DINTORNI
...In questa stanza si soffoca: dal mare non perviene neppure un alito di vento, benché sia tempo di monsoni... anche nella mia stanzetta - se così vogliamo chiamare lo stanzino conquistato all'età di dieci anni - si soffocava nelle calde notti romane…
Questa piccola casa esposta da tutti i lati al sole, di notte vomita il caldo assorbito durante tutta la giornata: nel silenzio qualche scappamento d'auto, qualche moto che romba lontano e i treni invece rumorosissimi, che passano sferragliando quasi sotto le nostre finestre.
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Tila, il piccolo e bellissimo setter di casa, é infine quieta – anch'essa riposa come voi due, tutti e tre stremati dalle corse del giorno - abbandonando nella cuccia morbida il mobile muso picchiettato di grigio, altrimenti sempre all'erta.
Soffoca, povera bestia nata per gli spazi campestri, per le corse nell'aia, in questo appartamento troppo stretto dove intralcia e sacrifica. Si rallegra solo quando vede te, Simone, che la carezzi e vezzeggi e poi, d'improvviso, quasi la maltratti con modi rudi ma non cattivi e lei, comprensiva, ti salta intorno, ti lecca le mani e le gambe nude, abbaia la sua contentezza di dividere con te la sua solitudine.
Ha bisogno di uno spazio più grande, come forse anch’io ne avevo bisogno rispetto a quella stanzetta della mia infanzia di cui vi parlavo - ha necessità di stare all'aria aperta, vicino ad altri cani con cui scambiare, senz'essere rimbrottata, lunghi e intensi guaiti.
Accetto, controvoglia, le sue manifestazioni d'affetto, qualche timido bacio contro le mie gambe nude e ritrose quando mi prende alla sprovvista, lo sventolio della sua coda, il frenetico andirvieni sul piccolo balcone di cui rimane padrona durante le nostre passeggiate e da cui spia, come da un posto di vedetta il nostro rientro...
Non ho un gran trasporto per le bestie, siano essi cani, gatti, canarini o piccoli pesci d'acquario come quelli che vostro zio alleva nella sua stanza disseminando ovunque grossi luminosi parallelepipedi, colmi di fauna e flora acquatiche.
Sarà forse perché, al di fuori del loro ambiente naturale, tutti gli animali mi danno un senso di tristezza, di prigionia... Gli unici esseri che abbiano infranto questa mia disposizione d'animo sono stati Tila, la cagnetta che l'aveva preceduta, un cocker nero e dolcissimo di nome Morena ed il piccolo barboncino nero e ricciuto della mia infanzia, Black...
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Ieri sera vi ho raccontato della mia giovinezza, passeggiando per le vie centrali di questa cittadina marina dopo che tu, Simone, per convincermi ad andar fuori mi hai quasi costretto a giocare una partita a carte, la cui posta era appunto questa passeggiata notturna a cui tenevi e nell'uscire, stringendomi la mano, avevi detto: "Così ci racconti di quando eri piccola!..."
Ed io vi ho raccontato particolari e situazioni che di volta in volta hanno suscitato in voi domande o risa che d’improvviso si sono interrotte quando, tra un turbinio di luci di bar e di negozi ancora aperti, ci si era rivelata la lucentezza degli ottoni di una sparuta banda musicale che stava accordando gli strumenti.
https://www.molisetour.it/blog/blog_vedi.php?Titolo=Quei%20briganti%20Molisani&gruppo=&settore=&nBlog=191&p=blg_0&m=1
Pochi musici - alcuni ancora quasi bambini, altri già anziani - stavano aggiustando sui leggii le partiture strimpellando qualche nota indecisa finché il maestro non si pose al centro del piccolo drappello, alzando una mano e dando avvio al primo pezzo: non si trattava di musica operistica, era l'allegra marcia dei Marines che esplodeva festosa a dare inizio allo spettacolo, mentre tutto intorno si faceva silenzio.
Il cielo era terso, così limpido che si distinguevano persino l'Orsa Maggiore e la sua sorella Minore, con tutto il loro splendido corteo di stelle e l'aria si fece quasi autunnale... Le note s'alzarono dapprima insicure, poi sempre piu` decise, a dar vita a motivi che mettevano allegria, che facevano venire la voglia di seguire il tempo con un lieve batter di piedi ed anche voi guardaste contenti e sorpresi quella festa di suoni e di colori.
Gli ottoni brillavano riflettendo luci sospese, creando riverberi dorati ad ogni piu` lieve movimento e riportavano alla mia mente le feste di paese della mia infanzia: sul palco addobbato con cura nei giorni precedenti la festa, prendeva posto la folta schiera dei bandisti e nell’aria si faceva un silenzio carico di attesa.
Ed eccomi, iersera, di nuovo dinanzi a quella rinnovata magia, eccomi ancora pronta a saltellare tra la folla, accompagnando col canto il ritmo d'un'allegra marcetta trionfale... ma, ormai, questo non é più il tempo della mia infanzia, ora é tempo di dar spazio a voi due che, con l'avidità propria della adolescenza avete assaporato ogni attimo dell'imprevista serata.
Eppoi, stanchi alfine d'una così intensa giornata, vi siete coricati sul letto matrimoniale che vi ho ceduto per l'assenza di vostro padre, longilineo l'acerbo corpo di Donatella con le lunghe gambe scomposte e le braccia avvinghiate al cuscino, morbido e piccolo il tuo, Simone, la testa bruna poggiata sull'omero, già forse dimentichi di ciò che vi ho narrato.
...Stamani mi sono svegliata presto, non sono nemmeno le sei e mezza, il cielo é chiaro e compatto, il sole ancora non si fa vedere, l'aria, per fortuna, é fresca.
La cittadina é ancora sonnolenta, solo gli operai dell'Italsider e del Casone già vanno lesti e chiusi nelle tute blu consunte, a prendere il posto di quelli che hanno appena concluso il turno di notte e in fila, come una lunga teoria di formiche operose in un brulicante formicaio, si preparano a tornare alle loro case.
Bastano pochi minuti e si ridesta di colpo, richiamando al lavoro schiere di bottegai, d’impiegati e di bagnanti già pronti per una mattinata da trascorrere in riva al mare, coi loro ombrelloni multicolori sotto il braccio e le lunghe pinne nere che spuntano fuori dalle borse sovraccariche.
Sul lungomare, poco prima deserto, dove le sedie a sdraio degli stabilimenti balneari sono schierate come tanti soldatini pronti ad un'immaginaria battaglia, si riversano decine e decine di persone...
I rondoni squarciano l'aria coi corpi tozzi e pesanti che vanno a velocità incredibile, tanto che temo di vederli sbattere contro gli ostacoli che si frappongono alle loro evoluzioni, ma con un guizzo repentino, le sagome nere deviano e sfrecciano nel cielo mattutino, lanciando nell’aria stridii metallici come segnali acustici...
Sembrano gli stessi che osservavo, dall'alto della mia terrazza, tanti anni fa, al tempo della mia infanzia, di cui ieri sera vi ho narrato, confondendo date, saltando a pié pari anni o situazioni, descrivendo episodi festosi e tacendo su altri piu` tristi.
Di questo periodo non ho un ricordo globale ma solo qualche immagine, vaghi frammenti suscitati per lo più da fotografie che mi ritraggono sempre sorridente, festosa, ben vestita... Eppure temo di non esser stata così felice...
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LA STANZA
Vi ho parlato dell'ambiente in cui vivevo assieme ai miei genitori e a Carlo, io fratello, d 4 anni minore di me una stanza di quindici metri quadri, che sembrava un magazzino in cui i mobili s'accatastavano l'uno sull'altro. Alle pareti una carta verde scuro con grandi disegni liberty di colore dorato che si rincorrevano monotoni, ripetitivi e nell'angolo accanto alla finestra, un tavolo ovale d'un bel legno pesante dalle venature rossicce, massiccio il blocco su cui poggiava, diviso in tre gambe istoriate a forma di zampa leonina.
Un comò, quelli d'una volta con il piano di marmo e la specchiera, troneggiava solido al centro della stanza, ai piedi del letto, poi un armadio, il mio lettino, una credenza nuova di zecca con tavolino e sedie affastellate l'uno sull'altra in un angolo... il caos primordiale del dopoguerra, retaggi d'un mondo antico che non si poteva ancora abbandonare e la voglia di novità, la speranza d'un avvenire migliore...
… Questi furono gli inizi per i miei genitori che, dal natio paese sannita, vennero ad abitare nella Roma del dopoguerra già allora caotica ed affollata, installandosi in quella stanza di subaffitto, occupata da qualche tempo solo da mio padre, presso un'anziana signorina siciliana che, per un intreccio di oscure parentele, lo aveva accolto in casa sua come pensionante e che divenne per quella giovane donna, ricca di sogni e ancora un pò infantile che era mia madre, abituata al tranquillo vivere di un piccolo paese di provincia, un punto di riferimento, di compagnia e di consolazione.
Dei miei primi anni non ricordo molto, forse ho cancellato quasi tutto per quella sorta di autodifesa che senza volere erigiamo nel nostro io per allontanare dalla memoria le esperienze negative della vita, tranne forse l'affetto della vecchia zia Eugenia che, come una vera nonna, mi colmava di vizi e tenerezze, inventando per me nomignoli buffi e allegri come Scarabocchio, Giuggioletta, Patatina...
Di lei, la signorina ormai anziana che per anni ci offrì la propria casa in subaffitto, ho un ricordo vago, velato come di una nonna morta prima del tempo.
E il mio lettino con le sbarre azzurre, un piccolo spazio entro cui giocare e il mio pupazzo preferito, una giraffa di pezza marrone con una lunga criniera di pelle che le scendeva sul collo a cremagliera, che conducevo con me ovunque andassi e che, a fine giornata, riponevo in una scatola sotto il lettino con altri pochi giochi...
… Tutto il quartiere pullulava di alti palazzi grigi dalle mura di pietra squadrata, in stile umbertino, anneriti i fregi di gesso che incorniciavano le alte finestre ed i balconi, ingrigiti anche i lunghi cornicioni allineati in bilico, là in alto, a metter limite al cielo.
Il palazzo in cui sono nata, del tutto simile agli altri, é ancora là, il terzo da sinistra venendo dalla via Merulana, in quella che s'era chiamata via Leonardo da Vinci ed ora si chiamava via Angelo Poliziano.
Quando mi chiedevano dove abitassi, rispondevo: "Nel palazzo più brutto di via Poliziano, lo trovate subito!". E invece, ora, lo ricordo con quella nostalgia propria con cui si rivedono le cose dell'infanzia anche se, obiettivamente, l'androne era un tunnel oscuro con quel lampadario di ferro battuto che mandava una luce fioca sulla volta e, ad ogni alito di vento, destava ombre lunghe e minacciose.
Ora s'apre sulla via mostrando la sua rinnovata fisionomia, la facciata da poco ridipinta di un caldo color marrone, il portone lucidato a nuovo; dalla volta chiara ed ampia, il lume di ferro battuto é sempre là, unico ricordo tangibile dell' origine ottocentesca del palazzo..
"Quelli sì, che erano bei tempi - direbbero gli anziani, come fanno ad ogni possibile occasione - ma a volte lo dico anch'io che mi trovo sbandata nella mia generazione - quelli sì che erano bei tempi, quando c'erano il Sor Peppino e la Sora Elide, che esercitavano il loro portierato nel gran palazzo al 43 di via Poliziano.
L'odierno portiere staziona pigramente nella sua guardiola poi quietamente s'alza e s'installa dinanzi al portone, con quella sua aria di negligenza, d'impertinenza, il volto bruno, quasi livido, un tantino provocatorio.
Ricordo i suoi predecessori, un omino piccolo, simpatico con una nidiata di figli di ogni età, chiassosi ed una moglie grassa e malaticcia, ma quello con la personalità più spiccata era il Sor Dante, l'arguto toscano che chiudeva con gesti misurati e lenti il portone dopo una giornata passata di sentinella dinanzi al palazzo e si ritirava nel piccolo abitacolo di due stanze e cucina che divideva con la moglie, una donna magra ma forte con una paralisi progressiva ad una gamba che si trascinava faticosamente e raramente sin sulla soglia del portone e con la figlia, una giovinetta bruna che si avviava a diventar provocante, dal terribile nome – Marricana - derivante forse da una sperduta località africana (forse un altipiano, una vittoria, una regione?) dove il padre aveva passato lunghi mesi durante la seconda guerra mondiale, oppure soltanto dalla contrazione di Maria, la Madonna e americana.
LE SIGNORINE DELLO ZERO 4
Ma i più vivi nel ricordo, le figure della mia infanzia, sono la Sora Elide e il Sor Peppino, lei piccola e tondetta, una crocchia di capelli bianchi, lui magrissimo, stempiato, un viso simpatico e arguto.
Già vecchi quand'io ero bambina, ebbero un breve, fuggevole momento di notorietà quando nel vecchio, scuro portone venne ambientata una scena del film "Le signorine dello 04", le telefoniste della TETI.
Roberto Risso, l'aitante protagonista alto e biondo,con l'aria di ragazzo di buona famiglia, chiedeva alla vecchietta affacciata alla sua guardiola: "A che piano abita la signorina X?", con la sua voce calda che interrogativamente indugiava sull'ultima sillaba, con la cadenza propria della sua origine veneta.
Lei, la Sora Elide, con un gesto parco della mano e una vocina resa sottile dall'emozione, mormorava"... Al primo..." e scompariva subito di scena...
Certo quello fu il suo momento di celebrità, breve ma intenso, costellato di mille domande da parte di conoscenti, inquilini o abitanti nella strada e nei dintorni.
Il Sor Peppino, lo ricordo invece intento a ramazzare, con una di quelle vecchie scope di saggina, l'ampio androne e l'allora fiorito cortile interno su cui s'affacciavano le tre scale del palazzo. Quando andarono via, tutti gli inquilini ne sentirono la mancanza; una giovane genia di portieri seguì ai due vecchi che appartenevano ad un'era ormai passata, in cui il portierato era sentito come un lavoro artigianale ed il rapporto con i pigionanti diventava d'amicizia, non vassallaggio o addirittura d'indifferenza totale.
Un pò come quelle figure di vecchie balie o domestiche che dedicavano la loro intera vita alle famiglie e alle figliolanze altrui e che per loro sacrificavano - ma ciò non era subito come sacrificio, piuttosto abbracciato come scelta vocazionale - la propria personalità ed esistenza con una dedizione completa tanto che, spesso, esse diventavano il fulcro della casa, attorno a cui ogni piccolo avvenimento ruotava e si risolveva grazie alla loro efficienza, alla loro esperienza, alla loro inesauribile pazienza.
SABETTA
Mia madre, ad esempio, mi parlava sempre di Sabetta - la chiamavano con questo nomignolo in casa, riducendo a tre sillabe il lungo, maestoso nome di Elisabetta, forse troppo imponente per un esserino così minuto - la sua tutrice, domestica tuttofare che nella casa paterna aveva prodigato cure e dedizione, rinunciando all'unica occasione della sua vita di crearsi una famiglia sua, pur di non abbandonare il servizio e veder crescere i numerosi figli di mio nonno – “ò Maestro”, come lei lo chiamava - e di Donna Vittoria, così ammalata, così triste...
Conobbi Sabetta quando ero ormai adolescente; di lei rammento un corpo esile, rattrappito dall'età, un volto aggrinzito da mille piccole rughe che al solo vedere mia madre, che quasi aveva cresciuto, si distesero in una specie di sorriso allegro, uno dei pochi in quella sua esistenza ora così vuota, senza scopo.
Poi fu tutto un rammentare persone, luoghi e tempi passati con un chiacchierio che era per me come la colonna sonora d'un film mai visto che ora vedevo scorrere sotto gli occhi della fantasia: vedevo mia madre, la sua fragile figura di giovanetta che, curva contro il vento impetuoso che soffiava d'inverno dalle sue parti, tentava di procedere nella neve.
Indossava forse uno di quei lunghi cappotti che si rivedono nei films dell'epoca, in testa un turbante di lana dai molti colori che lei stessa aveva sferruzzato, nelle lunghe sere passate accanto al camino, proprio sotto le indicazioni di Sabetta e che lei tentava di tenere accostato attorno al capo affinché l'aria gelida non penetrasse lungo il collo, ma dei riccioli neri e ribelli si sprigionavano dal loro nascondiglio coatto formando attorno al suo viso una bruna aureola su cui, come diamanti iridescenti, brillavano tremule gocce di brina.
Tornava a casa dalla scuola, traversando banchi di nebbia che si alternavano a brevi zone di sole... rideva con le sue compagne di quel momento gioioso di libertà ed il riso, dalle sue labbra rosse di freddo si rifletteva negli occhi grandi e scuri da giovane araba con rapidi scintillii...
E nondimeno il suo volto, che ritrovai poi in alcune vecchie foto, era simile a quello d'una Madonna dolce ed un pò triste con quei due occhi spaesati che guardavano l'immensità del mondo come due fari accesi sulla sporgenza degli zigomi pronunciati. I capelli ricadevano in boccoli morbidi coprendole le spalle aggraziate e lasciando libera la bella fronte liscia...
Arrivava a casa intirizzita e lei, la tuttofare, era là ad attenderla, a ravviarla, a riscaldarla, mentre lei già aveva preso in braccio, dolce mammina, l'ultimo nato d'una lunga serie di fratelli di cui lei era la maggiore...
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Mio nonno era un uomo intelligente, spiritoso, era un insegnante elementare incline alle cose belle da fare e da scrivere, aveva collaborato con delle testate nazionali molto importanti con interessanti articoli che spesso trattavano della sua regione, piccola e misconosciuta da quasi tutti, ma bella e ricca di tante belle cose, il Molise. Interessanti alcuni dei nomi che diede ai suoi figli...
Aveva partecipato alla prima Guerra Mondiale e non so come non so perchè, al momento della disfatta di Caporetto riuscì a salvarsi e a tornare felicemente a casa. In quel tragico frangente aveva incontrato, l'altro mio nonno, il padre di mio padre, nonno Tonitto, così lo chiamavamo benchè il suo nome fosse Domenico, forse perchè era nato in Argentina, a Buenos Aires. I due non si conoscevano: sta di fatto che uno dei due salvò l'altro, nessuno mi ha saputo chiarire la faccenda e ambedue si diressero probabilmente nel piccolo paese dove risiedeva Flaviano, che aveva una sorella, Matilde, che dopo un pò sposò Tonitto...
Dunque mia madre, Isabella aveva sposato Alfonso Guido, uno dei figli di Tonitto, insomma aveva sposato un suo cugino di primo grado. Credo che per il tempo fosse un grande scandalo, ma credo che loro fossero al di sopra di tutte le chiacchere...
Zio Alessandro, zia Maria (a destra della foto) e mia madre
Zio Alessandro-Dionisio era il secondo, chiamato da tutti Papanonno per quella sua aria di compostezza, già propria di un anziano, un pò sornione e a prima vista scorbutico ma sensibile, invece e pieno di gentilezza.
Poi veniva zia Maria-Vincenza, chiamata "la Zeppa" per il mento un po’ prominente allora sul viso magro (non se lo sarebbe aspettato di diventare grassoccia negli anni successivi), sempre ridente e intenta a preparare manicaretti succulenti e ad organizzare festini alla sua maniera, mantenendo negli anni intatte le amicizie e la miriade di parenti disseminati qua e là.
Zia Luciana-Carolina, chiamata "’a Signora" per quella sua aria di superiorità che pure nascondeva un fardello di solitudine, aggressiva e autoritaria perchè la vita e le esperienze l'avevano indurita e pure, con le sole sue forze, era riuscita a tirare avanti, dopo la morte della nonna, la banda irrequieta dei maschi rimasti senza guida...
Zio Gennaro-Felice, chiamato "il Bandista" perchè da piccolo dirigeva immaginarie bande di musici, forse al ricordo delle colorate feste locali di cui la banda rappresentava il punto focale. Anche successivamente avrebbe "diretto" allegramente la sua vita con un pizzico di follia gioiosa.
Zio Erennio-Franco-Gaio, invece, era taciturno ed introverso, cresciuto coi nonni già anziani e solitari, amava la vita all'aria aperta e gli animali, le cose semplici e aveva poche fantasticherie ma idee precise. Ma quando eravamo insieme, tutti quanti, era allegro e spontaneo e le sue battute da ricordarsi.
Lo seguiva zio Francesco-Anatolio, un tipo fine e di buone qualità, che avrebbe forse potuto mettere a miglior frutto la sua intelligenza e le sue possibilità se non fosse stato animato da un pizzico di troppo d'ambizione...
Dulcis in fundo Giuseppe-Tifernino, Peppino, l'ultimo della nidiata, che aveva solo pochi anni più di me, che io ricordo non molto più alto di me e che al mio arrivo da Roma mi accoglieva con un "Ma ce li fanno a Roma i goccioloni?".
Era venuto su da solo come un fiore selvatico ma ben piantato nella terra, con un pizzico di ironia e di strafottenza che gli sarebbero serviti nella vita...
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ZIA LUCIANA
… Una sera, strappata a forza dalla tua solitudine, sei restata a cena da noi, con la speranza di essere poi riaccompagnata a sera inoltrata in macchina a casa tua. Ma, forse già lo sapevi che ti avremmo costretta a rimanere con noi fino all'indomani.
Tanti discorsi si sono intrecciati sulla tavola imbandita, discorsi di cose minute, utili, inutili poi, sollecitata da una domanda relativa a Sissi, la bella imperatrice austriaca (di cui in questi giorni la tv replica per l’ennesima volta la trilogia di films interpretati dalla giovane, bella e sfortunata Romy Schneider), ti sei "esibita" documentandoci con nomi, dati e fatti sul complicato albero genealogico degli Asburgo, con l'intreccio delle varie parentele che lo legano alle altre case regnanti europee, su Casa Savoia e lì, subito ho potuto constatare la tua eccezionale memoria, esumando dalle mille meraviglie che racchiudo nel mio sgabuzzino, giornali di circa 50 anni fa.
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Dalle case regnanti alla nostra "casata" il salto é stato breve e forse tu non chiedevi altro in quel momento che riaprire il forziere dei ricordi infantili e ritrovarti nell'enorme casa situata ai limiti del paese, come un piccolo castello feudale con ampie stanze dalle pareti decorate da quadri e arazzi ed il cortile interno cintato da un cancello.
L'ampio portale era sempre aperto ad amici e mezzadri che portavano il ricavato della campagna, che poi veniva ammassato in ampie ceste o disposto sugli scaffali del ripostiglio, una vasta stanza buia di cui voi piccoli avevate paura, ma che vi attirava come una stanza di segrete meraviglie, per via della frutta e dei dolciumi lasciati in bella vista.
Ed organizzavate delle rapide sortite per impadronirvi d'una succosa fetta di cocomero o d'un grappolo d'uva ancora acerba nelle ore silenziose del pomeriggio quando la casa e i grandi dormivano sotto il sole.
Al risveglio poi, la voce acuta della bisnonna denunciava il furto e pretendeva per voi atroci punizioni a cui mio nonno, vostro padre, con la consueta bonarietà, vi sottraeva sfidando l'autorità materna.
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Le ampie sale davano sul porticato coperto dove il sole giocava con voi a rimpiattino, evocando dal buio degli angoli sinistre figure di fantasmi e di streghe, popolazione centenaria di racconti e di fiabe che ogni sera le nonne narravano dinanzi ai camini.
Ricordo anch'io una delle bisnonne: alta e magra nella mia immaginazione di bambina, tutta nera nelle vesti da lutto che le donne di paese un tempo indossavano nella vedovanza e poi non smettevano più, votandosi ad un'esistenza popolata di ricordi e di fantasmi.... Annuccia, Annina... come la chiamavate? Mammanonna Jannuccia ... ecco, in dialetto molisano tanto simile a quello campano, avendo quella zona fatto parte in passato della provincia di Benevento, sotto il Regno Borbonico, di cui assorbì tendenze, difetti ed una certa apatia tipica del Sud, un provincialismo gretto, antipatico ma quasi inevitabile.
Di contro, a tali difetti s'accompagna e riemerge con irruenza, l'anima sannita annidata nel profondo, una rudezza di modi ma non di animo che subito si scioglie in risate e battute ironiche, in un gran senso di ospitalità.... |
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RICORDI
… Un ricordo preciso: a quattro anni e mezzo la nascita di Carlo, mio fratello.
Un tramestio nella stanza da cui m'allontanarono in fretta per trasferirmi in quella grande e buia di zia Eugenia; io ascoltavo le voci concitate, i rumori e gli andirivieni che fervevano nella camera da letto e, poiché sapevo che doveva accadere qualcosa, m'aspettavo di veder comparire da un momento all'altro una grande cicogna bianca (come si diceva ai miei tempi)... eppoi, ecco la voce della signora Carmazzi, l'ostetrica, che annunciava: "É un bel maschiotto di quattro chili".
Dopo un tempo che mi sembrò interminabile, la calma tornò nella casa e io venni sospinta accanto al letto matrimoniale dove la mamma, stanca ma con un sorriso sulle labbra, mi strinse a sé e m'indicò l'atteso bambino che giaceva accanto a lei: grasso e beato, biondo, con un completino azzurro cielo che ben s'intonava alla sua carnagione, il bimbo già dormiva beatamente.
Carlo prese il mio posto nel lettino azzurro con le sbarre mentre io prendevo possesso d'un divano letto nuovo di zecca, sistemato a fatica nell'angusto e buio corridoio di passaggio, situato dinanzi alla camera da letto dei miei e comunicante con l'ingresso. Non v'era altro spazio per me.
Forse dovetti detestare con tutti i miei sentimenti quel piccolo essere intruso che oltre che dal mio letto mi spodestava nell'affetto e nell'attenzione dei miei ma presto, con la mia solita accettazione degli eventi, mi rassegnai e lo accettai nella mia vita, dividendo con lui lo spazio già esiguo e i giochi, le delusioni e le amicizie infantili, facendone presto un piccolo paggio che mi seguiva nelle divertimenti e nelle scorribande che intraprendevo con l'inseparabile Etta.
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Rapide passano altre immagini di quel periodo perduto come sagome su una moviola: io nella stanza di zia Eugenia, seduta accanto al lungo tavolo dalle zampe a forma di testa leonina mentre gioco con i suoi magici oggetti, tratti fuori dall'antico armadio di legno scuro ed i piedi leonini con la vetrina dai vetri ocra, che disegnavano innumerevoli cerchi...
Ed ecco gli antichi ventagli delll'anziana signorina, che per me rappresentavano uno spettacolo, di cui mai mi stancavo: preziosi, di pizzo o dipinti con delicate scene ottocentesche, le loro esili stecche d'avorio traforate che ho già un po’ sciupato giocandoci fin troppo spesso, un cristallo di rocca di forma pentagonale che, esposto alla luce, rifletteva mille colori, dietro cui la mia mente si perdeva, un souvenir di vetro, una murrina con la "neve" dentro...
E un libretto d'opera - la "Turandot" - rilegato in color rosso cupo che io leggevo e rileggevo, dapprima stentando nella lettura ma facendomi via via più intraprendente, figurandomi la storia, gli avvenimenti e i due personaggi principali dell'opera, Liù e Calaf...
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… A rallegrare le nostre serate c'erano, dunque, d'estate le passeggiate al Colle Oppio, le cenette in qualche osteria intorno casa, le lunghe chiacchierate sulla porta di casa con Etta, la signorina Alba e la signora Sara...
D'inverno ci si radunava attorno alla radio, una di quelle imponenti di radica, rumorose, che troneggiava in mezzo alla stanza.
La mamma passava il tempo a ricamare - era bravissima - vestitini o centrini o a lavorare all'uncinetto o a sferruzzare, zia Eugenia leggeva e noi due piccoli ascoltavamo intenti e curiosi i varietà musicali o i drammi a puntate, ridendo ogni volta che il fischiettio d'un uccellino precedeva lo scoccar dell'ora, mentre sfogliavamo libri di fiabe o d'avventura.
Spesso andavamo anche al cinema, il più delle volte al vicinissimo Brancaccio (che oggi pomposamente ha assunto il titolo di teatro dell'opera) e, seduti sulle poltroncine, oltre a godere del film, spesso seguivamo l'apertura della cupola circolare posta sul soffitto che veniva aperta per cambiare l'aria (all'epoca i fumatori accendevano indisturbati le loro sigarette) o
anche al vecchio cinema Roma, un angusto locale fumoso di second'ordine in via dello Statuto, dalle sedie sconnesse che cigolavano ad ogni movimento, oppure al Cristallo (che invece é disceso di grado con i suoi films a luci rosse).
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Spesso andavamo anche al cinema, il più delle volte al vicinissimo Brancaccio (che oggi pomposamente ha assunto il titolo di teatro dell'opera) e, seduti sulle poltroncine, oltre a godere del film, spesso seguivamo l'apertura della cupola circolare posta sul soffitto che veniva aperta per cambiare l'aria (all'epoca i fumatori accendevano indisturbati le loro sigarette) o
anche al vecchio cinema Roma, un angusto locale fumoso di second'ordine in via dello Statuto, dalle sedie sconnesse che cigolavano ad ogni movimento, oppure al Cristallo (che invece é disceso di grado con i suoi films a luci rosse).
Era l'epoca dell'epopea americana, dei films storici, di quelli strappalacrime, dei westerns e gli eroi in Cinemascope, erano sempre gli stessi che ancor oggi la tv ci propina ad ogni pié sospinto, intatti nella loro bellezza e gioventù: la simpatica faccia di Clark Gable, che per me rassomigliava a mio padre giovane, la figura longilinea di Gary Cooper, l'eleganza di Cary Grant, il fascino di Gregory Peck, la prestanza di John Wayne paladino d'una giustizia imparziale, gli occhi magnetici di Lawrence Olivier, le fossette accattivanti di Vivien Leigh, lo sguardo vellutato di Elizabeth Taylor...
I loro volti ormai familiari balzavano coloratissimi ed enormi dagli schermi cinematografici e riempivano le sale buie e la nostra infanzia forse un pò povera d'altro, di storie e di sogni senza tempo.
Per non parlare del colossal del momento "7 spose per 7 fratelli", alegro, quasi spensierato, in cui si indossavano costumi che mi facevano pensare - non ne vedo, ora, la connessione - alla ormai destabilizzata armata Rossa. Forse sono per sempre anch'essi fermi a quel periodo miracoloso per noi, che fu il boom economico degli anni 50-60: la Fiat, il televisore,. Il frigorifero, la lavatrice. I loro visi aperti, sorridenti, la loro ingenuità e noi vecchi occidentali, forse stanchi ormai di tutto, riprendevamo vita per affrontare altre esperienze
I films diventavano un supporto ai libri che però continuavo a leggere senza parsimonia. Gli attori italiani, che pure mi piacevano, non ebbero però mai quel fascino grandioso e fanciullesco che suscitavano in me gli hollywoodiani, forse perché raccontavano storie vere e tristi in cui una realtà così vicina com'era quella del periodo bellico, ancora scolpita nelle mente e nelle carni dei più, era sempre presente e la povertà imperversava.
Il neorealismo, sottolineato da quei bianchi e neri violenti, da quelle inquadrature sbieche, da facce taglienti d'uomini e donne comuni che vivevano dolorosamente, mi impressionava allora e riuscivo a comprendere solo la grandezza di attori come Totò e la Magnani che pure avevano un unico denominatore comune: la maschera dolceamara che andava bene per la tragedia e per la farsa.
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COINQUILINI
… Allora, al tempo della mia infanzia, quaranta anni fa, non era solo il palazzo ad apparire diverso ma tutto il modo di vivere e la gente che vi abitava o che vi ruotava intorno...
Molti di essi non ci sono più, altri, i sopravvissuti, ovviamente dimostrano tutti i loro quarant’anni in più, ma io nel ricordo li ho fermati all'età d'una volta, come se il tempo non fosse trascorso,tutti immobili come per una foto ricordo.
É una folla di gente che mi preme dentro o batte alle porte della mia memoria per ritornare a vivere, anche se per poco, in qualche breve immagine, in qualche riga.
Ed io li lascio entrare, zittendole, perché voglio concentrarmi nei ricordi ed esse, assentendo, avanzano lentamente senza far rumore, in punta di piedi. S'avvicinano sul lustro mattonato a scacchi bianchi e neri di quella che era la camera da pranzo della mia infanzia: io sono là, ancora bambina, dietro l'enorme tavolo dai piedi di leone e li sto attendendo, affascinata...
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DELY E LA SIGNORA ANGELINA
...Le prime ad apparire sono due piccole figure di donna: la signora Angelina e Dely, la sua figliola, ambedue scarne, minute, delicate. Abitavano nell'appartamento sotto a quello in cui vivevamo e vivono tuttora i miei. Si tenevano più che mai compagnia da quando l'unico uomo di casa, il Sor Oreste, era morto.
Dely era un esserino fragile, una di quelle signorine della borghesia d'una volta, nata già vecchia ed intristita che si ravvivava solo quando si sedeva dinanzi alla tastiera del gran pianoforte che troneggiava nella sala da pranzo.
La loro solitudine era interrotta spesso dalla mia presenza e da quella di Carlo, di quattro anni più piccolo di me che, vivaci com'eravamo, riuscivamo a comunicare loro un pò d'allegria. Talvolta la mamma, per qualche impegno o visita dal medico o quando pioveva e doveva andare a far la spesa, ci lasciava presso di loro: Dely tentava vanamente d'insegnarmi a tenere le dita sulla tastiera, picchiettando accuratamente "Il pianto d'una vergine".
Ascoltavamo curiosi e attenti la radio - l'era della televisione, grazie a Dio, non era ancora che agli albori qui in Italia - attendendo l'ora del programma musicale "Ballate con noi". Carlo, che era portato per la danza, afferrava subito il ritmo e accennava, allegro e compunto a qualche passo di ballo.
La signora Angelina ci riempiva d'attenzioni e di chicche, soprattutto di quei pesciolini di liquerizia dura e succosa che lasciavamo sciogliere lentamente in bocca, assaporandone il gusto amarognolo.
Da un giorno all'altro, la vita delle due donnine prese una piega allegra, gioiosa, quando decisero di acquistare un cagnolino per alleviare la solitudine che soprattutto a Dely pesava.
Era un barboncino nero e ricciuto a cui il nome Black sembrava attagliarsi a pennello. Ancora malsicuro sulle zampe, scivolava sul pavimento di marmo lucido di cera, suscitando la nostra ilarità ed il nostro affetto; anche noi eravamo coinvolti ed estasiati da questa novità e lo ricoprivamo di carezze, di tenerezze non mancando però di fargli qualche scherzo.
Per festeggiare i suoi tre mesi, gli portammo in regalo una coppetta colma di panna ornata d'una grossa cialda che lui divorò in un momento, imbiancandosi il musetto allegro e facendoci scoppiare in una risata fragorosa...
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IL BALCONE
Il balconcino (mezzo metro per due e mezzo di lunghezza) confina con un altro da cui é separato solo da una sottile parete di ferro a cremagliera.
Quante ore passate su quella loggia, anni fa, a parlare con Etta, la mia amica-sorella, comunicando silenziosamente coi gesti o con l'alfabeto muto; d'estate o d'inverno, di giorno o di sera, durante le vacanze estive, in quei torridi pomeriggi assolati, quando gli adulti riposavano nelle stanze in penombra... noi sole, impavide, vegliavamo nella via, io come di vedetta, spenzolante dall'angolo del balconcino, lei protesa sulla balaustra di marmo: intrecciavamo discorsi e scherzi, risate che rimbalzavano sonore sui sampietrini bollenti della strada, sui vecchi muri di cinta del giardino pensile delle suore da cui spuntavano garruli ciuffi d'erba, sulle persiane socchiuse dietro cui sonnecchiavano talora querule vecchiette sempre pronte a spiare la nostra gioventù rumorosa, i nostri giochi sospesi come da un ponte tra una finestra e l'altra.
Poi, stanche anche di questo, ad un cenno d'intesa sparivamo nell'interno delle nostre case per rivederci, un attimo dopo, fuori della porta, sul pianerottolo la cui penombra si faceva complice di altre confidenze, di sussurrii, di risate trattenute...
Io ero sempre da lei, lei da me: bastava che battessimo sul muro comunicante, in un vuoto risuonante - primo nostro mezzo di comunicazione scoperto ai primordi della nostra infanzia - perché a quel richiamo ci ritrovassimo sul pianerottolo.
A volte facevamo a gara a chi arrivasse per prima al mezzanino sovrastante o addirittura all'ultimo piano. Le scale erano larghe allora - l'odierno ascensore non era ancora stato installato, riducendone l'ampiezza - e potevamo comodamente salire assieme correndo animatamente, ma subito Etta, con le sue lunghe gambe agili mi distanziava, benché io, orgogliosa, mettessi in gioco tutte le mie forze per raggiungerla.
Dall'altra parte del balcone viveva un'allegra e numerosa famiglia la cui capostipite, la signora Delia, era una donna grassoccia dal volto giovanile e sereno su cui spiccavano due occhi ridenti e ciarlieri anch'essi.
Mia madre faceva volentieri due chiacchiere con lei, spesso si chiamavano battendo il pugno sul nero divisorio di ferro che produceva un cupo, metallico rimbombo. Un pò come facevamo io e Etta.
Ci affacciavamo, allora, mia madre, io e mio fratello per veder spuntare le teste ricciute dei suoi due nipoti nostri coetanei, figli di Giselda, la sua prima figlia che abitava ad un piano di sopra, sempre pronti al gioco; a volte era solo per metterci d'accordo sull'orario in cui ci saremmo ritrovati giù al portone per recarci al vicino giardino, per andare al mercato e la sera, poi, in quelle afose sere d'estate romane, se non si usciva per andare ancora una volta al Colle Oppio, si restava lì sul balcone a bearsi di qualche rara folata di ponentino che giungeva a raffreddare le mura surriscaldate dalla calura diurna, ancora insieme all'altra famiglia ad ascoltare le storielle argute della signora Delia e le battute allegre del figlio, Enea, un giovanotto scattante dal viso aperto che amoreggiava con una ragazza del palazzo di fronte, Vittoria..
Vittoria era bionda, dai tratti delicati, un viso sognante e senza trucco su cui sembrava non dovesse passare nemmeno l'ombra della tristezza.
Si sposarono tra gli evviva festanti degli inquilini dei due palazzi, che si accalcavano nella strada per vedere gli sposini e presto la famiglia aumentò: due bimbe bionde come la madre, con occhi azzurri sgranati di meraviglia, cicciottelle e allegre come la nonna che sul balcone le distraeva per imboccarle benché fossero naturalmente d'appetito e non vi fosse alcun bisogno di sollecitarle.
Assistevamo anche noi a questi pasti a base di minestrine che le bimbe puntualmente ingollavano senza farsi pregare e talvolta, sazie, facevano i capricci rifiutandole, mettendo dinanzi alle boccucce rosee le manine paffute. Allora la signora Delia per invogliarle ne assaggiava un pò e strabuzzando gli occhi in segno d'incommensurabile bontà, riusciva a sconfiggere l'ostinata testardaggine delle piccole.
Enea giungeva a una cert'ora e la casa si riempiva della sua presenza e della sua voce sonora che metteva a soqquadro la quiete di poco prima con la sua irruente voglia di vivere. La domenica s'alzava all'alba per andare a caccia nei dintorni di Roma, vestito di tutto punto coi pantaloni verdi ed il giubbino fornito di tasche, il fucile a tracolla, quell'aria spavalda e allegra, montava su una seicento rosso fiamma e s'avviava rombando verso la periferia, tornando quasi sempre con un carniere colmo d'uccellini di varie specie.
Oppure, con altri coetanei tifosi della Roma andava allo stadio, rientrando senza voce, cotto dal sole che picchiava sugli spalti.
Vittoria, sempre paziente, atteggiava il bel viso ad una smorfia e restava ad attenderlo con la suocera e le due bambine.
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L'ULTIMO DELL'ANNO
http://www.larucola.org/2014/06/11/cera-una-volta-lo-scopino/
Puntuale, allo scadere dell'anno, la notte di S. Silvestro, si faceva baccano.
A Roma vigeva l'abitudine di disfarsi degli oggetti in disuso gettandoli dalla finestra. Era da poco finita la guerra e si tendeva ad eliminare i brutti ricordi di quel periodo oscuro buttandoli in strada, come se ciò bastasse a rifarsi una nuova vita.
Diventava quasi un rito: negli ultimi mesi dell'anno si metteva addirittura da parte il vasellame che via via si sbreccava o qualsiasi altro oggetto inutilizzato o di cui ci si voleva disfare e poi, giunto alfine il 31 a sera, ci si accalcava dinanzi alle finestre, tra le persiane semichiuse per timore di ricevere qualche oggetto pesante o tagliente gettato dagli inquilini dei piani superiori.
Allo scoccar della mezzanotte, tra gli spari di Enea, i razzi, le scintille, il vociar di festa della gente nelle case, si buttavano in strada piatti, bicchieri, qualche mobiletto traballante, elmetti, vasi da notte, retaggio dell'inizio del
secolo quand'ancora nelle vecchie case non c'erano servizi igienici o s'era provveduto con lavori successivi a creare degli stanzini pensili con dei servizi angusti.
Ogni genere di cose cadeva giù sul selciato con fragore per qualche minuto poi, quando tutta la rabbia, l'ansia, l'attesa e l'allegria s'erano ormai sfogate e rimaneva sospeso nell'aria solo un silenzio spesso e insonnolito, io curiosa mi riaffacciavo a guardare nella strada fiocamente illuminata, la miriade di oggetti sparsi: mille cocci rilucenti disseminati ovunque, vasellame ormai ridotto in pezzi minuti, utensili, ombrelli, materassi sventrati da cui la lana fuoriusciva spumeggiante, senza ritegno.
Una volta persino una vecchia tazza da bagno, gettata non so come e rimasta quasi intatta al centro della strada...
Ogni genere di mercanzia, insomma, che destava anche l'ilarità di sparuti gruppi di giovani che subito dopo la mezzanotte s'avventuravano per le vie per fare ancora baldoria.
Poco più tardi sarebbe passata per le strade tutta una genia di rigattieri, i robivecchi come si diceva, che avrebbero raccolto il salvabile, riadattandolo con poco lavoro e poca spesa, per metterlo di nuovo in mostra sulle bancarelle di Porta Portese o sui banchi di alcune prestigiose botteghe d'antiquariato dove, forse a caro prezzo, qualche amatore avrebbe scovato qualche oggetto d'un certo valore artistico o comunque significativo d'un periodo che s'era appena concluso.
Ancora più tardi, era ormai l'alba, a gruppi passavano gli spazzini con lunghe ramazze di saggina e i camicioni d'un blu scolorito, primi ad alzarsi nella città ancora addormentata dopo una notte di festa; rastrellavano i cocci battendo strada dopo strada e nell'aria fredda della mattina si sentivano solo le loro voci e il frusciare lento e sibilante delle scope.
... Questi rumori mi giungevano attutiti dal gran sonno che m'aveva preso dopo l'euforia della notte: mi destavo risvegliata dal rombo lieve del camioncino e subito dopo, felice d'aver dinanzi a me ancora alcune ore di riposo, ripiombavo in quel meraviglioso torpore fatto di stanchezza e di felicità, d'un calore materno che avvolgeva le mie piccole membra rannicchiate sul divano letto che occupava tutto l'angusto stanzino di passaggio dinanzi alla camera dei miei genitori.
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IL BUCATO SUL TERRAZZO
https://www.momentocasa.it/organizzazione/stendere-il-bucato-tutti-i-trucchi-per-farlo-al-meglio/
Era l'epoca in cui si svolgevano a domicilio molti lavori manuali e giovani donne di periferia, floride, un po’ mascoline, dal volto segnato di fatica e di allegria, una volta a settimana si partivano col tramvetto dalle borgate più lontane per venire al centro, a prestare l'opera e la forza delle loro braccia a persone meno in salute.
Le lunghe vasche da bagno di ferro smaltato venivano riempite sino all'orlo d'acqua fumante e di biancheria di lino o di pelle d'uovo, d'asciugamani ricamati a mano con cifre e nodi d'amore e poi, dai a battere, a spazzolare, a risciacquare.
Si prendevano poi in prestito le chiavi del terrazzo condominiale, si stipava il bucato, ormai bisognoso solo d'un ultimo risciacquo, in ampie tinozze di zinco argenteo, si salivano le quattro rampe che separavano dall'ultimo piano e si giungeva dinanzi ad una porticina sprangata che immetteva sulla grande terrazza.
Si girava la chiave nella toppa, una, due, tre volte ed ecco, come all'aprirsi d'un sipario, uno scenario sempre uguale eppure sempre ricco di colpi di scena: i tetti si accavallavano ad altri tetti in un susseguirsi di tegole rossicce, altri terrazzi s'aprivano come aie ariose sulla sommità di altri palazzi là di fronte; in basso il verde giardino delle suore, piccola oasi silenziosa e smagliante di fiori, più in là ancora, esili ma diritte, le sterili palme del Colle Oppio e come disegnato da una mano divina, ben visibile sullo sfondo, il bronzeo angelo dell'Altare della Patria.
A volte quando mia madre e zia Alba facevano coincidere la giornata del bucato, io, Etta e Carlo facevamo a gara a chi arrivasse per primo sul terrazzo, salendo tre gradini per volta pregustando la gioia di trovarsi all'aria aperta e di scorrazzare per almeno un'ora.
Arrivare lassù era una specie di premio, un compenso alla nostra infanzia non ancora turbata, corrotta dalla televisione, alla nostra infanzia avara di giocattoli ma ricca di sentimenti, di atmosfere.
Ai lunghi fili tesi penzolavano già altri indumenti che danzavano ad ogni soffio d'aria cambiando ritmo secondo la direzione del vento.
Noi giocavamo saltando sui lastroni del pavimento e ci nascondevamo nei lavatoi che si trovavano vicino alla porta d'entrata: erano basse costruzioni di cemento bianco dalle piccole porte socchiuse attraverso cui si entrava nelle stanzette dove, messi l'uno accanto all'altro, si allineavano i lavatoi di pietra scura.
L'acqua limpida s'incupiva contro le grigie pareti e sembrava senza fondo; in me un oscuro timore di cadervi dentro e di perdermi in quell'immobilità senza suono. Ma, non appena la lavandaia vi cacciava dentro il bucato da risciacquare, il tonfo allegro della stoffa battuta contro la pietra mi ridava il senso della realtà: così mi davo da fare anch'io aiutando la donna a districare i panni intrecciatisi nelle tinozze e a calarli nelle fontane, poi quando ero sola, senza l'allegra compagnia di Etta e Carlo, mi stancavo subito di questo gioco, m'affacciavo ad una piccola finestra della stanzetta che dava in un cortile interno e da quella mia posizione invidiabile guardavo i muri che correvano giù fin nello spiazzo lastricato dove palme nane e papiri s'agitavano fluttuando vanagloriosi ma incapaci di resistere alla lieve brezza pomeridiana; guardavo le finestre aperte da cui guizzavano fuori voci, odori e luci o seguivo le evoluzioni di un raggio di sole che, evanescente e fiabesco vagolava sulla parete accanto a me, trascinando con sé un pulviscolo dorato e mi perdevo in fantasticherie infantili...
Ma tutto cambiava se con me c'erano Carlo e Etta: scalpitanti come giovani puledri per troppo tempo inattivi, appena all'aperto, partivamo in corse sfrenate inutilmente richiamati all'ordine da mia madre e da zia Alba.
Davamo inizio a scorribande che ci portavano dentro e fuori i lavatoi, dietro le lenzuola ancora umide già tese da altri che s'aggrovigliavano ai nostri corpicini e a cui tentavamo di sfuggire, liberandoci a vicenda da quei ruvidi abbracci. Carlo ci seguiva coi suoi passetti ancora incerti, trotterellando felice come un cucciolo.
Intanto, il tramonto imminente del sole dipingeva ogni cosa intorno a noi di colori tenui, gettava sfumature violacee sui muri, pennellate rosee sui panni e sulle nuvole, sparendo dietro al mausoleo a Vittorio Emanuele II; le rondini intanto sfrecciavano sulle nostre teste alzate, intrecciando voli interminabili da un isolato all'altro, s'impennavano misteriosamente e poi, come a un silenzioso richiamo, tornavano indietro a tutta velocità scendendo sino a sfiorare i fili tesi della luce, risalendo poi in alto per scomparire definitivamente alla nostra vista...
ZIA ALBA
Zia Alba,
così tra me ti chiamavo.
Non per legami di consanguineità
ma per quella vitalizia alleanza
che mi legava e mi lega
alla tua autentica nipote.
Ma mai t'apostrofai
se non con un "Signorina" rispettoso
a stento sfuggito dalla bocca,
per mia indole schiva.
E dell'alba avevi i colori:
il viso chiaro ma non pallido,
gli occhi d'un azzurro intenso
e un'ombra di rosso deciso
sulle guance e la bocca,
forse più sfumati che nella tua giovinezza.
Come in quel ritratto,
forse del Quaranta,
che nel salotto primo Novecento
è ancora sospeso alla parete.
Toni densi di vele levigate dal vento
su uno sfondo di cielo e di marina,
il tuo volto prorompe in primo piano
con un sorriso spontaneo,
non trattenuto a forza,
col dorso della mano,
gesto che negli anni avvenire
si fece più consueto, per nascondere forse,
civetteria da poco,
un sorriso imperfetto.
Poichè non era civettuola
la tua alta figura signorile
accanto a quella di tua madre
ormai anziana,
minuta ma non fragile lei,
a cui tu con dedizione filiale,
umbratile mai,
porgevi il braccio saldo
nelle brevi passeggiate quotidiane.
Poi rammento discorsi, risate, parole
che solo l'affetto ripropone alla mente,
vaghi o vivi, ma senza tempo ormai...
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MARIA GRAZIA
https://genovaquotidiana.com/2019/10/13/giornata-nazionale-per-la-sindrome-di-down-oggi-i-chioschi-in-via-cairoli-e/
... Cosa dire di te, Maria Grazia, mia sfortunata coetanea? Ti ricordo sempre uguale negli anni, con quell'impronta d'eterna fanciullezza impressa nello sguardo e nel corpo impacciato.
Quando scorgevi da lontano una persona conosciuta, il tuo viso segnato e rassegnato si rischiarava, s'apriva in un sorriso di contentezza e con la voce un poco gutturale, un pò roca lanciavi un saluto che veniva fuori da quel corpo sgraziato, come un torrentello che si trattiene a stento negli argini.
"Come stai - mi apostrofava - e tuo fratello?", chiedendo notizie su di me e su mio fratello durante gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza e poi sui miei figli, più in là negli anni quando, ormai adulte, io vivevo la mia quotidiana corsa ai doveri e lei, l'eterna bambina, viveva nel suo mondo ovattato di bambole e di giochi dove il tempo s'era fermato per sempre.
Così come il dolore, sempre presente a segnare il viso stanco dei tuoi genitori ed il tuo, sempre un pò più gonfio, come quello d'una bambola mal riuscita che pure viene accettata in dono, curata con dedizione e vezzeggiata con amore, senza tener conto delle differenze rispetto ad altre bambole più belle.
... Li vedo spesso i tuoi genitori, invecchiati, rallentati nel loro camminare sottobraccio, tuo padre sofferente d'una depressione che si é aggravata con la tua scomparsa, quasi fossi tu sola la ragione della sua vita, tua madre più forte che lo sostiene con pazienza, così come faceva con te nelle vostre passeggiate.
Scambio due parole con loro che con me si soffermano volentieri, forse solo perché ero tua coetanea o perché non ti sfuggivo quando t'incontravo...
Poi li vedo allontanarsi, proseguire verso via Merulana con quel passo quasi incerto, strascicato, mesto...
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LA SIGNORA GEMINI
https://www.kijiji.it/annunci/altro-abbigliamento/torino-annunci-torino/cappelli-donna-vintage-anni-40-50/146128629
... Me la ricordo sempre così, stravagante, vistosa con quei suoi cappellini buffi, il neo dipinto all'angolo della bocca provocantemente dipinta di rosso, gli occhi bistrati, fasciata in eleganti abiti da mezzo pomeriggio. Lascia come sempre una scia ondeggiante di costosissimi profumi francesi lungo la via, camminando ed ancheggiando lievemente come una diva hollywoodiana.
Se ne dicevano tante sul suo conto, che in gioventù avesse per amico un importante pezzo grosso del Fascismo che le elargiva regali e che le aveva messo su un piccolo negozio, si parlava dei suoi continui alterchi con il marito, conditi poco signorilmente da epiteti ingiuriosi, della malattia mentale che aveva colpito il suo figlio più giovane, alla fine ricoverato in un casa di cura.
Gli alterchi si placarono col passar del tempo, intervenne però la lunga malattia del marito.. insomma una vita fatta d'avventure e disavventure, lei eternamente criticata per il suo modo di abbigliarsi, di agire, per ogni sua piccola manchevolezza, per la radio troppo alta, per quei pranzi già pronti che si faceva consegnare ogni giorno dalla vicina trattoria...
Eppure, nonostante gli affanni, le pene, il passare degli anni, eccola là, giunta alla soglia dell'ottantina, ancora in gamba, sempre curata nel vestire, anche se ormai un pò fuori moda, curata nel trucco, anche se con qualche lieve sbavatura di rossetto sui denti ancora intatti, con quegli estrosi cappellini, quegli spolverini bianchi stile anni 50...
Nelle mattinate di sole esce dalla sua piccola casa ordinata, tenuta a lustro come un gioiello anche ora che é sola e se ne va, con quella sua andatura da principessa, a prendere un caffé al bar dell'angolo, per godere d'un'altra giornata che le é stata concessa, per fare ancora mostra di sé.
Felice, se la si saluta, di dispensare quella sua ininterrotta gioia di esistere, quel suo caparbio attaccamento alla vita e un pò di quel suo menefreghismo che l'ha sostenuta e che le fa accantonare persino i ricordi dolorosi, guardata con un pizzico di invidia da coloro i quali non hanno saputo cogliere dall'albero della vita neanche un fiore d'ottimismo...
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IL GELATO DI RIZZIERO
https://www.fornellidisicilia.it/ricetta/granita-di-caffe-con-panna/
Le nostre passeggiate domenicali quasi sempre avevano come meta via Nazionale, percorrendo dapprima il Colle Oppio, poi via dei Fori Imperiali e di là al Corso, attraversando il buio del Traforo che mi incuteva un sentimento controverso, un certo timore per l’oscurità e la ristrettezza del luogo eppure una sorta d’infantile baldanza nell’ascoltare il rumore dei nostri passi, ampliato dall’eco della volta. Il passaggio delle macchine, allora, era sporadico, non dava alcun fastidio….
Raggiungevamo, così la Galleria Minghetti per una tappa obbligata in quella rosticceria vicino al teatro Quirino - che oggi forse non esiste più - dove noi piccoli facevamo merenda con un suppli' o un calzone fritto e dopo un altro lungo giro per il centro, al ritorno, sostavamo in una birreria dove ci ingozzavamo di noccioline oppure, d’estate era di prammatica un gelato da Fassi, rinomato nella zona, come Giolitti al centro.
Un vecchio palazzo di stile umbertino monocolore, grigio all'esterno; all'interno, un'unica enorme sala dalle pareti di marmo bianco - quasi una pista di pattinaggio - divisa da numerose colonne che creavano piccole zone appartate dove sedevano giovani coppie ai primi approcci che parlottavano animatamente, i visi vicini e sorridenti, mentre gustavano una
cassata o una granita. Attraverso una porticina si accedeva ad un piccolo giardino, aperto solo d'estate, dove coppie più anziane, serenamente rilassate su sedie di metallo, sorbivano granatine di limone...
Forse di diverso vi sono ora solo i tavolini, più moderni nella foggia, altrimenti direi che nulla vi e' di diverso dalla mia infanzia, nemmeno il lungo bancone in fondo alla sala da cui un manipolo di giovani inservienti distribuisce pigramente alla folta clientela di oggi coni e frulletti..
E’ l’unico, Fassi, oltre a Carnevali che vende bei vestiti da sposa, a resistere all’avanzata – nella via e in quelle adiacenti – dei cinesi e degli immigrati di tutte le razze che ormai popolano Piazza Vittorio e le vie adiacenti, dove hanno comprato o affittato locali, in questa era di multietnicità a tutti i costi che ha cambiato il volto alla vecchia Roma.
Ma un vero gelato casalingo e una vera granita di caffe' con panna - di cui io poi negli anni a venire non avrei ritrovato l'eguale - si poteva gustare solo nel piccolo bar di via Poliziano, gestito dalla famiglia Vergari.
Era una latteria come molte di allora, le pareti ricoperte di piastrelle bianche e blu, i tavolini di marmo bianchi striati di grigio, le gambe di ferro scuro esili esili, d'un gusto retro'.
La parola bar - la prima che io imparai leggendo le insegne - arrivo' con la guerra, segnalando la sua presenza con lettere grandi e luminose, portando con se' di li' a poco anche l'era della plastica, a sostituire gli oggetti del passato, originali, artigianali, in poche parole belli, portando anche quegli anonimi tavolini di formica colorata dal bordo di metallo argentato dalle lunghe gambe sbilenche e quelle scomode poltroncine di finto midollino, plastica anch'esse...
Venne l’era della televisione e prima ancora che le singole famiglie che ancora non ne avevano i mezzi economici, i bar si rifornirono dei primi apparecchi, di legno ed ingombranti, che troneggiavano in un angolo.
Così anche i Vergari e nella piccola latteria bianca, allo scoccare dell’ora in cui sarebbe cominciato il primo quiz della storia della Tv italiana, “Lascia o raddoppia”, un capannello di gente, grandi e piccoli, uomini e donne di ogni età, s’affollavano per un’ora o due di svago, consumando forse qualcosa in più del solito.
Di famiglia marchigiana ma nato a Roma, proprio in via Poliziano - che allora si chiamava ancora via Leonardo da Vinci - Rizziero Vergari sembrava fatto per tutt'altro lavoro, eppure nessuno come lui riusciva cosi' bene ad indovinare le dosi che davano vita a quelle bianche, soffici, invitanti montagne di panna, deliziosamente zuccherata al punto giusto, delicatamente montata: pochi giri dell'elica di ferro nascosta nell'allora moderno bancone, accanto ai grossi recipienti di zinco o d'alluminio, simili a larghi bossoli, ricolmi di gelato.
Anche quel gelato era superlativo, montato al punto giusto, delicato, dal gusto deciso, prodotto in una variegata e variopinta gamma di sapori, non quella specie di spuma di tutti i colori - che molti oggi definiscono con questa parola - insapore e inodore, che vien giù premendo su un tasto di un distributore automatico.
Magro e distinto, Rizziero si prodigava dietro il banco, serviva ai tavolini allineati in bell'ordine all'interno ed all'esterno quando il tempo era buono, mentre sua moglie - una donna alta e solida - faceva cassa spupazzando l'ultima nata d'una serie di figli che si baloccavano tra i tavolini e gli avventori e diligentemente facevano i compiti, con tanta buona volonta' che nel corso degli anni tutti e quattro raggiunsero la meta agognata dai loro genitori: una laurea ciascuno. Insomma, una bella famiglia unita, seria e devota che ritrovavo sempre presente alle funzioni domenicali.
Quelle morbide cascate di panna erano la leccornia prelibata della mia infanzia e tale rimasero nel corso degli anni quando, giovanetta o ormai adulta, sedevo nelle sere d’estate al fresco della via, sotto la tettoia del bar, sorbendo un’impagabile – ora dico anche irripetibile – granita di caffè con panna, due elementi così ben bilanciati da raggiungere la perfezione.
Sono gia' più di dieci anni che il bar non e' più gestito da Rizziero che pero' ha continuato a lavorare imperterrito e perfetto, ancora dietro un bancone, quello d'una tabaccheria proprio di fronte al suo vecchio negozio, dove e' stato sostituito da una famigliola anonima - di cui non ho mai conosciuto il nome - che ha dato un nuovo aspetto al locale di stile vagamente liberty ma che, tuttavia, mi rimane, comunque, anonimo.
La clientela, costituita per la maggior parte dei vecchi habituees e di nuove coppie di rincalzo, siede ancora numerosa sulle solite sedie di plastica gialla che non sono state aggiornate, a sorbire caffe' e bibite e d'estate gelati e granite...
Mentre io ho ormai quasi rinunciato completamente alla granita di caffe' con panna che, utilizzando una frase fatta e trita... dico:"come la faceva Rizziero, non la fa nessuno...".
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ZÌ REMO E ZÌ AGNESINA, POLLI E TACCHINI
Così li chiamavano familiarmente gli altri bottegai e i clienti che si avvicendaVAno nel piccolo negozio, una polleria dove si poteva ancora trovare un vero pollo ruspante, del vero castrato, uova di giornata e spesso dei funghi campagnoli. É un piccolo locale: in fondo il bancone frigorifero su cui sono allineate in bella mostra ali e cosce di tacchino, quaglie da fare allo spiedo e attorno una sfilza di piccole carcasse d'agnello appese ai ganci di ferro contro il freddo del marmo che ricopre le pareti.
Ogni volta che si entra si perde la cognizione del tempo: quel luogo angusto diventa un piccolo ritrovo, la sede d'un piccolo quotidiano di quartiere poiché i due gestori, senza un pizzico di malizia, raccontano le storie che avvengono ogni giorno nel vicinato, intrecciando al presente vicende e nomi del proprio passato, della propria vita come se tutti dovessero conoscerli.
Agnesina, una donna un pò pingue dal volto popolano e dagli occhi arguti, ti propina la sua ricetta preferita per ogni taglio di carne: "L'hai mai provato lo spezzatino di pollo così e cosà...? e giù una sfilza di manicaretti gustosi, mentre zì Remo, che é delegato a spezzar l'ossa al pollame e agli agnelli, dà giù un'accettata e quasi quasi gli viene un vuoto allo stomaco, un'acquolina in bocca e la sua faccia dalle guance scavate dall'età, con quel ciuffo di capelli bianchi s'allunga e si ritrae nelle spalle, buffa ed ilare come uno di quei pupazzetti tirolesi messi a guardia di un orologio a cucù...
O forse assomiglia ad uno di quei galletti dall'aria magra e sconsolata a cui ha appena tirato il collo e zì Agnesina, con quel camice bianco striato di mille sfumature di rosso, teso sul torace pettoruto e sulle anche, sembra proprio una ruspante gallina padovana mai stanca di ciarle...
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ADRIANA
https://magazine.camperonline.it/2014/02/02/giochi-di-prestigio/
... Adriana, non so perché mi sia venuta in mente, come un lampo, il ricordo del suo viso paffuto e gaio incorniciato dai capelli biondi dritti dritti, tagliati sotto le orecchie, un fiocco bianco e sbilenco sul capo a trattenerli. Era grassoccia e solida come un panetto di pane morbido e croccante.
Abitava nel mio stesso caseggiato, in un appartamento più grande di quello in cui vivevo io (non era difficile...) che dava sul cortile interno, assieme ai genitori e ad altre due sorelle maggiori di lei.
Eravamo compagne di scuola e spesso ci vedevamo, ora a casa sua, ora da me per fare i compiti. Io ero affascinata dalla sua casa che a me, relegata in quella camera da letto e corridoio sembrava un
enorme arsenale, con quei lunghi corridoi che sfociavano in quattro ampie stanze silenziose poiché tutte s'affacciavano sul cortile interno.
Facevamo i compiti in fretta e poi giocavamo insieme alle sue sorelle, paffute anch'esse con due visi bellissimi, dalla carnagione porcellanata di due bambole giapponesi, capelli bruni e lunghi tirati all'insù.
Ma ciò che mi piaceva e mi attraeva di quella casa erano alcuni giochi di prestigio che a me, bambina, sembravano davvero incredibili: un bicchiere di vetro in cui v'era racchiuso un liquido ocra... lì per lì sembrava un normale bicchiere ma, per quanto si facesse, il liquido contenuto non cadeva, girandolo....
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CARLA
http://www.finestredepoca.it/realizzazioni
Una sera, tornando alle 22 passate dopo un'allegra serata, nella via silenziosa il portone di casa mia era aperto, spalancato come una enorme voragine pronta ad inghiottirmi. Dalla strada si notavano tutte le finestre illuminate e teste curiose che scrutavano nel buio. Entrando tranquilla avevo salito a due a due le scale come al mio solito ed eccomi a casa, dove ad attendermi trovai facce stravolte e tristi.
"Che c'é?" "É successo un guaio - dissero - Carla si é buttata dalla finestra..."
Immagini mi passarono nella mente: ricordi, impressioni e con la fantasia vedevo la scena riprodursi come doveva essere avvenuta nella realtà, temendo che la ragazza – ventottanni, forse meno - fosse morta, ma i miei mi rassicurarono "Si é salvata, respirava ancora, ora é all'ospedale in sala operatoria".
Carla sembrava una ragazza tranquilla, così com'era sempre stata sin dalla fanciullezza, con quel bel viso dai tratti dolci, remissivi, un sorriso accattivante, due occhi bruni e carezzevoli, attaccatissima al padre.
Abitava con la sua famiglia nella scala adiacente alla mia e le sue finestre davano sulla strada come le mie; ci vedevano quindi spesso in quel continuo affacciarsi di quegli anni, tanto più che la signora Nanda, sua madre, e la signora Delia erano grandi amiche, più anziane di mia mamma che era diventata un pò una loro pupilla.
Chiacchieravamo in gruppo, giovani con giovani, adulti con adulti, chi con la testa alzata, chi chinata verso gli interlocutori, ci ritrovavamo ancora al giardino, nelle frequenti passeggiate nel quartiere, dai rivenditori, a piazza Vittorio e mentre io, scalpitante e ribelle, vibravo di irrequietezza, Carla se ne stava quieta al fianco della madre, con quel viso tranquillo, senza ombre come la sua adolescenza.
Quando ormai era più che giovinetta, cominciarono le traversie: la morte del padre, l'apatia, la solitudine susseguenti, la morte della madre... tutta una serie di avvenimenti che, nonostante il posto pubblico che ricopriva, la compagnia delle nipotine con cui conviveva, ospite della sorella maggiore, l'avevano condotta a quel gesto senza spiegazioni. O forse le spiegazioni, contorte, confuse, c'erano sepolte dentro di lei e lì sarebbero rimaste per sempre.
La mattina dopo l'avvenimento lo sguardo mi andò diritto verso il punto in cui il corpo di Carla era caduto, precipitando dal terzo piano, fortunosamente rimbalzando sul tettuccio d'una macchina parcheggiata, prima di piombare a terra; il selciato pulito di fresco non portava traccia alcuna dell'accaduto, era del solito color grigio sporco e indefinito...
Sulle facce degli inquilini che incontrai, c'era una sola domanda: "É morta?" e quando si rispondeva negativamente, la pietà popolana distorta da una mancanza di speranza si concretizzava in un:
"Forse sarebbe stato meglio se lo fosse!", presagendo per lei altri dolori fisici e morali.
Fu una lunga degenza quella di Carla: ricongiunsero le sue ossa ed il filo della sua ragione spezzato, ma quello della sua vita rimase sospeso per sempre... scorre ancora tranquillo, senza traumi ulteriori in un istituto da cui ogni tanto esce per trascorrere qualche giorno di vacanza con la sorella e le nipoti
ormai grandi, un pò claudicante ancora per quella caduta, con una lieve smorfia sulla bella bocca carnosa, dovuta ad una piccola cicatrice, che mette su quel viso ancora bello un interrogativo amaro, quasi triste...
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NANNARELLA
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Chissà dove é finita Nannarella! La si vedeva, sino a pochi giorni fa, stazionare dinanzi alla bottega del barbiere, il Sor Michele, suo ultimo confidente, proprio di fronte a quella che fu la sua casa. Da lì poteva controllare ogni movimento, ogni persona, poteva ancora sperare in un miracolo.
Come sempre ingoffata da molti capi di vestiario indossati l'uno sopra l'altro, sedeva accanto alla porta del negozio; ai piedi, due grosse anonime buste di plastica rigonfie dei suoi pochi averi. Il volto raggrinzito su cui il belletto da pochi soldi disegnava due pomelli rosso acceso, una bocca da clown triste per
via di quelle sbavature di rossetto violaceo e d'un berretto di lana verde a sghimbescio sul capo.
Ogni tanto qualcuno del quartiere, che ormai la conosceva bene, si fermava accanto a lei, le offriva una sigaretta e qualche migliaio di lire che lei accettava un pò sdegnosa, chiedendole come procedesse la sua inutile quanto fantasiosa battaglia contro le autorità che l'avevano obbligata a lasciare la casa dove aveva vissuto per tutta la vita, una vita difficile e grama.
Mi sono fermata anch'io dinanzi alla bottega, anch'io le ho offerto come gli altri un attimo del mio tempo e qualche sigaretta, già desiderosa d'andar via. Ma lei mi ha fermata, mi ha offerto quella sua mano sporca e deformata a mò di ringraziamento e mentre cercava di trattenermi ancora a dividere la sua solitudine, mi raccontava - o meglio farfugliava come trasognata - i motivi per cui l'avevano costretta ad andar via da quella casa dove tutta la sua esistenza s'era svolta e che lei credeva legittimamente sua.
Ma già questa sua odissea odierna svaniva, lasciando il posto nella sua mente incerta, sconvolta, ad altre storie - reminIscenze di fatti avvenuti tanto tempo fa, ingigantiti, sfocati, comunque deformati - d'un fantomatico fratello morto: "Me l'hanno ammazzato loro, sti boja, cor cortello..."
Forse frammischiava al presente un ancor più triste passato, tutta una vita in bilico tra realtà e follia che assomiglia ad un libro mal scritto, che nessuno mai leggerà.
L'ho ascoltata ancora un pò, dopo averle offerto un'ultima sigaretta, l'ho salutata, mi sono allontanata, lasciandola ferma dinanzi al negozio, ultimo baluardo da cui poter difendere i suoi immaginari diritti, piccola fortezza da cui scrutare un orizzonte ben delimitato.
Con gli occhi fissi al portone e la sigaretta accesa tra le labbra, spera forse in un miracolo che non s'avvererà mai e la sua figura contorta ed ingoffata dai numerosi panni, con quel cappello sghimbescio assomigliava sempre più a quella triste e tragica d'un clown...
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LA SIGNORA DEL PIANO DI SOPRA
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...Per la maggior parte del giorno é costretta a letto dalla debolezza causatale dall'età, la vecchia signora novantatreenne che abita nell'appartamento situato sopra quello di mia madre.
Ricurva, magra, di quella magrezza avvizzita di certi anziani avanti con gli anni, ci tiene però ancora nel vestire e nel curare la persona, abitudine acquisita così tanti anni prima da non poterla dimenticare.
S'agghindava, infatti, fino a pochi anni fa, nelle varie occasioni in cui usciva al braccio del marito, vecchissimo anche lui, ormai scomparso, vestita di eleganti abiti un pò demodés, imbellettato il viso ormai incartapecorito, con un fard rosato sulle guance che parevano due petali avvizziti ed un bistro scuro sugli occhi infossati, indossando i bei gioielli della sua gioventù.
Ed eccola là, una maschera un pò grottesca ma solenne e impettita con una grazia venata di femminilità che non é appannaggio di ogni donna...
É amante della musica operistica, la vecchia signora e spesso dalla finestra, perennemente aperta, scaturisce la voce solenne e gagliarda d'un tenore e gli acuti della Callas che riecheggiano per tutta la via.
Talvolta, poiché non ha più nozione del tempo e per lei non fa differenza se é giorno o buio, a notte fonda capita che il vicinato venga destato di soprassalto dall'accorato "E lucean le stelle..." d'un Del Monaco nel pieno delle sue possibilità canore.
E lei, in finestra, piccola larva di donna appassita che forse non si rende conto dei giorni che passano e che neanche si chiede più che cosa stia facendo a questo mondo, sola nell'appartamento troppo grande per lei, lasciata alle cure d'una domestica furba ma affezionata che le dedica più tempo di quanto non facciano i suoi figli.
Dei giorni della mia infanzia ricordo alterchi e battibecchi tra la signora allora in gamba e un pò dispettosa e mia madre giovane e sprovveduta che, abitando al piano sottostante, si trovava il piccolo balcone inondato di polvere, briciole e sgocciolio di panni provenienti dall'appartamento di sopra. Ma, con gli anni e col volgere d'ambedue verso maturità diverse, le due donne son diventate quasi intime l'una dell'altra e mia madre, per un amore quasi filiale di riverenza e rispetto, le dedica alcuni momenti della sua giornata, andando a trovarla, parlando con lei, distraendola.
Ma, le stranezze delle vecchie signore sono innumerevoli.
Giorni fa, a sera inoltrata, la donna, paludata in una camicia da notte tutta pizzi e merletti si é incamminata lungo la scala condominiale incontrando, per fortuna, mia madre in uscita che, allibita, le ha chiesto dove stesse andando.
"A Messa..." le ha risposto candidamente lei.
"Ma così, da sola, poco vestita?
Dove può andare a quest'ora?" fa mia madre paziente e curiosa.
"Ma non sono sola, mi accompagna la Madonna" risponde convinta la novantenne. Dopo averla presa gentilmente sottobraccio, con dolce insistenza, mia madre l'ha convinta con diverse argomentazioni sull'ora tarda, ed è riuscita a riportarla nel suo appartamento e a rimetterla a letto.
Mentre la donna, con voce fievole, ormai stanca, continuava a ripeterle; "Ma non sono sola, mi accompagna la Madonna..."
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MICHELE IL BARBIERE
...Un cartellino bianco con una scritta nera in stampatello: "Chiuso per lutto". Spero non sia lui, Michele, ad esser passato a miglior vita.
Me lo ricordo sempre uguale da quando avevo pochi anni e andavo da lui a farmi tagliare i capelli: un viso tondo, grassoccio su cui spuntavano allegri i pomelli rossi e due baffetti spiritosi alla Oliver Hardy e il capo quasi calvo, bassino, col camice bianco dal cui taschino superiore spuntava sempre la lama affilata del rasoio.
Nei momenti d'ozio stava dinanzi alla porta del suo negozio salutando chi passava oppure semisdraiato su una delle consunte poltrone nere dove fa accomodare i clienti ormai ridotti alle dita d'una mano, poiché il negozio é troppo antiquato e la mano del barbiere ormai ottantenne é un pò tremula...
L'interno del negozio m'affascinava sin da piccola, con quelle volte candide e le pareti altrettanto bianche su cui spiccavano, incastonati nelle cornici di piombo scuro degli specchi stile liberty.
Michele é sempre stato il barbiere di mio padre e divenne anche il mio nei primi anni d'infanzia: mi issava di slancio su una poltroncina, una specie di sellino su cui salivo contenta, perché rassomigliava ad una giostra. Le mani si saldavano intorno al collo bianco d'un cavallino la cui vista mi distoglieva dalle mani allora abili e rapide di Michele che in quattro e quattr'otto pareggiavano la mia zazzeretta ribelle.
Ben presto il lavoro era compiuto ed io riflettendomi nel grande specchio mi pavoneggiavo, mi giravo da tutti i lati ed elargivo boccacce che facevano sorridere gli avventori presenti, poi con un salto, eccomi a terra già pronta per scorrazzare di nuovo all'aperto e mi avviavo di corsa verso casa, lasciando mio padre a conversare con Michele al quale avevo lanciato un ciao frettoloso.
Ora tra le vecchie mura non si vede nessun bambino; da tempo c'è un proliferare di parrucchieri solo per bimbi che sanno tagliare i capelli all'ultima moda, che usano gelatine, gommine, balsami; da Michele sopravvive solo una piccola cerchia di vecchi clienti affezionati, alcuni davvero attempati che solo per amicizia e per scambiar due chiacchiere si sottopongono ad una rapatina effettuata dal barbiere loro coetaneo e che si radunano là, nel negozio ormai demodé dove, oltre alle quattro poltrone nere non vi é altro che un piccolo mobile semicircolare che serviva da cassa e tre o quattro decrepite sedie di ferro addossate ai muri scrostati e non più candidi.
Si ritrovano là a rinvangare ricordi del passato, qualche sogno ancora racchiuso in fondo al cuore e molti pettegolezzi sulle vicende degli abitanti del quartiere.
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Uno dei miei sogni segreti era quello di aprire proprio là un piccolo negozio di carabattole varie.
Ne vedevo già l'entrata, la vetrina, lo stipite della porta a due battenti d'un bel legno antico non scuro, non chiaro ma venato, una maniglia d'ottone brunito solida e decorativa.
A destra, accanto al vetro della porta-vetrina un piccolo tavolo di midollino nero dalle gambe arcuate, ricoperto d'un prezioso pizzo o un centrino a punto intaglio, bianco.
Sopra, tanti piccoli oggetti: qualche miniatura in argento, un guanto di pizzo posato là come per caso, un portasigarette in bachelite, una piccola trousse di tartaruga bionda e una cornice liberty in cui sorrida, misteriosa e gentile, una giovane donna d'altri tempi di cui s'intravvede solo l'ampia ma castigata scollatura d'un vestito tutto pizzi e nastri; al collo un sottile filo di perle e sui capelli, che s'indovinano biondi nel color seppia ormai stinto della fotografia, l'ala d'un cappello scuro ravvivato da una rosa e da una veletta che accentua l'aria di mistero che vaga negli occhi della donna. Che non guarda diretta all'obiettivo ma sembra persa in qualche ricordo dolcissimo e lontano.
...forse la foto d'una trisavola o quella della mia nonna Vittoria nel giorno delle sue nozze, gelosamente custodita da una delle mie zie e che ogni tanto mi ripropongo di far ristampare.
Di lei non ho ricordi precisi se non che nei miei frequenti ritorni al paese natio di mamma e papà la ritrovavo sempre malata e distesa nel letto d'ottone matrimoniale affetta, così come dicevano da una grave forma di angina pectoris e di arteriosclerosi che poi la portarono alla morte a soli 54 anni.
Temo, tuttavia, che la diagnosi non fosse esatta e che soffrisse, come poi successe a mia madre, di morbo di Alzheimer, una malattia difficilmente diagnosticabile a quel tempo e senza cure risolutive.
O non furono, invece, mi chiedo ora, le numerose gravidanze, otto sicure, ma fors'anche nove, che la minarono nel corpo e nello spirito e l'irrequietezza di quell'uomo travolgente che le viveva accanto?
Era nata in un'oscura cittadina della contea di Washington - per anni avevo sempre sentito dire Waterburycon... - poi, finalmente scoprii che si trattava della città di Waterbury e il Conn che seguiva non era altri che la sigla dello Stato del Connecticut, che l'ignoranza generale e dell'inglese in particolare aveva coniato in quel lungo nome senza senso...
Là il padre emigrante aveva fatto fortuna e, tornato al paese natale, aveva comprato un mulino che gestiva con fatica ed impegno e che gli permetteva larghi guadagni...
Aveva 18 anni quando mio nonno, appena reduce dalla Grande Guerra dove aveva combattuto con impegno giovanile - a Caporetto aveva persino salvato il suo futuro cognato... - la conobbe e, colpito da quella bellezza già quasi austera e tranquilla, decise che l'avrebbe sposata. Avvenne l'anno dopo e fu l'inizio d'una lunga avventura.
Non so nulla della loro vita comune e non so se il nonno la rese felice. Chissà, posso fare solo delle supposizioni derivanti da ciò che negli anni ho carpito ai racconti di mia madre o delle mie zie.
Che dispiacere, ora, rendersi conto di non sapere con precisione quello che accadde... dovrei chiedere a qualcuno dei miei zii, allora ragazzini, finchè sono in vita... che dispiacere rendersi conto di non aver mai approfondito con le persone care molti aspetti della loro vita e sapere che ormai nessuno potrà rispondere alle mille domande che la mia mente formula...
Penso che fosse stata segnata dalle numerose gravidanze che l'affaticavano, dai numerosi spostamenti da un paese all'altro del Molise - a cui il marito era soggetto per la sua professione d'insegnante elementare, dalle disavventure finanziarie dovute all'incapacità quasi costituzionale di mio nonno di gestire senza sperperi un patrimonio che ben rendeva come l'avviato mulino del suocero, costringendolo poi a venderlo e la successiva guerra che si portò via il resto...
Ma anche per le disavventure politiche del nonno che nel 1932 venne accusato, tra gli altri di aver capeggiato una sommossa popolare contro il locale Podestà di turno, sommossa che pur non avendo connotati politici, fu destata forse da alcune tasse imposte, prima sulla famiglia, poi sui cani... mio nonno, in quella fatidica domenica si venne a trovare nel mucchio di sobillatori e non, giungendo davanti al Municipio, sostenendo la popolazione infuriata.
Era quella l'ora della messa e del mercato, la folla voleva entrare nel municipio, ci furono dei colpi d'arma da fuoco sparati chissà da chi, un proiettile colpì un povero contadino che stava tranquillamente seduto sul muretto, vi fu qualche altro ferito... solo a sera arrivarono i Carabinieri e nei giorni seguenti avvenero diversi arresti, con accuse improbabili di persone, indicate ingiustamente di aver prodotto e sostenuto quella piccola manifestazione...
Tra gli altri, mio nonno che venne condannato al confino all'isola di Ponza per lunghi mesi, durante i quali mia nonna dovette sobbarcarsi l'onere gravoso di tirare avanti una famiglia di otto figli più genitori e suoceri sopporetando forse scaramucce varie destate dalla suocera, una vecchia un pò arcigna dalla voce stridula, imperante con le sue decisioni sulla vita dei suoi due figli, Flaviano, appunto, e Matilde.
Io me la ricordo vagamente questa mia bisavola, nebulosa nella memoria come un fantasma nato da sogni notturni, nella cucina della vecchia casa patriarcale, quasi un piccolo palazzo feudale con ampie stanze dalle pareti adorne di quadri ed arazzi ed un cortile interno cintato da un cancello.
Lei sedeva su un'imponente sedia accanto al camino, come un signorotto medievale con diritto di vita e di morte sui sudditi sparsi nelle campagne circostanti, che venivano a renderle omaggio, portandole doni... così almeno a me appariva nelle fantasticherie ad occhi aperti che già affollavano la mia mente di bambina.
Fantasticherie alimentate dalla stessa bisnonna, che vantava parentele altolocate, come quel tal Cardinale venuto in visita molti anni prima, accolto con tutti gli onori dovuti alla sua carica e la piccola corte imbandierata a festa per l'occasione.
Poiché io la stavo ad ascoltare, affascinata dalle sue parole, un giorno mi rivelò un segreto: un tesoro era nascosto nel palazzo, ma non si sapeva dove; lei stessa aveva cercato, scavando con le sue stesse mani, quelle mani magre e forti che a me incutevano paura, facendo abbattere muriccioli o addirittura delle pareti! Il tesoro, a suo dire, era ancora là, presto o tardi l'avrebbe trovato!
Nel narrarmi questa storia, che da allora in poi divenne il nostro unico motivo di conversazione, lei mi dava ogni volta nuovi e significativi particolari, tanto che con la fede cieca della mia età, cominciai a crederci anch'io fermamente. Ma la bisnonna Mariuccia non mi piaceva: i suoi svenimenti continui mi terrorizzavano ed era l'unica persona che, anche se mutamente, mi rimproverava quando a tavola mangiavo troppo rumorosamente o quando tiravo su col naso, come spesso fanno i bambini.
Ritornando alla nonna Vittoria, quando uscivo per le mie scorribande giornaliere, salivo a salutarla, ma poi non sapendo che dirle vedendola sempre più bianca in quel letto alto dalla spalliera su cui si rincorrevano angeli e fiori dipinti, correvo via. Al ritorno, per prima cosa andavo di nuovo su da lei, con le braccia cariche di ginestre e le deponevo sul suo letto, sulla coperta candida dove formavano un decoro splendente e profumato; il giallo dorato dei fiori si rifletteva sui capelli bianchi della nonna creandole intorno un festoso diadema.
In un angolo della sua stanza c'era un treppiedi di ferro battuto che reggeva una bacinella bianca bordata d'azzurro; sotto un caraffa dello stesso metallo smaltato.
Quando pioveva, l'acqua che stillava dal tetto non perfettamente catramato, cadeva proprio nella bacinella producendo un rumore secco, cadenzato, continuo.
Io allora mi avvicinavo, immergevo un mano nell'acqua, la muovevo imitando le onde di quel mare che non avevo ancora mai visto. La mamma, che stava a prendere aria sul balconcino, dopo una lunga sosta accanto al letto della nonna a cui teneva compagnia, mi richiamava all'ordine, ma la nonna si schierava dalla mia parte, dicendole di lasciarmi stare, fintanto che ero piccola.
Nei giorni di festa mia zia, poco più che ventenne, che l'accudiva amorosamente con fatica, la pettinava accuratamente, rialzandole i candidi capelli in un morbido chignon al sommo della testa, le faceva indossare la camicia più bella, bianca e ricamata con minuscoli fiori rosa, poi la bella vestaglia di velluto azzurro e se il tempo era bello, portava un poltrona sul balconcino e vi faceva sedere la nonna.
Io mi accoccolavo ai suoi piedi come un cucciolo affettuoso e assieme ci guardavamo intorno e poiché la casa si trovava nella parte alta del paese, sotto di noi si stendeva un intrico di tetti e comignoli di vari colori; più in là, a perdita d'occhio i prati dorati dell'estate ormai inoltrata e sullo sfondo montagne verdi e misteriose; io m'incantavo guardare il volo d'un uccello, un fiore sul ciglio della strada, i miei compagni di giochi che nella via sottostante giocavano a rincorrersi e che mi incitavano ad unirmi a loro. Io mi schermivo alle loro richieste, con una vocina esile che tradiva il mio desiderio di fare a due a due i gradini che mi separavano dalla strada e la nonna, intuendolo, mi carezzava dolcemente i capelli, esortandomi a raggiungere i miei compagni.
Ricambiavo il suo dolcissimo sorriso, la salutavo con un bacio e in quattro e quattr’otto ero in fondo alle scale, allegra, trionfante assieme ai miei piccoli amici. Di tanto in tanto, volgevo gli occhi al balconcino e salutavo la nonna con la mano; lei mi rispondeva sorridendomi tra i rossi gerani in boccio che facevano cornice al suo volto bianco.
Non ricordo altro di lei se non il volto e lo sguardo un pò severo, un pò dolce e tenero a un tempo e quella fotografia, gelosamente custodita nel portafogli di mio nonno e che lui, tanti anni dopo, rammentandomela, mostrava, mentre un sorriso lieve e triste gli passava sul viso, come quando torna alla memoria qualcosa di incredibilmente bello, un passato felice ormai irrimediabilmente lontano.
Nonostante non abbia mai vissuto con lui, mio nonno, e forse proprio per questo, durante la mia infanzia e giovinezza avevo mitizzato la sua figura.
Era, nonostante gli anni, un uomo che sprizzava gioia di vivere e che aveva cercato, forse senza neanche rendersene conto di trasfonderla nei suoi figli. Vivere con lui poteva essere molto faticoso, come aveva dimostrato la fine di mia nonna e le successive vicende che lo portarono a convivere con mia zia Luciana che si prendeva cura di lui e degli altri fratelli più piccoli, scavezzacolli e senza gran voglia di lavorare e successivamente a risposarsi alla bella età di 70 anni con una piacente zitella, ormai avanti con gli anni anche lei, che sopraffaceva - bonariamente, s'intende, con la sua estrema vitalità.
Io lo ricordo com'era un tempo, pieno di vita, un Don Chisciotte avventuroso, assurdamente allegro e vivace. Nel mio portafogli c'era sempre la sua foto in vestito da cerimonia blu, col cappello di panama bianco, l'ombrello in aria a mò di lancia, gli inseparabili occhiali dalle lenti azzurre ed un sorriso mezzo
nascosto dalla barba a pizzo stile Pirandello; un pò ironico, un pò commosso mentre, nel giorno del mio matrimonio, ci raccomandavi di provarle tutte nella vita.
Con lo stesso spirito giovanile, nonostante gli acciacchi e le difficoltà, lo avevo ritrovato la penultima volta che lo vidi per i suoi 83 anni, con quel sorriso accattivante e arguto con cui accompagnava le sue battute scherzose... così diverso da quell'uomo stanco, quasi assorto, che vidi, invece, l'ultima volta, indifeso contro gli attacchi del male, penosa controfigura di due anni prima. Capii che il suo tempo stava per scadere e già in cuor mio gli avevo dato l'ultimo saluto, l'ultimo tenero abbraccio.
Non ho avuto il coraggio, allora non ne avevo, di vederti morto, così ti parlo ora, convinta di essere ascoltata e di dirti finalmente quello che non ti ho mai detto, separati dall'età e dal timore d'annoiarti o di non essere compresa. Si scopre sempre dopo, quando ormai è impossibile rimediare, che tornando indietro ci si sarebbe comportati diversamente.
Sì, caro nonno, con la maturità di ora, con la mia voglia di sapere, conoscere, approfondire, ti avrei posto mille domande, avrei cercato di stabilire tra di noi un rapporto come tra insegnante e studente, avrei saputo da te i come i perchè, i quando della tua vita, i tuoi pensieri, le tue illusioni, le tue certezze.
Di fatto che so di te? Quello che i tuoi figli mi hanno raccontato, narrando le cose secondo la loro prospettiva, guardando tra le immagini forse distorte dei loro ricordi d'infanzia e dell'adolescenza, frammenti forse un pò superficiali, legati a feste familiari o a battute fini a se stesse.
Vi troverei forse quello che ho voluto vedere, quello che tu mi hai lasciato credere involontariamente, suscitando in me quella vivida simpatia che scaturiva naturalmente da te e che mi attirava, entusiasta che tua nipote - la prima di una nuova generazione - scrivesse poesie.
Ma il tempo e forse l'intenzione di approfondire i nostri rapporti non ci furono ed ora è impossibile, debbo cercarti tra i ricordi e le impressioni altrui... tra i racconti un pò goliardici ed un pò "gonfiati" ed incompleti, mai penetranti dentro la tua essenza d'uomo, che mia madre, mio padre e gli altri mi facevano di te, sentimentalmente abbelliti quelli di mamma, agonisticamente aggressivi, quasi negativi quelli di papà, che per certi versi si sentiva oscurato dalla tua personalità più prorompente, messo da parte dall'imponenza della tua figura...
Vivevamo lontani, tu preso dalle tue cene conviviali, dai figli ormai adulti, solo senza la tua compagna, sollevato ormai dal compito dell’insegnamento per limiti d'età, poi preso dal secondo tardivo matrimonio con quella attempata, sognante signorina cinquantenne che nella tua vitalità mai compressa aveva creduto di vedere forse l'unico momento magico della sua scialba, insulsa solitudine.
Eppoi gli acciacchi della tua età, da cui ogni volta ti riprendevi con il solito esplosivo entusiasmo e dopo cui ricominciavi, dapprima con cautela, poi sempre con maggior vigore i tuoi passatempi preferiti: l'ispezione mattutina tra i banchi del mercato traboccanti di primizie, la scelta accurata, la preparazione delle pietanze - quasi un rito - che più tardi avresti condiviso con una schiera di amici... per fare un pò di baldoria.
Rimpiango d'aver passato con te così poco tempo e d'aver fermato nella mente solo rari momenti di intimità, d'averti, infine, conosciuto solo quando ormai la tua lucidità mentale, anche se ancora straordinaria e prodigiosa, già cominciava ad essere compromessa dall'avanzata età...
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Ritorniamo al "mio" negozio. Accanto alla fotografia, sul candido pizzo, un abat -jour, lo stelo di ottone dorato che improvvisamente s'allarga in una rosea corolla di cristallo, un vaso d'alabastro color carne da cui spunta un'unica candida rosa.
Vicino al tavolino, una sedia a dondolo, la struttura nera come il tavolo - paglia di Vienna grezza per lo schienale ed il sedile su cui é adagiato in una posa un pò stereotipata, un manichino di plastica dura e lattea, senza volto. Sui capelli appena un'onda accennata, un cappello di velluto rosso bordeaux con una veletta.
Le pareti sono d'un azzurro intenso, riposante, su di esse disseminate, stampe ottocentesche, d'una vecchia Roma sconosciuta, di popolani dalle facce aperte e argute, di cartoline primo novecento con quadrifogli dorati in rilievo, tenere Valentine ricoperte di una polvere rosea luminescente, di bambini allegri intorno ad enormi alberi natalizi ricoperti di neve, bambini paffuti dalle gote rosse che si tengono per mano ed attendono un Babbo Natale che giunge da lontano su una slitta carica di doni e scintillante di porporina argentata...
Accostata alla parete di fondo una scrivania di mogano chiaro dalle linee semplici, leggermente arrotondate ai lati, su cui sono sparsi tanti oggetti anni 30/40: articoli di cancelleria, timbri dall'impugnatura di legno, scatoline di pennini, un secchiello da spiaggia di metallo rosso e scene marine disegnate torno torno, in cui s'ammucchiano manciate di matite rosse e blu, cannucce per pennini tricolori, lunghe gomme a forma di matita con un buffo pennellino in fondo che serve per spazzar via le briciole di gomma, residuo d'una cancellatura.
In una scatola di legno, dei vecchi oggetti anteguerra recuperati per poche migliaia di lire sui banchi di Porta Portese: gomme, librettini d'altri tempi, quaderni pubblicitari riportanti slogan fascisti, un piccolo Balilla che guarda incuriosito qualcosa d'indefinito, oltre la carta da lettera su cui é stampato... Una libreria nera con i vetri ocra in puro stile Rinascimento racchiude album di cartoline, francobolli, chiudilettere in quadricromia con fregi d'oro e d'argento, bigliettini d'auguri, ancora stampe simili a quelle incorniciate sulle pareti.
In un angolo, un vecchio Phonola in radica di noce con altoparlanti da gran concerto che spesso metto in funzione al massimo della potenza e ancora un altro tavolo, anch'esso rinascimentale, gemello di quello che da bambina divideva in due la stanza di zia Eugenia, le cui gambe intarsiate a testa di leone mi affascinano, come sempre.
Su una tovaglia candida di lino ho disposto tante piccole cornici d'argento di varia fattura, un trenino di latta colorato dai finestrini solo disegnati e affollato di bambini dai volti sorridenti che salutano immaginari parenti, un aeroplanino a carica che apre e chiude le ali, mentre prende l'abbrivio lungo la pista d'un tavolo o d'un pavimento; ci sono anche scatole di cipria ancora intatte, il coperchio di cartone disegnato a rilievo, penne stilografiche dalle forme panciute e qua e là, disseminati nell'altra stanza, macchie verdi di piante, lunghe felci, papiri, composizioni di ikebana, un piccolo bonsai, minuscola forzatura della natura e su due enormi pouff di raso azzurro, alcune bambole dal viso di porcellana, dagli sfarzosi vestiti ottocenteschi di velluto e pizzi, cappelli con nastri e piume, le mani aperte ad attendere un ipotetico abbraccio, le labbra rosse atteggiate ad un ampio sorriso, ma negli occhi immobili e interrogativi, un velo di tristezza, di solitudine.
In questo negozio di oggetti forse inutili ma tutti ugualmente belli, di quella particolare bellezza che hanno le cose antiche o semplicemente appartenute ad una passata generazione, con quel tanto di mistero e di fascino che bastano a conquistare chiunque si soffermi un pò a pensare che quelle cose, quelle fotografie, quei giocattoli hanno significato molto per qualcuno, che sono stati guardati, accarezzati, perfino baciati da esseri umani uguali a noi eppure lontani ormai nel tempo; in questo luogo, di cui sarei singolare custode, mi troverei a mio agio, badando a non privarmi del tutto di quelle cose amate.
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