pennello, saltava fuori dal foglio bianco o dalla pagina del blocco su cui Walt tracciava i suoi schizzi, diventando reale, esprimendo con voce propria le sue idee, i suoi desideri, proprio come gli uomini.
Il giovane non stava più in sè dalla gioia, rideva, piangeva fragorosamente e prendendo i suoi amici per la mano - pardon, per la zampa - si buttò in un allegro girotondo.
Però, dopo poco, scoprì anche che non appena i magici colori si asciugavano, gli animaletti rientravano d'un balzo nelle pagine e lì restavano, inerti e scoloriti, inchè non li riempiva di nuovo della magica vernice.
Ma neanche questo "difetto di fabbrica" fece desistere Walt dal suo intento... ma sì, aveva in serbo un numero infinito di barattoli colmi di colori magici e avrebbe potuto animare migliaia e migliaia di volte i suoi piccoli amici e rendere partecipi di quella bellissima magia anche i bambini di tutto il mondo che avrebbero imparato ad amare e rispettare gli animali di ogni specie, il loro diritto alla vita nel proprio ambiente naturale.
Per tale grande progetto si servì dell'aiuto di molti collaboratori - altri sognatori come lui - che, chini sui tavoli da lavoro, con un tocco di pennello e di colori magici, davano vita alle creature dei boschi, dell'aria, della terra, del mare, della prateria, dei ghiacciai...
Così fu e, magia ancor più fantastica, anche quando il giovane Walt divenne adulto e poi un distinto, sereno signore dai baffi bianchi (ma nei suoi occhi c'era empre quella scintilla d'ironia!), anche quando lui morì, rimpianto da
tutti, la sua magia rimase intatta...
Per altre decine e decine di anni c'erano ancora in serbo centinaia di migliaia di vasi e vasetti ricolmi di quei meravigliosi colori.
E bastava un tocco di pennello su quei suoi fantastici disegni per far sì che le sue simpatiche, straordinarie creature - rimaste sempre giovani - riprendessero vita e rallegrassero l'infanzia di milioni di fanciulli e di adulti dal cuore di fanciullo...
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LA STORIA DI SEBASTIAN
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C'era una volta un omone molto brutto e grasso, che si chiamava Sebastian, dotato però d'una bellissima voce.
Quando cantava, la sua voce dolcissima e piena percorreva le strade dell'aria e giungeva gli orecchi dei paesani che rifuggivano spaventati dalla sua presenza, ma ascoltavano rapiti le sue melodiose canzoni.
Viveva lontano dal paese perchè sin da piccolo tutti lo avevano scansato a causa della sua bruttezza.
Solo gli uccelli e gli animali che vivevano nel bosco, ai margini del quale si trovava la sua casa, gli si avvicinavano richiamati da quei suoni musicali, contenti perchè l'uomo elargiva loro briciole e carezze in abbondanza...
Però, nonostante la simpatia che le bestiole gli dimostravano, l'uomo era molto infelice: non riusciva a suscitare simpatia nei suoi simili e un giorno, in cui si sentiva più solo che mai, disse ad alta voce: "Oh, come vorrei non essere così brutto!"
Mentre se ne stava là pensieroso, udì un fruscio di foglie; si riscosse sorpreso ed incuriosito e si mise in ascolto... dei passi leggeri ma disorientati e d'un tratto un rumore più forte come d'una caduta e un pianto... una vocina esile che gridava: "Aiuto, aiutatemi... c'è qualcuno qui?"
L'uomo con due grossi balzi arrivò nella radura da cui proveniva il lamento e, in mezzo a un intrico di rami, trovò una fanciulla molto bella e delicata, trattenuta da una siepe di rovi da cui tentava disperatamente di divincolarsi.
L'uomo si avvicinò e con voce serena cercò di calmare la giovane che aveva gli occhi chiusi: "Non innervosirti, stai calma, ti libero io!" e difatti in un attimo riuscì a districare la lunga veste della ragazza dalle spine.
Essa, intanto, tentava di rialzarsi senza riuscirvi, con movenze che a tutta prima sembrarono strane all'uomo, finchè egli non capì: la giovane era cieca e ne fu sicuro quando, presala per mano, la sostenne dandole così un appoggio solido.
Lei si tirò su con grazia rialzando il bel viso verso di lui, o meglio verso la sua voce che la guidava ed aprì gli occhi d'un bellissimo verde ramato che però erano completamente vacui e persi in una dimensione senza colori.
Si riprese subito, aveva sfoderato un bel sorriso diretto all'omone che la sovrastava per la sua grossezza di tutta la testa.
Egli non potè fare a meno di chiederle:"Ma come mai sei arrivata fin qui?" e intanto stava attento a che lei non inciampasse di nuovo nelle radici che s'intrecciavano sul terreno.
Lei si schernì un pò, poi si fece forza tirando un grosso sospiro: "Mi chiamo Armonica, in casa mia ero mal sopportata e non avevo più desiderio di restarvi.
I miei genitori sono morti da tanti anni ed io ero rimasta a vivere con una zia che era stata nominata mia tutrice e che spendeva i miei soldi senza ritegno, viaggiando in lungo e in largo per il mondo e trascinandomi con sè ovunque andasse.
Un giorno, per un'escursione montana, mi portò su per una impervia salita dove caddi malamente, battendo la testa.
Lì per lì mi ripresi come se nulla fosse accaduto, poi nei giorni successivi mi lamentai per il mal di testa e per un abbassamento della vista... a poco a poco divenni cieca del tutto e la mia vita divenne un inferno.
Venni messa in un istituto fino alla maggiore età, poi tornai nella mia casa natale a convivere con la zia, ormai vecchia e più bisbetica che mai la quale, però, non aveva perduto l'abitudine di girare per il mondo e di maltrattarmi se talvolta perdevo l'orientamento o combinavo qualche piccolo danno.
Proprio ieri ebbe a rimproverarmi ancora ed io non mi sentii più la forza per sopportarla... eravamo di nuovo in viaggio e, approfittando di una sosta nel paese poco distante, decisi di andarmene lontano il più possibile da lei, lasciandole tutti i miei averi... e di me accadesse quello che doveva accadere... non pensavo che ad allontanarmi... ma poi capitai in questo bosco... improvvisamente ritornai alla realtà e capii che non avrei mai potuto cavarmela..."
E qui la ragazza cominciò a piangere a dirotto, stremata dalla fatica, dalla paura, dall'ansia che aveva provato, chiusa in quella sua buia disperazione.
Il cuore altruista dell'omone si strinse di compassione e per sollevarle il morale cominciò a cantare, a voce piena, una bella romanza.
Il canto sortì il suo effetto, piano piano Armonica smise di piangere e si rasserenò; Sebastian, allora, decise di portarla nella sua piccola casa per farla riposare... più tardi avrebbe pensato al da farsi per il futuro.
Armonica si trovò subito a suo agio e cominciò presto a prendere confidenza con le cose e gli ambienti che la circondavano, dopo un pò di tempo riusciva persino a preparare i pasti, a rigovernare e riassettare la piccola abitazione.
Poi quando aveva terminato, si sedeva sulla piccola veranda per un pò di riposo e chiedeva a Sebastian di cantare per lei.
A lui non pareva vero di avere un così attento ed appassionato uditorio e metteva tutto se stesso nell'interpretare opere e romanze con quella sua bella voce che migliorava e s'affinava col passar del tempo. Quando Sebastian smetteva, Armonica batteva entusiasticamente le mani e lui si sentiva felice come non era mai stato.
Col passare del tempo, tra i due nacque un profondo sentimento d'amore che faceva dimenticare a lei i suoi limiti e il buio che la circondava, a lui faceva scordare che un tempo si sentiva brutto ed infelice.
Tanto che ormai aveva preso a scendere in paese almeno una volta alla settimana per sopperire ai loro bisogni, vendendo in cambio cestini di giunco e formaggelle (erano quelle le uniche cose che sapeva fare, oltre che cantare!) e la gente s'era abituata a vederlo, lo trovava persino simpatico e non notava quasi più la sua sgradevolezza.
Sebastian era un uomo felice, l'unico suo cruccio era la cecità della ragazza ma un giorno, parlando col medico del paese, venne a sapere che un grande professore che viveva in una lontana città aveva già effettuato delle operazioni che avevano dato risultati positivi.
Si mise quindi in mente di portare Armonica da quel chirurgo ma, il problema più grosso da risolvere, oltrechè convincere la ragazza che forse avrebbe rifiutato, erano i soldi; difatti Sebastian non aveva mai pensato a lavorare per guadagnare, tanto non sapeva che farsene, lui, del denaro.
Cominciò dunque a pensare a quale lavoro avrebbe potuto svolgere, ma non ne trovava... finchè un giorno, proprio mentre cantava pensò di mettere a frutto la sua bella voce.
Finalmente parlò ad Armonica dei suoi progetti,assicurandole che c'erano buone speranze per il pieno recupero della vista; lei, mentre si dimostrò entusiasta per quanto riguardava la carriera artistica del suo compagno, non era invece molto incline a prendere in considerazione l'intervento.
Ma poi, dietro le insistenze affettuose di Sebastian, si convinse e decise che vi si sarebbe sottoposta non appena fosse arrivato il momento.
Così l'uomo andò in paese e si presentò al maestro di musica che insegnava nell'unica scuola ed egli, ascoltatolo con interesse, gli predisse un fulgido avvenire con quella voce che si ritrovava.
Doveva solo educarla un pò e si offrì di dargli qualche lezione; intanto, avrebbe parlato al più presto con un suo amico che faceva parte d'una grande orchestra che si esibiva nei teatri più importanti del mondo, diretta da un prestigioso maestro.
Sebastian, tutto allegro, tornò nella sua casetta e cominciò ad esercitarsi ad ogni ora del giorno, riempiendo il bosco di acuti e i gorgheggi, mandando a memoria i testi delle opere più famose, mentre la ragazza lo aiutava a studiare con metodo, attendendo il giorno dell'audizione.
Arrivò anche quello e fu un momento di grande gioia per ambedue perchè il grande direttore fu colpito favorevolmente e lo ingaggiò per un'intera stagione teatrale, dandogli un congruo anticipo in danaro, molto più di quanto Sebastian
e Armonica avessero sperato.
I due non stavano più nella pelle dalla contentezza e, prima di ogni altra cosa, decisero di recarsi dal grande luminare che, visitata la ragazza, diede ottime speranze di guarigione dopo l'operazione.
Il giorno dell'intervento arrivò e, come ogni altra cosa della vita, passò portando ad Armonica un dono bellissimo: la vista.
Sebastian, pur nella grande contentezza, era però preoccupatissimo: come avrebbe reagito Armonica nel vederlo? L'avrebbe trovato repellente? L'avrebbe amato ancora? Quante domande si poneva...
Poi venne il momento in cui Armonica venne sbendata e la prima cosa che vide fu proprio il viso, trepidante, di lui commosso e timido... non troppo bello ma amorevole, dolce...
Lei gli tese la mano e con voce rotta dall'emozione gli rinnovò il suo amore.
La ripresa della ragazza fu rapida, grazie anche alla grande felicità che l'animava, cosicchè, ben presto, potè ritornare alla sua casetta nel bosco insieme a Sebastian che si rimise a cantare con più lena di prima in attesa del debutto.
La sera della prima fu un gran successo, lui cantò con tutta la forza dei suoi polmoni e con impegno, dedicando ogni nota alla sua amata Armonica che dal suo palco lo seguiva con lo sguardo.
... Lo seguì sempre in tutte le repliche, nelle successive esibizioni e negli anni che seguirono e vissero una lunga vita di successi e d'amore e col passar del tempo, Sebastian divenne, se non proprio bello, più accettabile, meno brutto... ma ormai non gli importava, aveva tutto ciò che desiderava!
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PIERROT E LA LUNA
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Pierrot amava la luna ed avrebbe voluto raggiungerla. Ma era così distante, così lontana...
Un giorno, guardando un ragno filare la sua interminabile tela, ebbe un'idea e chiese all'animaletto di tessergli una scala che gli permettesse di arrivare sino alla luna.
Il ragno acconsentì e cominciò a dipanare con le sue mobili zampette un tessuto resistente ma finissimo come seta. Man mano che esso procedeva, Pierrot saliva, scalino dopo scalino, annullando lo spazio che lo separava dalla luna.
Il cielo s'era intanto tinto di blu e le stelle ammiccavano tra di loro, osservando lo strano spettacolo di quell'omino fragile che si avventurava nello spazio.
L'ultimo quarto di luna brillava quella notte di una luce mai vista che quasi accecò Pierrot.
Finalmente egli mise piede sull'astro luminoso. Come si sentì contento in quel momento!
Nulla al mondo avrebbe potuto renderlo più felice.
Però era anche molto stanco, come se avesse portato un pesante fardello durante tutto il suo lungo viaggio. Allora si sdraiò al suolo e la luna, compassionevole, lo cullò dondolando lentamente come una altalena.
Quando si svegliò, Pierrot guardò stordito lo spettacolo che gli si presentava intorno: piccoli specchi d'acqua e fiori alti come alberi, dai colori intensi e smaglianti che sembravano dipinti appena allora.
Si alzò, si specchiò in uno dei tanti laghetti e cominciò a camminare in mezzo ad un prato ricoperto di muschio così soffice che sembrava di calpestare delle nuvole.
Nell'aria s'alzò una musica incantatrice che invitò Pierrot a danzare, dapprima lentamente, poi sempre più in fretta, finchè non venne preso da un vortice che misteriosamente lo trasportò su di una nuvola rosa.
Nel cielo ancora grigio perla, mille nuvole si animarono e da ognuna di esse spuntò un angioletto che dopo uno sbadiglio e un vibrare d'ali s'alzava.
Affollatisi tutti insieme sulla nuvola di Pierrot, si tuffarono entro di essa e ne riuscirono armati di secchielli, pennelli e piumini.
Ad un cenno di quello che sembrava il capo, si dispersero con un rapido frullar d'ali e si misero subito al lavoro: chi incipriava le stelle rendendole più scintillanti che mai, chi tinteggiava di rosa e d'azzurro un angolo di cielo, chi riparava i nuvoloni della pioggia squarciatisi nell'ultimo temporale furioso, chi ridipingeva l'arcobaleno ormai sbiadito dopo l'ultima apparizione.
Un angioletto grassoccio e lentigginoso, armato di piumino e d'un sacchetto di polvere d'argento, s'avviò verso la luna che ora tondeggiava nel cielo ma così chiara, così bianca da sembrare quasi invisibile e si mise a lustrarla,
incipriarla, spolverarla cosicchè, di lì a poco essa ricominciò a brillare come nuova nel cielo azzurro cupo.
Pierrot guardava interessato tutto quel gran movimento, poi decise di usare l'arcobaleno come trampolino di lancio per tuffarsi in una di quelle meravigliose nuvolette, che sembravano fatte di panna montata.
La nuvola era davvero di panna montata e Pierrot si affrettò a farne una scorpacciata...
Ma proprio in quel momento, ecco che da lontano s'annunciò l'arrivo del sole, già se ne sentiva il calore bruciante nell'aria intorno.
Gli angioletti, svolazzando di qua e di là, raccolsero di fretta e furia i loro arnesi, si affannarono a sospingere la luna per farla ruzzolare dall'altra parte del cielo, poi si dileguarono tra le nuvole più grosse che al caldo alito del sole si dispersero lontano.
- Che fare? - si chiese Pierrot, stupefatto e un pò intimorito, guardando giù verso la terra.
Doveva trovare subito una soluzione.
Per fortuna in cielo erano rimaste, ferme al loro posto, molte piccole nubi ovattate ma resistenti, quasi fossero di gomma. Scoprì che poteva facilmente staccarle dalla volta celeste e se ne servì, come fossero stati tanti pioli mobili d'una scala, spostandole a suo piacimento e ponendole di volta in volta sotto di sè.
Poi spiccava un bel balzo e si ritrovava ad affondare nell'accogliente e cedevole bambagia.
Di balzo in balzo giunse sulla terra e alzò il capo... mamma mia quanto era arrivato in alto! Che bella avventura aveva vissuto!
Intanto anche il sole aveva compiuto il suo giro giornaliero attraverso il cielo e nel firmamento tinto di blu già si stava riaffacciando, eterea e bellissima, una falce di luna argentea, seguita dal suo corteo di stelle.
Pierrot la osservò passare sul suo capo e la salutò senza malinconia...
Un giorno o l'altro, avrebbe potuto di nuovo intraprendere un altro viaggio... ormai, il suo, non era un sogno irrealizzabiile! |
IL FRANCOBOLLO GIRAMONDO
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Nacque, insieme a molti altri fratelli tutti uguali a lui e se ne stette lì, buono buono in un grosso pacco sigillato.
Altri fogli di francobolli di tanti colori sopra e sotto di lui lo pigiavano e il francobollo si sentiva soffocare, desiderando d'essere libero, e di andare in giro per il mondo.
Un giorno, il pacco di cui faceva parte fu venduto ad un tabaccaio che lo mise in un grosso libro con altri fogli di colore diverso.
"Finalmente - disse il francobollo tra sè - vedo già qualcosa di nuovo ed altri miei fratelli per la prima volta! Sono veramente contento!".
Ma non era ancora giunta l'ora della sua piena felicità, non era ancora questo il suo destino.
Poco dopo il librone si aprì e le grandi mani del tabaccaio staccarono il francobollo dalla sua matrice e dai suoi fratelli gemelli; lo diede ad una giovanetta che aveva scritto una lunga lettera al suo fidanzato emigrato in un paese molto lontano, l'Australia.
Il francobollo fu contento di quel lungo viaggio che stava per affrontare: avrebbe viaggiato su un velocissimo aereo ed avrebbe visto molte cose nuove.
Però, non appena incollato sulla busta di carta leggera incorniciata di righine blu e rosse, la giovanetta imbucò la lettera nella cassetta della posta proprio fuori della tabaccheria e il francobollo si ritrovò in una scomoda buca di ferro, buia e profonda, di nuovo soffocato dalla presenza di altre buste, di altri francobolli.
La notte passò alla bell'e meglio e lui sospirando aspettava la mattina, dicendosi: "Domani forse partirò per quella lontana destinazione".
La mattina, difatti, venne risvegliato da un rumore metallico: si aprì la botola al di sotto della cassetta che conteneva le buste ed esse scivolarono di corsa, scontrandosi e sovrapponendosi.
"Vengono a liberarmi!" pensò il francobollo... ma no, eccolo di nuovo nel buio di un grosso sacco di pesante juta che venne gettato con malgarbo in un furgoncino dal motore acceso, che subito ripartì.
Passò un pò di tempo durante il quale il francobollo si sentì sbatacchiare in tutte le direzioni, ma manteneva ancora la sua convinzione che presto il destino gli avrebbe riservato delle sorprese: avrebbe visto il mare, le nuvole,
l'Australia!
I sacchi giunsero alla loro prima destinazione - l'ufficio centrale postale dove avveniva lo smistamento - dove venivano aperti e le buste gettate con noncuranza in grosse ceste, a seconda della loro meta.
Il francobollo si sentì percosso, sballottato ma disse tra sè: "Ecco, forse è giunto il gran momento!".
La busta su cui era incollato era la prima di una lunga serie e lui sbirciava di qua e di à, ma non vedeva altro che confusione, affollamento e rumore.
Le sue speranze si ravvivarono quando vide qualcuno andare dritto verso di lui, ma questi non fece altro che prendere vari mucchi di posta ed infilarli nuovamente in un sacco buio...
Di nuovo il ballonzolio d'un furgone, un trasbordo, un tremendo rumore: il francobollo capì che lo stavano caricando su un aereo, il suo destino si stava compiendo.
Purtroppo, però, pur facendosi largo tra gli altri, riuscì a malapena ad intravvedere uno spicchio di cielo pieno di nuvole e qualche allegro raggio di sole, ma null'altro.
Il rullio dell'aereo si acquietò appena giunto a terra ed i sacchi vennero di nuovo trasportati in un altro ufficio postale e da lì nella borsa poco capiente d'un postino.
Dalla pattina semiaperta vide alcune delle cose che aveva sperato: un cielo terso, il mare, prati immensi, delle buffe bestiole che saltellavano, volti sorridenti e festose casette.
Il francobollo si sentì tutto ringalluzzito e fiero di essere arrivato così lontano, specie quando il postino, traendo la busta della borsa, la consegnò ad un giovanotto fermo sotto il portico d'una grande casa costruita in mezzo ad una prateria.
Il giovane, con un sorriso sulle labbra, aprì la busta e lesse con attenzione la lunga lettera che gli giungeva dal suo paese. La rilesse più volte e la ripose in un cassetto della sua scrivania.
Così il francobollo si ritrovò di nuovo al buio: i suoi sogni finivano lì, nessuna avventura come aveva sperato.
Passò molto tempo, anni ed anni e la busta con il nostro francobollo era rimasta sempre lì, nel cassetto. Di tanto in tanto altre se ne aggiungevano, tutte provenienti dalla sua patria, di volta in volta con francobolli diversi con cui lui, contento, scambiava con loro qualche parola, cercando di sapere cosa succedeva nel mondo.
Ma anch' essi raccontavano la stessa sua storia, nulla di più, loro avevano subito lo stesso trattamento.
Un giorno il francobollo sentì un gran tramestio nella stanza e la scrivania venne aperta e tutto ciò che vi era conservato venne sparso sulla sua superficie: una piccola mano prese la lettera ed osservò attentamente il francobollo che, risvegliato dopo tanto silenzio, guardava stupefatto ciò che gli accadeva intorno.
Un bimbo, appassionato di filatelia, disse: "Guarda babbo, guarda che bel francobollo. È molto vecchio ed ha un bel valore. Posso tenerlo per la mia collezione?".
"Sì - disse il padre - ma tienilo molto da conto. Questa busta contiene la prima lettera che la nonna scrisse al nonno dalla lontana Italia, quando erano ancora fidanzati ed il nonno non aveva ancora una solida posizione. Quando potè permetterselo, il nonno fece venire la nonna qui in Australia, la sposò e da allora vissero sempre in questa libera terra, in questa casa dove io e dopo anche tu siamo nati".
Il bimbo prese la busta con accortezza e corse subito a metterla in un album. Lì rimase, indisturbata per altri anni con il nostro francobollo incollato addosso che ancora, di tanto in tanto, sogna di andare in giro per il mondo.
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IL BURATTINO DI CARTAPESTA
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Un burattino di cartapesta viveva assieme a tanti altri burattini in un grande baule di legno, in un carrozzone di proprietà di un famoso burattinaio che viaggiava da una città all'altra, dove dava rappresentazioni per allietare adulti e bambini.
Poichè era vestito da gran signore con un abito di vera lana blu scuro e i bottoni d'oro lucenti, un invidiabile cravattino a farfalla, un fiore rosso all'occhiello e un paio di scarpe di pelle lucida, credendo di essere il capo dei burattini si dava un gran daffare impartendo ordini a destra e a sinistra.
Ogni volta che usciva dal baule per la rappresentazione si comportava da gentiluomo, faceva passare per prime le signore, mimava le sue battute con gran calore, s'inchinava di qui e di là ringraziando il suo pubblico. S'impegnava,
insomma, per la buona riuscita dello spettacolo.
E quando il sipario calava sulla scena era anche un pò triste, ma non svuotato d'energia.Infatti, pareva che lui ne avesse in abbondanza e quando rientrava insieme agli altri nel baule continuava a darsi da fare, creando nuovi soggetti, nuovi personaggi da interpretare, per un miglior andamento della recita.
Un giorno il carrozzone si fermò in una grande città nordica dove pioveva sempre e dove il cielo era costantemente grigio, la gente usciva poco ma il teatro dei burattini era atteso da lungo tempo, specie dai bambini, che quella sera accorsero in massa sotto il grande tendone colorato, per assistere allo spettacolo.
Il burattino vestito da gran signore mise all'occhiello un fiore fresco e profumato, si pettinò con cura i capelli, si preparò, insomma, per un gran successo e con la solita disinvoltura.
Il tempo fuori era pessimo, stava piovendo a dirotto e gli spettatori che entravano nel tendone apparivano tutti gocciolanti.
Dietro le quinte il burattino si stava prodigando in consigli ai suoi compagni sul modo di mimare la parte, su come inchinarsi al pubblico e mostrava agli altri egli stesso come bisognava agire, percorrendo in lungo e in largo il palcoscenico, al riparo dei grandi tendaggi di velluto rosso.
Gli altri burattini erano annoiati da quell'atteggiamento di superiorità bonaria ma seccante e 'accordo con l'ex primo attore, decisero di impartirgli una bella lezione.
Uno di essi, il più agile di tutti, una scimmietta vispa e battagliera, si arrampicò sino in cima al grande tendone e vi praticò un buco, proprio in direzione del palcoscenico, nel punto in cui si sarebbe trovato il burattino vestito da gran signore.
Egli di lì a poco, nella commedia che andavano ad interpretare, avrebbe impersonato la parte d'un commensale importante, seduto ad una tavola riccamente imbandita e contornato da altri personaggi d'alto lignaggio.
La scena era piuttosto lunga ed il burattino avrebbe dovuto starsene fermo per un bel pò.
Cominciò la rappresentazione e tutti gli attori si trovarono in scena ai propri posti.
Il burattino di cui parliamo stava seduto dinanzi alla tavola da pochi secondi, quando "plic" una goccia di pioggia, penetrata dal buco sul soffitto, gli cadde in testa, sulla sua bella testa impomatata, bagnandola tutta. Ma lui, da gran signore, non battè ciglio, non fece un gesto.
Una dopo l'altra, le gocce di pioggia caddero ancora e gli scesero sul viso, offuscandogli lo sguardo.
Con disinvoltura, il burattino estrasse il fine fazzoletto di seta per detergere la fronte e gli occhi... plic, plic, il burattino preso dalla parte che stava recitando, non se ne accorgeva quasi...
Plic, plic... quello stillicidio, però, gli stava annebbiando le idee... plic, plic... che confusione nelle battute, nella sua testa... plic, plic...
La cartapesta con cui era stato plasmato il burattino si stava sciogliendo sotto la pioggia, come fosse cera accanto al fuoco.
Sul più bello della scena, la faccia dell'attore si contorse in strane espressioni, la voce non gli uscì più dalla gola strozzata dalla paura... e giù con la testa sul tavolo senza un rumore, mentre i compagni continuavano a recitare.
Il pubblico non s'era per niente accorto del piccolo dramma che si stava svolgendo, pensava che il crollo del burattino fosse incluso nel copione e batterono le mani con calore, per premiare gli attori della ro bravura.
Poi, finalmente la commedia finì, anch'essi si fermarono, col cuore in gola: la lezione che volevano impartire al burattino era andata al di là delle loro previsioni, non avevano pensato nè desiderato che andasse così!.
Poco dopo, quando la pesante tenda di velluto rosso si chiuse sulla scena, si raccolsero tutti intorno al loro compagno, lo guardarono con tutta la loro compassione e lo portarono via in silenzio, con un'unica speranza: forse il burattinaio avrebbe potuto far qualcosa!
L'uomo, infatti, si mise subito al lavoro, plasmò con della nuova cartapesta un'altra testa e l'applicò sul collo del burattino vestito da gran signore ma l'espressione, lo sguardo della nuova faccia mal s'accordavano con il resto del corpo. Era tutta colpa di quel vestito, che gli dava un'aria così importante!
Glielo tolse di dosso e dopo averci pensato su un momento, decise di rivestirlo da barbone, uno di quei vagabondi che girano per le strade delle grandi città.
Lo ricoprì con dei panni un pò dimessi, fuori moda, gli scompigliò i capelli, gli applicò una barba grigia arruffata e gli disegnò persino una lunga cicatrice sulla guancia sinistra che gli dava un'aria un pò tenebrosa, ma in fin dei conti simpatica.
I suoi compagni non lo riconobbero nemmeno ed egli stesso, guardandosi allo specchio stentava a riconoscersi in quel viso e in quell'abbigliamento così lontani dal suo precedente essere.
Si sentiva ancora un gran signore e non gli piaceva impersonare quell'uomo così poco importante e un pò rozzo di aspetto.
Ciò sminuiva la sua dignità!
Ma poi, sia pur lentamente, si adattò alla sua nuova faccia, alla sua nuova natura. Scopriva d'essere perfino più accettato dai suoi compagni, più amato dal pubblico, insomma, quasi quasi più umano.
Anche il burattinaio si accorse che poteva utilizzarlo meglio di prima e metteva in scena storie scritte apposta per il burattino-barbone che si impegnava a recitarle dando tutto se stesso e, come prima non gli era mai accaduto, si sentiva immensamente felice.
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IL PRISMA MAGICO
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In una casa molto antica vivevano due anziani coniugi che passavano le loro giornate in serenità, ricordando le cose belle che avevano vissuto nel lungo tempo trascorso insieme: i primi anni del loro matrimonio, la nascita dei loro tre figli, poi quella dei nipotini ormai adulti, i bei viaggi delle vacanze...
Ma, con il trascorrere del tempo, la loro memoria si affievoliva e i ricordi passati svanivano lentamente.
I due vecchi ne erano davvero dispiaciuti ed avrebbero pagato chissà cosa per poterli recuperare!
Un giorno che erano affacciati alla finestra, nella stradina in cui abitavano passò un rigattiere che acquistava e vendeva oggetti ormai fuori moda.
Anselmo e Carolina, i due vecchietti di cui parliamo, avevano una cantina piena di soprammobili, bomboniere ed altre cose dei bei tempi andati che oramai non servivano più e così, chiamato il venditore ambulante gli consegnarono una scatola stracolma di tutti quegli oggetti.
Egli propose loro di pagare quelle belle cose, ma i due rifiutarono; allora egli, rovistato un pò in un angolo del suo carrettino, ne trasse un piccolo pezzo di vetro, un prisma trasparente che, attraversato dalla luce la rifrangeva creando
mille sfumature di colore.
"Prendete questo - disse il rigattiere ad Anselmo e Carolina - e quando vi sentirete un pò tristi, guardatelo a lungo, esponendolo alla luce. Vedrete che meraviglia!".
Carolina ringraziò il rigattiere rigirando tra le mani quel regalo, pensando che le sembrava un comune fondo di bottiglia (che poteva avere di tanto meraviglioso?) e lo posò su un mobiletto del salotto, accanto ad altri oggetti più costosi.
Passò del tempo ed i bei ricordi che univano i due anziani coniugi erano ormai svaniti quasi del tutto; essi si sentivano quasi estranei l'uno all'altra, litigavano perfino, per cose futili ed i giorni che trascorrevano insieme diventavano pesanti e interminabili.
In un bel pomeriggio di primavera in cui Anselmo e Carolina stavano seduti sulle ampie poltrone del loro salotto, senza aver più nulla da dirsi, ognuno chiuso nel proprio silenzio, dalla finestra aperta entrò un raggio di sole che colpì proprio il prisma di vetro un pò impolverato.
Mille sprazzi di colore si destarono all'improvviso, correndo di qua e di là per la stanza, affascinando i due vecchi che si chinarono a guardare il prisma e... meraviglia, esso riluceva come uno specchio e sulla faccia trasparente che stavano osservando, ecco apparire un'immagine: ecco apparire una carrozza a cavalli che trotterellavano gaiamente lungo un viale semideserto in una chiara mattina estiva.
Affacciati ai finestrini, un giovane ed una fanciulla vestiti da sposi, lei bellissima ed agghindata con un lungo velo ed una coroncina di fiori e perle...
"Oh! - fecero Anselmo e Carolina - ma quei due siamo noi, mentre usciamo dalla chiesa, il giorno in cui ci siamo sposati!".
"Vedi là - disse Carlina un momento dopo - in lontananza c’è la chiesa, i nostri parenti ed
amici che ci salutano!"
.
"Come eravamo giovani e innamorati..." le fece eco Anselmo -
"Guarda qua! - esclamò Carolina, con una vocina commossa - in quest'altra faccia del prisma: ecco la nostra casa com'era allora, appena dipinta d'un bel colore rosso scuro. Eccomi al balcone da cui ti salutavo ogni mattina mentre andavi al lavoro".
"Gira il prisma - le chiese Anselmo - ora ci troviamo a Parigi, ti ricordi che bel viaggio? Di giorno andavamo a passeggio per la città, di sera in quei locali affollati di gente strana e famosa...".
"I nostri figli...! - disse ancora la vecchina emozionata - guardali là com'erano carini ed affettuosi... ed ora si e no che vengono a trovarci due volte l'anno e non vedono l'ora che venga il momento d'andar via!".
Una lagrima le scorreva lungo la guancia avvizzita ma Anselmo, con la sua mano ancora sicura l'asciugò e strinse a sè Carolina come a proteggerla dalla pena, così come non aveva fatto da tanto tempo.
Lei si riprese subito, sentiva una nuova energia, quasi che quella carezza le avesse infuso altra vita, ma restò lì accanto al suo Anselmo, appoggiata alla sua spalla.
Intanto, nuove immagini correvano via sulle facce trasparenti del prisma che, dotato di vita propria, girava lentamente su se stesso, come una lanterna magica...
Poi il prisma di vetro brillò d'una strana luce incandescente, quasi fosse una stella e girò vorticosamente...
Il sole ormai era basso nel cielo, la bella giornata era finita.
Nella penombra della stanza s'intravvedevano le sagome di Anselmo e Carolina, uniti ormai per l'eternità.
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IL MANICHINO E LA ZINGARA
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Un manichino che si trovava proprio al centro della vetrina d'un negozio aperto su una strada affollata della grande città, stava fermo ed impettito come un soldato sull'attenti ed il viso rivolto alla strada.
Indossava un impeccabile abito da cerimonia: una giacca dai risvolti di seta e un paio di pantaloni grigio fumo di Londra; all'occhiello spiccava un fiore bianco e sulle labbra aveva dipinto un sorriso simpatico.
Ma dentro di sè non era affatto contento e pensava:
"Come vorrei essere un uomo vero, con un cuore che batte e poter fuggire da questa vetrina, muovermi, parlare, correre...!".
Vicino a lui, nella vetrina illuminata a giorno, vi erano altri manichini di ogni età, rivestiti di abiti di fogge diverse, tutti con sorrisi accattivanti dipinti sulle bocche mute.
Proprio accanto a lui c'era un altro manichino, una donna a quanto pareva, dall'abito a lunghe balze tutte di lustrini e seta... un viso simpatico ed un bel sorriso, anche se aveva gli occhi socchiusi e sembrava non guardare affatto chi le stava accanto.
Ma spesso si raccontavano i sogni che ognuno aveva in cuore e lui le aveva confidato di sentirsi molto solo e di desiderare, ogni giorno di più, di poter lasciare quella prigione.
Un pomeriggio, davanti alla vetrina si fermò una ragazza molto bella dalla carnagione e dai capelli scuri: le brillavano gli occhi mentre guardava il bel vestito di seta e lustrini e le guance rotonde le si arrossarono di piacere.
Lei invece indossava un'ampia gonna variopinta e stracciata ed un corpetto attillato sul busto prorompente di giovane zingara.
Stringeva per la mano un bimbetto di qualche anno, esile ed emaciato con uno sguardo selvatico che s'illuminò tutto nell'osservare un trenino di latta rosso che percorreva instancabile tutta la vetrina.
Il manichino si innamorò a prima vista della zingara e le lanciò uno sguardo di tenerezza, desiderando con tutte le sue forze di poterla seguire, lasciando quell'angusta posizione.
La giovane, intanto, s'era seduta sul bordo del marciapiede antistante il negozio, chiedendo un obolo ai passanti, mentre il piccolo, stanco ed affamato, le si era addormentato in grembo.
Ogni tanto volgeva lo sguardo verso la vetrina dove ora tanti piccoli riflettori erano accesi ed il bel vestito di strass brillava come una stella cadente. Il suo sguardo non sfiorava nemmeno il manichino vestito in grigio fumo di Londra, che soffriva molto di questo suo disinteresse.
Intanto, s'era fatta sera inoltrata, ogni luce si spense nella strada ed anche quelle della grande vetrina, dove il manichino fremeva d'amore per la bella zingara che, stanca anch'essa, s'era addormentata addossata al muro del negozio, col piccolo stretto al seno, dimentica di tutto, anche del vestito da sera.
Il cuore del manichino pulsava così forte che sembrava un orologio che battesse le ore. Con i suoi rintocchi destò tutti gli altri manichini i quali, approfittando della tranquillità della notte, si affollarono intorno al loro amico e gli chiesero che cosa gli fosse successo.
Lui, tutto rosso in viso, raccontò che s'era innamorato della bella zingara e non sapeva cosa fare per stare con lei. Gli altri lo incitarono ad ascoltare il suo cuore: se l'amava davvero, loro lo avrebbero aiutato ad andar via dal
negozio.
Così, dopo averci pensato poco meno d'un istante, il manichino si tolse l'elegante vestito che aveva indosso, sostituendolo con una camiciola ed un paio di jeans, lo piegò con cura e ne fece un pacco da portare via con sè; i compagni lo indussero a prendere anche il trenino per il piccolo zingaro e la sua vicina si offerse di regalargli lo stupendo vestito di lustrini e seta perchè potesse offrirlo alla bella zingara.
Lui la ringraziò e le diede un bacio d'addio, salutò tutti i suoi amici e sul far dell'alba uscì dal negozio senza far rumore.
Si sedette accanto alla giovane aspettando che si risvegliasse e intanto ne ammirava il bel viso. Lei si destò di soprassalto sentendo che qualcuno l'osservava, ma subito si tranquillizzò guardando il volto dell'uomo così gentile e tenero che le porse il pacchetto con il vestito mentre al bimbo, anche lui già sveglio, regalava il trenino.
La giovane zingara che aveva sempre vissuto una vita di stenti, trattata con malgarbo dalla maggior parte delle persone, aveva affinato la sua sensibilità e sentì che quell'essere apparso quasi per magia accanto a lei, era lì proprio per circondarla dell'affetto che aveva tanto desiderato e forse si sarebbe preso cura anche del bimbo, un piccolo abbandonato dai suoi genitori, di cui lei s'era presa carico da molto tempo.
Gli sorrise e lui si sentì felice come mai prima, la prese per mano e si fece condurre nell'accampamento dove gli zingari con cui lei viveva avevano piantato le tende d'un circo.
Lì, vissero in un confortevole carrozzone ed ogni sera durante le pause tiravano fuori i loro bellissimi vestiti: lui indossava gli eleganti pantaloni grigio fumo di Londra e la giacca coi risvolti in seta, il papillon bordeaux, un paio di guanti bianchi e si esercitava in giochi di prestigio e d'illusionismo mentre lei, sempre più bella, metteva il lucente abito di strass e lo aiutava come assistente.
Col passare del tempo divennero così bravi che il padrone del circo offrì loro di esibirsi come attrazione e raddoppiò la paga.
Fu un gran successo: il pubblico si entusiasmava e i due vennero poi ingaggiati da un famoso circo che dava rappresentazioni in tutto il mondo, vennero invitati a ricevimenti importanti, a spettacoli ed alla televisione.
Diventarono ricchi e quando furono troppo vecchi per lavorare per un pubblico troppo esigente, andarono ad abitare in un bel carrozzone situato in un ampio parco di loro proprietà.
Là, dopo aver indossato i vecchi abiti che mantenevano ancora intatta la loro signorilità, davano spettacoli per gli anziani e per i bambini abbandonati che, radunati attorno a loro passavano ore di svago e applaudivano con gioia ai loro giochi di abilità. |
IL DELFINO
*
In un paesino sulle montagne c'era un bimbo di nome Grieg ch'era molto ammalato e non poteva uscire e correre con gli altri bambini perchè le sue gambine erano troppo deboli ed una più corta dell'altra.
Di lì a poco avrebbe dovuto sottoporsi ad una delicata operazione il cui esito non era però assicurato.
Il bimbo passava il suo tempo studiando, leggendo ed inventando storie che la sua fantasia gli suggeriva; sedeva su un piccolo balcone che dava su un vicolo stretto e triste, guardava uno spicchio di cielo che s'apriva luminoso sopra di
lui e da quel suo rifugio galoppava con l'immaginazione per tutte le strade, solcava tutti i mari e scalava tutte le montagne del mondo.
A primavera i suoi genitori decisero di portarlo al mare sperando che l'aria gli giovasse e dopo un lungo e faticoso viaggio, i tre giunsero in un ridente paesino abitato da pescatori.
Grieg era felice come non mai in quel luogo e la vista dell'acqua, delle barche, di tutti quei colori e quei profumi lo riempiva di una gioia profonda.
Il faccino di solito pallido, si tinse d'un bel colore bruno e le gambette magre si irrobustirono, cosicchè non era una gran fatica camminare sulla morbida rena.
Il bimbo dimenticò i suoi crucci e la sua solitudine, poichè sulla spiaggia c'erano tanti altri bimbi che gli si affezionarono e lo aiutarono con la loro amicizia sincera.
Insieme passavano lunghe ore sulla riva a guardare i pescatori far ritorno col loro carico di pesci guizzanti.
Un giorno, uno di essi che si era fermato al largo con la sua barca, richiamò l'attenzione dei bagnanti fermi sulla riva soffiando a lungo in una grande conchiglia.
"Avrà trovato un banco di pesci tanto ricco da poterlo dividere con tutti noi!" pensarono allegramente e presto lo raggiunsero.
I bimbi, euforici, attendevano il rientro delle altre barche che, dopo poco, rientrarono trainando le reti cariche.
Tutti si affollarono intorno agli uomini con curiosità, anche Grieg che si fece pazientemente largo tra la ressa e quale non fu la sua meraviglia, quando vide l'enorme corpo d'un delfino che si dibatteva nelle reti.
Era quella la preda!
"Povero delfino - pensò Grieg - abituato a correre e a giocare nell'acqua. Non posso pensare che morirà qui, su questa spiaggia!" e lacrime di commozione velarono i suoi occhi.
Il delfino aprì i suoi e gli sguardi dei due si incontrarono per un attimo.
Tutto finì bene, però, perchè i pescatori non erano crudeli e liberarono il mammifero e lo riportarono al largo per fargli proseguire la sua vita spensierata.
Grieg ne fu così contento che nemmeno la notizia della sua prossima partenza, scalfì quella sensazione di benessere provata al pensiero del delfino restituito alle profondità marine.
Il bimbo ed i suoi tornarono alla loro casetta in montagna e dopo qualche giorno Grieg si sottopose alla difficile operazione che,purtroppo, non ebbe l'esito positivo sperato, anzi la situazione peggiorava sempre di più; il male
aveva colpito anche le altre ossa del suo corpo minuto ed ora non poteva più camminare.
Poteva solo fantasticare, dall'alto del suo balconcino proteso sul vicolo buio e il suo visino si faceva sempre più scarnito e triste.
Prevedendo prossima la fine, disperati, i suoi genitori gli proposero di tornare al mare in quell'angolino che gli era tanto piaciuto; Grieg sorrise ed accettò contento.
Eccolo di nuovo, quindi, sulla riva a guardare le barche e i pescatori, a respirare l'aria fresca e profumata...
Dentro di lui, però, s'agitava una tempesta: sapeva che stava per morire.
Decise allora che ciò non sarebbe avvenuto sulla terra ferma e così, sfuggendo all'attenzione di sua madre, s'inoltrò nell'acqua fresca movendo lentamente gli arti malati: com'era facile in mare!
D'un tratto però, le forze gli mancarono e si sentì sprofondare: chiuse gli occhi e attese, mentre il suo corpo formicolava tutto, come fosse in procinto di scoppiare... poi provò una sensazione di gran benessere che si dilatava e si
trasmetteva ad ogni singola fibra del suo corpo che ora gli sembrava grande, forte, robusto come non era mai stato.
Volle provare a muovere una mano, una gamba... ma non aveva più quelle gambine smilze e senza resistenza!
Al loro posto, proprio in fondo, c'era una lunga coda e le sue esili braccia erano diventate due pinne gonfie di carne e muscoli!
Grieg si era trasformato in un giovane delfino e sentiva, nel suo essere rinnovato, un'energia mai conosciuta ed una voglia di coprire lunghe distanze, di fare capriole...
Finalmente avrebbe potuto saltare e sguazzare nell'acqua a suo piacimento, avrebbe raggiunto i litorali di paesi sconosciuti, avrebbe scandagliato le profondità marine... Libero, forte, gioioso.
Accanto a lui d'improvviso comparve la grossa sagoma d'un altro delfino più vecchio, che Grieg riconobbe subito: era quello capitato per caso sulla spiaggia, che veniva a prenderlo per guidarlo e condurlo con sè, lontano dai pericoli.
I due balzarono allegramente fuori dell'acqua e per un attimo Grieg rivide la spiaggia dove aveva passato tante ore, alzò una pinna a mò di saluto e si rituffò tra le onde.
Era pronto a partire!
E forse sarà ancora lì che gioca e rincorrere le navi.
Nei miei lunghi viaggi per mare intorno al mondo ne ho visti tanti di delfini che saltavano allegri tra le onde ed ho persino chiamato a gran voce: "Grieg, Grieg...". Ma nessun delfino ha risposto. Ora provateci voi!
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LA PITTRICE ED IL PRINCIPE
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C'era una volta una bella fanciulla bruna, Tania si chiamava, molto ricca che, come tutte le ragazze della sua età, durante l'adolescenza aveva atteso l'arrivo di un giovane che l'amasse appassionatamente, ma il tempo era trascorso invano; nessuno che le piacesse realmente era ancora apparso.
Intanto, poichè aveva una predisposizione naturale per la pittura, cominciò a dipingere miniature e ceramiche che vennero esposte nella più importante galleria d'arte della sua città.
Il giudizio della critica fu molto favorevole alla giovane che dedicò tutto il suo tempo a quest'attività artistica.
Un giorno, decise di lasciare il suo paese e di girare il mondo: fece i bagagli portando con sè solo poche cose, ma naturalmente tutti i suoi colori, delle tele e partì per l'Italia di cui aveva sentito molto parlare per via delle sue
bellezze naturali, dei suoi tramonti, della sua gente allegra e cordiale.
E in Italia, infatti, passò giornate indimenticabili, piene di avvenimenti gioiosi, divertenti; conobbe molti giovani avvenenti e simpatici che le fecero la corte, ma senza fortuna, poichè la fanciulla era interessata solo ai paesaggi, ai monumenti, ai mercatini dove reperiva le ceramiche.
Spinta, però da una forza interna che l'incitava a ripartire, presto Tania si recò in altri paesi, dove visse giorni intensi ma solitari.
Eppoi, mal sopportava tutto quel chiaccherio dei salotti, i pettegolezzi, le rivalità ch'essa stessa provocava nei giovani maschi che tentavano d'avvicinarla.
Una mattina, dopo un lungo viaggio per mare, sbarcò nella favolosa città di Copenhagen, nota per le sue bellezze naturali, per le sue ceramiche e per la statua della Sirenetta.
Finalmente qui la fanciulla si sentì felice: l'aria le sembrava più pulita, il paesaggio le ispirava una grande serenità, i colori delle cose erano tersi e tenui.
Essa sentì il desiderio di riprodurre subito le immagini, di fermare per sempre, quelle intense emozioni che l'agitavano e, recatasi ad acquistare delle porcellane candide, si mise subito all'opera.
Dalle sue mani uscirono miniature di rara bellezza: cieli azzurri e limpidi, paesaggi incantati, torri che svettavano tra le nuvole, il castello del re e, infine, un suo piccolo autoritratto.
Sistemava tutte le sue porcellane sul largo bordo della finestra della sua casetta bianca e linda, per farle asciugare più in fretta e la gente che passava si fermava ad ammirarle, stupita da tanta perfezione.
Così la sua fama e la sua bravura vennero alla luce e si cominciò a parlare di lei nei salotti più esclusivi della città.
L'esistenza della giovane giunse, infine, alle orecchie del giovane principe Olden, anch'egli essere solitario e schivo, amante della lettura e cultore dell'arte in genere che, non avendo molti amici, passava le sue giornate nell'ampio palazzo di suo padre leggendo i capolavori della letteratura ed ascoltando della buona musica.
Spesso, però doveva assolvere ai suoi compiti di rappresentante ufficiale del re, girando per il mondo, ma non appena poteva, tornava nel suo castello lontano dalle futili chiacchere che le dame imbastivano per incuriosirlo.
Egli s'annoiava a morte in queste occasioni e, facendo finta di ascoltare, fantasticava, sognando di tornare presto a casa.
Quando era in patria, usciva dal suo castello e s'avviava lungo il mare dove si fermava dinanzi alla statua della Sirenetta.
Guardava quel volto bellissimo e triste che sembrava scrutare nelle profondità marine e nel suo animo stesso. A poco poco s'innamorò di quell'immagine, tanto che nessuna fanciulla di carne ed ossa sembrava interessarlo.
Da questa specie di apatia si riscosse, incuriosito dalle voci dell'esistenza della giovane pittrice e elle sue opere.
Decise di recarsi egli stesso, sotto mentite spoglie, davanti alla casa della fanciulla, per vedere le ceramiche messe ad asciugare sulla finestra. Così fece e si estasiò dinanzi alle miniature di campagne verdi ed assolate, di mulini azzurri, di tulipani colorati, ma quale non fu la sua sorpresa quando vide il ritratto della giovane!
Essa assomigliava in modo impressionante alla Sirenetta di cui era perdutamente innamorato.
Il delicato volto della fanciulla era dipinto di tenui colori e spiccava sul bianco della ceramica come fosse reale e sembrava sorridere solo a lui.
Olden rimase così colpito da quest'immagine che pensava di esser vittima di un'allucinazione, ma presto si rese conto che quella non era altro che la mano del destino che gli conduceva la donna tanto attesa.
Si recò subito in riva al mare, vicino alla statua e si sedette per raccogliere i suoi pensieri, placare le sue emozioni, decidere sul da farsi. Nelle mani stringeva il piccolo ritratto che, senz'accorgersene, aveva portato via.
Infine decise di farsi ritrarre dalla pittrice ed incaricò uno dei suoi servi di convocare la giovane. Tania, orgogliosa per essere stata scelta a svolgere un lavoro così impegnativo che un poco la spaventava, acconsentì e si recò al palazzo del re con tutta la sua attrezzatura.
Confusa ed ammirata per la bellezza del giovane principe, s'inchinò dinanzi a lui e subito cominciò ad impastare i colori per distenderli poi sulla tela.
Oldenle disse che sapeva quanto lei eccellesse nella pittura su ceramica ed aveva avuto l'idea di farsi ritrarre su un piatto bianco di finissima porcellana.
La fanciulla fu un pò sorpresa dalla stramberia della richiesta, poichè s'aspettava di dover dipingere un quadro in grandezza naturale ma, si sà, i principi son sempre un pò strani!
Così iniziò il suo lavoro e nei momenti di pausa rispondeva con bel garbo alle domande del principe che voleva conoscere le sue opinioni su vari argomenti o le chiedeva di parlargli dei suoi viaggi o voleva sapere dei suoi progetti per il futuro.
Poi si rimetteva al lavoro, concentrandosi su ciò che faceva e nemmeno si accorgeva dello sguardo d'ammirazione e di tenerezza del giovane.
Col tempo, però, la ragazza s'accorse che dentro le stava nascendo un sentimento mai provato prima d'allora per un essere umano, ma respingeva con tutte le forze l'idea d'essersi innamorata del principe, perchè non voleva farsi illusioni inutili.
Lui, intanto, continuava ad interessarsi alla pittrice che aveva preso a chiamare "Sirenetta".
Le ore passarono senza che i due giovani se ne accorgessero; ma, infine, arrivò il giorno in cui il dipinto fu terminato e posto in evidenza sul caminetto che troneggiava nel grande salone.
Tania riponeva intanto i suoi attrezzi e di nascosto guardava quel suo piccolo capolavoro, un pò distratta da pensieri e sentimenti confusi che le circolavano nell'animo.
Ad un tratto, rialzando il capo vide, accanto al dipinto del principe, quel suo autoritratto ch'essa temeva d'aver smarrito o di aver rotto inavvertitamente. Non se ne era dispiaciuta poichè le sembrava che non le fosse riuscito molto bene.
Dunque, alzando gli occhi vide il piattino con il suo volto dipinto sopra: s'era ritratta di profilo e per una strana combinazione, guardava dritto negli occhi il ritratto, che aveva appena terminato, pure di profilo del principe. Stupita, Tania guardò il giovane che stava sorridendo e che le tendeva una mano.
In quel momento lei capì quanto anche lui l'amasse.
Tenendosi per mano uscirono dal palazzo reale e s'incamminarono verso il mare, sostando sotto l'immagine della sirena della favola, dove il principe le fece notare la sua somiglianza con la statua.
Lei sorrise, poichè l'aveva già capito da molto tempo, da quando lui aveva cominciato a chiamarla con quel nomignolo grazioso, Sirenetta.
Tania e Olden si sposarono tra grandi festeggiamenti e la giovane regina trascorreva molto del suo tempo a dipingere delicati paesaggi sulle ceramiche bianche che da tutti i paesi del mondo le inviavano continuamente in dono gli altri re... |
LEGGENDA DI NATALE - IL PASTORELLO
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Un bimbo, uno dei tanti che vivono abbandonati nella grande città, si aggirava chiedendo l'elemosina per le strade, affollate più del solito a causa del Natale imminente. Gente andava e veniva frettolosamente e solo alcuni si fermavano a dargli qualche spicciolo. Intanto, una pioggia fine e fredda aveva iniziato a scendere dal cielo incupito ed il fanciullo - che si chiamava Siro - non aveva nulla con cui ripararsi, tranne un giubetto un pò piccolo per la sua taglia.
Si fermò per un pò nell'androne d'un palazzo antico, ma ben presto il portiere di guardia lo mandò via. Corse sotto la pioggia, ora incalzante, finchè non giunse dinanzi ad una antica Cattedrale ornata di marmi e di statue.
Siro pensò che lì dentro sarebbe stato al sicuro per un pò ed entrò: la chiesa era illuminata dalla luce di molte candele che faceva splendere gli stucchi dorati delle cornici; le statue dei Santi disposte in piccole nicchie laterali lo guardavano con approvazione, senza severità e così si avviò per la lunga navata centrale. Nei banchi lucidi non c'era nessuno e avrebbe potuto distendervisi, quella notte, per riposare un poco. Doveva solo attendere la chiusura della Cattedrale. Siro fece appena in tempo a nascondersi alla vista del frate guardiano che come ogni sera faceva il suo giro, entrando in una grande cappella aperta sulla destra che, nella semioscurità, a tutta prima gli apparve affollatissima.
Era, invece, occupata da un Presepe, il più grande che avesse mai visto, realizzato con statue di gesso alte proprio come gli esseri umani: c'erano vecchi pastori con la barba, seguiti da greggi di pecore sempre di gesso ricoperte di vera lana... C'erano giovani con ampi mantelli, donnine dalle facce allegre e rubiconde che portavano ortaggi al mercato, mercanti con ceste ricolme di frutta, di formaggi, di pane. E, in una piccola capanna, due grandi statue stavano genuflesse, con il viso nascosto dalle pieghe dei mantelli. Il fanciullo, affascinato da quello spettacolo insolito, si fermò davanti al Presepe che gli sembrava una visione celestiale: il fuoco d'un braciere lì accanto scoppiettava ed egli vi si avvicinò per scaldarsi le manine infreddolite. Fece un paio di passi: un panettiere grasso e sorridente sciorinava sul bancone pane, panini al latte, dolci di varie specie, ciambelle dorate che sembravano appena sfornate.
Siro fu tentato e li toccò : erano proprio veri, croccanti e profumati! Così si sfamò prendendo un paio di panini, alcune ciambelle, un pezzo di carne che cuoceva sul fuoco d'un bivacco di pastori, bevve al fontanile davanti ad un casolare, colse un frutto maturo da un albero rigoglioso e carico. A Siro tutto ciò sembrava meraviglioso, ma non miracoloso: lui un Presepe se lo aspettava proprio così!
Il freddo della notte si faceva sentire, perciò tolse il mantello di pelle di pecora ad un pastorello più o meno della sua statura e, così coperto, si stese sulla paglia pulita e dorata che si trovava tra i due misteriosi personaggi della capanna. Nessuno l'avrebbe disturbato più per quella sera, perchè il guardiano aveva chiuso gli ampi portali della chiesa.
Scivolò quasi subito in un sonno profondo, ma prima di addormentarsi, tra veglia e sonno, aveva gettato un'occhiata alla donna china al suo fianco: tra i lembi morbidi del velo azzurro che le copriva la testa, gli era apparso un volto dolcissimo. S'addormentò subito con l'impressione che una mano leggera e tenera gli sfiorasse il capo ricciuto, mentre l'uomo dall'altra parte lo guardava sorridendo affettuosamente.
Si svegliò ch'era ancora buio nella grande chiesa, ma qualcuno, forse quello stesso frate guardiano della sera prima, si aggirava nella cattedrale pulendo ed accendendo lumini. Siro si alzò di colpo e, tutto coperto dal lungo mantello, si fermò accanto ad un folto gruppo di pastori dove poteva confondersi meglio. Il frate non si accorse di lui e non notò neppure la sparizione della poca roba che il ragazzetto aveva preso per rifocillarsi, e quasi subito disparve nella penombra della sagrestia.
Di lì a poco arrivarono i fedeli, mille candele furono accese e il fanciullo per non farsi scoprire, cambiava di posto ogni volta che si annunciava una nuova Messa, mangiava e beveva quando la chiesa era vuota, si riposava sul pagliericcio accanto alla donna velata e la sua sensazione di benessere aumentava di minuto in minuto.
Trascorsero così alcuni giorni e a Siro non pareva vero d'aver trovato un rifugio così accogliente; le uniche cose che gli mancavano erano un pò di moto e il non poter parlare con alcuno di quei personaggi che lo attorniavano.
Arrivò il 24 dicembre, Vigilia del Natale. Fu una giornata lunga e un pò penosa per Siro che, data la grande affluenza di gente, non poteva muoversi indisturbato come nei giorni precedenti; eppoi tutti si fermavano a guardare il Presepe commentando su quanto fosse magnifico.
Il fanciullo faceva degli sforzi enormi per non spostarsi dalla sua posizione, a volte si nascondeva dietro qualche albero frondoso o si stendeva in terra tra il gregge delle grasse pecore che lo coprivano quasi alla vista della gente. Durante l'ora del pranzo ci fu una piccola pausa e Siro, stanco di star fermo come in genere tutti i suoi coetanei, finalmente si scatenò saltando e facendo capriole sul folto muschio.
Poi arrivò la sera: molte Messe vennero celebrate nella chiesa illuminata a giorno ed affollatissima; gli occhi di tutti erano puntati sul Presepe ed il fanciullo fece il possibile per non esporsi agli sguardi di tanta gente.
Nell'aria aleggiava un forte odore d'incenso: stava per scoccare la mezzanotte ed un sacerdote magro e alto, preso dall'altare un Bambinello di gesso, andò a deporlo sulla paglia accanto a Maria e a S. Giuseppe, seguito dalla gente che sfilava in processione dinanzi alla Sacra Famiglia. Il Bambino era bellissimo - pensò Siro - aveva manine grassocce, aperte verso la folla come a voler accogliere tutti; indossava una tunichetta azzurra come un cielo sereno, dello stesso colore degli occhi che, ora, sembravano fissare proprio lui.
La funzione durò fino a notte alta, poi a poco a poco la gente defluì fuori della chiesa, ognuno con l'animo più leggero e tranquillo di quando era entrato.
In quella notte santa sembrava che esistessero al mondo solo pace e serenità.
Finalmente, nella cattedrale le luci si spensero e Siro potè muovere le gambe che gli dolevano dal tanto star immobile. C'era nell'aria una strana atmosfera e quale non fu la sua sorpresa quando, straordinariamente, tutte le statuine si animarono, dopo un'immobilità che durava da tanto, tanto tempo.
Si scrollarono di dosso la polvere che si era accumulata sopra di loro, salutandosi l'un l'altro con affetto.
Le pecore presero a belare, a brucare, a bere dal vicino ruscello, i bimbi a giocare, un pastorello suonava il suo zufolo e così via... Poi si raccolsero tutti in processione dirigendosi verso la capanna, per rendere omaggio al divino Bambino e ai due personaggi chini accanto a Lui.
Siro si era tenuto un pò nascosto, ma il pastorello con lo zufolo l'aveva intravisto nel folto degli alberi e gli aveva chiesto: "Sei nuovo tu?". "Sì!" rispose Siro senz'altri commenti e seguì il ragazzo che l'invitava ad accompagnarlo.
Ciascuno dei personaggi, giunto davanti al Bambino, si genufletteva ed Egli benediceva tutti con la piccola mano alzata.
Arrivò anche il turno di Siro il quale, timoroso, s'inginocchiò dinanzi alla culla di paglia, non osando però alzare gli occhi.
Ma il Bambino - che tutto sapeva - con voce dolcissima gli parlò, dicendo: "Siro, so quello che hai nel cuore, vorresti una casa, una famiglia, un rifugio e un pò d'amore, senza dover fuggire sempre, senza patire la fame... Se vuoi, puoi restare qui!".
Siro alzò verso di Lui due occhi neri e lucenti di lacrime e gli sorrise annuendo, poi si alzò e seguì il gruppo di pastori che si era fermato accanto al piccolo ruscello, intonando un canto di gioia per la nascita del Salvatore.
L'allegra festa durò tutta la notte: tutti danzarono, cantarono, risero e si sentirono felici, di quella serenità tranquilla che dà solo la Grazia. Verso l'alba tutti erano stanchi, persino il Bambinello che ora dormiva nella mangiatoia.
Anche Siro era sfinito dalle emozioni, ma prima d'addormentarsi si avvicinò di nuovo accanto alla Madonna e le sussurrò a bassa voce alcune parole.
Lei lo guardò con quei suoi occhi amorevoli e annuì con un lieve cenno del capo, guardando Suo Figlio e fece una carezza sul capo di Siro che, soddisfatto, si allungò sull'erba accanto alla capanna, in modo da essere vicino a Gesù al momento del risveglio.
... Ma al mattino dopo, non si svegliò, si sarebbe destato solo in un'altra magica notte di Natale, insieme a tutti i suoi compagni.
Siro era diventato un pupazzo di gesso come gli altri. Il suo volto, però,aveva perso quell'aria di tristezza e di solitudine, ora era sorridente e sereno in quel lungo sonno che aveva intrapreso.
Il suo gracile corpo scompariva quasi nell'erba alta, ma i neri occhi guardavano con riconoscenza quelli luminosi del Divino Bambino...
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LE STRADE DEI SOGNI
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Sapete quante sono le strade dei sogni? Sono innumerevoli e convergono tutte verso un'unica grande via di tutti i colori: man mano che vi camminerete sopra vi accorgerete che è davvero un lungo, lunghissimo e splendente arcobaleno che conduce nel mondo della fantasia.
Le vie dei sogni sono lastricate di pietre quadrangolari, ognuna di un colore diverso: sfumature di verde per i sogni d'avventura, il rosso per i sogni d'amore, il giallo per i sogni di chi cerca grandi tesori, azzurro per chi cerca fortuna e mille altri ancora.
A qualunque ora del giorno e della notte, le strade dei sogni sono affollate poichè gli uomini hanno turni di lavoro diversi: quelli che lavorano di giorno sognano di notte e viceversa.
Non appena addormentati, mentre i corpi stanchi dalle fatiche riposano, gli spiritelli dei sogni corrono allo scoperto, si inerpicano lungo invisibili sentieri, noti solo ad essi, e raggiungono il punto d'incontro da cui si dipartono le strade colorate, scorrevoli ed ordinate nonostante l'affluenza.
È cosa risaputa che sulle strade dei sogni c'è un gran movimento: frotte di bimbi, naturalmente, ma anche di adulti, uomini e donne di mezza età, taluni addirittura vecchissimi.
A sognare, difatti, non si rinuncia mai, nemmeno nell'attimo stesso della morte.
Ognuno sceglie una corsia, cioè un colore su cui marciare e si avvia lentamente formando una fila ordinata, l'uno dietro l'altro, ciascuno su una di quelle pietre quadrangolari ognuna delle quali rappresenta un sogno.
Unica regola da rispettare è che non si può avanzare sulla pietra successiva se non è libera e questo dipende dal sognatore che la sta occupando.
C'è, difatti, chi si ferma per lungo tempo poichè il sogno che sta vivendo è davvero bello e vorrebbe che non avesse mai fine... così si crogiola nel fantastico mondo in cui si è immerso...
Allora costringe il sognatore dietro di lui a saltare su una lastra di diverso colore, a destra o a sinistra non ha importanza, cambiando genere di sogno.
Ecco, quindi, che alle volte nel bel mezzo d'un sogno d'avventura, mentre si sta per approdare su un'isola sconosciuta e meravigliosa, il mare d'un verde smeraldo che si distende dinanzi agli occhi, il sognatore viene costretto in quello stesso momento a saltare su una lastra di diverso colore...
Ed ecco il mare si trasforma in una verde tavola da gioco e il timone, che stava manovrando per avvicinarsi all'isola, diventa una roulette su cui sta girando vorticosamente la pallina che designerà il vincitore d'un nutrito numero di gettoni d'oro...
Nessuno disdegna di sognare! Nemmeno quei distinti signori con bombetta e sigaro che s'intravvedono nei quartieri eleganti della città mentre camminano rigidi e impettiti come persi in un pensiero grave, importante (un grosso investimento da concludere? un impegno con un famoso personaggio della finanza?).
E invece sognano di vivere in campagna, a contatto della natura, della terra, di camminare su un tappeto di foglie e funghi, di osservare il sole che si alza maestoso nel cielo ogni mattina, di cogliere un frutto appena maturo da una pianta rigogliosa, di ascoltare la musica lieve e chiacchierina d'una nidiata di passerotti...
E quante di quelle persone che ogni giorno s'incontrano dietro il bancone d'un negozio o dietro lo sportello dell'ufficio postale o della banca, uomini e donne con facce comuni nè brutte nè belle, nè tristi nè sorridenti che quasi
quasi sembrano automi senza pensieri, hanno nella mente e nel cuore sogni infantili e sogni d'amore o d'avventura mai realizzati!
Durante il sonno, invece, per rifarsi d'un'esistenza noiosa, saltellano da una lastra all'altra, ogni volta un colore diverso e di volta in volta diventano una bellissima principessa, un grande attore, un famoso corridore...
I bimbi continuano nel sonno i loro giochi preferiti e sognano giocattoli ancora da inventare, si trasformano essi stessi in pupazzi straordinari, diventano simili agli eroi dei fumetti, invincibili ed immortali.
Sognano di incontrare i personaggi delle favole e della televisione, quelli già conosciuti o quelli che sono ancora in attesa d'esser chiamati ad interpretare un ruolo: un omino buffo e ridente con una valigia enorme e rigonfia, che sembra un venditore di carabattole, una fanciulla dotata di poteri meravigliosi, un mitico mostro preistorico...
Passo dopo passo, lungo le strade dei sogni, ognuno trova ciò che desidera di più.
Arrivati alla fine delle strade che confluiscono sull'arcobaleno, non vi sono più lastre di varie sfumature ma solo una via per ogni colore: i sognatori convergono ordinatamente su una delle corsie e proseguono il loro viaggio sul
nastro iridato come se fosse una magica scala mobile.
Giunti all'apice dell'arcobaleno, si guardano intorno: sotto di essi si stende il Regno della Fantasia dove i sogni si mescolano creando intrecci di mondi marini o stellari, di praterie deserte e di boschi popolati da gnomi, montagne di bignè alla panna montata, casette di zucchero e cioccolato per i più golosi.
Si odono voci che parlano lingue diverse, musiche chiassose d'oggidì e musiche sospese nell'aria da secoli.
Passato, presente e futuro si fondono insieme senza sosta...
Ma ecco, mentre si sta per scivolare dolcemente sino alle porte del Regno, le immagini corrono vorticosamente incontro a ciascun sognatore, lo sorpassano, si dileguano, diventano un'unica massa di colori e di suoni che si allontana rotolando...
E lui resta confuso e stralunato nel buio completo ed è talmente deluso che si sveglia e torna alla sua realtà quotidiana.
Peccato! Con un sospiro di enorme desolazione, i sognatori si alzano per affrontare una nuova giornata o un'altra lunga notte.
Ma, presto o tardi, si ritroveranno di nuovo sulle coloratissime e straordinarie strade dei sogni...
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GLI UOMINI DI VETRO (LEGGENDA DELLA CREAZIONE)
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In un paese dove il sole non tramontava mai, vivevano degli uomini di vetro che non risentivano affatto del gran calore intorno a loro.
Costruivano le loro case con enormi lastre di ferro, strane palafitte di metallo lucente con torri e cupole altissime che quasi toccavano il cielo.
Essi adoravano il sole che dava loro la luce ed il calore necessari per vivere e per onorare il loro dio, al centro di ogni casa, al di sotto della cupola più alta, ponevano un piccolo sole splendente ricavato da uno strano materiale che
abbondava nel deserto vicino al loro paese.
Quei piccoli astri bruciavano ed emanavano raggi luminosi.
Questi uomini di vetro, però, non erano felici: erano così delicati che non potevano nemmeno toccarsi perchè, altrimenti, sarebbero andati in frantumi e non potevano comunicare tra di loro in nessun modo, tranne che sfiorandosi lentamente con le palme delle mani alzate, producendo così un lieve suono argentino. Tutto lì.
Alle volte, nelle strade, qualcuno che andava un pò di corsa per raggiungere un luogo d'appuntamento, senza volerlo urtava un sasso, un palo, un altro essere come lui: cadevano a terra entrambi frantumandosi in mille pezzi, senza dir nulla se non quel flebile suono...
Venivano poi raccolti da uno dei numerosi spazzini che girovagavano per la città e gettati in una grande fossa al limitare del paese, dove non c'era altro che quel torrido deserto da cui prelevavano lo strano materiale per costruire i loro piccoli soli.
Ma vi si recavano soltanto di notte, poichè se si fossero esposti di giorno a quella luce così violenta sarebbe stato nocivo per quei loro corpi delicati: il forte calore che veniva dal cielo e dalla terra pietrificata avrebbe irrimediabilmente piegato i loro corpi trasparenti, contorcendoli in forme stranissime. Per questo desideravano che qualcosa avvenisse a modificare quella situazione.
Un giorno, il cielo sempre azzurrissimo si coprì di grosse nuvole grigie e minacciose che si scontrarono, di lì a poco, producendo tuoni e fulmini.
Gli uomini di vetro, che non avevano mai visto un simile fenomeno, alzarono il capo stupiti dagli effetti dei lampi e ne ebbero gran paura. Correvano terrorizzati in ogni direzione, scontrandosi coi loro compagni e frantumandosi al suolo, finchè il terreno intorno alle loro case non fu pieno dei loro resti.
Alcuni, pochi sopravvissuti, erano scampati a quell'ecatombe e si erano rifugiati nelle loro case, al riparo sotto le pesanti lastre di ferro.
Ma ora la pioggia cadeva torrenziale e dalle aperture essi si vedevano circondati dalla tempesta che infuriava: il cielo era nero, solcato a tratti da quegli orrendi fulmini saettanti che incutevano un terrore profondo.
Qualche saetta, attirata dal metallo, cadde sui tetti di alcune case ed anche esse si infransero rumorosamente a terra, sotterrandone anche gli abitanti.
La temperatura si era abbassata con l'infuriare della tempesta ed i piccoli soli brillanti non emanavano più calore sufficiente. La pioggia scendeva giù con gocce grosse come mele mature che cadessero dagli alberi, così pesanti che colpendo il terreno riarso da secoli, producevano delle enormi buche, oppure distruggevano intere abitazioni.
Gli esseri di vetro alzavano i loro trasparenti volti al cielo, cercando un segno di schiarita, ma non ve n'erano, tendevano le loro esili mani verso quei piccoli soli lucenti, ma da essi non proveniva più nemmeno un piccolo raggio: il buio della tempesta aveva accecato quegli occhi luminescenti e persino il loro benefico calore.
La pioggia cadde per giorni e giorni senza sosta, impetuosamente e il cielo, non più rischiarato dal sole, si stendeva nero e minaccioso. Tutto il paese giaceva sotto l'acqua: si era inabissato senza più rimedio!
L'unico luogo ancora abitabile era proprio il deserto che circondava il paese, dove ora il sole non bruciava più come prima.
I pochi superstiti vi si recarono in massa per recuperare almeno un pò della strana materia luminosa e incandescente con cui avevano plasmato quelle piccole stelle che avevano brillato nelle loro case.
Il deserto s'era però coperto anch'esso d'acqua e soltanto là, dove prima c'erano i giacimenti della sostanza luminosa, si erano formate larghe isole di terra fertile su cui, come per magia, cominciava già a spuntare l'erba verde, fine e morbida.
Tra un'isola e l'altra, si stendevano ampie distese d'acque tranquille che ricopriva quello che una volta era stato un deserto.
I sopravvissuti cominciarono ad organizzarsi e decisero di costruire una città su queste piccole isole, unendole con dei ponti fatti con le lastre di ferro che una volta erano state usate per le abitazioni.
Edificarono nuove case con la terra mista ad acqua ed erba e costruirono grandi
barche perchè ora la comunicazione tra le varie isole si sarebbe svolta solo così.
Intanto, l'acqua s'era popolata di pesci e le terre emerse s'erano vestite di alberi che producevano frutti succosi e sostanziosi.
Gli uomini di vetro, a contatto con quella nuova natura provarono gli stimoli della fame e della sete e si cibarono dei nuovi prodotti.
I loro corpi persero così la trasparenza e la fragilità d'una volta, sull'esile struttura di prima se n'era formata un'altra di carne ed ossa che li rendeva meno deboli.
Diventarono esseri umani che potevano ora comunicare tra loro, parlare, toccarsi e procrearono altre creature e si diffusero su tutte le terre che spuntavano dalle acque...
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LA FINESTRA FATATA (LEGGENDA DI EDELWEISS)
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In un castello dalle mille torri viveva una bella principessa che si chiamava Edelweiss.
Viveva completamente da sola nelle immense stanze del vecchio palazzo e non si rammaricava di questo, vi era abituata sin da piccola.
Difatti, appena nata, una vecchia maga bisbetica l'aveva rapita ai suoi genitori e l'aveva trasportata in quel luogo solitario dove l'aveva allevata senza mai farsi vedere. Si era resa invisibile e la curava con attenzione, non facendole mancare mai nulla: giocattoli, dolciumi, bei vestitini, animaletti che le tenevano compagnia...
Gli anni passarono e la principessa divenne una fanciulla bellissima ma triste: si aggirava nelle stanze del castello annoiandosi per la maggior parte della giornata o fantasticando su una sua improbabile fuga.
Vedendola così mesta la maga s'impietosì ed una mattina le fece trovare un regalo davvero eccezionale: una finestra fatata da cui poteva vedere tutto il mondo e tutto ciò che vi succedeva, bastava solo che lei lo desiderasse. Finalmente qualcosa che la distraeva dalla sua solitudine!
La ragazza ora passava il tempo affacciata a quella magica apertura ed ogni cosa a cui pensava si materializzava sotto i suoi occhi. Ma la magia durava solo pochi attimi; dopo poco tutto spariva e a principessa si ritrovava davanti il solito paesaggio d'ogni giorno.
Comunque, Edelweiss si divertiva molto ad osservare il mondo da cui per tanti anni era stata separata: faceva apparire di volta in volta delle giostre su cui giocavano bambini allegri, spiagge ombreggiate da palme e barche di pescatori che giungevano a riva cariche di pesci multicolori, bancarelle di fiori e di dolciumi, un circo al completo con giocolieri, trapezisti, belve feroci e domatori che si esibivano soltanto per lei...
Insomma, tutto quello che la fantasia e i libri - di cui il castello era fornito e che Edelweiss aveva letto avidamente durante quegli anni - le potevano suggerire, accadeva sotto il suo sguardo attento e incuriosito.
Però essa non poteva parlare con le creature che andavano e venivano sotto la sua finestra nè intervenire in alcuna azione e quindi dopo un pò ricadeva nella malinconia poichè, nonostante tutto, era sempre sola.
Ritornava allora ai suoi libri e leggeva in specie storie d'avventure e d'amore.
Cominciò a chiedersi se avrebbe mai conosciuto un giovane con cui dividere i suoi pensieri e la sua vita. Vi pensava spesso ed un giorno, affacciata alla finestra fatata, desiderò ardentemente di veder comparire un ragazzo della sua età.
Detto e fatto: sotto di lei, sulla strada stretta e pericolosa che portava al castello, apparve un cavallo nero montato da un giovane cavaliere dal mantello rosso e correva spronando il suo destriero senza esitazioni.
Stava avvenendo tutto quello che Edelweiss desiderava ma, giunto alle porte del maniero il giovane si fermò di botto, non potendo proseguire, come se si fosse trovato dinanzi ad un muro invisibile.
La maga s'era difatti premunita per evitare che la principessa potesse venire a contatto con estranei.
Edelweiss osservava la scena affacciata alla sua finestra e sperava che il giovane - poichè proprio di un bel giovane principe si trattava - riuscisse a vincere la magia e a raggiungerla.
Il cavaliere scese a terra e cercò in ogni modo di forzare quell'invalicabile muraglia; ma tutti i suoi sforzi erano inutili: non riusciva nè a fenderla nè a valicarla!
Guardò in alto verso la principessa e, mandandole un bacio sulla punta delle dita, le gridò: "Farò tutto il possibile per arrivare sino a te. Abbi fede!".
La giovinetta lo salutò a sua volta con la mano e si ritirò nella sua stanza dove continuò a pensare a lui, sognando ad occhi aperti.
Come avrebbe potuto aiutarlo? Non aveva alcun mezzo, sola com'era in quel grande castello sperduto sulla montagna...
Il principe s'era accampato dinanzi alla porta ed anche lui pensava al da farsi, chiedendosi quale fosse il mezzo per giungere alla giovane.
Intanto, era caduta la notte ed un vento freddo e furioso costrinse il ragazzo ad intabarrarsi nel suo mantello rosso ma, ecco... un'idea improvvisa guizzò nella sua mente: allargò le falde del mantello e, approfittando del turbinio del vento, s'innalzò nell'aria come un uccello dalle forti ali, battendole vigorosamente.
Arrivò fin quasi alla finestra fatata ma la maga, ch'era accorsa non appena s'era accorta di quanto stava accadendo, soffiò in senso contrario; il principe si ritrovò in terra, di nuovo davanti alla porta del castello.
... Spuntava l'alba e il cielo era orlato d'oro e di rosa, gli uccelli si risvegliavano ed intrecciavano voli nell'aria e il castello non appariva così irragiungibile. Il principe, che aveva iposato un pò, alzò lo sguardo verso la
finestra da cui Edelweiss stava già salutandolo.
Il giovane s'arrampicò allora su di un albero secolare ed altissimo che s’innalzava proprio dinanzi alla rocca, dove avevano costruito il nido alcune aquile reali dalle ali ampie e forti che avrebbero potuto sostenerlo.
Aveva portato con sè le redini e gli speroni che usava per spronare il cavallo e sulla testa aveva calzato l'elmo per difendersi dal becco aguzzo dei rapaci.
La scalata non fu facile e ancora più difficile fu affrontare gli uccelli che tentarono di colpirlo sul capo e sulle spalle ma egli era protetto dall'elmo e da una cotta di ferro.
Riuscì ad imbrigliare una delle aquile, mentre l'altra gli volteggiava attorno, sbattendo le grandi ali e puntandolo come una preda.
Ma con un colpo di spada il principe riuscì a tagliarle il capo di netto e, montato a cavalcioni su quella legata con le redini, le puntò gli speroni contro i fianchi.
Quella, gridando con voce acuta s'innalzò nel cielo chiaro e, guidata dal giovane si diresse verso l'alto del castello.
La maga, che era stata tutta la notte all'erta per sventare ogni attacco, ricorrendo alle sue arti magiche inviò uno stormo di condor che reggevano nel becco ognuno un capo d'una rete a trama molto fitta, tessuta d'un materiale così duro che nemmeno il becco dell'aquila riusciva a scalfirla.
I condor circondarono l'uccello cavalcato dal ragazzo e fecero calare su di lui la rete, imprigionandoli ambedue e conducendoli verso terra dove le estremità della rete vennero conficcate nel terreno a colpi di becco.
Ma Edelweiss vigilava sul giovane e desiderò fortemente che nelle sue mani apparisse una scure: il principe l'afferrò e uccise dapprima l'aquila che stava pericolosamente attaccandolo e poi spezzò le dure maglie della rete, uscendone
immediatamente e scacciando i condor.
Non si dava per vinto, avrebbe tentato tutto pur di raggiungere lo scopo che si era prefisso.
L'aiuto della fanciulla era limitato: quando la maga aveva capito che essa desiderava davvero che il principe riuscisse nell'impresa, subito aveva diminuito il potere della finestra fatata.
Il cavaliere riprese un pò le forze, riposando sotto l'ombra dell'enorme albero mentre il sole s'alzava sempre più nel cielo.
Così potè pensare ad un altro piano di battaglia: si sfilò la cotta di maglia di ferro che indossava e pazientemente la disfece, formando una lunghissima corda, avvolgendone un capo attorno a un dardo della balestra che era appesa
alla sella del cavallo
Aspettò pazientemente per lungo tempo, attendendo che il sole arrivasse allo zenit ed illuminasse tutto il castello che divenne quasi trasparente poichè era costruito con una pietra di quarzo scintillante, rendendo visibile anche la maga che si trovava affacciata ad una delle finestre.
Il giovane prese il dardo, mirò e lo scoccò verso la maga: la freccia saettò nell'aria a tutta velocità portando con sè la lunga corda e, arrivata al bersaglio, prima ancora che la vecchia potesse usare la sua magia, si conficcò nel suo cuore.
Tutto s'era ormai compiuto: Edelweiss era libera!
Il principe potè finalmente raggiungerla utilizzando la corda tesa ed abbracciarla per la prima volta. Parlarono, parlarono per lunghe ore e si accorsero che erano fatti l'uno per l'altra e decisero di sposarsi.
Poichè la giovane non sapeva chi fossero i suoi genitori ed il principe aveva lasciato nel suo regno due fratelli che avrebbero governato al suo posto, decisero di restare nel castello di quarzo bianco dalle mille torri, dove vissero una vita felice.
La finestra fatata aveva ormai perso il suo potere magico, ma i due giovani avevano ormai tutto ciò che desideravano e non se ne dolsero affatto.
Quando giunsero alla fine della loro vita, si abbracciarono e attesero serenamente la morte.
Ma, prima che essa potesse ghermirli, avvenne qualcosa di meraviglioso: il castello si trasformò in pietra e le sue mille torri divennero mille cime nevose.
Il principe prese la forma d'un rosso papavero dalle foglie grigio argentee, mentre Edelweiss diventava un bellissimo fiore bianco dai petali vellutati.
Continuarono così a vivere l'uno accanto all'altra sulla cima dell'inaccessibile montagna, senza che alcun essere umano osasse disturbarli...
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LA PRINCIPESSA ALTERA (LEGGENDA DEL CALENDIMAGGIO)
In un paese dell'Asia viveva una principessa così bella che nessuna delle altre fanciulle del suo regno poteva starle alla pari.
La fama della sua bellezza oltrepassò i confini del suo paese e molti principi accorrevano alla sua corte solo per vederla, offrendole i loro servigi e recandole preziosi regali che essa spesso disdegnava.
A causa di tale bellezza la principessa era oltremodo orgogliosa e superba della leggiadria che madre natura le aveva donato.
Nel suo cuore arido e avido non crescevano che egoismo ed alterigia e nel camminare ergeva superbamente la testa sfidando ogni sguardo.
Dio volle punirla per il suo comportamento ed un giorno che si era mostrata più insensibile che mai, trasformò la principessa in una vecchina piccola piccola che, per via d'un gran dolore alla schiena era costretta a camminare piegata in due, col volto perennemente rivolto verso terra.
A quella trasformazione la principessa si disperò ma senza neanche versare una lacrima, senza invocare perdono; non potendo più svolgere la sua vita di prima, si allontanò dal suo palazzo e si trasferì in una casetta ai margini del bosco.
La vita, laggiù, era già tanto dura ma lo fu ancora di più per la principessa che era abituata ad essere circondata e servita da paggi e cameriere e dame che obbedivano senza fiatare i suoi ordini, eppoi... dover guardare sempre in
terra era davvero una terribile punizione! Esser ridotta in quello stato! Dov'era la sua bellezza di cui era stata così fiera! Era una vita, questa, che non valeva la pena di vivere!
Un giorno, girovagando per il bosco in cerca di qualche frutto da mangiare e di un pò di legna da ardere vide, posato su un grosso tronco che spuntava dal terreno, un piccolo grillo dalla magnifica corazza verde intenso che ad ogni raggio di sole brillava di tutti i colori dell'iride.
La vecchina si avvicinò affascinata e delicatamente lo prese tra le dita, dicendo ad alta voce: "Anche tu che eri così libero ed altero, fiero della tua bellezza, ora sei ridotto a strisciare sulla nuda terra per vivere!".
Il grillo, difatti, non poteva più volare a causa di una ferita ad una elitra. La vecchina portò con sè l'animaletto, con dei robusti giunchi gli costruì una intelaiatura che gli manteneva ferma l'aluccia ferita e lo tenne in una gabbietta.
Lo accudiva con grande affetto, procurandogli dei piccoli vermi e dell'erba che il grillo divorava allegramente, regalandole in cambio il suo canto perenne che le dava una grande gioia.
Trascorsero così lunghi mesi in cui i due si tennero compagnia, ma un giorno il grillo, inspiegabilmente, tacque: la sua elitra andava guarendo rapidamente, già si sentiva tanto forte da poter vagabondare in libertà e il ritrovarsi rinchiuso gli metteva addosso una tale malinconia che non gli permetteva di cantare.
La vecchina comprese ciò che il grillo aveva in animo e a malincuore si avvicinò alla gabbietta per liberarlo: lacrime di commozione e di rammarico le corsero giù per le gote avvizzite, cadendo sulla dura corazza verde dell'animaletto.
Essa non aveva mai pianto fino ad allora, nè quand'era bella e superba e sfidava gli uomini e la vita, nè in quella sua nuova esistenza in cui era così costretta e curva verso terra. Nemmeno allora, mentre si sentiva morire perchè le sembrava una punizione ingiusta... Ma adesso anche il suo cuore s'era trasformato: amava le piccole creature che la circondavano, animali e piante e si sentiva disposta ad amare anche il genere umano.
Quelle lacrime furono una liberazione: man mano che essa piangeva il suo corpo si faceva più forte, si raddrizzava, riprendeva le sue sembianze giovanili e, specchiandosi in un piccolo ruscello lì accanto, si vide più bella di prima.
Immensa fu la sua gioia: poteva di nuovo guardare il cielo e le sue creature, poteva fissare negli occhi gli altri esseri umani e comunicare con loro.
D'ora in poi non avrebbe pensato solo a se stessa ed alla sua bellezza, avrebbe aiutato i suoi simili, raccontando loro la sua storia, la punizione e la grazia ricevute, avrebbe sparso intorno a sè letizia e serenità.
Prese delicatamente tra le mani il grillo e lo baciò ringraziando anche lui, lo liberò ed attese che s'involasse festoso tra le erbe. Poi tornò al castello dove fu accolta benevolmente dai dignitari di corte e dai servi che gioirono con lei di quella sua trasformazione.
La principessa regnò nel suo paese con bontà e saggezza, chiunque chiedesse aiuto l'otteneva, chiunque avesse bisogno d'un consiglio a lei si rivolgeva ed essa si prodigava, era magnanima coi peccatori pentiti, severa con i malvagi impenitenti. La sua reggia era anche diventata un rifugio per gli animali abbandonati o feriti che convivevano insieme tranquillamente, belve o domestici che fossero.
Ogni tanto un piccolo grillo con le ali forti e sicure s'introduceva nel suo giardino e le indirizzava un canto gioioso che le riempiva l'animo. Era il suo piccolo amico che tornava a trovarla.
La fama delle sue virtù, più che quella della sua bellezza, si diffuse per tutti i regni e molti principi si recavano da lei sperando di poterla sposare, ma lei gentilmente rifiutava.
Un giorno, un principe venuto da molto lontano le offrì in regalo una minuscola gabbia d'oro in cui cantava un grillo meccanico che muoveva lentamente le piccole ali tempestate di pietre preziose.
La principessa accettò con gioia quel dono che le toccava il cuore e, poichè il principe che glielo recava era non solo bello e potente, ma saggio e buono, accettò anche di diventare sua moglie e lo seguì nel suo paese d'origine dove vissero felici per lunghi anni.
La storia della principessa altera e del grillo venne tramandata di generazione in generazione ed ancor oggi, in primavera, in suo ricordo, centinaia di grilli canterini vengono venduti per le strade, racchiusi in piccole gabbie di giunco.
Bimbi e adulti, dopo aver ascoltato i loro suoni armoniosi li rimettono in libertà perchè possano continuare a vivere e cantare allegramente...
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LA STORIA DELL'ARCOBALENO
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In un prato, decine di farfalle svolazzavano di fiore in fiore, mescolando profumi e nettare.
Era una bella mattina di primavera, l'aria era tiepida e tersa ed i colori della natura stupendamente vivi e brillanti.
Improvvisamente nel cielo sereno apparvero enormi nuvoloni scuri che minacciavano pioggia: non passò molto tempo e grosse gocce caddero sul gran prato, spazzando via teneri steli d'erba e i bei fiori splendenti.
Le farfalline tentarono di sfuggire al gran temporale battendo disperatamente le loro fragili ali e cercando riparo sotto qualche grosso fungo o nelle corolle dei fiori più adulti.
Ma era inutile: pioveva con tanto vigore che le loro ali, appesantite dall'acqua, non riuscivano a sollevarsi con il solito ritmo e i poveri animaletti furono costretti a restare immobili nel prato fino alla fine dell'acquazzone.
Poi, finalmente, nel cielo apparve un pallido sole che, lentamente, asciugò gli steli d'erba, le piante ed ogni altro essere lì intorno. Anche le farfalle, ormai asciutte, si rimisero in volo, riprendendo i loro giochi di fiore in fiore.
Ma, guardandosi l'un l'altra si accorsero, con gran stupore, che le loro belle ali variopinte erano diventate incolori, trasparenti, quasi invisibili.
Cosa ne era stato delle mille sfumature rosee, gialle, turchine che le rendeva così belle? si lamentarono tutte in coro disperandosi.
- Non temete - disse la flebile vocina d'un folletto delle farfalle apparso improvvisamente tra i fiori. - Rassicuratevi, è solo un effetto momentaneo. I vostri colori sono scivolati via dalle ali, ma presto ritorneranno. Guardate in cielo: lì sono i vostri colori! -
Le farfalline guardarono, dunque, nel cielo poco prima grigio di pioggia: ora era terso e azzurro ed era attraversato da un lunghissimo arco iridato che risplendeva di sette colori!
- Eccoli! - gridarono le farfalline e tutti i fiori, tutti gli animaletti del prato si fermarono a guardare quella meravigliosa visione che s'era formata nell'aria.
Improvvisamente, l'arcobaleno svanì così com'era apparso, lasciando nel cielo un gran vuoto; nello stesso momento, le ali delle farfalle ritornarono a dipingersi delle solite fulgide striature ed esse, tutte contente, ripresero a svolazzare, più felici che mai.
Ma, ogni volta che nella volta celeste appare l'arcobaleno, le ali delle farfalle diventano incolori, trasparenti, quasi invisibili... |
Continua
Le immagini con l'asterisco vengono ai siti:
https://www.animalpedia.it/perche-il-pavone-fa-la-ruota-1024.html
https://www.italcasadecor.com/Product/1979/
http://www.sapere.it/sapere/approfondimenti/animali/uccelli/cicogna-bianca.html
https://arteantonio.oneminutesite.it/
https://luli118961.wordpress.com/2008/04/29/sei-la-luna/sei-la-luna-2/
http://lamatitadargento.altervista.org/2017/03/20/la-bella-la-bestia-2017/
http://www.flickriver.com/photos/themycia/sets/72157624347979734/
http://articolidaiana.over-blog.it/article-curiosita-pesciolino-rosso-87373268.html
https://aforisticamente.com/2017/01/07/frasi-citazioni-aforismi-su-tartaruga/
https://www.ebay.it/itm/ANTICA-MARIONETTA-BURATTINO-IN-CARTAPESTA-1800-CON-VESTITI-ORIGINALI-PASTORE-/132772490738?oid=401564384885
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https://it.wikipedia.org/wiki/Statua_della_Sirenetta
-https://it.wikipedia.org/wiki/File:Pastorello_Abruzzese.jpg
- https://blog.libero.it/stradeoniriche/13345550.html
- https://it.depositphotos.com/128862030/stock-photo-three-glass-men-figures.html
- https://ilgiardinodeltempo.altervista.org/stella-alpina-linguaggio-dei-fiori/
http://www.eticamente.net/59080/il-significato-dellarcobaleno-il-legame-tra-cielo-e-terra.html
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