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PRESENZA E ATTRAZIONE DEL CULTO MARTIRIALE NEI TITULI ROMANI*

DI ALESSANDRO BONFIGLIO


(tratto da Rivista di Archeologia Cristiana 86, 2010, pp. 195-242).


 

Lo studio sui legami che intercorrono fra i tituli della Chiesa di Roma e il culto dei santi ha come base di partenza e punto di riferimento i documenti relativi ai due sinodi romani che si svolsero rispettivamente nel 499, sotto il pontificato di Simmaco (1), e nel 595, al tempo di papa Gregorio Magno (2).
Il confronto delle differenti denominazioni dei tituli, così come attestate sulle liste delle sottoscrizioni presbiteriali ai due documenti sinodali suddetti, resta fino ad oggi di problematica interpretazione.

A parte gli accenni sporadici e quasi pionieristici che ci rimangono nell’opera di C. Pietri (3) e nonostante nella pratica non siano mancate presso gli studiosi posizioni diverse rispetto all’orientamento tradizionale, la mancanza di uno studio globale e di sintesi fa sentire ancora oggi il peso di una letteratura ormai datata e superata, secondo la quale nell’arco di circa un secolo, quello che segna cioè la distanza fra il sinodo simmachiano e l’altro di Gregorio Magno, le modifiche delle nomenclature dei tituli si sarebbero realizzate attraverso una triplice possibilità di alterazione, sostituendo il nome del fondatore originario con quello di un santo, assimilandolo al nome di un martire omonimo o infine elevando al grado di santo lo stesso conditor, molto spesso con la sanzione di un’apposita leggenda di fondazione (4).

Una simile lettura di queste particolarissime attestazioni testuali risulta però impostata su un criterio alquanto meccanicistico nella sua linea interpretativa ed inoltre sembra essere frutto di un pregiudizio, retaggio di quell’assioma sulla continuità fra domus ecclesiae e tituli romani (5), che implicitamente e in non pochi casi prospetta la falsa possibilità di far risalire i nomi dei titolari agli antichi proprietari di quei primi quanto archeologicamente evanescenti stabilimenti cristiani, facendo perdere di vista il vero contesto storico delle fondazioni, spesso ricostruibile attraverso dati di supporto archeologici o letterari dai notevoli risvolti.

liturgiche, in particolare dal Martyrologium Hieronymianum, le cui scarne ed essenziali notizie costituiscono spesso, per l’argomento qui trattato, la più antica (431) e preziosa attestazione dei culti esistenti presso le chiese urbane di Roma; a questi importanti riscontri si accostano, dal VI secolo, da un lato le sempre indispensabili informazioni sulle chiese titolari fornite dalle biografie papali del Liber Pontificalis, possibilmente tratte da più antiche fonti d’archivio (6), e dall’altro i racconti romanzati delle passiones romane, che dietro le loro trame fantasiose registrano a volte concreti percorsi cultuali.
Questa cospicua serie di elementi complementari alle due liste sinodali contribuisce, come vedremo, ad un più corretto inquadramento delle denominazioni dei diversi tituli, minando il rigore logico dell’usuale interpretazione di inizio Novecento. Attraverso l’interpretazione di questi dati di natura così divergente si potrà infatti osservare che la venerazione dei santi presso i tituli non è un fenomeno giunto a maturazione solo nel tardo VI secolo, cioè secondo le denominazioni registrate nel 595, ma affonda le sue radici già in epoca anteriore a quella della stessa lista di Simmaco.

 

 

L’USO DEL TERMINE SANCTUS E LE SUE IMPLICAZIONI


Le liste delle sottoscrizioni presbiteriali ai sinodi romani, come accennato sopra, segnano dal 499 e al 595 un formale e completo passaggio verso la ‘santità’ dei titolari e, fra i due documenti, quello di epoca simmachiana merita certamente una maggiore attenzione per l’importante possibilità di lettura che ci offre nella sua genuinità compositiva, sottolineata da un libero e spontaneo modus scribendi del clero titolare, che però, proprio per questo, costituisce allo stesso tempo un limite per la definizione di una regola generale nella classificazione delle denominazioni dei tituli e di conseguenza dei culti che in essi si individueranno.

È da osservare innanzitutto, sulla base delle fonti letterarie in nostro possesso, come ancora nel IV secolo la prassi romana non utilizzi l’epiteto sanctus in riferimento ad un martire – ne abbiamo una palese dimostrazione nelle celebrazioni indicate dalla Depositio martyrum (7) –, ma a partire dallo stesso secolo il termine, interscambiabile con quello di beatus (8), è già impiegato dall’epigrafia cristiana nell’aggettivazione della parola martyr ed in sé ha un valore meramente onorifico, applicabile perciò come un qualsiasi attributo a persone degne di particolare rispetto (9), quali potevano essere anche i presunti benemeriti fondatori dei tituli romani.
Nel VI secolo i titolari indicati come santi (10) godono certamente di un culto, ma ciò che interessa sapere è se questa venerazione loro tributata esista già almeno un secolo prima e in particolare in relazione ad alcune precoci attestazioni di sanctus.
Infatti non è proprio vero, a ben vedere, che la lista del 499 ci fornisce esclusivamente i nomi di titolari per così dire laici, nel senso che gli stessi nomi non sono preceduti dall’appellativo sanctus, ma essa sembra piuttosto ‘fare economia’ di quell’epiteto, per usare un’espressione di Pietri (11), dato che alcuni tituli lo portano e, secondo lo stesso studioso, detengono quindi già a quella data il patrocinio di un santo e non il nome di un conditor (12).
Ad una prima superficiale analisi della lista, scorrendo l’elenco delle sottoscrizioni presbiteriali nella loro edizione critica, notiamo infatti un titulus sanctae Caeciliae (13), un altro sanctae Sabinae (14), un titulus sancti Matthaei (15), il titulus sancti Clementis (16) e quello sancti Laurenti, l’unico attestato sotto questa forma per ben due volte (17).


Si tratta di un primo dato oggettivo che insinua il dubbio se dietro queste menzioni, assimilabili di primo acchito quasi a delle interpolazioni o ad anacronistiche sviste volendole rapportare alla lista del 595 (18), non ci siano invece delle motivazioni più significative, cioè se fin dalla loro fondazione alcuni dei tituli romani non siano stati effettivamente legati al culto di un santo propriamente detto.
Dal necessario confronto della lista del 499 con quella del 595 colpisce in tal senso il riferimento relativo al titulus Apostolorum, dedicato già nel sinodo del 499 agli apostoli (Pietro e Paolo) (19), cioè con sicurezza assoluta a dei santi (20), che nel 595 diventa, conformemente al meccanismo che coinvolge le nomenclature degli altri tituli, titulus sanctorum Apostolorum (21); esso costituisce una prima importante conferma alla precedente supposizione e parallelamente proprio la stessa irregolarità dell’uso di sanctus, ancora nel V secolo, rappresenta uno stimolo a ricercare eventuali figure agiografiche nascoste anche dietro altri nomi di titolari considerati nella storia degli studi come evergeti fondatori solo perché non preceduti da quell’appellativo. Per le eccezioni segnalate oltretutto, ancor prima del sinodo del 499 abbiamo attestazione dalle fonti dei nomi dei titolari indicati come santi.

San Clemente I Papa

Per Clemente le tracce del patrocinio del santo sono già nel IV secolo, valutando obiettivamente la bontà di una menzione anteriore al 385 (22), da parte di Girolamo (23), in riferimento alla chiesa che a Roma, come afferma lo stesso, conserva il ricordo di Clemente e per la quale prima del sinodo del 499, già al 417, è attestata una riunione del clero romano convocata da papa Zosimo proprio in sancti Clementis basilica, come riporta la fonte (24).

L’epigrafia fa invece menzione di una ‘santa’ Cecilia titolare al Trastevere fra il 379 ed il 464 (25), mentre il Liber Pontificalis, seppur nella sua redazione di VI secolo ma secondo un rapporto fra committenza e titolarità dell’edificio di culto di agevole individuazione, riferisce chiaramente della fondazione delle basiliche che portano i nomi del ‘beato’ Lorenzo, edificata per munificenza di papa Damaso (26), e di ‘santa’ Sabina, finanziata dal presbitero Pietro d’Illiria sotto Sisto III (27), dando quindi prova di una loro più precoce venerazione presso le rispettive postazioni titolari.

Per la comprensione dei meccanismi che sovrintendono alle denominazioni dei tituli romani, la problematica dell’uso discontinuo e del significato proprio dell’appellativo sanctus si intreccia anche con la questione inerente le dediche dei primi edifici di culto cristiani di Roma.

All’inizio del IV secolo la prassi romana appare restia ad attribuire gli edifici di culto al nome dei martiri che vi erano sepolti (28), come si ricava dalla ben nota e curiosa espressione del c.d. Catalogo Liberiano circa la basilica cimiteriale del martire Valentino (29), oggetto per questo di qualche diatriba scientifica (30).

L’‘esitazione’, per dirla ancora con Pietri (31), del redattore del Catalogo Liberiano ad accettare la dedica di un edificio di culto ad un santo rivela che a Roma non era ancora consuetudine intitolare ai martiri le chiese, ma senza dubbio il fenomeno era già in via di formazione; per comprenderne la precocità bisogna considerare che la stessa dedica a Dio, d’altronde, costituiva già una novità per i cristiani, i quali, finite le persecuzioni, vedevano sorgere i primi edifici di culto pubblici. Fino ad allora, per oltre tre secoli, nessun luogo di riunione infatti era stato dedicato a Dio, cioè era stato ritenuto sacro, concepito quale dimora di Dio come per i pagani, ma la sacralità aveva coinciso per lungo tempo con la stessa assemblea che si riuniva per la celebrazione dell’Eucaristia, l’Ákkles… appunto (32).

Un cambiamento era però in atto e nella seconda metà del IV secolo, proprio dal titulus costituito da papa Damaso, ci giunge l’attestazione di un edificio di culto dedicato a Dio sotto il patrocinio del martire Lorenzo (33), secondo quella che è considerata da alcuni la più antica prova della dedicazione di una chiesa romana (34).
L’iscrizione di per sé non parla esplicitamente di una dedica dell’edificio di culto e il patrocinio del santo, secondo la formula adottata, più che alla stessa chiesa, se nel linguaggio letterario intendiamo tecta metonimia di ecclesia (35), sembra indirizzato principalmente alla persona del pontefice committente (36).

Tuttavia, nel VI secolo, il Liber Pontificalis ci dà su questo qualche ragguaglio in più, riferendo della fondazione della basilica come eretta a S. Lorenzo (37) e distinguendo inoltre fra ecclesia vera e propria e titulus (38), quest’ultimo da considerarsi successivo all’atto fondativo della basilica e comprendente come nozione lo stesso edificio di culto e le altre strutture afferenti necessarie alla cura animarum di quella porzione di territorio urbano (39).

Più tardi, sotto il pontificato di Innocenzo I (401-417), un’altra notizia più circostanziata nei dettagli riferisce similmente di una chiesa dedicata ai SS. Gervasio e Protasio, successivamente costituita in titulus (40).

Queste menzioni provano di fatto non solo le prime forme di dedicazione delle chiese di Roma a dei martiri, ma anche, cosa di non poco rilievo, la coesistenza di una doppia denominazione dei tituli romani, una per così dire laica, relativa all’evergete fondatore, aristocratico o ecclesiastico, e l’altra sacra, riferita alla chiesa e quindi al culto impiantato in essa (41), gettando in questo modo nuova luce sulla comprensione delle liste da noi considerate.

Abbiamo infatti, al 499, un titulus Damasi (42) con una chiesa dedicata a S. Lorenzo, che nel 595 è attestato come titulus sancti Damasi (43), quando anche il papa fondatore gode ormai di culto, così come il titulus Vestinae del sinodo simmachiano (44) è poi registrato nel VI secolo come titulus sancti Vitalis (45), figura agiografica legata ai SS. Gervasio e Protasio (46), titolari della chiesa secondo il Liber Pontificalis.
Potremmo dire che il titulus porti in questi casi il nome del committente, mentre l’ecclesia quello del dedicatario, cioè il santo titolare, ma il dato, seppure molto interessante, ad uno sguardo globale non assurge purtroppo a regola generale e la mutevolezza delle attestazioni rende impossibile collocare i tituli romani, a seconda delle loro denominazioni, entro rigide griglie di classificazione (47).
Si evince tuttavia un elemento incontestabile e di primaria importanza per il nostro studio: la prova della presenza di culti martiriali ab initio, al momento stesso della fondazione di queste due chiese titolari, a partire almeno, considerando fra esse l’esempio più antico di S. Lorenzo, dalla seconda metà del IV secolo, cioè dall’età damasiana.

 

LA PROMOZIONE DEL CULTO MARTIRIALE SOTTO DAMASO

 

In epoca predamasiana possiamo constatare che solo la basilica edificata da papa Giulio (337-352) a Trastevere ed eretta iuxta Callistum, come segnalato dal passo del Catalogo Liberiano (48), cioè presso un luogo legato al ricordo del papa e martire Callisto, costituisce un unicum, fra le più antiche fondazioni cristiane urbane che nel 499 saranno registrate come tituli (49), per il precoce riferimento di carattere martiriale fornitoci dallo stesso agiotoponimo, seppur non vi sia un’assoluta coincidenza fra chiesa e luogo della memoria, ma una semplice relazione di prossimità (50).

Per il resto, le laconiche notizie tradite dalle fonti letterarie si limitano a brevi cenni di valore storico, ma spesso senza espliciti riferimenti alla dedica dell’ecclesia e addirittura alla stessa funzione di titulus romanus: così per la basilica di papa Marco (336) (51) e per quella di papa Anastasio I (399-401) (52), attestate al sinodo del 499 come postazioni titolari con le denominazioni, rispettivamente, di titulus Marci (53) e titulus Crescentianae (54), o per un’ecclesia Marcelli (55) che appare in merito all’elezione di papa Bonifacio (418), senza alcun’altra specificazione su quello che è poi indicato al 499 come titulus Marcelli (56).

San Callisto Papa



Più complessa, invece, la questione sulla fondazione dell’epoca di papa Silvestro (314-335), per la quale l’anomala doppia menzione, all’interno della medesima biografia del papa, delle donazioni fatte prima al titulus Equitii (57) e poi ad un titulus Silvestri (58) è interpretata come un’interpolazione di VI secolo attraverso cui il redattore del Liber Pontificalis cercò di spiegare il culto del papa impiantato solo successivamente, quando la postazione titolare si dotò di una basilica dedicata a Silvestro (59)

Al contrario, dopo la fase damasiana, presso alcune di queste più antiche fondazioni abbiamo significativamente qualche traccia di venerazione verso i loro santi titolari.
Il culto di papa Marco è attestato, per esempio, nel titulus che ne portava il nome già sotto il successore di Damaso, Siricio (384-399), presso una sorta di fastigium individuato nella navata laterale occidentale della chiesa (60) e di cui le evidenze archeologiche conservano una piccola edicola (61) ed un’iscrizione frammentaria di imitazione filocaliana (62).

San Marco Papa



Il ricordo di Silvestro presso il titulus Equitii trova invece la sua più antica testimonianza nella dedica di una lampada votiva databile tra la fine del IV secolo e l’inizio del V (63).

In altre fondazioni titolari, anch’esse considerate fra le più antiche e per le quali una serie di elementi converge direttamente verso il pontificato di Damaso, i culti dei santi sembrano invece legati alla stessa istituzione del titulus. Nel 377, cioè proprio entro l’arco cronologico del regno di Damaso, abbiamo la più antica attestazione di un titulus Fasciolae (64), la cui denominazione è riferibile ad un toponimo (65) secondo una tradizione antica con cui si identificava il luogo dove l’apostolo, in fuga da Roma attraverso l’Appia, aveva perduto le bende dalle caviglie maltrattate dai ferri della prigionia, come attestato più tardi, entro la prima metà del VI secolo (66), da una passio (67).

A S. Clemente, come anticipato sopra, il culto per il titolare trova riscontro prima del 385, all’epoca di Girolamo (68), che di Damaso fu segretario; per stabilire se il suo culto nel titulus del Celio sia attestato sotto Damaso (69) o nel ponficato di Siricio (70), l’attribuzione deve tener certamente conto della cronologia della chiesa, per la quale si può discutere di un insediamento religioso predamasiano, successivamente dotato di basilica secondo due distinte ipotesi di ricostruzione, sotto Siricio oppure nel lasso di tempo contenuto dai pontificati di quest’ultimo papa ed il suo secondo successore, Innocenzo, ma da considerarsi comunque indipendente dal vincolo cronologico imposto dalla presunta dedica siriciana (71).

Per quanto riguarda S. Anastasia, l’intervento damasiano nella chiesa, precedentemente eretta, si fonda sul ricordo delle sillogi epigrafiche di una decorazione musiva attribuita a Damaso e menzionata da un’iscrizione d’apparato posta sull’abside al tempo di papa Ilaro (461-468) (72) e, pertanto, il dibattito verte sul fatto se papa Damaso procedette alla costruzione ex novo di una chiesa o alla ridedicazione di un edificio già esistente (73), come sembra più probabile, ma di fatto non esiste alcun riferimento ad altra Anastasia e al sinodo simmachiano il titulus Anastasiae (74) si riferisce già alla martire di Sirmio, considerato che, intorno al 440-461 (75), Leone I aveva pronunciato un’omelia proprio in basilica sanctae Anastasiae (76).

Sant'Anastasia

Infine, accanto a questi impliciti riferimenti all’attività damasiana presso i tituli romani, abbiamo il dato dell’ecclesia del titulus Damasi dedicata, come affrontato precedentemente, al martire romano Lorenzo secondo il documento epigrafico (77) e secondo la notizia del Liber Pontificalis (78).

Il valore politico-religioso del ricco patrimonio di fede costituito dal foltissimo stuolo di martiri, a partire dagli stessi apostoli Pietro e Paolo, vanto e radice della Chiesa di Roma, come si sa, era stato riconosciuto da Damaso e da esso traeva spunto la sua intensa attività di ricerca e di valorizzazione delle loro memorie nel suburbio della città.

Sembra che si debbano attribuire a questo pontefice anche gli stessi prodromi di una topografia martiriale urbana quale quella che si svilupperà attraverso la rete delle chiese titolari, con lo stesso intento politico ed apologetico che già ispirava la sua attività nei cimiteri. L’introduzione dei culti martiriali presso le chiese edificate entro il circuito delle mura urbane non poteva, infatti, che rientrare appieno nella pubblicistica damasiana sul primato romano
(79).

Questo aspetto dell’attività di Damaso, nonostante l’esiguità dei riferimenti a nostra disposizione, è rilevabile nelle linee guida degli interventi riconducibili alla sua iniziativa, nei quali le motivazioni che vi si intravedono risultano molteplici e di ampio respiro idealistico, ma a volte con un senso anche più pragmatico.

La scelta di dedicare la personale fondazione urbana al martire Lorenzo, ad esempio, il titolare più adatto per le sue peculiarità di “arcidiacono per eccellenza della Chiesa romana” (80) e quindi di “logico protettore del suo pontefice” (81), “colui che, durante la sede vacante, dopo la morte nel 258 del pontefice martire Sisto II, ne fece le veci” (82), non poteva che rispondere appieno alle aspirazioni della politica damasiana (83) – e d’altra parte a Lorenzo “la Pars Orientalis dell’impero contrappose Stefano, attribuendogli una medesima mansione in alternativa alla scelta operata nella sede romana” (84) –, così come risulta coerente con questi obiettivi il tentativo di stabilire o comunque di valorizzare un ricordo petrino urbano nel titulus c.d. della fasciola.

In questo contesto di idee poi, l’introduzione del culto di S. Clemente sotto Damaso si connotava certamente di una sintomatica valenza ideologica per la definizione in senso politico del tradizionale rapporto di Roma con le altre Chiese dell’Orbis christianus, sul quale la curia romana in questo periodo lavorò intensamente (85).
La scelta ricaduta sul papa autore di quella lettera ai Corinzi considerata da certi studiosi come una sorta di ‘epifania’ del primato romano (86), pur senza voler cedere con questo ad anacronistiche forzature, non era certamente casuale.
La potezialità di questa figura agiografica non sarà sfuggita all’attenta politica di Damaso e d’altra parte l’individuazione di queste valenze non è pura speculazione degli studiosi moderni, se qualche tempo dopo l’assemblea antipelagiana riunita da Zosimo sceglieva proprio la basilica di quel Clemente che la stessa fonte definisce in funzione antieretica imbutus beati Petri apostoli disciplinis (87), come qualcuno ha fatto notare (88).
Questa promozione del culto dei santi a vantaggio di una convalida giuridica al primato d’onore ed alla speciale sollecitudine pastorale della Chiesa di Roma risultava in certi casi addirittura concretamente connessa con le emergenze politico-religiose del tempo, come per la dedica del titulus del Palatino alla martire Anastasia di Sirmio, attribuibile al contesto della complessa questione sulla giurisdizione romana dell’Illirico, allora contesa dalla Chiesa di Costantinopoli (89).
Il carattere pubblico di queste fondazioni privilegiava inoltre la dedica al santo dei medesimi tituli, oltre che delle loro ecclesiae, riferendogli il nome ( 90), come per Anastasia (91) o per il caso di Clemente (92), o alludendo ad oggetti specifici – reliquie o semplice metonimia? – che si legano ad episodi della loro vita (fasciola) (93).

Accanto a queste fondazioni promosse direttamente dalla Chiesa non mancarono comunque quelle di iniziativa privata a cui papa Damaso avrà potuto dare il suo imprimatur, anche se risulta dubbio, al riguardo, l’intervento del pontefice su quelle legate ai tituli celimontani dove si stabilì la venerazione per i martiri Giovanni e Paolo e per i SS. Quattro Coronati, per i quali la connessione con alcuni frammenti di iscrizioni damasiane rimane molto incerta (94).
In ogni caso, è stato fatto notare che, ad un livello pratico e di gestione del territorio, l’introduzione del culto dei santi nelle fondazioni private costituiva un utile strumento per stabilire l’autorità del papa sulla stessa fondazione, creando un forte ‘trait d’union’ con la Chiesa (95) contro il sorgere delle prime divergenze fra l’aristocrazia evergetica e la gerarchia ecclesiastica romana riguardo alle modalità gestionali dei tituli e della loro dotazione di beni (96), fenomeno di cui si può osservare il sintomo nella stessa letteratura agiografica che, nel contesto di questo non sempre sereno rapporto, sembra fornire e proporre, ad un attento esame, il modello del benefattore ideale, dalla carità esemplare, in antitesi con la situazione effettiva che vedeva invece i ricchi donatori di allora avanzare i propri diritti sulla gestione delle fondazioni, enfatizzando parallelamente il ruolo degli ecclesiastici nella costituzione dei tituli, se non si assisteva addirittura, in certi casi, alla stessa clericalizzazione dei conditores storici, facendone cioè dei personaggi appartenenti alla gerarchia ecclesiastica (97).

Inoltre, l’intervento della Chiesa nelle fondazioni di matrice privata e con carattere devozionale, nella ricerca di forme per una reciproca collaborazione con quelle facoltose famiglie da cui spesso provenivano gli stessi membri del clero, evitò altresì il rischio di una privatizzazione della venerazione dei martiri (98), dato che la stessa classe aristocratica, avendo già colto le potenzialità del culto dei santi ed intravedendovi una garanzia ed una risorsa importante per l’accrescimento del proprio prestigio sociale, non di rado si trovò a tessere le maglie di una fitta rete di scambi privati di reliquie (99).

 


LE MODALITÀ DI INSTALLAZIONE DEI CULTI MARTIRIALI


Pietri suppose precocemente, nel corso dei suoi numerosi studi che toccarono indirettamente questo argomento, la possibilità della preesistenza, alla fondazione, di un ricordo locale dei martiri, cioè di tradizioni cristiane legate a zone del territorio urbano, poi assorbite e trasformate in culti dalle postazioni titolari che vi si insediarono. Lo studioso presenta la possibilità di un “souvenir local” sia in relazione al ricordo trasteverino di Callisto100 – seppure non escluda l’eventualità che lo stesso Giulio abbia stabilito un oratorio e creato egli stesso l’occasione per la pietà popolare come presso la tomba dell’Aurelia101 –, che in riferimento a cappelle od oratori dedicati alla memoria di papa Silvestro102 o di Sisto II103, presso i rispettivi tituli che nel VI secolo ne portarono il nome e quindi ne assicurarono il culto. Il fenomeno ha una certa plausibilità in età damasiana riguardo al titulus Fasciolae, secondo le considerazioni di cui si è detto, ma negli altri casi mancano concreti appigli, anche se non si può non convenire con Pietri sul peso che un’eventuale leggenda possa avere, in generale, sulle dinamiche cultuali e di conseguenza sulle dediche di chiese e tituli.

L’esempio della fondazione di papa Giulio al riguardo lascia molto riflettere. Se infatti in un primo momento la vicinanza al luogo del ricordo callistiano determinò l’assimilazione del culto martiriale, così come è ufficialmente sanzionato al sinodo del 595, che parla di un titulus sancti Iulii et Calisti104, successivamente proprio ad una tradizione105, per altro non direttamente connessa con la basilica – l’erronea identificazione avverrà solo nel XII secolo106 –, si deve l’origine di un nuovo culto, questa volta di carattere mariano107, che si tradusse concretamente in un cambio di dedica, attestato sotto il pontificato di papa Adriano I (772-795) in un [titulus] sanctae Dei genetricis semperque virginis Mariae quae vocatur Calisti trans Tiberim108. Sta di fatto, inoltre, che nelle postazioni titolari coincidenti con le più antiche fondazioni cristiane la prassi cultuale ad un certo momento risultò così consolidata da far sì che fossero poi trascurate dai redattori di leggende che a partire dal V-VI secolo si occuparono dei santi delle chiese titolari109. Valga per tutti l’esempio del titulus Lucinae, dove l’interesse devozionale dovette essere tutto focalizzato sul martire Lorenzo110, tanto che Lucina, personaggio per altro di abusata presenza nelle passiones romane111, non solo non suscitò alcuna attenzione da parte degli agiografi in riferimento al titulus che ne portava il nome112, ma addirittura il suo presunto intervento venne dirottato, per così dire, verso la fondazione del vicino titulus Marcelli113. A cosa si dovesse in questi casi un tale radicamento cultuale – esisteva una tradizione o vi era un catalizzatore? Una reliquia? – è una domanda che putroppo rimane aperta. Se non proprio con l’elemento leggendario, il culto dei santi fu infatti concretamente connesso con la presenza di vere e proprie reliquie.

L’elemento della depositio risulta una pratica introdotta nell’Occidente cristiano dalla Chiesa di Milano di epoca ambrosiana (114), quando si ebbero non solo le prime dedicazioni di chiese, ma parallelamente anche le prime deposizioni di reliquie (115). Se questa città, infatti, non godeva certamente della disponibilità dei numerosi martiri che onoravano le origini cristiane di Roma – lo stesso Ambrogio dice testualmente sterilem martyribus ecclesiam Mediolanensem (116) –, l’attività di ricerca con le inventiones dei martiri locali e le translationes delle reliquie di quelli stranieri permisero al suo vescovo la riproposizione del modello santuariale romano (117). Al di là del fattore devozionale, le invenzioni di reliquie compiute dallo stesso Ambrogio “con sapiente regia” costituivano caso per caso, nel corso di quei complessi momenti storici, “un capolavoro di psicologia politica” (118). Egli imitò, perciò, Damaso nell’uso politico-pastorale del culto dei santi, ma in più, svincolandosi dalla plurisecolare prassi romana di preservazione delle sepolture, che vietava qualsiasi forma di manomissione, con la possibilità di prelevare reliquie primarie (119) poté anche avvalersi della disponibilità di prestigiose reliquie attraverso le quali veicolare il culto dei martiri milanesi, diffondendolo strategicamente presso le altre Chiese.

Definire con precisione i livelli e i tempi di ricezione di quest’uso ambrosiano da parte di Roma, fino a diventare un fatto sistematico, non è cosa semplice, specie nelle fasi iniziali (120). Di certo anche la presenza di reliquie e il loro impiego nella fondazione dei tituli non poteva che rientrare appieno nella pubblicistica sul primato romano inaugurata da Damaso (121).
Sappiamo con sicurezza che solo al tempo di Gelasio (492-496) (122), quando ormai il ciclo delle fondazioni titolari si era concluso, una disposizione papale rendeva obbligatoria la deposizione di reliquie per le fondazioni di matrice privata (123), per cui il punto di partenza per delineare la natura e l’entità del fenomeno nell’ambito romano delle chiese titolari è la già citata notizia del Liber Pontificalis relativa alla fondazione del titulus Vestinae, forse non a caso legata a dei martiri milanesi (124). La dedicazione della chiesa, edificata per generosità e devozione della inlustris femina Vestina sotto papa Innocenzo, sembra infatti presagire una deposizione di reliquie e in particolare quelle dei martiri Gervasio e Protasio, stando ai titolari dell’ecclesia. Spiegarsi per quali vie queste reliquie da Milano siano giunte a Roma non è facile (125).

Se la Vestina in questione abbia avuto rapporti con l’ambiente milanese, magari per importanti incarichi politici assunti dal marito, è solo un’ipotesi (126). Il Delehaye fece notare però la presenza di un presbitero di nome Leopardo, identificabile secondo lo studioso con l’omonimo che nel 390 venne mandato a Milano da papa Siricio per risolvere controversie dottrinali (127) e che avrebbe potuto ottenere e portare a Roma le importanti reliquie, suggerendo magari l’idea di dedicare la chiesa ai due martiri (128) e importando, secondo quanto osservato in più recenti studi (129), anche la stessa versione ambrosiana del rito di dedicazione con depositio reliquiarum.
Tuttavia, il successivo prevalere della dedica al martire Vitale al sinodo del 595 (130), ponendo allo stesso Delehaye il problema della presenza delle reliquie di questo santo, che nel 390 non erano ancora state ritrovate, seppure lo stesso ammetta i casi di incoerenza fra titolarità delle chiese e depositi reliquiari contenuti (131), gli fece ritenere più verosimile rispetto all’ipotesi di una seconda e successiva deposizione nel titulus romano l’eventualità di un’unica provenienza delle reliquie dell’intero gruppo dei martiri Vitale, Gervasio e Protasio direttamente da Ravenna (132), dove erano state portate nel 409 da Milano, in occasione del trasferimento di Galla Placidia (133), secondo una possibilità per altro contemplata più recentemente anche dalla Cecchelli, che per l’importazione del culto in Roma guardò all’occasione del prolungato soggiorno ravennate dello stesso papa Innocenzo I, realizzatore del titulus (134).

Al di là di tutto ciò, il riferimento del Liber Pontificalis costituisce comunque, senza ombra di dubbio, la più ampia testimonianza letteraria a noi nota su come si dovesse svolgere la dedicazione di un titulus, con l’installazione di un culto martiriale possibilmente attraverso la deposizione di reliquie, e seppure nella notizia non se ne parli esplicitamente l’omissione può essere facilmente arginata attraverso i dati provenienti da un consistente campione di tituli, che non fa del titulus Vestinae un caso isolato e dell’uso di deporre reliquie un fenomeno di natura occasionale.


Se non abbiamo concrete tracce di reliquie per fondazioni damasiane dedicate a martiri romani, assume certo più consistenza l’idea che la dedica del titulus Anastasiae da parte di Damaso possa essere stata accompagnata da una deposizione delle reliquie della martire di Sirmio (135). Dei presupposti diversi esistono infatti per i tituli dedicati a martiri stranieri, proprio similmente al caso del titulus Vestinae, le cui reliquie potevano essere, pertanto, facilmente importate ed accolte dalla Chiesa romana, restia sì alla violazione delle tombe e alla frammentazione dei corpi dei propri martiri, ma disponibile, naturalmente, a ricevere quelle provenienti dalle altre Chiese.

Il caso più illustre è d’altra parte il deposito di reliquie del titulus celimontano dei SS. Giovanni e Paolo che la tradizione considerò come una sepoltura martiriale ed ebbe addirittura la fortuna di diventare l’unica tappa intramuranea del pellegrinaggio di VII secolo alle tombe dei martiri romani (136); si trattò infatti di prestigiose reliquie ex ossibus di martiri, a quanto pare orientali (137), importate nella città di Roma.

La straordinaria possibilità offertaci in questo caso dalle testimonianze archeologiche è purtroppo limitata dalla complessa e mai risolta situazione stratigrafica relativa alla basilica, al loculo che accolse i venerati resti ed alle strutture sottostanti (138).
Tuttavia, da un altro titulus romano proviene un’interessante quanto più leggibile prova archeologica che va verso l’individuazione di un deposito di reliquie e ancora una volta in relazione ad una provenienza straniera delle stesse.


Le ultime acquisizioni, infatti, individuano nel titulus Crysogoni un’installazione comprendente un loculo in fase con le strutture più antiche della chiesa ed in corrispondenza con la successiva confessio (139), interpretato come il luogo per l’alloggiamento delle reliquie del martire di Aquileia, secondo la Cecchelli ottenute da papa Innocenzo I durante quella permanenza a Ravenna, che abbiamo già segnalato per i SS. Gervasio e Protasio, e che, per la stessa studiosa, consentì al pontefice una maggiore familiarità con la situazione religiosa dell’Italia settentrionale in generale, e quindi anche l’importazione di culti e reliquie propri di quel territorio (140).
A ciò si aggiunga il caso del titulus Apostolorum costituitosi sotto il pontificato di Sisto III per custodire anch’esso una reliquia, anche se questa volta di origine prettamente romana, che conserviamo addirittura ancora oggi, e cioè quella veneratissima delle catene della prigionia romana di Pietro (141)

San Crisogono

Quattro Santi coronati

Inoltre, accanto a queste più esplicite testimonianze, esiste per altri tituli una serie di dati testuali che in forma indiretta, ma non meno efficace, forniscono risultati coerenti al percorso fin qui tracciato sull’installazione di culti martiriali tramite una dedicazione accompagnata da depositio di reliquie. Non sono trascurabili, infatti, alcuni interessanti lemmi del Martyrologium Hieronymianum appartenenti all’originaria redazione che, come per la celebrazione romana di S. Crisogono di Aquileia, segnata al 24 novembre (142), sicuramente legata alla sua venerazione nel titulus del Trastevere, custode delle reliquie (143), secondo il riscontro archeologico di cui si è detto, forniscono l’indicazione di culti martiriali presso postazioni titolari anch’esse molto probabilmente in possesso delle reliquie di quei santi.
Si consideri, ad esempio, il lemma dell’8 novembre che localizza la venerazione dei SS. Quattro Coronati ad Coelio monte (144). Pietri spiega la notizia come la conseguenza di un arrivo delle reliquie dei martiri pannonici collocabile fra il 354, quando la Depositio martyrum ne indica ancora la venerazione in comitatum (145), cioè a Sirmium, loro città d’origine, e il secondo quarto del V secolo, in relazione proprio al riferimento del martirologio, ponendo la traslazione nella seconda metà del IV secolo entro un primitivo ambiente del Celio (146).

La proposta di lettura di Guyon (147) vede invece la notizia del Martyrologium Hieronymianum al massimo come un’estensione del culto verso la postazione titolare del Celio a partire dalla catacomba della Labicana dove era praticato ancora senza la presenza delle reliquie, con qualche riserva che di fatto lo orienta verso una cronologia più bassa del culto celimontano, passando dal V al VI secolo e puntando sulle attestazioni sinodali del 499 che ignorano la dedica ai martiri (148).
Lo studioso propone infatti l’alternativa di un temporaneo trasferimento cultuale in coincidenza con le vicende delle guerre gotiche, dopo le quali, con la ritornata sicurezza nell’area cimiteriale, il ripristino della sede cultuale della Labicana vide anche, secondo lo stesso Guyon, la collocazione delle reliquie nel frattempo giunte dalla Pannonia insieme alla passio originale, che a sua volta produsse uno sdoppiamento della tradizione agiografica, quella relativa ai veri martiri pannonici e l’altra sui SS. Quattro Coronati, anonimi ma ormai romani e venerati al titulus del Celio.

Al di là delle differenze ricostruttive, soggette comunque e purtroppo alla particolare esiguità delle fonti letterarie conosciute, rimane di fatto innegabile la traccia di una presenza cultuale presso il titulus del Celio, senza o magari con le reliquie dei martiri, almeno al 431, stando al Martyrologium Hieronymianum, e probabilmente in connessione con la fondazione dello stesso titulus per il quale la dedica ai SS. Quattro Coronati è formalmente attestata solo nella lista del 595 (149).

Un secondo lemma, quello dell’11 agosto, segna la venerazione di una certa Susanna ad Duas Domos iuxta Diocletianas (150), un toponimo (151) che si riferisce cioè al titulus urbano noto nel 499 come titulus Gai (152). Che si tratti anche in questo caso dell’importazione di reliquie, quelle di una qualche Susanna alla quale più tardi il racconto agiografico diede una storia romana (153)?


Possiamo constatare in tal senso che il redattore della passio, nel VI secolo (154), sembra aver messo ordine alla serie di elementi che possedeva, dimostrando però di non conoscere il luogo esatto dell’originaria sepoltura cimiteriale di Susanna, forse perché mai esistita, e trovandosi in sostanza a dover spiegare le origini di un culto che già si praticava presso quel titulus (155) all’epoca della compilazione del Martyrologium Hieronymianum per l’appunto o magari ancor prima, nel 401, secondo il riferimento di un autore di quell’epoca (156), e cioè anche in questo caso precedentemente alla stessa attestazione del 499 (157).

Nel caso del titulus dedicato a Sabina poi, altre fonti concorrono alla definizione della titolare, ma nella stessa direzione in-dicata fin qui dal geronimiano.
Sia l’iscrizione musiva in situ158 che il Liber Pontificalis (159) presentano il facoltoso presbitero Pietro d’Illiria come conditor storico della chiesa realizzata fra i pontificati di Celestino I (422-432) e di Sisto III (432-440) e mai menzionano alcun personaggio di nome Sabina (160), eccetto che per la chiesa, indicata dallo stesso Liber Pontificalis come basilica sanctae Savinae (161); non è fuori luogo pensare che reliquie di una S. Sabina, molto probabilmente quelle dell’omonima martire umbra, venerata a Vindena (162), siano state utilizzate per la dedicazione dell’edificio di culto, considerando per altro, come si è osservato all’inizio di questo studio, che il titulus compare già nel 499 nella forma di titulus sanctae Sabinae (163), oltre che in quella di titulus Sabinae (164.)

In quest’ultimo caso la presenza delle reliquie costituì un fattore determinante nella scelta del titolare della postazione cristiana collocata in cima all’Aventino: al nome del presbitero Pietro non venne infatti riferita in alcun modo l’impresa da lui finanziata, seppure la committenza non abbia avuto quel carattere collettivo che in genere permetteva una piena intitolazione al santo di tutto il complesso, oltre che dell’edificio di culto (165).
D’altra parte, allo stesso modo, altri tituli detentori di reliquie non fanno di S. Sabina un caso eccezionale: per il titulus trasteverino che conservò le reliquie di Crisogono, nonostante le fonti storiche in nostro possesso non permettano di chiarirne l’aspetto evergetico, sembra infatti evidente che il Crisogono del 499 fosse già il santo di Aquileia (166), ma soprattutto per l’esempio del titulus Apostolorum possiamo affermare decisamente che la presenza della reliquia incise ufficialmente su un’intitolazione rivolta al culto congiunto dei due apostoli Pietro e Paolo (167), preminente su quella relativa ad una committenza di carattere addirittura imperiale (168), e per di più lo stesso venerato cimelio fece sì che dall’inizio del VI secolo la denominazione della chiesa si incentrasse ufficiosamente, sia per un effetto di automatismo associativo sia per un’effettiva prevalenza cultuale, su Pietro e la sua reliquia delle catene (169).

Catene di S. Pietro conservate
nella chiesa di S. Pietro in Vincoli, Roma

Nel valutare, quindi, secondo quali modalità si verificò il collegamento dei culti martiriali con i tituli romani, come primo elemento, e forse più antico, possiamo ritenere quello della preesistenza di un ‘ricordo locale’, in senso leggendario.
Per il resto, nella maggior parte dei casi, si constata che il culto di un santo può essere ricondotto ad un semplice ‘patrocinio’ del martire sulla chiesa, a cui si abbina non di rado, negli esempi più prestigiosi, la presenza delle sue ‘reliquie’ (170). I successori di Damaso così, mutatis mutandis, emularono presto il vescovo di Milano nell’uso di deporre reliquie, nuovo per l’Occidente, introducendo i culti martiriali presso le chiese edificate entro il circuito delle mura urbane con lo stesso intento politico ed apologetico che già ispirava l’attività edilizia intorno alle sepolture dei martiri, tanto più che in questo frangente storico il prestigio della Chiesa romana rischiava di essere messo in ombra proprio da quello della sede milanese, arricchita per altro in questo periodo anche dalla presenza imperiale oltre che dall’azione rinnovatrice del suo intraprendente pastore (171).

Difficoltà materiali, tuttavia, si dovettero facilmente presentare per il reperimento delle reliquie da utilizzarsi nelle dedicazioni delle chiese titolari. Lo stesso Ambrogio, che aveva introdotto la prassi a Milano, nella lettera alla sorella Marcellina riportava: Nam cum basilicam dedicassem, multi tamquam uno ore interpellare coeperunt dicentes: ‘Sicut in Romana basilicam dedices’. Respondi: ‘Faciam si martyrum reliquias invenero’ (172).


Ora la Chiesa milanese, come abbiamo accennato, seguendo nella gestione delle reliquie l’uso orientale, era più facilitata nel loro reperimento ma dovette fare i conti con la concentrazione delle sepolture martiriali rintracciate dallo stesso Ambrogio in un’area circoscritta della periferia urbana – in contrasto col modello romano dei santuari martiriali disposti ‘ad anello’ attorno al centro abitato (173) –, integrando perciò per le altre necessità cultuali con reliquie di santi estranei alla città (174).

La Chiesa di Roma, tenendo in considerazione gli esempi che abbiamo finora analizzato, si può ben dire che per l’approvvigionamento di reliquie per la dedicazione delle chiese urbane dipendesse quasi esclusivamente dall’apporto generoso e spontaneo delle altre Comunità dell’Orbe cristiano in possesso di venerate spoglie di martiri e sostanzialmente dall’Illiria e dall’Italia del nord (175).

La dedicazione di una chiesa ad un santo, quindi, doveva forse limitarsi al patrocinio specie nel caso di tituli dedicati ad antichi martiri romani. Questo è sicuro per S. Clemente, il cui titulus non poté certamente custodire reliquie di un pontefice di età subapostolica, dato che la stessa passio risultava composta proprio per la necessità di spiegare l’assenza in Roma del sepolcro e, quindi, delle sue reliquie (176).
Il culto martiriale, però, non attecchì indistintamente presso tutti i tituli, neanche sotto la forma del semplice patrocinio, e tale carenza si avverte certamente nella funzione ‘sacralizzante’, molto vicina nello scopo a quella delle reliquie che i tituli più fortunati avevano ricevuto, attribuita alle cc.dd. ‘leggende di fondazione’ composte fra il V ed il VI secolo.

In questo gruppo di racconti agiografici si osserva, infatti, la tendenza ad infarcire di elementi mitici le origini delle chiese titolari attraverso la narrazione delle gesta, spesso eroiche, di quei santi loro anacronistici fondatori, secondo uno spirito finalizzato evidentemente a colmarne le lacune cultuali, enfatizzando in senso spirituale la storia della fondazione e di conseguenza il luogo dove esse sorgono (177). Così, secondo l’agiografia, le domus presso le quali erano stati installati certi tituli romani erano appartenute ora ad illustri personaggi di età apostolica, come il senatore Pudente (178), ora a gloriosi testimoni della fede, come Ciriaco (179).

Santa Cecilia

L’ecclesia del titulus Praxedis era stata teatro di scene di persecuzione (180), mentre gli altri tituli sorgevano addirittura sul luogo stesso del martirio, santificati dal sangue versato dalla vergine Cecilia (181) o muti testimoni del martirio incruento di papa Marcello (182), del presbitero Eusebio (183). È sintomatico al riguardo come, a differenza dei casi sopracitati, nei racconti sui martiri il cui culto aveva invece sede da tempo nei tituli romani non si avvertisse la necessità, per un’eventuale garanzia di prestigio, di inserirvi decisi e chiari riferimenti alle stesse chiese titolari.
Ciò si verificava in relazione al culto trasteverino di Callisto, il cui racconto non contenne alcun cenno esplicito non solo al titulus (184), ma anche alla specifica consistenza del contiguo ricordo callistiano (185), o per S. Clemente, nella cui passio il riferimento ad un’ecclesia risultava talmente anonimo da esserne messa in dubbio, nella storia degli studi, persino la sua stessa identificazione con quella del titulus (186).

Questo aspetto, se si osserva bene, risulta spiccatamente manifesto soprattutto per i racconti agiografici sui santi titolari di quelle chiese che ne custodivano anche le reliquie. Ritroviamo ad esempio, nella passio Alexandri, un breve riferimento alla reliquia della catena di Pietro (187), ma senza nessun cenno al titulus entro il quale era conservata e venerata (188), anzi la stessa reliquia compare in quel racconto quasi come un elemento certificante, solo come si confà ad una realtà di riconosciuto prestigio e valore, e incuriosiscono soprattutto passiones come quella composta per Anastasia e Crisogono, che proprio per giustificare i culti dei due santi già installati presso le rispettive chiese titolari si limitava a farne dei personaggi nati a Roma e martiri nelle loro vere località d’origine, senza alcuna esplicita relazione con i tituli loro dedicati (189).

Allo stesso modo il rapporto del titulus dei SS. Quattro Coronati con l’area del martirio dei cornicularii (190) era accennato dal laconico riferimento al templum Asclepii in termas Traianas (191), sito in quella zona del Celio (192), e la stessa dubbia e travagliata interpretazione in chiave tutta romana dei toponimi della passio Sabinae, allo scopo di definirne il legame col titulus dell’Aventino (193), ben delinea i termini della questione qui esposta. Inoltre in questo contesto fanno eccezione solo apparente racconti agiografici come quelli sui SS. Giovanni e Paolo o su S. Susanna, che invece bene sfruttano il ‘background’ delle chiese titolari di appartenenza, ma molto probabilmente, in questi casi, solo per l’esigenza da parte dei redattori di attribuire personalità più definite a figure agiografiche fino ad allora anonime, seppur già venerate presso le relative basiliche.
Il legame fra tituli e culti martiriali in alcuni casi e per qualche motivo non si poté sempre realizzare. Le chiese titolari prive di particolari presenze cultuali erano state probabilmente anch’esse dedicate come le altre, ma a quanto pare senza la deposizione di reliquie, né con una specifica intitolazione ad un santo.

Fanno riflettere al riguardo alcune attestazioni del Martyrologium Hieronymianum che ricordano le celebrazioni di Ciriaco (194), di Eusebio (195), con i nomi accompagnati dall’espressione conditor tituli. Si trattò evidentemente non di santi, ma degli stessi evergeti fondatori (196), e la celebrazione segnata nel geronimiano era pertanto, proprio come avviene ancora oggi, un ricordo della dedicazione della chiesa titolare, annualmente celebrata in quel giorno. Se si considera che molte celebrazioni di santi venerati nei tituli romani, e non solo, sono state ricondotte, secondo le ipotesi più o meno dimostrabili dei diversi studiosi, alle feste di dedicazione delle loro chiese (197), possiamo avanzare la possibilità che nei tituli romani in cui erano state deposte le reliquie di un martire, del quale spesso non si conosceva alcuna coordinata agiografica, la festa propria della dedicazione avesse perso ad un certo punto il suo carattere specifico e si fosse presto identificata con quella dello stesso santo.

 

Al contrario, nel caso delle chiese sprovviste di un culto martiriale, dovette persistere inalterato il ricordo della dedicazione di quell’edificio sacro, associato tutt’al più al nome del benefattore che lo aveva finanziato, come appunto per Ciriaco o per Eusebio; un’ipotesi, questa, che d’altra parte trova riscontro nel riferimento del Martyrologium Hieronymianum al titulus Apostolorum, dove è registrata la notizia della dedicazione della prima chiesa romana per mano, addirittura, dello stesso apostolo Pietro (198), con una significativa ed eloquente commistione dei due termini in questione.

Nel lemma, infatti, la festa del santo di cui si conserva l’insigne reliquia non prevalse sul ricordo della dedicazione – d’altra parte l’apostolo aveva già un suo dies natalis in cui essere celebrato e, a differenza degli altri casi, la chiesa dell’Oppio non era certamente il luogo esclusivo della sua venerazione al punto da influenzarne la scelta –, ma possiamo ritenere che in qualche modo la forma originaria della celebrazione sia stata mantenuta, presentando l’apostolo, seppur in modo fittizio, come conditor storico della chiesa con il risultato di conferire alla stessa ricorrenza liturgica un duplice aspetto, legato ora alla dedicazione ora al santo/reliquia.

 

L’INTERVENTO REGOLAMENTATORE DI GREGORIO MAGNO


Gregorio Magno fissò le regole della disciplina sul culto dei martiri in favore dell’uso di reliquie sostitutive secondo una romana consuetudo (199) certamente anteriore alla sua epoca, ma che nel VI secolo dovette trovare una maggiore e più sistematica applicazione a vantaggio anche della pressante esigenza della distribuzione di reliquie apostoliche o di quelle dei martiri romani alle Chiese che le richiedevano.
Dai numerosi riferimenti che si possono ricavare dagli scritti di Gregorio possiamo farci, infatti, un’idea dell’intensificazione che dovette interessare la prassi di creare reliquie secondarie, come brandea, palliola, sanctuaria, realizzate ex contactu, o come la stessa limatura delle catene apostoliche (200), largamente menzionate nelle fonti gregoriane (201).

Sulla loro concessione l’autorità ecclesiastica, con molta probabilità, esercitò un controllo proprio come se si trattasse di reliquie primarie e il valore spirituale loro attribuito, infatti, non doveva essere inflazionato dalla possibilità di una produzione teoricamente infinita delle stesse reliquie, come potremmo pensare oggi, se d’altra parte venivano collocate entro luoghi di culto di un certo prestigio (202) e se ormai alla vigilia delle traslazioni dei corpi dei martiri romani erano ancora utilizzate – e con alta risonanza, secondo lo spirito dei riscontri letterari – per le dediche delle chiese (203.)
Non è inverosimile pensare che ne avessero ricevute anche i tituli collegati ai santi venerati nei cimiteri del suburbio romano (204); reliquie secondarie potrebbero essere state deposte in questo periodo soprattutto nei tituli ancora scoperti, come quello di Marcello, ma anche di Prisca, Pudenziana e Prassede, ottenute dalle sepolture ad un certo punto riconosciute e venerate nei cimiteri romani (205).

Sotto Gregorio Magno, infatti, molti culti di martiri romani risultano installati presso quei tituli urbani in un certo rapporto topografico con le aree cimiteriali dove se ne veneravano le tombe (206).

 

In particolare, la nuova dedica ai due martiri della catacomba di Domitilla, i SS. Nereo e Achilleo (207), comportò, a quanto pare, il sopravvento su quella originaria del titulus Fasciolae (208) e non sappiamo se la sostituzione avvenne al fine di integrare una lacuna cultuale presso quel titulus che conservava sì da tempo una tradizione petrina, ma forse presto oscurata dalla maggiore risonanza della fondazione sistina dell’Oppio in possesso delle catene apostoliche.

Fra gli altri culti dei martiri delle catacombe romane impiantati in città ex novo appare anche quello per papa Sisto II, la cui localizzazione, oltre che alla corrispondenza topografica col cimitero, va pure messa in relazione con la leggenda che spostò il luogo del martirio del papa da quello storico del sopratterra del cimitero di Callisto al settore delle mura Aureliane prospiciente la porta Appia (209), in un’area, quindi, prossima alla sede del titulus sancti Sixti (210).

Sono inoltre attestati nel medesimo periodo e per la prima volta i tituli dedicati ai SS. Marcellino e Pietro (211), ad una santa di nome Balbina (212): la Cecchelli, avvertendo qualche perplessità sulla tradizionale successione attribuita alle denominazioni attestate fra il 499 ed il 595, li ritiene invece relativi a “fondazioni a carattere devozionale per le quali si crede necessaria una variazione di ministerium”, ma molto significativamente osserva che “ormai uno dei compiti del titolo dovette essere ispirato ad un carattere di specifica devozionalità” (213), lo stesso che secondo il percorso fin qui tracciato possiamo a questo punto cogliere in nuce nelle medesime origini dell’istituzione titolare, fino al VI secolo, quando tale compito sembra in effetti avere anche una piena e definitiva ratifica da parte dell’autorità ecclesiastica.

Tutte le installazioni di culti martiriali sono quindi riconducibili, in questa fase, a martiri esclusivamente romani (214), di norma di comprovata fama e venerazione, come i SS. Nereo e Achilleo, S. Sisto II, i SS. Marcellino e Pietro, o comunque legati in qualche modo ai cimiteri, come per Marcello, Prisca e per le più singolari figure agiografiche di Pudenziana e Prassede (215), segno sintomatico di un vero e proprio fenomeno migratorio di culti dal suburbio al centro cittadino, nel quale non si può fare a meno di scorgervi le finalità di carattere pastorale e liturgico che lo ispirano in seno alla vita religiosa della città in senso ampio.

Santi Marcellino e Pietro

Santa Balbina

 

Già al tempo di Damaso, nella venerazione dei martiri sepolti nei cimiteri romani, la preoccupazione pastorale era stata quella di dare la garanzia del valore esemplare della loro testimonianza di fede attraverso l’intensa attività di riconoscimento e di monumentalizzazione delle loro tombe, a vantaggio della conversione dei fedeli (216), e le loro celebrazioni erano state introdotte e confluite entro un più ricco calendario che si assommava alle commemorazioni già fissate nella Depositio martyrum del 354 (217) e che ci è attestato nel santorale romano registrato dal Martyrologium Hieronymianum (218); di esso entrarono a far parte anche le ricorrenze dei martiri che gradualmente avevano iniziato a godere di venerazione presso gli edifici di culto intra moenia.

Rispetto alle feste dei martiri delle catacombe, collocate per lo più nei mesi estivi, quando non esistevano impedimenti liturgici ed il tempo atmosferico era più favorevole al pellegrinaggio extraurbano, è da notare che queste celebrazioni martiriali della città si disposero secondo un calendario che si integrava alla liturgia delle chiese cimiteriali, coprendo soprattutto gli spazi liturgici liberi del periodo invernale (219).

Il mese di novembre, al riguardo, risultava particolarmente folto di commemorazioni: nei giorni 8 (220) e 23 (221), al Celio, erano celebrati nei rispettivi tituli i SS. Quattro Coronati e il papa e martire Clemente, il 22 (222) S. Cecilia, il 24 (223) era la volta di S. Crisogono (224).
Un’eccezione, come osservò Pietri (225), era invece costituita dalle feste di S. Pietro in Vincoli, al primo giorno di agosto226, e di S. Susanna, l’11 dello stesso mese (227), di contro però, in quegli stessi giorni la celebrazione ‘estiva’ del martire Lorenzo, oltre che naturalmente presso il santuario del Verano che ne conservava il sepolcro (228), doveva essere celebrata al 10 agosto anche nelle due chiese titolari a lui dedicate (229).

Papa Damaso I

San Gregorio Magno

In questo già maturo contesto cultuale così, nel VI secolo, la riorganizzazione liturgica e pastorale voluta da papa Gregorio Magno, come accentuava nei martyria cimiteriali la funzione della cura animarum, prerogativa originaria delle postazioni cristiane urbane, allo stesso modo estendeva la liturgia dei martiri alle chiese della città che ne erano ancora prive, secondo un processo attraverso il quale, mentre l’allargamento dell’assistenza pastorale garantiva una maggiore presenza della Chiesa nel territorio, la diffusione del culto martiriale sacralizzava il calendario in senso cristiano con un ulteriore aumento degli anniversari dei santi da celebrarsi in città, proprio grazie all’apporto di quelli relativi ai martiri romani fino ad allora celebrati esclusivamente nei cimiteri (230).
Le lacune cultuali delle chiese titolari non ancora raggiunte dalla venerazione dei martiri venivano così definitivamente colmate sotto il pontificato di Gregorio Magno, quando tutti i tituli portavano ormai la dedica ad un santo, come attestato chiaramente dalla lista delle sottoscrizioni sinodali del 595 (231), al termine di un processo di cristianizzazione dello spazio urbano e del tempo civile attraverso il culto dei santi, avviato all’epoca di papa Damaso e che sotto Gregorio si completava mediante una regolamentazione e maggiore diffusione dell’uso delle reliquie secondarie/sostitutive, nel quadro di una capillare riorganizzazione liturgica e pastorale della città (232).

 

CONCLUSIONI


La prassi dell’installazione dei culti martiriali entro le chiese titolari, considerato che l’istituto del titulus si organizzò e definì nell’età di Damaso (233), può dirsi effettivamente nata nella seconda metà del IV secolo e insieme allo stesso fenomeno dei tituli romani. Non è certo un caso che proprio al papa che incentivò la devozione ai martiri nei cimiteri romani si possa far risalire l’iniziativa di aver introdotto forme di venerazione martiriale anche dentro la città, secondo un programma unitario che si poneva l’obiettivo di fare di Roma il centro propulsore, sia religioso che politico, dell’intero Orbis christianus.
Al contributo di papa Damaso si può ricondurre la valorizzazione di tradizioni leggendarie, come nel titulus Fasciolae, ma soprattutto, per la prima volta, l’inserimento dei culti martiriali, in questa fase ancora limitati alla forma del semplice ‘patrocinio’ del santo, come nella fondazione personale di S. Lorenzo, a S. Clemente e a S. Anastasia, dove in particolare la rifunzionalizzazione dell’edificio di culto già esistente vide plausibilmente anche la collocazione di vere e proprie ‘reliquie’.

L’impegnativo programma attraverso cui iniziò a prendere piede la venerazione dei martiri dentro la cinta urbana, così come inaugurato da papa Damaso, cultor martyrum per antonomasia, fu emulato in tutta la sua portata innovativa anche dai suoi successori e l’installazione di culti martiriali coinvolse sia i tituli che man mano si andavano costituendo ex novo, ma anche le fondazioni cristiane precedenti al suo pontificato, come S. Silvestro e S. Marco, secondo una convincente cronologia a favore della paternità damasiana del progetto e contemporaneamente del suo successo nel tempo: già entro la data del 431 abbiamo infatti una nutrita serie di attestazioni cultuali, così come ci è fornita dal Martyrologium Hieronymianum, ora direttamente riferita ai tituli urbani, come per S. Susanna (234), i SS. Quattro Coronati (235) , ora ragionevolmente riferibile ad essi, come per S. Pietro in Vincoli (236) e S. Crisogono (237).

Si è visto che l’installazione dei culti martiriali risultò presto connessa con la deposizione di reliquie, secondo l’influenza dell’uso liturgico inaugurato da Ambrogio. Il fenomeno della presenza di reliquie è archeologicamente attestato presso le fondazioni titolari dei SS. Giovanni e Paolo e di S. Crisogono, mentre, secondo il riscontro delle fonti letterarie, deve essere preso in considerazione anche per altri tituli legati alla venerazione di martiri stranieri, come i SS. Quattro Coronati, martiri pannonici, come il titulus Vestinae (poi di S. Vitale) con la chiesa dei SS. Gervasio e Protasio, martiri milanesi, S. Sabina, martire umbra, e forse S. Susanna.

Dal quadro che ne è emerso, la presenza sacralizzante della reliquia si può dire che costituì presto, attestata almeno dal primo ventennio circa del V secolo, sotto il pontificato di Innocenzo I, un elemento fondamentale per la dedicazione dell’ecclesia e la conseguente costituzione del titulus, non tanto per l’impianto del culto martiriale in sé, ma proprio per l’esigenza più generale di ‘santificare’ in qualche modo il nuovo edificio cristiano; d’altra parte, secondo quest’ottica, presso i tituli che ne erano ancora sprovvisti, la mancanza di reliquie risultò ad un certo punto mediata, come abbiamo notato, dallo sviluppo di leggende di fondazione che crearono ex novo delle figure agiografiche, come nel caso di Pudenziana e Prassede, di Eusebio e di Cecilia, o ne attrassero altre adattandole ad hoc, come per Marcello e nell’esempio del martire ostiense Ciriaco, identificato con il conditor tituli storico ancora ricordato come tale dal Martyrologium Hieronymianum (238).


L’iniziale necessità di collegare il culto dei martiri ai tituli romani, avvertitasi a partire dall’epoca damasiana e divenuta col tempo sempre più pressante, si trasformò poi con Gregorio Magno in un fatto davvero ineludibile, da realizzare in ogni titulus col superamento di qualsivoglia ostacolo tecnico, mediante la diffusione sistematica di reliquie secondarie recuperate nei cimiteri dalle venerate tombe dei martiri romani (S. Sisto, SS. Nereo e Achilleo, SS. Marcellino e Pietro) o dalle sepolture identificate come quelle dei nuovi ‘santi’ la cui fama leggendaria era già fiorita presso i tituli urbani (S. Pudenziana, S. Prassede).

A grandi linee si sono così individuate, attraverso i dati disponibili, spesso non pochi ma sicuramente disorganici, le tappe principali del percorso evolutivo della venerazione dei santi nei tituli romani. In generale, dalla disamina dei procedimenti installativi dei diversi culti martiriali, secondo una continua e facilmente percepibile dialettica di presenze, assenze e attrazioni, possiamo a questo punto trarre due fondamentali categorie, quella dei culti di ‘fondazione’, nati cioè con gli stessi tituli, sostanzialmente costituita da quelli impiantatisi nell’età di Damaso, ma soprattutto rappresentata dagli altri realizzati sotto i suoi immediati successori con l’impiego di reliquie di martiri stranieri, e la categoria dei culti di ‘acquisizione’, come nel tipo di quelli organizzati nelle postazioni cristiane predamasiane e specialmente di quelli maturati grazie all’intervento risolutore di papa Gregorio Magno, in entrambi i casi tutti con santi di origine romana.

La venerazione dei martiri all’interno dei tituli romani è perciò un fatto molto più antico di quello che si è in genere creduto, sebbene il culto dovette inizialmente svilupparsi entro forme esterne più modeste rispetto a quelle afferenti alla c.d. ‘liturgia martiriale’ praticata presso i santuari cimiteriali e secondo schemi meno invasivi nei confronti della liturgia eucaristica per la quale quelle chiese urbane erano fondamentalmente nate, regolamentate più efficacemente dalla gerarchia ecclesiastica (239).

La nota espressione di Ambrogio sull’onore dell’altare riservato ai martiri, quale sede del sacrificio eucaristico a cui essi avevano aderito con l’offerta della vita (240), sintetizzava bene il senso teologico che egli stesso aveva dato alla prassi della deposizione delle reliquie al di sotto della mensa, incanalando il culto dei martiri nella liturgia ufficiale (241).
Secondo questo spirito, nelle chiese titolari romane le reliquie dei martiri dovevano trovare collocazione in un luogo distinto del presbiterio, magari con opportuni indicatori che ne sottolineassero la presenza e ne garantissero la venerazione da parte dei fedeli (242), che di certo non mancarono.
L’afflusso dei devoti visitatori diretti, come attestato ormai all’epoca dei pellegrinaggi altomedievali, verso la tappa urbana del Celio, ai SS. Giovanni e Paolo, era forse meno rappresentativo, in questo senso, del fenomeno che poté interessare le chiese titolari, data la singolarità della tradizione che si era formata attorno alle reliquie di questi martiri; tuttavia anche per gli altri tituli la prassi del pellegrinaggio dovette assumere forme significative.
Si pensi, ad esempio, a ciò che poté rappresentare S. Pietro in Vincoli nella sua “qualità di polo d’attrazione spirituale” (243), probabilmente anche con un ruolo complementare nel quadro più ampio del fenomeno del pellegrinaggio diretto in primis alle tombe apostoliche del Vaticano e dell’Ostiense.

Accanto a queste postazioni devozionali la cui valenza memoriale si collegava al possesso di vere e proprie reliquie che, eccetto il caso peculiare appena citato della reliquia petrina venerata sul colle Oppio, erano in genere di martiri stranieri, altre chiese titolari, stando agli insistenti riferimenti delle passiones, legarono invece il loro aspetto memoriale ai luoghi della vita e del martirio di santi propriamente romani (244), cioè a strutture architettoniche di cui troviamo una purtroppo unica ma straordinaria testimonianza monumentale nei rinvenimenti del titulus Caeciliae (245); anch’esse rientrarono legittimamente nella rete del pellegrinaggio martiriale, anzi, proprio nel caso di S. Cecilia, la cui presunta tomba nell’Alto Medioevo era riconosciuta e venerata presso la cripta dei Papi, al cimitero di S. Callisto (246), la visita urbana ai luoghi della sua domus e del martirio doveva essere, proprio come per S. Pietro in Vincoli, una sorta di tappa integrativa a quella suburbana indirizzata alla sepoltura che ne conteneva i venerati resti (247).

I tituli romani, dunque, non solo si inserirono appieno fin dalla loro origine come elementi pertinenti alle strategie cultuali della venerazione martiriale di iniziativa pontificia, come abbiamo potuto appurare nel corso di questo excursus, ma all’interno della città continuarono a costituire nel tempo dei vitali cantieri densi di stimoli originali, lontani da una semplicistica riduzione a luoghi di riunione per il culto cristiano ordinario, e così configurati attraversarono più tardi il periodo storico delle traslazioni dei martiri romani, quando intorno al IX secolo l’intenso afflusso di reliquie modificò sensibilmente i meccanismi e le forme devozionali fin qui proposti e l’inserimento dell’organismo della confessio nell’area presbiteriale fece del deposito reliquiario collocato in corrispondenza dell’altare la riproposizione di una tomba (248) e dei tituli ormai dei veri e propri poli della venerazione martiriale e dei centri di pellegrinaggio sostitutivi a quelli suburbani originari, come nuovi esclusivi catalizzatori del culto dei martiri nella città di Roma.

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Abstract

The correct identification of the tituli according to the lists of subscriptions to the Roman synods of 499 and 595 and in the light of information from other literary sources (liturgical, historical and of course hagiographical) or from archaeological evidence (in particular epigraphic) reveals a strong tendency to link the churches to the cults of martyrs, through the patronage of the name preferably through the deposition of their relics, within a chronological period extending from as early as the Damascene period to the papacy of Gregory the Great. The association of the martyr cults from the foundation of most of the tituli or their gradual extension to the churches which were still without such a cult, render it possible to make a distinction between ‘foundation’ cults and ‘acquired’ cults, the latter being subsequently assimilated or better defined. The veneration of martyrs in the Roman tituli therefore results as an early phenomenon often associated with the latter’s foundation, contrary to the earlier reconstructions which considered it to have only become an accomplished fact in the 6th century.

Résumé


L’identification correcte des saints titulaires, en fonction des listes des signataires des deux synodes romains de 499 et de 595, ainsi que l’examen parallèle de données provenant d’autres sources littéraires (liturgiques, historiques et, naturellement, hagiographiques) ou archéologiques (surtout épigraphiques) révèle la tendance marquée à lier les églises au culte des martyrs, par le biais de l’attribution de leur nom et, de préférence, par le dépôt de reliques, durant une période allant du pontificat de Damase à celui de Grégoire le Grand. Le culte des martyrs est lié à l’origine de la majeure partie des tituli, pour s’étendre ensuite progressivement aux autres églises qui n’ont pas encore de titulaires. C’est ainsi que l’on peut distinguer les cultes de « fondation » des cultes « acquis », ces derniers étant mis en place par la suite, ou mieux définis. La vénération des martyrs auprès des tituli romains est par conséquent un phénomène précoce, souvent en relation avec le moment de leur création, en dépit de théories antérieures qui les considéraient comme un phénomène surtout lié au VIe siècle.


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* Il seguente contributo si innesta su uno studio condotto per la tesi di Licenza presso il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana (PIAC) (A.A. 2005/2006) in relazione alla cattedra di Agiografia, ricoperta dal prof. S. Heid, al quale va innanzitutto il mio ringraziamento per la disponibilità offertami, e nasce da un’idea suggeritami da tempo dalla prof.ssa L. Spera, docente di Topografia cristiana di Roma nello stesso PIAC, alla quale porgo un grazie particolare per gli incoraggianti stimoli suscitati dal suo solito disinteressato entusiasmo per la ricerca scientifica. Fra gli altri docenti del PIAC, sono riconoscente al prof. F. Guidobaldi, ordinario di Architettura cristiana, per avermi permesso di approfondire le problematiche che investono le testimonianze architettoniche delle chiese titolari romane alla luce dei relativi riferimenti delle fonti letterarie. Ringrazio inoltre i dott.ri R. Koletsko e G. Nestori, bibliotecario del PIAC, per la loro premurosa collaborazione.

 

Note

1 - MGH, auct. ant. 12, pp. 410-415.
2 - Greg. M., epist. 5,57, in MGH, epist. 1, pp. 366-367.
3 - Il presente lavoro prende le mosse proprio dagli studi di questo autore al quale si deve la maggior parte delle più felici intuizioni sull’argomento.
4 - LANZONI 1925, p. 215; DELEHAYE 1936, pp. 159-161.
5 - Su esso si fonda il noto studio del Kirsch (KIRSCH 1918) e sulla stessa lunghezza d’onda l’autore affronta per altro in un suo articolo (KIRSCH 1923-24, pp. 27-43) il problema, qui proposto, dei culti martiriali presso i tituli romani, riferendoli addirittura alle domus ecclesiae. Per una revisione critica del rapporto fra tituli e domus ecclesiae: PIETRI 1978, pp. 3-21; GUIDOBALDI 1989, pp. 381-396; GUIDOBALDI 1993, pp. 75-77.
6 - Cfr. GUIDOBALDI 2003, p. 9.
7 - VALENTINI, ZUCCHETTI 2, pp. 17-28.
8 - Per i titolari delle chiese romane l’equivalenza dei termini è attestata nel VI secolo ancora dal Liber Pontificalis (Lib. pont. 1, pp. 212; 235) e nello stesso periodo dalle fonti agiografiche loro relative, che non di rado ne fanno un abbondante uso anche sincronico, sebbene l’indagine del fenomeno soffra in questo caso dell’assenza di edizioni critiche.
9 - TESTINI 19802, pp. 391-394.
10 - Greg. M., epist. 5,57, in MGH, epist. 1, pp. 366-367.
11 - PIETRI 1978, p. 16.
12 - Ibid.; da ultimo DIEFENBACH 2007, pp. 338-341.
13 - MGH, auct. ant. 12, p. 411, n. 3.
14 - Ibid., n. 8.
15 - Ibid., p. 412, n. 23. Sulla sua identificazione: MAZZOLENI 1985, pp. 265-268; DIEFENBACH 2007, p. 358.
16 - MGH, auct. ant. 12, p. 412, n. 24.
17 - Ibid., pp. 414, n. 59; 415, n. 67.
18 - Greg. M., epist. 5,57, in MGH, epist. 1, pp. 366-367.
19 - MGH, auct. ant. 12, pp. 413, nn. 39; 42; 414, n. 49.
20 - DIEFENBACH 2007, p. 341.
21 - Greg. M., epist. 5,57, in MGH, epist. 1, p. 367. Nelle stesse sottoscrizioni il titulus ricompare anche nella forma di titulus Apostolorum.
22 - JUNYENT 1932, p. 84; KRAUTHEIMER 1937, p. 119.
23 - Hier., vir. ill. 15, in Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur 14, p. 17; GUIDOBALDI 1992, pp. 279-280; 301-303. Altrove Guidobaldi (GUIDOBALDI 2000, p. 125) spiega tuttavia la notizia come una libera attribuzione di Girolamo nel tentativo di voler giustificare un Clemente conditor.
24 - Zo., epist. 2,2, in PL 20, c. 650; DIEFENBACH 2007, pp. 342-343.
25 - ICR I, pp. 359-360, n. 816.
26 - Lib. pont. 1, p. 212.
27 - Ibid., p. 235.
28 - LANZONI 1925, p. 203; PIETRI 1976, p. 74, nota 3; FIOCCHI NICOLAI 1991, pp. 170-171.
29 - Alla biografia di papa Giulio (337-352) si legge di un basilica quae appellatur Valentini (MGH, auct. ant. 9, p. 76), ma nella stessa notizia anche le costru-zioni riferite al papa e martire Callisto, a quell’epoca sicuramente onorato di culto, sono indicate col solo nome senza l’appellativo sanctus: iuxta Callistum, per il titulus trasteverino, e ad Callistum, per la basilica edificata presso la venerata sepoltura dell’Aurelia (ibid.; FIOCCHI NICOLAI 1991, p. 170).
30 - Il riferimento trasse in inganno Amore (AMORE 1975, pp. 13-16, part. p. 15) e lo portò a smentire addirittura l’esistenza stessa di un martire romano con quel nome, facendo di Valentino un semplice omonimo evergete e chiamando a conforto, fra le altre cose, anche le attestazioni delle sottoscrizioni presbiteriali dei nostri due sinodi romani secondo la loro classica interpretazione, nonostante le inconfutabili prove archeologiche a favore, quanto meno, della presenza di un culto martiriale presso quell’area della Flaminia. Sull’argomento: FIOCCHI NICOLAI 1991, pp. 165-178; GIORDANI 2001, pp. 271-286.
31 - PIETRI 1976, p. 74, nota 3.
32 - IWASZKIEWICZ-WRONIKOWSKA 2002, pp. 97-99.
33 ICR II, p. 134, n. 5 = FERRUA 1942, p. 212, n. 58.
34 IWASZKIEWICZ-WRONIKOWSKA 2002, pp. 103-104.
35 DE SANTIS 2010, p. 182.
36 LANZONI 1925, p. 202; PANI ERMINI 1989, pp. 848-849; DIEFENBACH 2007, p. 341.
37 Dal confronto fra l’attestazione epigrafica e la notizia del Liber Pontificalis possiamo dedurre che su un piano formale la dedica di una chiesa è sempre riferita a Dio, fine ultimo di ogni attività cultuale, mentre la pratica onomastica più comune identifica agevolmente la chiesa con il nome del santo di cui detiene il patrocinio; la chiesa, secondo il senso teologico ancora attuale del rito di dedicazione delle chiese, viene perciò sempre dedicata a Dio ma ‘in onore’ di un santo.
38 Lib. pont. 1, p. 212.
39 PIETRI 1989, pp. 1057-1058.
40 Lib. pont. 1, p. 220.
41GUIDOBALDI 2002, pp. 1039-1040; GUIDOBALDI 2003, pp. 5-11.
42 MGH, auct. ant. 12, p. 411, n. 15.
43 Greg. M., epist. 5,57, in MGH, epist. 1, p. 367. Si ricordi che la vexata questio sulla concomitante presenza al sinodo del 499 di un titulus Lucinae (MGH, auct. ant. 12, pp. 414, nn. 57; 62) e del titulus Damasi (ibid., p. 411, n. 15), entrambi sede di culto del martire Lorenzo, secondo gli ultimi orientamenti espressi dagli studiosi, sembra oggi risolubile a favore di un’equa distribuzione dei due riferimenti ad un titulus sancti Laurenti (ibid., pp. 414, n. 59; 415, n. 67) sia all’una che all’altra postazione titolare, in accordo anche con una bilanciata ripartizione del clero titolare (CECCHELLI 2009, p. 283).
44 MGH, auct. ant. 12, pp. 411, nn. 2; 10; 412, n. 25.
45 Greg. M., epist. 5,57, in MGH, epist. 1, pp. 366-367.
46 LUCCHESI 1969, cc. 1229-1231.
47 Cfr. GUIDOBALDI 2002, p. 1040. Rimanendo all’esempio del titulus di S. Vitale, è da notare che oltre il VI secolo ritorna la dizione di titulus Vestinae in un epitaffio (ICR I, p. 536, 1185 = ILCV 1249), mentre un presbitero si firma come appartenente al [titulus] sanctorum Protasi et Gervasi (Greg. M., epist. 11,15, in MGH, epist. 2, p. 275). Quanto alla chiesa, nel 590 in un decreto di Gregorio Magno abbiamo la menzione di un’ecclesia beati martyris Vitalis (Id., epist. 13,2, in MGH, epist. 2, p. 367), che in Gregorio di Tours, per altro in una citazione dello stesso documento del papa, è parallelamente attestata come eclesia sanctorum martyrum Gervasii et Protasii (Greg. Tur., Franc. 10,1, in MGH, scr. Mer. 1,1, p. 480).
48 MGH, auct. ant. 9, p. 76.
49 Il titulus è menzionato semplicemente come titulus Iuli (MGH, auct. ant. 12, pp. 411, n. 7; 412, n. 28; 414, n. 51).
50 L’uso della proposizione iuxta, a differenza della preposizione ad utilizzata in riferimento all’altra costruzione di papa Giulio realizzata presso la tomba venerata, denota infatti un rapporto di contiguità ma ne esclude sicuramente la sovrapposizione (VERRANDO 1984, pp. 1042-1048). Sulla possibilità del riferimento toponomastico ad un’area Callisti nel Trastevere (cfr. PIETRI 1976, p. 24) si veda una più recente revisione che apre invece la possibilità di una relazione dell’espressione col grande comprensorio cimiteriale dell’Appia piuttosto che col quartiere romano (BERTOLINO 1994, pp. 181-190). Il significato precipuo del toponimo comunque, forse legato anche alla presenza di un piccolo edificio memoriale (cfr. PIETRI 1981, p. 438), sembra venir meno nel corso del tempo, e con esso di conseguenza pure l’eventuale monumento, dato che già l’autore della passio Callisti, alla fine del V secolo, non ha più cognizione di una vera e propria domus Callisti dove ambientare lo stesso luogo del martirio (VERRANDO 1984, p. 1060).
51 Lib. pont. 1, p. 202.
52 Ibid., p. 218.
53 MGH, auct. ant. 12, p. 414, nn. 52; 64.
54 Ibid., pp. 412, nn. 17; 29; 414, n. 63;
55 Epist. imp. 14,6, in CSEL 35, p. 60.
56 MGH, auct. ant. 12, pp. 413, n. 48; 414, nn. 56; 65. A questo titulus va probabilmente riferito anche un Marcellus presbyter tituli Romani (ibid., p. 412, n. 31), secondo un’attestazione considerata frutto di una svista del presbitero firmatario (DUCHESNE 1887, p. 227 = DUCHESNE 1973, p. 27; da ultimo CECCHELLI 1985, p. 300).
57 Lib. pont. 1, pp. 170-171.
58 Ibid., p. 187.
59 PIETRI 1976, pp. 19-21.
60 Ibid., pp. 473-474; PIETRI 1989, p. 1059.
61 KRAUTHEIMER et al. 1962, pp. 230; 244.
62 FERRUA 1949, pp. 15-16.
63 DE ROSSI 1872, p. 38; DE ROSSI 1890, pp. 105-106. Sulla lampada: MAIANI 2005, pp. 255-262.
64 ICUR II, 4815; PIETRI 1976, p. 466. Di opinione contraria NESTORI 1986, p. 166.
65 ICR I, p. 124, n. 262; PIETRI 1976, pp. 565-566.
66 VERRANDO 1987, p. 366.
67 Passio Processi et Martiniani 1, in P. FRANCHI DE’ CAVALIERI, «Della custodia Mamertini» e della «Passio ss. Processi et Martiniani», in Note Agiografiche, 9 (1953), p. 49.
68 Hier., vir. ill. 15, in Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur 14, p. 17.
69 A tal proposito, di alcuni frammenti di iscrizioni damasiane rinvenuti nel pavimento della basilica (DE ROSSI 1865, p. 32; DE ROSSI 1870, pp. 148-149; FERRUA 1942, pp. 207-208, n. 55) e per i quali è stata anche supposta un’integrazione col nome di S. Clemente (MARUCCHI 19092, pp. 289-290) è più probabile una provenienza dall’ambito cimiteriale romano (GUIDOBALDI 1992, pp. 306-307, nota 471).
70 L’iscrizione semifilocaliana ricomposta e integrata dal de Rossi (DE ROSSI 1870, pp. 147-148) non può essere ritenuta testimonianza inoppugnabile della dedicazione della chiesa a Clemente sotto papa Siricio (cfr. PIETRI 1976, p. 471; IWASZKIEWICZ-WRONIKOWSKA 2002, p. 104), dato che sia il termine dedicatum che il nome del martire sono completamente frutto di integrazione e soprattutto perché non solo è dubbia la sua pertinenza alla basilica di S. Clemente, ma anche l’appartenenza ad una stessa iscrizione dei vari frammenti che la compongono (GUIDOBALDI 1978, pp. 80-83; GUIDOBALDI 1992, pp. 280-281; 306-307).
71 Ibid., pp. 307-310.
72 ICR II, pp. 24, n. 25; 150, n. 18.
73 CECCHELLI 2001, pp. 55-57; CECCHELLI 2006-09, pp. 33-48.
74 MGH, auct. ant. 12, pp. 413, n. 36; 414, nn. 50; 61.
75 KRAUTHEIMER 1937, p. 45.
76 Leo M., serm. 96, in PL 54, c. 466; DIEFENBACH 2007, p. 352. Per la precisione poi, al 595 non è tuttavia segnato alcun titulus sanctae Anastasiae, dato attribuito ad un cambio di funzione, forse non più titolare (CECCHELLI 1985, p. 300). Di contro c’è chi sostiene, come Carandini (CARANDINI 2008, pp. 105-119, part. p. 108), riprendendo delle teorie già note (WHITEHEAD 1926, p. 308; WHITEHEAD 1927, pp. 413-414), che l’Anastasia titolare sia da identificare con un membro della famiglia imperiale, in particolare l’omonima sorellasta di Costantino, figlia di Teodora e moglie di Bassiano, attribuendo all’edificio di culto un ruolo fondamentale nello sviluppo della celebrazione liturgica del Natale del Signore.
77 ICR II, p. 134, n. 5 = FERRUA 1942, p. 212, n. 58.
78 Lib. pont. 1, p. 212.
79 Cfr. CRACCO RUGGINI 1974, pp. 410-411, nota 5.
80 CECCHELLI 2009, p. 279.
81 Ibid.
82 CECCHELLI 2006-09, p. 37.
83 CECCHELLI 2009, p. 279; CECCHELLI 2006-09, pp. 36-37. La studiosa attribuisce a Damaso il contributo decisivo per la stessa definizione della figura agiografica di Lorenzo sia dal punto di vista del nome, in rapporto agli altri anonimi diaconi di Sisto II, che per il ministero di arcidiacono a lui assegnato (CECCHELLI 2009, p. 279; CECCHELLI 2006-09, p. 37). Inoltre, come si argomenta altrove, “the story of St. Laurence or Damasus’ presentation of Saint Laurence could have served as a legitimating myth for his authority in the city” (BLAIR-DIXON 2002, p. 345) e, nella fattispecie, l’introduzione del suo culto nella fondazione titolare viene rapportata ad una strategia politica di Damaso per l’autolegittimazione del potere contro le spinte centripete dei gruppi scismatici che, a danno dell’unità della Chiesa, ne contestavano l’elezione al papato (ibid., pp. 331-352).
84 CECCHELLI 2006-09, p. 37.
85 Per un quadro storico: PILARA, GHILARDI 2010, pp. 56-96 con bibliografia precedente.
86 BATTIFOL 19092, p. 146.
87 Zo., epist. 2,2, in PL 20, c. 650.
88 GUIDOBALDI 1992, p. 310.
89 CECCHELLI 2001, p. 57; CECCHELLI 2009, p. 281; CECCHELLI 2006-09, pp. 36-40. In realtà, però, la titolarità della chiesa da parte della martire Anastasia è sostenuta ora rivista dalla stessa Cecchelli, seppur le ipotetiche alternative non vengano mai disgiunte dal quadro dei problemi illirici (CECCHELLI 2001, p. 57; CECCHELLI 2009, p. 281; CECCHELLI 2006-09, pp. 38-48), e rimane comunque sostanzialmente indeterminata, come si può evincere dalle stesse parole conclusive del suo più recente contributo in merito: “Anche se la chiesa, in ogni modo, si dovesse considerare predamasiana, un fatto è certo almeno [...]: Damaso rivolse ad essa una sua significativa attenzione, poiché la decorò e il ricordo di questa sua attività fu sicuramente importante poiché fu sottolineata nell’epigrafe di Ilaro. Lo scopo di questa sua iniziativa, mirata sicuramente come tutti gli interventi di questo papa, non può in ogni modo ancora una volta distinguersi da quanto abbiamo riproposto ricordando alcune delle vicende più impegnative del suo pontificato. Così la decorazione damasiana potrebbe ben essere riferita ad una precisa intitolazione della chiesa ad Anastasia-Resurrezione all’ortodossia, come anche alla santa di Sirmio, designata così ad esprimere le vicende della vexata quaestio dell’Illirico” (ibid., pp. 47-48). Dietro la strategia politica damasiana nell’Illirico ancora la Cecchelli intravede in filigrana addirittura una fattiva collaborazione dello stesso Ambrogio, esperto conoscitore del territorio e delle sue problematiche (ibid., p. 39). Per cui, se l’importazione a Roma di una serie di culti martiriali di quella regione è stata recentemente rapportata ad una mimesi, da parte dei papi, della fruttuosa attività ambrosiana di creazione o rafforzamento di legami politico-religiosi fra Chiese attraverso la diffusione del culto dei santi e quindi mediante la loro comune venerazione (DIEFENBACH 2007, pp. 361-363), l’introduzione del culto di Anastasia nel titulus del Palatino già sotto Damaso anticipa il fenomeno all’epoca di questo pontefice, al quale d’altra parte Ambrogio si ispirerà, di lì a poco, per la valorizzazione dei culti martiriali a Milano (cfr. PANI ERMINI 1989, pp. 849-854).
90 PIETRI 1976, pp. 564-567; PIETRI 1986, p. 49; PIETRI 1991, p. 234.
91 MGH, auct. ant. 12, pp. 413, n. 36; 414, nn. 50; 61.
92 Ibid., pp. 411, nn. 5-6 (titulus Clementis); 412, n. 24 (titulus sancti Clementis).
93 Ibid., p. 413, nn. 40-41.
94 Per i SS. Giovanni e Paolo: FERRUA 1942, pp. 114-116, n. 13; cfr. PIETRI 1976, p. 485, nota 2; FERRUA 1942, p. 229, n. 61. Per i SS. Quattro Coronati: FERRUA 1942, pp. 205-206, n. 52; cfr. PIETRI 1976, pp. 495-496.
95 Cfr. PIETRI 1981, p. 445; PIETRI 1984, pp. 309-311.
96 PIETRI 1976, pp. 90-93; 570-573; PIETRI 1978a, pp. 321-322; 328-336.
97 PIETRI 1981, pp. 442-447.
98 DIEFENBACH 2007, pp. 377-378.
99 Cfr. ibid., pp. 359-400.
100 PIETRI 1989, p. 1062, nota 75.
101
PIETRI 1981, p. 438.
102 PIETRI 1976, pp. 21, nota 1; 622; PIETRI 1989, p. 1062, nota 75.
103 PIETRI 1976, p. 622.
104 Greg. M., epist. 5,57, in MGH, epist. 1, p. 367. A suffraggio dell’effettiva assimilazione cultuale da parte del titulus del Trastevere possiamo senz’altro considerare l’avvenuta traslazione al tempo di Gregorio IV (827-844) del corpo di S. Callisto dalla catacomba dell’Aurelia (cfr. Lib. pont. 2, p. 80). La preesistenza del culto martiriale, infatti, sembra fungere a distanza di secoli da elemento attrattivo sul movimento delle reliquie dalla tomba alla chiesa urbana.
105 Hier., chron. a. Abr. 1976, in Griechische christliche Schriftsteller der ersten drei Jahrhunderte, 24, p. 158; cfr. D.C. 48,43.
106 VALENTINI, ZUCCHETTI 3, pp. 26; 64; 83; 94; 125; 189; ibid. 4, pp. 150; 309; 322; VERRANDO 1984, p. 1047.
107 PIETRI 1976, pp. 24-25.
108 Lib. pont. 1, p. 509.
109 PIETRI 1976, p. 94.
110 Il titulus, quale presunta sede dell’elezione di papa Damaso (Epist. pontif. 1,5, in CSEL 35, p. 2), doveva essere quindi anteriore allo stesso papa, anche se molto probabilmente ubicato in una sede diversa da quella scelta da Sisto III (432-440) (PIETRI 1976, pp. 28-29; GUIDOBALDI 1989, p. 389), sotto il quale abbiamo la prima traccia effettiva della dedica della chiesa a S. Lorenzo (Lib. pont. 1, p. 234; cfr. DIEFENBACH 2007, p. 358). Il Duchesne aveva messo in relazione l’intitolazione di questa chiesa con quella del titulus Damasi, quale segno della devozione personale di papa Damaso verso il martire Lorenzo, protettore della sua elezione a pontefice (Lib. pont. 1, p. 214, nota 7). Il de Waal (DE WAAL 1903, p. 76) faceva notare anche l’omonimia con il martire da parte della madre di Damaso, Laurentia, quasi a volerne sottolineare l’aspetto di una devozione di famiglia. Lo studioso (ibid., pp. 75-77), seppur nei limiti delle acquisizioni scientifiche della sua epoca, osservava inoltre come entrambe le chiese urbane dedicate a S. Lorenzo, quella in Lucina e l’altra in Damaso, siano da considerarsi le prime senza memoria locale, erette solo per devozione ad un martire. Più recentemente, ancora sulla dedica della fondazione damasiana al martire romano, altri studiosi (RAIMONDI 2009, p. 189), dal loro punto di vista, colgono nuovi aspetti: “la connessione che il pontefice intese stabilire tra sé e san Lorenzo e tra quel luogo e la sua elevazione episcopale appare indubbiamente molto forte e testimonia la volontà di dare riconoscimento, retrospettivamente, alla propria carriera diaconale facendo del diacono Lorenzo un modello per il proprio operato”.
111 Sulla figura agiografica di Lucina: VERRANDO 1987, pp. 364-373. L’autore (ibid., p. 368) è però dell’opinione poco condivisibile (cfr. EPISCOPO 2003, p. 16, nota 60) che il riferimento della passio Sebastiani sia da attribuire alla fondazione del titulus Lucinae e non a quella del titulus Marcelli.
112 PIETRI 1976, p. 29, nota 2.
113 Passio Marcelli 5,22, in Acta Sanctorum, Jan. 2, p. 373. Una tradizione simile è riportata anche dal Liber Pontificalis (Lib. pont. 1, p. 164); il suo redattore tuttavia distingue la chiesa, sorta nella domus Lucinae, dal catabulum, che in qualità di luogo del martirio, secondo Franchi de’ Cavalieri (FRANCHI DE’ CAVALIERI 1928, p. 194, nota 1), venne consapevolmente confuso dall’agiografo con la stessa chiesa.
114 DASSMANN 1975, pp. 51-68; BRANDENBURG 1995, pp. 71-98.
115 IWASZKIEWICZ-WRONIKOWSKA 2002, pp. 100-101.
116 Ambr., epist. 77,7, in CSEL 82, p. 131. Per un’analisi del testo dell’Epistola 77 nell’ambito del culto delle reliquie posto da Ambrogio al servizio delle controversie teologiche cfr. LANÉRY 2008, pp. 27-43.
117 PANI ERMINI 1989, pp. 849-854.
118 CRACCO RUGGINI 1974, pp. 441-442.
119 DELEHAYE 19332, pp. 65; 75-80; ZULLI 1945, pp. 19-20. Sembra per altro che, in occasione dell’inventio e della successiva traslazione dei resti mortali attribuiti ai martiri Gervasio e Protasio, Ambrogio abbia proceduto alle operazioni di scavo senza previa autorizzazione imperiale, contravvenendo in tal modo alle disposizioni del diritto romano (SAXER 1980, p. 241; ZANGARA 1981, p. 121, nota 15).
120 Nella dedicazione di una chiesa la deposizione delle reliquie non era un fatto vincolante, ma costituiva soltanto un felice completamento dello stesso rito (cfr. HERRMANN-MASCARD 1975, pp. 143-168; FONSECA 1989, pp. 932-933; CALABUIG 1998, pp. 381-383; JOUNEL 2001, pp. 539-540). Tuttavia la necessità del possesso di reliquie, a garanzia dello stesso prestigio del nuovo edificio di culto che le accoglieva, determinò una rapida diffusione e affermazione dell’iniziativa di Ambrogio (BROGIOLO, CHAVARRÍA ARNAU, MARANO 2005, pp. 57-58).
121 Cfr. CRACCO RUGGINI 1974, pp. 410-411, nota 5.
212 ALESSANDRO BONFIGLIO curezza che solo al tempo di Gelasio (492-496)122, quando ormai il ciclo delle fondazioni titolari si era concluso, una disposizione papale rendeva obbligatoria la deposizione di reliquie per le fondazioni di matrice privata123, per cui il punto di partenza per delineare la natura e l’entità del fenomeno nell’ambito romano delle chiese titolari è la già citata notizia del Liber Pontificalis relativa alla fondazione del titulus Vestinae, forse non a caso legata a dei martiri milanesi124. La dedicazione della chiesa, edificata per generosità e devozione della inlustris femina Vestina sotto papa Innocenzo, sembra infatti presagire una deposizione di reliquie e in particolare quelle dei martiri Gervasio e Protasio, stando ai titolari dell’ecclesia. Spiegarsi per quali vie queste reliquie da Milano siano giunte a Roma non è facile125. Se la Vestina in questione abbia avuto rapporti con l’ambiente milanese, magari per importanti incarichi politici assunti dal marito, è solo un’ipotesi126. Il Delehaye fece notare però la presenza di un presbitero di nome Leopardo, identificabile secondo lo studioso con l’omonimo che nel 390 venne mandato a Milano da papa Siricio per risolvere controversie dottrinali127 e che avrebbe potuto ottenere e portare a Roma le importanti reliquie, suggerendo magari l’idea di dedicare la chiesa ai due martiri128 e importando, secondo quanto osservato in più recenti studi129, anche la stessa versione am122
Epist. pontif. 14,25, in A. THIEL, Epistolae romanorum pontificum genuinae, 1, Brunsbergae 1868, pp. 375-376.
123 Cfr. PIETRI 1981, pp. 444-445.
124 Lib. pont. 1, p. 220.
125 Per questo periodo l’importazione di culti martiriali da Milano non si sarebbe soltanto limitata ai SS. Gervasio e Protasio. La venerazione romana per altri martiri milanesi è infatti attestata, più o meno negli stessi anni (FIOCCHI NICOLAI 1988, p. 27), da un tormentato lemma del Martyrologium Hieronymianum (Martyrol. Hier., p. 77) in riferimento a S. Nazario, di cui Ambrogio aveva ritrovato il corpo fra il 395 ed il 397 (Paul. Med., vita Ambr. 32-33, in A. BASTIAENSEN, Vita di Cipriano. Vita di Ambrogio. Vita di Agostino, Milano 1975, pp. 94-96), e a S. Nabore, ai quali santi era dedicata una basilica al V miglio della via Aurelia (FIOCCHI NICOLAI 1988, pp. 25-29; FIOCCHI NICOLAI 2006, pp. 86-87), probabilmente anche in questo caso in relazione alla presenza di loro reliquie inviate a Roma (DE ROSSI 1856, pp. 7-9; KIRSCH 1924, p. 90; da ultimo FIOCCHI NICOLAI 1988, p. 26).
126 Si tratta di un’idea inedita di F. Guidobaldi, il quale sostiene, sulla base dell’uso dell’aggettivo inlustris riferito a Vestina, non solo la provenienza aristocratica della donna, ma anche il riflesso di un prestigioso incarico politico assunto dal marito, secondo lo stesso studioso da identificare con un personaggio di alto rango senatorio, residente a Milano e poi rientrato a Roma, che svolse qualche importante mansione presso la corte imperiale di Milano.
127 MANSI 3, c. 664.
128 DELEHAYE 1930, pp. 9-10.
129 IWASZKIEWICZ-WRONIKOWSKA 2002, pp. 104-105.
130 Greg. M., epist. 5,57, in MGH, epist. 1, pp. 366-367.
131 Cfr. DELEHAYE 1930, pp. 21-22.
132 DELEHAYE 1929, pp. 8-10; DELEHAYE 1930, p. 10. L’insigne agiografo si interroga sul problema della presenza delle reliquie in relazione alla dedica di titulus e relativa ecclesia, ma un’attribuzione del loro arrivo al VI secolo sembra farsi strada più che per il condizionamento imposto dalla cronologia della leggenda che riunisce le tre figure agiografiche di Vitale, Gervasio e Protasio, riferibile appunto a quel periodo (cfr. DIEFENBACH 2007, p. 342), soprattutto per i malcelati dubbi dello stesso Delehaye sull’effettivo uso di reliquie nella prassi seguita per la dedicazione delle prime chiese urbane di Roma (DELEHAYE 1930, pp. 10-11). È da osservare infatti che il nome di Vitale compare solo nel VI secolo e nella nomenclatura del titulus così come ci è attestata al sinodo del 595 (Greg. M., epist. 5,57, in MGH, epist. 1, pp. 366-367), per cui la sua figura non compromette necessariamente la presenza, al momento della dedicazione dell’ecclesia, quanto meno delle reliquie di Gervasio e Protasio; semmai è sintomatico che in quel documento il nome di S. Vitale assurga a titolare principale proprio nella fase in cui il santo bolognese viene identificato come il padre dei martiri milanesi (cfr. GORDINI 1969, cc. 1226-1227).
133 Ibid.
134 CECCHELLI 2003, p. 341.
135 L’ipotesi è già sostenuta dal Lanzoni (LANZONI 1925, pp. 205-206), che suppone nel IV o nel V secolo un arrivo di reliquie o sanctuaria, volendo indicare con questo termine, come si sa, delle reliquie secondarie. Più recentemente la traslazione delle reliquie di S. Anastasia è stata ipoteticamente attribuita al ruolo della famiglia aristocratica degli Anicii (DIEFENBACH 2007, pp. 374-375).
136 VALENTINI, ZUCCHETTI 2, pp. 72; 124; 152.
137 Sul problema dell’identificazione delle reliquie: PIETRI 1976, pp. 489-490, nota 2. Da ultimo Diefenbach (DIEFENBACH 2007, pp. 356-357), riprendendo un’idea che fu già del Lanzoni (LANZONI 1925, p. 209), identifica i due santi con Giovanni il Battista e Paolo l’apostolo, guardando a Milano come il canale per l’importazione delle loro reliquie.
138 PIETRI 1976, pp. 483-490. Sull’argomento: KRAUTHEIMER 1937, pp. 265-300 con bibliografia precedente; APOLLONJ GHETTI 1978, pp. 493-502; TRINCI CECCHELLI 1978, pp. 551-562; ASTOLFI 1995, pp. 117-118; BRENK 1995, pp. 169-205; ASTOLFI 1996, pp. 105-106; BRENK 2000, pp. 156-158; BRANDENBURG 2004, pp. 155-162; PAVOLINI 2006, pp. 31-41.
139 La datazione della cripta, attribuita al pontificato di Gregorio III (731-741), risente oggi della revisione cronologica cui sono state sottoposte le pitture, precedentemente ritenute della metà dell’VIII secolo e invece riferibili al terzo quarto dell’XI (BORDI 2007, pp. 222-230).
140 CECCHELLI 2003, pp. 340-342. Diefenbach (DIEFENBACH 2007, pp. 366-376) ipotizzando un collegamento dell’arrivo delle reliquie di Crisogono insieme a quelle di S. Anastasia per mezzo della gens Anicia fa salire la loro cronologia addirittura al IV secolo.
141 La comparsa delle catene sembra essere avvenuta come per inventio solo all’epoca di Sisto III, cioè in relazione alla rifondazione della basilica titolare. La pertinenza sia della chiesa che della stessa reliquia con il sito dell’Oppio è da riallacciarsi alla presenza, a partire dal III secolo, della vicina Praefectura Urbis, luogo di amministrazione della giustizia, secondo un’identificazione che è frutto dell’immaginario collettivo (BARTOLOZZI CASTI 1997, pp. 5-28). Per la descrizione della reliquia si consulti quella fatta dall’abate M. Monsacrati (GIAMPAOLI 1884, pp. 211-212), da ultimo riportata in BARTOLOZZI CASTI 1997, p. 26, nota 95.
142 La commemorazione è indicata nel codice Epternacensis nella forma Romae natale Crisogoni, mentre il codice Wissemburgensis riporta in Aquileia civitate sancti Crisogoni (Martyrol. Hier., p. 146).
143 CECCHELLI 2003, pp. 340-341.
144 Martyrol. Hier., p. 140.
145 VALENTINI, ZUCCHETTI 2, p. 27.
146 PIETRI 1976, pp. 493-496; da ultimo DIEFENBACH 2007, p. 348.
147 GUYON 1975, pp. 505-561, part. pp. 543-561.
148 MGH, auct. ant. 12, pp. 412, n. 16; 413, n. 38; 414, n. 60. La cronologia alta era già sostenuta dal Duchesne (DUCHESNE 1911, pp. 241; 244-245).
149 Greg. M., epist. 5,57, in MGH, epist. 1, p. 367.
150 Martyrol. Hier., p. 104; DELEHAYE 1931, p. 435.
151 BONANNI 1995, p. 217.
152 MGH, auct. ant. 12, p. 413, nn. 44; 47.
153 Una recente ipotesi (DIEFENBACH 2007, p. 345) guarda alle regioni adriatiche come luoghi di origine del culto.
154 FRANCHI DE’ CAVALIERI 1928, p. 186.
155 PIETRI 1976, pp. 498-499. Il riconoscimento della presenza di un deposito reliquiario ruotava intorno al problema dell’interpretazione di un’ambigua epigrafe funeraria (cfr. ibid., p. 499, nota 2). Per Franchi de Cavalieri (FRANCHI DE’ CAVALIERI 1928, p. 193), l’identificazione delle reliquie della martire con questo monumento venne fatta o acquistò credito solo nell’VIII secolo. Si può constatare che l’iscrizione in sé non ha un formulario pertinente né alla sepoltura di una martire né ad una deposizione secondaria relativa a reliquie, ma proprio per questo carattere neutro può essere considerata come un elemento sicuramente anteriore alla redazione della passio, che da essa avrà tratto ispirazione per la trama narrativa.
156 Claud., carm. min. 50, in MGH, auct. ant. 10, p. 340. Cfr. PIETRI 1976, pp. 498-499. Secondo qualche studioso (BONANNI 2003, p. 372) l’inserimento del culto di Susanna presso la postazione titolare potrebbe seguire di poco gli episodi bellici legati ai Goti di Alarico (410), in concomitanza con la ricostruzione dello stesso edificio a seguito dei danni subiti.
157 MGH, auct. ant. 12, p. 413, nn. 44; 47.
158 ILCV 1778a.
159 Lib. pont. 1, p. 235.
160 PIETRI 1976, pp. 563-564; DIEFENBACH 2007, pp. 354-355.
161 Lib. pont. 1, p. 235. Un’interessante ipotesi della Cecchelli (CECCHELLI 2009, p. 279) propone che l’epigrafe esplicativa di controfacciata sull’operato di Pietro d’Illiria fosse ‘in pendant’ con un’altra iscrizione più concisa relativa alla dedica della chiesa alla martire Sabina, secondo una disposizione comune ad altre fondazioni sistine e già adottata nella stessa fondazione damasiana di S. Lorenzo.
162 La documentazione sulla Sabina romana è certo più antica rispetto a quella umbra, della quale la tradizione agiografica non è per altro scevra di influssi romani: lo stesso dies natalis del 29 agosto (Passio Serapiae et Sabinae 3,15, in Acta Sanctorum, Aug. 6, p. 504) è legato infatti alla celebrazione dell’Aventino (cfr. VERRANDO 1991, pp. 101-104). Tuttavia la palese inconsistenza storica di una S. Sabina romana ci porta ad identificarla, alla luce degli elementi sopra esposti, con quella di Vindena (DE ROSSI 1871, pp. 90-93). La Cecchelli coglie nella scelta di venerare quella martire sul colle romano un suggestivo legame fra gli elementi della sua biografia, che la presenta come vedova convertita al cristianesimo (Passio Serapiae et Sabinae 1,1, in Acta Sanctorum, Aug. 6, p. 500), e la memoria dello stile di vita monastico praticato dalle matrone dell’Aventino vicine a Girolamo (CECCHELLI 1985, p. 293). Quanto ad un’eventuale provenienza delle reliquie di Sabina dall’Illirico, come si legge nel breve cenno di Diefenbach (DIEFENBACH 2007, p. 363), l’ipotesi sembra far leva esclusivamente sulla regione d’origine del finanziatore del titulus romano, anche se non espressamente indicato dall’autore (cfr. ibid., pp. 354-355).
163 MGH, auct. ant. 12, p. 411, n. 8.
164 Ibid., pp. 412, n. 30; 414, n. 58.
165 Cfr. PIETRI 1976, pp. 563-567.
166 La deposizione di reliquie del martire di Aquileia, della quale abbiamo attestazione archeologica, e la sua festa romana come segnata dal Martyrologium Hieronymianum fugano ulteriori dubbi sull’esistenza di un omonimo romano (MESNARD 1935, p. 38; DELEHAYE 1936, pp. 158-159), sostenuta ancora negli anni ’80 da Cuscito (CUSCITO 1987, pp. 266-269), anche se lo studioso concludeva significativamente così: “questa non è che un’ipotesi; ma, in fin dei conti, essa si accorda con quanto sappiamo sulla dedicazione dei luoghi di culto in generale, sull’introduzione del culto dei martiri pannonici a Roma e sugli esiti degli studi agiografici e martirologici al riguardo” (ibid., p. 269). Nonostante ciò, l’idea che un conditor romano sia stato assimilato ad un martire omonimo trova più recente adesione in LIZZI TESTA 2004, pp. 254-255; 266.
167 MGH, auct. ant. 12, pp. 413, nn. 39; 42; 414, n. 49; Greg. M., epist. 5,57, in MGH, epist. 1, p. 367.
168 DELEHAYE 1930, pp. 14-15.
169 Dal Liber Pontificalis (Lib. pont. 1, p. 261) abbiamo sotto Simmaco (408-514) una prima menzione di presbiteri a vincula sancti Petri apostoli. Non si sa nulla invece di una presunta denominazione precedente alla creazione del titulus Apostolorum (cfr. DELEHAYE 1930, pp. 14-15).
170 Cfr. PIETRI 1976, p. 630.
171 GUIDOBALDI 1992, p. 302, nota 459. L’assenza di un’attività edilizia di committenza imperiale si ripercuote d’altra parte nei risultati architettonici più modesti degli stessi edifici titolari, in questa fase finanziati esclusivamente da capitali privati (GUIDOBALDI 1989, pp. 394-396; GUIDOBALDI 1993, pp. 77-80).
172 Ambr., epist. 77,1, in CSEL 82, p. 127.
173 PIETRI 1986, p. 51.
174 PANI ERMINI 1989, pp. 850-853.
175 Cfr. DIEFENBACH 2007, p. 359.
176 FRANCHI DE’ CAVALIERI 1915, pp. 28-35.
177 Per una presentazione globale del fenomeno: LANZONI 1925, pp. 195-257. Sulla costruzione delle complesse maglie topografiche nelle passiones romane, secondo un meccanismo che amalgama i luoghi della realtà e quelli dell’immaginario religioso senza soluzione di continuità (cfr. ORSELLI 2003, pp. 855-890, part. 877-879), si veda SPERA 2008, pp. 335-349, part. pp. 336-337 per i racconti agiografici riguardanti gli eponimi degli edifici titolari, DIEFENBACH 2007, pp. 432-447, oltre che naturalmente la serie di studi fondamentali e ancora validi di A. Dufourcq e di H. Delehaye.
178 Passio Pudentianae et Praxedis 1, in Acta Sanctorum, Mai. 4, c. 298E.
179 Passio Marcelli 3,12, in Acta Sanctorum, Jan. 2, p. 371; Id. 3,15, in Acta Sanctorum, Jan. 2, p. 372.
180 Passio Pudentianae et Praxedis 8, in Acta Sanctorum, Mai. 4, c. 299D. Risulta alquanto indicativo come qualche secolo dopo nella chiesa di S. Prassede edificata da papa Pasquale (817-824) si avverta ancora la stessa esigenza di sacralizzare l’edificio di culto, ma il compito qui riservato al racconto agiografico viene trasferito stavolta alla deposizione intensiva dei corpi dei martiri traslati dalle catacombe (Lib. pont. 2, p. 54; cfr. CODA 2004), secondo un procedimento che interessò anche la vicina S. Pudenziana (CECCHELLI 1989, pp. 109-121), con il risultato di trasformare quelle chiese in una sorta di “macro-reliquiario” (CODA 2005, p. 73).
181 Passio Caeciliae 31, in H. DELEHAYE, Étude sur le Légendier romain. Les saints de novembre et de décembre, Bruxelles 1936, p. 219.
182 Passio Marcelli 5,22, in Acta Sanctorum, Jan. 2, p. 373.
183 Presentato come vittima innocente dell’‘affaire’ ariano, Eusebio è fatto rinchiudere dall’imperatore Costanzo in un cubiculum presso la sua domus, dove muore dopo sette mesi (Passio Eusebii, in B. MOMBRITIUS, Sanctuarium seu Vitae Sanctorum, 1, Parisiis 1910, p. 459).
184 Secondo Verrando (VERRANDO 1984, pp. 1075-1076), “non sembra che l’autore della Passio Callisti, di certo un chierico di S. Maria in Trastevere, avverta già la necessità di legare la sua chiesa al nome di Callisto […] Nella sua composizione, tuttavia, l’autore si limita ad esaltare le gesta del celebre martire, il cui santuario cimiteriale era strettamente legato alla sua chiesa vicino alla quale la tradizione locale aveva conservato una memoria che egli non trascura di rivalutare, ma in lui è ancora lontano lo scopo precipuo, presente in molti agiografi dell’epoca immediatamente successiva, di identificare il titulus presbiteriale con la casa del santo fondatore”.
185 L’omissione del redattore sembra però dovuta in questo caso ad effettiva ignoranza (ibid., p. 1060).
186 Franchi de’ Cavalieri (FRANCHI DE’ CAVALIERI 1915, p. 19, nota 4) pensò infatti alla basilica Lateranense, poi riveduto e corretto dal Lanzoni (LANZONI 1925, p. 246).
187 Passio Alexandri, Eventii et Theoduli 3,14, in Acta Sanctorum, Mai. 1, p. 378.
188 Uno studio agiografico (LLEWELLYN 1976, pp. 289-296) ha messo in relazione la composizione della passio col titulus e con il presbitero Filippo, identificandolo come presunto autore del racconto.
189 LANZONI 1925, pp. 252-253; PIETRI 1978, pp. 14-15.
190 LANZONI 1925, p. 245.
191 Passio Quattuor Coronatorum 12, in Acta Sanctorum, Nov. 3, p. 784.
192 DE SPIRITO 1993, p. 23.
193 LANZONI 1925, pp. 251-252.
194 Martyrol. Hier., p. 43; DELEHAYE 1931, pp. 189-190.
195 Martyrol. Hier., p. 106. Si ripete anche l’8 di ottobre (Martyrol. Hier., p. 130; DELEHAYE 1931, p. 546).
196 PIETRI 1976, p. 630; PIETRI 1989, p. 1060. Appare più oscuro, invece, il riferimento del 17 novembre nel quale si legge: Romae transtibere Cecilii (Martyrol. Hier., p. 144), generalmente inteso come il ricordo di un conditor tituli dal nome corretto in Ceciliae (DELEHAYE 1931, p. 604). Nonostante sia l’unico lemma che espliciti il legame topografico della celebrazione con la chiesa del Trastevere, il Delehaye ritenne però che il vero giorno della dedicazione della basilica fosse quello del 22 novembre (Martyrol. Hier., p. 146; DELEHAYE 1931, p. 613), seppure con la generica indicazione Romae (PIETRI 1976, pp. 501-502). Pietri (ibid., p. 565) pensò che il lemma del 17 novembre possa costituire un’importante traccia sulla possibilità di riconoscere già il patrocinio di una santa di nome Cecilia sul titulus trasteverino. Da ultimo c’è chi (DIEFENBACH 2007, pp. 353-354), nel voler sottintendere un’importazione di reliquie, avanza anche l’ipotesi di una santa di provenienza non romana, ammettendo però la mancanza di una documentazione di fondo.
197 La festa del 26 giugno dei SS. Giovanni e Paolo (Martyrol. Hier., p. 82) per Amore (AMORE 1975, p. 292) è stata fissata nel giorno della dedicazione della basilica del Celio, così come la festa di S. Vitale, del 28 aprile (Martyrol. Hier., p. 51), potrebbe essere ritenuta una data legata al titulus Vestinae (DELEHAYE 1928, pp. 55-59; DELEHAYE 1929, p. 10; DELEHAYE 1931, pp. 216-217). Siamo poi certi dell’origine romana dell’anniversario di S. Sabina (VERRANDO 1991, pp. 102-103), fissato al 29 agosto (Martyrol. Hier., p. 112; cfr. DELEHAYE 1931, pp. 475-476), forse anch’esso connesso con la dedicazione del titulus dell’Aventino (AMORE 1968, c. 541) e alle reliquie ivi deposte, così come si può ipotizzare una medesima derivazione per la data della celebrazione di S. Susanna all’11 agosto (Martyrol. Hier., p. 104; AMORE 1969, c. 79).
198 Martyrol. Hier., p. 99.
199 A questo riguardo si cita comunemente il clamoroso diniego da parte di Gregorio (Greg. M., epist. 4,30, in CC 140, p. 249) all’imperatrice Costantina, che aspirava ad insigni reliquie di S. Paolo.
200 Sulle fonti relative alle traslazioni di particelle dei vincula Petri: BARTOLOZZI CASTI 1997, pp. 22-23.
201 Sulle reliquie al tempo di Gregorio Magno: MCCULLOH 1976, pp. 145-183; RIGANATI 2007, pp. 531-576. Inoltre BOESCH GAJANO 2004, pp. 174-175; GODDING 2008, pp. 299-300.
202 Nella biografia di papa Simmaco (498-514) si parla di una confessio dei SS. Proto e Giacinto nella cappella di S. Andrea in Vaticano (Lib. pont. 1, p. 261), contenente con tutta probabilità, considerata la precoce cronologia, solo delle reliquie secondarie, nonostante qualche parere contrario (cfr. CECCHELLI 2002, pp. 645-659).
203 Sotto papa Adriano I (772-795), per esempio, reliquie ex contactu di Cornelio sono impiegate per la chiesa edificata dal papa in domoculta quae appellatur Capracorum (Lib. pont. 1, p. 506). Nel riferimento si usano per altro dei toni quasi si trattasse di una vera e propria traslazione di reliquie.
204 Dagli scritti di Gregorio Magno emerge una diffusa tendenza nel dedicare chiese ed altari attraverso la deposizione di reliquie. Il fenomeno avrebbe così interessato anche le chiese urbane titolari, seppure l’assenza di testi liturgici anteriori all’VIII secolo rende impossibile definirne l’applicazione sistematica (LAURANSON-ROSAZ, PÉRICARD 2009, pp. 139-144).
205 Dagli Itinerari di VII secolo (VALENTINI, ZUCCHETTI 2, pp. 77; 116-117; 144) sappiamo che le tombe di papa Marcello, di una Prisca e delle sorelle Pudenziana e Prassede erano venerate al cimitero di Priscilla, della cui titolare il titulus dell’Aventino, secondo il Lanzoni (LANZONI 1925, pp. 247-250), prese a sua volta in prestito per la propria omonima la celebrazione del 18 gennaio segnata nel Martyrologium Hieronymianum (Martyrol. Hier., p. 10) e la conservò ancora nell’VIII secolo come dies natalis quando venne finalmente redatta la passio (Passio Priscae 4,19, in Acta Sanctorum, Jan. 2, p. 551). Secondo un rapporto di reciproca influenza completamente inverso fra le titolari omonime del cimitero e della chiesa, per Amore (AMORE 1975, pp. 66-67) la data del 18 gennaio del martirologio deriverebbe invece dall’anniversario di dedicazione dello stesso titulus. Per le diverse ipotesi di identificazione delle sepolture inolte cfr. per Marcello EPISCOPO 2003, p. 18; GIULIANI 2006, p. 267; per Prisca TOLOTTI 1970, p. 282; TOLOTTI 1978, pp. 310-311; GIULIANI 2006, p. 267; per Pudenziana e Prassede TOLOTTI 1970, p. 282; GIULIANI 2006, p. 267.
206 Cfr. PIETRI 1976, pp. 651-655.
207 Greg. M., epist. 5,57, in MGH, epist. 1, p. 367.
208 CECCHELLI 1985, p. 301.
209 Passio Xysti, Laurentii et Yppoliti, in G.N. VERRANDO, «Passio SS. Xysti Laurentii et Yppoliti». La trasmissione manoscritta delle varie recensioni della cosiddetta Passio vetus, in Recherches Augustiniennes, 25 (1991), p. 208E; SPERA 2000-01, pp. 101-128, part. pp. 106-107.
210 Pietri (PIETRI 1976, p. 622) ipotizzò, come abbiamo osservato altrove, la creazione di una cappella per la memoria del pontefice già nella basilica Crescentiana (Lib. pont. 1, p. 218). Tuttavia, considerato che la stessa continuità fra la basilica dell’epoca di papa Anastasio I (389-401) ed il titulus sancti Syxti del 595 (Greg. M., epist. 5,57, in MGH, epist. 1, p. 367) è messa in forte discussione (CECCHELLI 1985, pp. 301-302), sembra più prudente collocare il culto di Sisto II entro un titulus urbano solo in età gregoriana o poco prima.
211 Greg. M., epist. 5,57, in MGH, epist. 1, p. 367. Il trasferimento del culto di questi martiri dal loro santuario cimiteriale della Labicana alla postazione cristiana del Celio è messo in relazione da Guyon (GUYON 1975, pp. 546-548) con l’evento della guerra gotica, parallelamente allo spostamento, secondo lo stesso studioso, del centro venerazionale dei SS. Quattro Coronati. Quelle turbolenze storiche influirono in qualche misura sul potenziamento dell’offerta devozionale e conseguentemente sul grado di frequentazione dei luoghi di culto del Celio, data la momentanea chiusura dei santuari della Labicana, e se, cessata l’emergenza, il culto celimontano dei SS. Quattro Coronati è attestato con continuità, quello per i martiri Marcellino e Pietro dovette subire un considerevole appiattimento fino al Medioevo, come giustamente osserva Guyon (ibid., p. 548), per la riguadagnata preferenza delle venerate sepolture della Labicana.
212 Greg. M., epist. 5,57, in MGH, epist. 1, p. 367. Su questa particolare figura agiografica: LANZONI 1925, pp. 253-254; CARAFFA 1962, c. 713.
213 CECCHELLI 1985, pp. 301-305.
214 Cfr. DIEFENBACH 2007, pp. 359-360.
215 LANZONI 1925, pp. 224-228; VANMAELE 1968, cc. 1062-1071; AMORE 1975, pp. 68-69; cfr. GUIDOBALDI 2002, pp. 1035-1041.
216 PIETRI 1976, pp. 595; 616.
217 VALENTINI, ZUCCHETTI 2, pp. 17-28.
218 PIETRI 1976, pp. 615-616; cfr. SAXER 1986, pp. 61-88.
219 PIETRI 1976, pp. 617; 621-623. L’organizzazione del calendario non significa naturalmente una scelta arbitraria degli anniversari; Pietri si pone la domanda se la selezione sia stata fatta in armonia sia con l’anno liturgico che con la devozione popolare mirata a particolari santi (ibid., p. 617).
220 Martyrol. Hier., p. 140.
221 Ibid., p. 146.
222 Ibid.
223 Ibid.
224 PIETRI 1976, pp. 622-623.
225 Ibid., p. 622.
226 Martyrol. Hier., p. 99.
227 Ibid., p. 104.
228 VALENTINI, ZUCCHETTI 2, p. 23.
229 PIETRI 1976, p. 621.
230 PIETRI 1991a, pp. 26-28.
231 Greg. M., epist. 5,57, in MGH, epist. 1, pp. 366-367.
232 PIETRI 1991a, pp. 26-28.
233 GUIDOBALDI 1993, p. 76; GUIDOBALDI 2000, p. 123; GUIDOBALDI 2003, pp. 10-11.
234 Martyrol. Hier., p. 104.
235 Ibid., p. 140.
236 Ibid., p. 99.
237 Ibid., p. 146 (codice Epternacensis).
238 BALBONI 1963, cc. 1298-1299; cfr. anche AMORE 1963, cc. 1301-1303.
239 Sul percorso evolutivo del culto dei santi, attraversato dal continuo confronto fra le esigenze pastorali della gerarchia e le inclinazioni devozionali dei fedeli: PIETRI 1991b, pp. 15-36.
240 Ambr., epist. 77,13, in CSEL 82, pp. 134-135.
241 DASSMANN 1975, p. 55; BRANDENBURG 1995, p. 85.
242 Rispetto all’elaborato sistema di individuazione e allo stesso tempo di enfatizzazione delle memorie martiriali delle chiese urbane così come si svilupperà in età carolingia (cfr. CUPPERI 2005, pp. 34; 36-38), in questo periodo la funzione di riconoscimento del culto martiriale praticato doveva essere affidata, per quanto ne sappiamo, almeno ad epigrafi d’apparato possibilmente poste nell’area presbiteriale, come per l’iscrizione dedicatoria di S. Lorenzo in Damaso, come forse per S. Sabina (CECCHELLI 2009, p. 279) e anche per S. Pietro in Vincoli (GRISAR 1898, pp. 209-210), di cui ci è attestato il riferimento esplicito alla reliquia dell’apostolo (ICR II, p. 134, n. 1; 157, n. 10; 352, n. 1; 410, n. 2 = ILCV 1781). Si consideri inoltre che, se le reliquie dei martiri erano probabilmente deposte entro installazioni fisse, in corrispondenza più o meno dell’altare, il venerato cimelio apostolico delle catene, per altro soggetto alle continue asportazioni per mezzo di limature, doveva godere di una maggiore possibilità di movimento e di fruizione visiva, probabilmente con l’ausilio di un reliquiario mobile.
243 BARTOLOZZI CASTI 1997, p. 27.
244 CECCHELLI 2003, p. 346.
245 Ibid., p. 344; PARMEGIANI, PRONTI 2004, pp. 67-72. Una correlazione fra racconto agiografico e contesto architettonico, che suggestiona il visitatore devoto, è già intuita dal Lanzoni in riferimento al titulus Eusebii (LANZONI 1925, pp. 241-242), mentre più recentemente vi allude Guidobaldi riguardo al titulus Cyriaci (GUIDOBALDI 1989, p. 388).
246 VALENTINI, ZUCCHETTI 2, pp. 40-41; 87; 110; 149. Su questa discussa figura agiografica (JOSI 1963, cc. 1064-1081; AMORE 1975, pp. 144-156) rimane da capire il rapporto esistente fra la Cecilia sepolta sull’Appia e la titolare al Trastevere, della quale si hanno le tracce più antiche (cfr. PIETRI 1976, pp. 501-502); se si tratta cioè di due omonime o della stessa facoltosa donna che fondò il titulus e che godette anche di una tale prestigiosa sepoltura ad sanctos.
247 Risultano interessanti le recenti osservazioni sull’esistenza precoce, presso alcuni tituli romani, di strutture monastiche delle quali si è tentato di definire le specifiche funzioni (MILELLA 2008, pp. 135-145). Il collegamento tra monasteri e centri di venerazione martiriale, già sperimentato nei santuari cimiteriali a partire dal V secolo e al livello urbano formalizzato solo al tempo delle traslazioni dei martiri romani, trova riscontro per il titulus Caeciliae fra la seconda metà del VIII e gli inizi del IX secolo, prima ancora cioè degli interventi di papa Pasquale (817-824) e con tutta probabilità in funzione della cura del luogo del martirio della santa (ibid., pp. 137-138; 141; 143-145); una possibilità che va nella stessa direzione è contemplata anche per S. Pietro in Vincoli, titulus a quell’epoca già detentore di reliquie (ibid., p. 145, nota 49). Tuttavia, per i secoli precedenti, non abbiamo purtroppo attestazione alcuna di quelle forme di monachesimo urbano che invece si trovano già a Costantinopoli in corrispondenza dei centri di venerazione martiriale all’interno della città (DIEFENBACH 2007, pp. 391-397).
248 DE BLAAUW 2001, pp. 977-980. Ad essa concorre anche il riuso di elementi d’arredo antichi, retrodatanti, come i sarcofagi impiegati ad hoc nell’allestimento delle confessiones (CUPPERI 2005, p. 38).

 

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