COLLABORAZIONI
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ALTRI SANTI PIEMONTESI
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SERVA DI DIO CATERINA BENSO
Nasce a Morozzo (provincia di Cuneo) il 1° maggio 1745,
in una semplice e umile famiglia di contadini. Morto il
papà in ancor giovane età, si trasferisce
con i famigliari a Roata Chiusani di Centallo.
Dotata di una straordinaria bellezza, che le procura anche
vantaggiose offerte di matrimonio, ad essa preferisce la
bellezza interiore, l’amicizia con Dio, che cerca
di alimentare e sostenere con un’assidua preghiera.
Si iscrive alla Compagnia della Madonna Addolorata, particolarmente
venerata a Roata Chiusani e di cui anche lei diventa devotissima:
comincia così una vita spirituale ancora più
intensa, che dalla preghiera e dall’affidamento a
Maria riceve la forza ed il coraggio per affrontare le difficoltà
di ogni giorno.
Nella semplicità di una vita intessuta di lavori
umili, andando a lavorare a giornata nei campi, spigolando,
allevando bachi da seta e portando una mucca al pascolo,
Caterina scopre un “tesoro” al cui confronto
tutto il resto è niente: soltanto Gesù può
dare un senso alla sua vita, è Lui la “perla
preziosa” di evangelica memoria, per la quale vale
davvero la pena sacrificare tutto il resto. Questo cammino
spirituale la porta, così, a considerare che anche
alla bellezza fisica si può rinunciare, quando questa
mettesse in crisi la sua amicizia con Gesù.
A vent’anni appena compiuti, aggredita in aperta campagna
da un giovane che vorrebbe abusare di lei, si difende mettendo
tra sé e l’aggressore il crocifisso, che sempre
porta al collo: un gesto semplice e disarmante che lo mette
in fuga, permettendole così di tornare a casa sana
e salva. L’episodio, però, le fa capire ancora
di più che la sua bellezza, suo unico tesoro, la
può esporre anche a molti pericoli, facendole correre
il rischio di offendere il Signore. Una quotidiana, lunga
e fervorosa preghiera davanti all’Addolorata la porta
così a mettere nelle mani di Gesù l’offerta
di tutta se stessa: un’offerta generosa che Caterina
non ritirerà mai.
Alcuni mesi dopo, la caduta di una grossa pagnotta le provoca
sul volto una banale ferita, che si dimostra ribelle ad
ogni cura. Ben presto la ferita si trasforma in una dolorosissima
cancrena, che inizia a corroderle il volto fino ad inchiodarla
nel letto.
Per 38 lunghissimi anni, tra sofferenze lancinanti, inutili
e dolorose medicazioni, con il corpo piagato e squassato
dalla febbre, accetta con santa pazienza ed infinita umiltà
il dolore che si è abbattuto su di lei, riuscendo
a santificare con l’amore la sua sofferenza, che,
proprio quando sembra giunta al culmine, comincia a diventare
sorgente di vita e speranza di guarigione per gli altri.
Attorno a Caterina cominciano ad affluire malati di ogni
genere, provenienti non solo dalla provincia di Cuneo, ma
da tutto il Piemonte, dalla Liguria, dalla Lombardia e perfino
dalla Francia.
”Andate dalla Madonna” è il costante
invito che rivolge a tutti coloro che si affidano alla sua
intercessione: soltanto davanti all’altare della Madonna,
infatti, ciechi, storpi, zoppi, ammalati di tumore, epilettici
e sordi trovano guarigione, mentre Caterina vuole semplicemente
essere il “ponte” tra la sofferenza dell’uomo
e la potenza risanatrice di Dio.
Roata Chiusani è letteralmente invasa da carri e
carrozze, ristoranti mobili e gente di ogni paese, al punto
che il sindaco è costretto a far presidiare dalle
guardie la sua casa, per prevenire possibili disordini.
Osteggiata e perseguitata dall’autorità civile,
che vede in lei una pericolosa cospiratrice, è invece
sostenuta dall’arciprete di Centallo e dalla Curia
di Torino, che riconoscono il “dito di Dio”
negli avvenimenti prodigiosi che avvengono attorno a lei.
Completamente divorata dal cancro, che l’ha resa anche
cieca, Caterina muore il 25 febbraio 1803 e la gente di
Roata Chiusani la vuole seppellita in chiesa, davanti all’altare
della Madonna, contro il parere dell’autorità
civile, che teme che su quella tomba si possano verificare
altri miracoli.
La morte non spegne la forza della sua presenza, che anzi
acquista maggior vigore, e la gente continua a ricorrere
a Caterina Benso.
La sua intercessione si rivela particolarmente efficace
per i piccoli e per i deboli; per i malati terminali e,
specialmente, per quanti sono affetti dal “male del
secolo”; per la pace nelle famiglie e per la conversione
delle anime lontane da Dio.
La tomba di Caterina, nella chiesa parrocchiale di Roata
Chiusani, diventa così ancora oggi un sicuro punto
di riferimento per quanti cercano conforto e guarigione
e per tutti coloro che hanno bisogno di attingere forza
dal suo esempio e vogliono dare sempre a Dio il primo posto
nella loro vita. In un silenzio pieno d’amore, da
quella tomba sembra invitare alla fiducia e ripetere come
un tempo, agli afflitti ogni genere, il suo consiglio “Andate
dalla Madonna”
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PREGHIERA
Santissima Trinità,
che con l’opera della Vostra grazia
avete fatto di Caterina Benso
un ammirabile modello di innocenza e di eroico sacrificio,
noi Vi preghiamo,
per intercessione di Maria SS. Addolorata e della
Vostra umile Serva,
di esaudire le nostre preghiere
e di concedere che le nostre famiglie
sappiano seguire il luminoso esempio delle sue virtù
e così Vi rendano gloria nei secoli.
Amen.
Nostra Signora Addolorata, prega per noi.
(adattamento della preghiera composta dal Vescovo
Mons. Quirico Travaini)
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* La biografia di Caterina Benso, ”Caterina
dei miracoli” può essere richiesta alla Parrocchia
di San Bernardo Abate – Roata Chiusani - 12044 Centallo.
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DON STEFANO GERBAUDO
(Centallo 30 luglio 1909 – Fossano 30 settembre 1950)
Sacerdote della diocesi di Fossano (in provincia di Cuneo),
direttore spirituale del Seminario e assistente della Gioventù
Femminile di A.C., innamorato dell’Eucaristia e della
Madonna, direttore spirituale e formatore di schiere di
giovani, raggiunge le vette dell’eroismo offrendo
la sua vita per la santificazione della famiglia religiosa
che ha fondato e per uno dei chierici affidati alla sua
guida. Come risposta del cielo, un cancro lo stronca, lentamente
e dolorosamente, ad appena 41 anni.
Don Gerbaudo: il pastore buono offre la vita
Don Stefano Gerbaudo nasce a Centallo (in provincia di Cuneo)
il 30 luglio 1909, quinto di una famiglia di otto figli.
Viene avviato molto presto al lavoro dei campi, ma a 14
anni sente un'improvvisa vocazione alla vita sacerdotale
che nell'ottobre 1923 lo porta ad entrare nel seminario
di Possano. Vince la sua scommessa contro quanti non credono
alla solidità della sua vocazione e gli preannunciano
insormontabili difficoltà negli studi; difficoltà
che in effetti non mancano, ma che non gli impediscono,
il 3 maggio 1935, di essere ordinato sacerdote dal vescovo
di Possano, mons. Soracco.
Dopo un breve periodo di servizio pastorale nella Cattedrale
di Possano viene destinato alla piccola parrocchia di Villafalletto,
dove resta fino al 1939: pochi anni, che però sono
sufficienti a lasciare un vivissimo ricordo di bontà
e generosità sacerdotale, soprattutto in mezzo alla
gioventù.
Nel settembre 1939 il vescovo di Fossano mons. Soracco lo
richiama in seminario, affidandogli la direzione spirituale
dei chierici. Poco dopo lo nomina anche Assistente diocesano
della Gioventù Femminile di Azione Cattolica.
E' soprattutto a partire da questo periodo che la sua spiritualità
acquista una chiara impronta eucaristica e mariana, che
viene alimentata da una prolungata preghiera, da una continua
penitenza, da una grande generosità che lo porta
a distribuire ogni cosa ai poveri. Tra la gioventù,
attraverso ritiri, giornate di spiritualità, profonde
meditazioni, esercita una illuminata direzione spirituale
che lo porta ad indirizzare molti alla vocazione sacerdotale
e religiosa.
Sente l'urgenza e la necessità di numerosi e santi
sacerdoti e per questo invita a "pregare, offrire,
soffrire" per la santificazione dei sacerdoti. E proprio
per venire in aiuto al sacerdote nello svolgimento del suo
ministero, inizia a raccogliere attorno a sé un gruppo
di ragazze generose, che il 2 maggio 1944 entrano a far
parte della nuova famiglia che ha fondato. Le chiama "cenacoline"
ed affida loro, insieme ad un grande amore per Gesù
Eucaristia e per Maria "Regina degli Apostoli",
il compito di "curare la santificazione propria ed
altrui attraverso una più stretta collaborazione
col Sacerdote".
Dopo aver dato prova di completa disponibilità e
di incondizionata carità, la sua generosità
lo porta a compiere un gesto eroico: offrire la propria
vita per ottenere dal Signore la santificazione dei suoi
chierici e delle sue Cenacoline. L'offerta viene compiuta,
nel completo nascondimento e nel più rigoroso silenzio,
nel mese di settembre 1948. Poco dopo la sua salute comincia
a declinare fino a far diagnosticare, nel giugno 1950, un
cancro alla spina dorsale che lo crocifigge in un letto
della clinica Avagnina, a Fossano, tra spasimi indicibili.
La sua "offerta di vittima fu accolta, ratificata dal
Signore: in questa luce - e lo confermò anche Padre
Pio - si deve vedere la dolorosa malattia che lo purificò,
lo consumò secondo il misterioso progetto di Dio,
facendone un'ostia santa, gradita a Dio".
Muore il 28 settembre 1950 promettendo: "Dal cielo
vi sarò vicino, pregherò e lavorerò
tanto per voi".
Oggi le sue Cenacoline, trasformatesi come istituto secolare
in Missionarie Diocesane di Gesù Sacerdote, continuano
a servire la Chiesa ed a perpetuare la sua ansia per la
salvezza delle anime.
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BEATO ODDINO BAROTTI
* 1344 Fossano (Cuneo) + 1400
Più di 650 anni ci separano da lui,
ma forse avrebbe ancora da dire qualcosa ai suoi concittadini,
sacerdoti e laici, per l’eroismo di una fede integralmente
vissuta e concretizzata in opere di carità. Affonda
le sue radici nella parte più antica di Fossano (provincia
di Cuneo), dove, in via Garibaldi, ancora si indica la casa
in cui avrebbe visto la luce, nel 1344. Nobili (o almeno
aristocratici) i suoi natali, che non gli impediscono, una
volta sacerdote, di compiere scelte radicali e controcorrente.
Canonico della Collegiata di San Giovenale prima ancora
di essere ordinato prete, parroco della chiesa di San Giovanni,
allora la più importante della città, pochi
anni dopo l’ordinazione, ad un certo punto molla tutto
e va pellegrino in Terra Santa. Che a quell’epoca
non vuol dire compiere un semplice e comodo seppur devoto
pellegrinaggio, tante sono le incognite e i pericoli di
un viaggio lungo e defatigante, dal quale non sempre si
ritorna. Ad attirarlo là è la sua profonda
devozione alla Passione di Gesù, una devozione che
vuole ritornare alla fonte, dove la Passione di Gesù
si è consumata e dove egli vuole rinvigorire la sua
fede. Non ha fatto però i conti con i Turchi, che
lo fanno prigioniero e gli riservano pochi riguardi e tante
sofferenze. Liberato, torna a Fossano, dove si vedono subito
i frutti di questo sofferto pellegrinaggio: moltiplica le
preghiere, le penitenze e le opere di carità, trascorre
lunghe ore in meditazione davanti al crocifisso, vive poveramente,
privandosi anche del necessario per vivere. Si lascia anche
affascinare dall’ideale francescano, di cui oltre
all’abito da terziario adotta anche la spiritualità.
La gente è ammirata, ma anche preoccupata, del suo
stile di vita, perché mangia lo stretto necessario
per sopravvivere: un po’ di pane e qualche verdura.
Eppure non c’è verso di fargli ingoiare qualcosa
di più, perché tutto quanto gli regalano,
perfino le pietanze già cotte, finisce invariabilmente
nelle case della povera gente. Come quel cappone regalatogli
per il pranzo di Natale, che egli si vergogna di mangiare
mentre famiglie intere non hanno di che mangiare: lo fa
così recapitare nella casa di una povera donna, che
ha partorito da pochi giorni, dal suo inserviente che viene
guidato all’indirizzo giusto da un cagnolino. E poichè
i malati sono anch’essi poveri, non solo di salute
ma a quell’epoca soprattutto di cure e di assistenza,
ecco tuffarsi in questa nuova opera di misericordia: getta
le basi dell’attuale ospedale, visita i malati poveri
nei loro tuguri, costruisce un ospedaletto per i lebbrosi
e un altro per i malati colpiti dal fuoco sacro. Tanto caritatevole
perché altrettanto devoto e pio, costruisce quattro
cappelle ai quattro punti cardinali (dedicate a San Lazzaro,
San Bernardo, Santo Stefano e San Pietro) quasi a realizzare
un’immaginaria croce a protezione della città.
Finiscono per affidargli la Collegiata di San Giovenale
(la futura cattedrale), ma la trova talmente in cattive
condizioni da sentirsi in dovere di riedificarla. Durante
questi lavori i suoi contemporanei sono spettatori di cose
prodigiose: il muratore che cade dall’impalcatura
della torre campanaria ed è dato per morto, si alza
senza un graffio e torna subito al lavoro non appena egli
lo prende per mano; il carro stracarico, sprofondato nella
melma, riparte dopo una sua semplice benedizione. Un uomo
così nessuno lo ferma, neppure una pestilenza. E
si butta talmente in prima linea nell’assistere gli
appestati da esserne lui stesso contagiato. Ed è
proprio la peste ad ucciderlo, il 7 luglio 1400, quando
ha appena 56 anni, tutti spesi per Dio e per i più
bisognosi. Bisognerà attendere più di 400
anni, ma alla fine, nel 1808, Pio VII concederà l’aureola
di Beato ad Oddino Barotti, il primo fossanese ad avere
l’onore degli altari.
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Preghiera
O Dio, che hai ispirato al Beato
Oddino Barotti un grande amore per la passione del
tuo Figlio ed un generoso zelo per le anime, fa’
che sorretti dal suo esempio e dalla sua intercessione,
possiamo arrivare, attraverso il mistero della Croce,
alla gloria della beata risurrezione. Per Cristo nostro
Signore.
O Beato Oddino, grande nel regno dei cieli perché
fosti umile ed amante della Croce su questa terra,
volgi il tuo sguardo a noi che ti invochiamo fiduciosi
del tuo patrocinio.
Tu dal cielo ci ami come amasti i fedeli che Dio ti
aveva affidato in questa nostra città.
Tu conosci le nostre miserie e le nostre necessità.
Intercedi per noi affinché il Signore ci conceda
aumento di fede, di preghiera e di carità operosa;
distrugga nei nostri cuori il verme dell’egoismo
e dell’ipocrisia; ci doni la forza di superare
le umane passioni e di vivere totalmente per Gesù
Cristo, come Egli con infinito amore donò se
stesso sacrificandosi sulla croce per la nostra salvezza.
Beato Oddino, prega per noi.
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BEATO GIOVANNI GIOVENALE ANCINA
* Fossano (Cuneo) 1545 - + Saluzzo 1604
Le tentazioni di un giovane ricco: potremmo
chiamare così le varie opportunità che il
mondo cinquecentesco offre al fossanese Beato Giovanni Giovenale
Ancina. Innanzitutto le soldatesche (prima spagnole e poi
francesi) che stazionano in città e che certamente
non sono una scuola di modestia. Poi un’interessante
proposta di matrimonio con una ragazza nobile e virtuosa
che per di più (particolare non trascurabile) porta
in dote duemila scudi. Infine l’opportunità
di fare carriera a Roma, con la “raccomandazione”
di un cardinale. E’ un “Dies irae”, ascoltato
in un chiesa di Savigliano, a far cambiare rotta al promettente
medico ventisettenne (che ha anche conseguito una splendida
laurea in Filosofia) e ad orientarlo verso il sacerdozio.
A Roma resta affascinato da “un certo padre Filippo,
stupendo per molti rispetti”, che altri non è
che San Filippo Neri, il quale dopo averlo fatto sospirare
non poco lo accoglie, insieme al fratello Giovanni Matteo,
nella sua congregazione. Diventato sacerdote, inizia a Roma
il suo ministero, (dove tra l’altro si interessa con
passione alla fondazione della diocesi di Fossano) e poi
accompagna San Filippo a Napoli, dove vive i dieci anni
più belli del suo sacerdozio: raccoglie frutti insperati
di conversioni, le sue prediche sono talmente partecipate
che le chiese napoletane non sono sufficienti a contenere
tutti coloro che lo vogliono ascoltare. Ritorna a Roma per
ordine di San Filippo, ma qui si accorge che sta correndo
il grosso “rischio” di diventare vescovo. A
“tradirlo” ed a metterlo in luce davanti a Clemente
VIII, oltrechè la fama di uomo santo e di predicatore
affermato, sembra sia proprio una predica che è chiamato
a tenere davanti a Papa e Cardinali e che egli è
costretto ad improvvisare, dato che ha dimenticato a casa
gli appunti, frutto di una settimana di intenso lavoro e
di ricerca biblica e patristica. Il risultato di quella
predica “a sorpresa” è tale che il Papa
non può più dimenticarsi di lui, che intanto,
mentre prega e fa pregare che non gli capiti la “sventura”
di diventare vescovo, abbandona la capitale e si mette a
predicare in giro per l’Italia. Rintracciato e proposto
per la sede episcopale di Mondovì, sceglie quella
di Saluzzo (entrambe nel cuneese) perché più
povera e difficile. Sa che qui la fede è minacciata
non solo dall’eresia, ma soprattutto dalla scarsa
preparazione di un clero, che in fatto di moralità
e preparazione teologica lascia molto a desiderare. Sa che,
in mancanza di adeguate guide spirituali, nel popolo di
Dio sta venendo meno il fervore e lo slancio religioso.
Ancina sarà vescovo di Saluzzo per pochi mesi appena:
giusto il tempo per rimettere un po’ di ordine, rinvigorire
la fede, introdurre la pratica delle Quarantore, favorire
il culto all’Eucaristia, combattere l’eresia
che dalla vicina Francia sta dilagando in Piemonte. Inaugura
un nuovo stile episcopale, sostituendo il modello del vescovo-principe,
molto comune nel XVI secolo, con quello del vescovo-pastore
buono, in piena sintonia con lo stile evangelico. Sobrietà,
penitenza, profonda pietà, austerità di vita,
grande generosità verso i poveri, delicatezza e premure
verso i malati: è questo il modo con cui il vescovo
Ancina, precedendo con l’esempio, cerca di moralizzare
il suo clero e cerca di ammaestrare il suo popolo. Non mancando,
se necessario, di fare anche la voce grossa e di comminare
sanzioni, come fa pochi giorni dopo il suo ingresso in diocesi,
sospendendo dal ministero della confessione tutti i sacerdoti,
ad eccezione dei parroci, e riservandosi di nominare solo
quelli che se ne fossero resi degni. Nel suo essere cristiano
e nel suo farsi pastore gli sono di modello San Filippo
Neri, alla cui ombra si è formato, San Carlo Borromeo,
suo contemporaneo, e san Francesco di Sales, che da Ginevra
viene a Carmagnola, apposta per incontrarlo e confrontarsi
con lui. Intanto predica, con lo stile che gli ha trasmesso
San Filippo Neri: in chiesa, per strada, anche su una pista
da ballo durante una festa patronale. E prega: ore e ore
ininterrotte davanti all’Eucaristia, o nella sua camera
davanti all’immagine della Madonna, così assorto
e devoto che per richiamarlo alla realtà a volte
occorre scuoterlo non poco. Muore il 30 agosto 1604, a due
anni esatti dalla sua nomina episcopale ed a 17 mesi appena
dal suo ingresso in diocesi, e la sua fine è avvolta
dal mistero: fu avvelenato da chi non condivideva la sua
azione riformatrice e il suo zelo apostolico? I sospetti
cadono su un frate, cui il vescovo Ancina pochi giorni prima
aveva rinfacciato la condotta immorale e minacciato sanzioni
canoniche, che gli serve un misterioso vino il giorno di
San Bernardo (20 agosto), durante il pranzo che i frati
del convento di Saluzzo hanno preparato per il vescovo.
Fatto sta che i disturbi nel vescovo cominciano a manifestarsi
subito dopo pranzo e muore dieci giorni dopo, tra lancinanti
dolori. Nessuno ha interesse o vuole approfondire subito
quel sospetto e su tutto viene steso un velo pietoso, per
non suscitare un vespaio a disonore del convento. Ma la
conferma che ci sia del vero in questo presunto “giallo”
viene proprio dalla Postulazione, che in un primo tempo
cerca di impostare la causa di beatificazione dimostrando
il martirio dell’Ancina “per il veleno datogli
per adempiere agli obblighi suoi episcopali”. Ovvio
che non ci riesca per il troppo tempo trascorso, per le
mancate indagini effettuate a tempo debito, per la scomparsa
degli eventuali testimoni e perfino per la mancanza del
nome del sospetto assassino. Ciò non impedisce tuttavia
a Giovanni Giovenale Ancina di giungere ugualmente alla
gloria degli altari per l’ordinaria via del riconoscimento
dell’esercizio eroico delle virtù cristiane,
sancito dalla beatificazione avvenuta il 9 febbraio 1890
per bocca di papa Leone XIII. Mentre lui, non dimenticandosi
di essere stato medico, continua a prendersi cura di quanti
gli affidano i propri malanni, come testimoniano le numerose
relazioni di grazie ricevute.
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Preghiere
O Dio, che nel beato Giovanni Giovenale Ancina,
Vescovo, hai formato un eminente predicatore della
tua parola e un pastore esemplarmente zelante, concedi
per sua intercessione di custodire la fede che ha
trasmesso con l’insegnamento e di seguire la
via che ha tracciato con l’esempio. Per Cristo
nostro Signore.
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Signore, che nel beato Giovanni Giovenale Ancina,
posto a servizio del tuo popolo, ti sei fatto medico
delle anime e dei corpi, concedici per sua intercessione
di godere sempre la salute spirituale e corporale.
Per Cristo nostro Signore.
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MARIA ISOARDO
(Centallo, 12 giugno 1917 – Pietraporzio 20 aprile
1944)
Giovane maestra assegnata a disagiate scuole di montagna,
matura nei tempi della guerra una forte spiritualità
e solidi principi morali. “Santità eroica è
quella di colui che abitualmente esercita la virtù
e all’occorrenza anche in grado eroico”, scrive
come suo programma di vita. Il 20 aprile 1944, mentre sui
monti del cuneese infuria la rappresaglia tedesca che semina
distruzione e morte, la ventisettenne maestrina, con le
idee estremamente chiare sulla virtù e sul peccato,
sulla fede e sui doveri del cristiano che devono essere
rispettati anche a costo della vita, resiste con tutte le
sue forze alla violenza di un ufficiale tedesco e viene
uccisa nella sua scuola. Il suo ricordo continua a vivere
ad oltre 60 anni dalla morte come quello di “un’altra
Maria Goretti”: decorata della Medaglia d’Oro
della Pubblica Istruzione, al suo nome sono state intitolate
alcune scuole elementari e continua ad essere commemorata
con periodiche iniziative.
Maria Isoardo, maestra coraggio
Era una ragazza dalle idee chiare e dal sorriso luminoso,
che amava la montagna e si dedicava con passione all'insegnamento.
Maria Isoardo nasce a Centallo il 12 giugno 1917 ed a vent'anni
è già per i monti, insegnante elementare in
sedi disagiate ed in scuolette fuori dal mondo, dove si
fa conoscere come una maestra "molto buona e alla buona".
Nel periodo più brutto della 2^ guerra mondiale (cioè
quello che fa seguito alle tragiche giornate dell' 8 settembre
1943) Maria è assegnata alle scuole di Pietraporzio.
Non è così ingenua da ignorare i pericoli
che può correre, ma non per questo è disposta
a venir meno al suo dovere. Così, mentre cerca di
rassicurare la mamma che a Pietraporzio "tutto è
tranquillo" (questa pietosa bugia è del 16 aprile
1944, appena quattro giorni prima della morte), cerca come
sempre di "fare tutto ciò che piace a Gesù",
anche in mezzo alle difficili condizioni in cui è
chiamata a vivere.
Il 20 aprile 1944 è una giornata tragica per il paese
di Pietraporzio: scorribande di soldati, mitragliatrici
tedesche puntate un po' ovunque, case minuziosamente perquisite,
la fuga per i boschi dei pochi giovani e dei pochi soldati
italiani rimasti, l'incendio di quattro case come rappresaglia
per il ritrovamento di alcune armi.Anche la scuola viene
perquisita, tré mitragliatrici sono puntate contro
di essa, ma le maestre svolgono regolarmente, come ogni
giorno, le loro lezioni. Anzi, alle 11,30, per la pausa-pranzo,
accompagnano ad uno ad uno i piccoli alunni alle loro case
per evitare loro qualsiasi pericolo. Dopo averli messi al
sicuro, si fermano nei pressi delle case alle quali i tedeschi
hanno appiccato il fuoco, per dare una mano nell'opera di
spegnimento. Sono questi gli ultimi gesti di carità
di Maria: assicurarsi dell'incolumità dei suoi alunni
e prestarsi generosamente per alleviare le sofferenze e
i disagi di chi si era visto incendiare la propria abitazione.
Al rientro nella scuola le due maestre hanno un'amara sorpresa:
un militare tedesco le ha seguite, si è introdotto
nelle stanze in cui abitano e, appena esse ne varcano la
soglia, si chiude la porta alle spalle. A chiave. Le sue
attenzioni sembrano concentrarsi sulla collega, che riesce
a divincolarsi ed a fuggire, anche perché Maria è
venuta in suo aiuto. Ma è quest'ultima che ora, da
sola, deve affrontare la furia e la violenza dell'uomo,
che parla francese e forse è anche ubriaco. Nessuno
è testimone di quanto avviene nel chiuso della scuola,
ma è facile immaginare la lotta che Maria deve sostenere:
è la storia che si ripete, ogni volta che l'uomo
vuole sopraffare sul più debole. Dall'esterno sentono
il rumore di uno sparo e qualcuno assiste poi alla fuga
del militare per i monti.
Quando i più coraggiosi riescono a penetrare nella
scuola, per Maria non c'è più nulla da fare:
la ritrovano supina, in una pozza di sangue, con il capo
trapassato da un proiettile. Dalle deposizioni dei testimoni
e dal rapporto dei carabinieri è possibile intuire
il dramma che in quella stanza si è consumato: da
un lato la violenza feroce del militare, dall'altra la ferma
resistenza di quella donna di 27 anni, che aveva le idee
chiare. Soprattutto sulla virtù e sul peccato, sulla
fede e sui doveri del cristiano, che dovevano essere rispettati.
Anche a costo della vita.
Una sola cosa è certa, sulla base della posizione
in cui venne rinvenuto il cadavere e delle macchie di sangue
a forma di impronte digitali sparse un po' ovunque: sul
corpo di Maria, fino a che fu in vita e cosciente, quell'uomo
non potè prevalere.
In modo "eroico", secondo il programma di vita
che si era imposto, aveva mantenuto fede a quei principi
nei quali credeva e per i quali era vissuta. Una vita lunga
appena 27 anni, giocati tutti per Dio, in un costante allenamento,
per poter giungere preparata all'ultima decisiva scelta,
che fece dire ad alcune sue colleghe che molto bene l'avevano
conosciuta: "Maria non rubò a Dio la palma gloriosa
del martirio, ma la conquistò con lo sforzo continuo
e con il sacrificio quotidiano delle piccole rinunce".
Per approfondire la sua figura:
“Maria Isoardo: a costo della vita” –
breve profilo biografico
“Le stagioni della speranza” – videocassetta
realizzata dai bambini di Centallo e della Valle Stura (Cuneo)
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BEATA LUDOVICA DI SAVOIA
Suo padre è convinto che “la carità non ha mai prosciugato le casse di uno Stato” ed arriva a vendere pezzo per pezzo il suo “collare dell’Annunziata” per venire incontro ai bisognosi.
Lei, con un tal esempio in casa, non può che crescere nella carità, fatta non di parole ma di gesti concreti. Anche con Dio ha una certa familiarità, frutto di uno studio prolungato sulla Bibbia e di un dialogo continuo con Lui.
Il tutto alla corte dei Savoia, in mezzo a ragioni di stato, intrighi di palazzo, vita mondana e guerre di successione.
Nata nel 1462, fin da bambina assiste alle liti e alla guerra, scatenata dagli zii per strappare alla sua famiglia castello e potere. E’ forse anche per questi dispiaceri che papà muore a Vercelli neppure quarantenne, raccomandando di “amare i poveri e far fiorire la fede” e lei da quel giorno sente nascere in cuore la vocazione religiosa.
La sua vita, però, è attraversata da un giovane, nobile ed affascinante, che non le è per niente indifferente, e con il quale si trova fidanzata senza neppure saperlo, perché, come si usava allora, a decidere per lei è stata sua madre. Che è una donna volitiva ed energica, esperta in politica (è sorella del re di Francia), capace di reggere in modo ben saldo il ducato dei Savoia, abilissima nello stringere e nel rompere alleanze anche se per ciò deve pagare le conseguenze.
Così succede ad esempio con il duca Carlo il Temerario, già suo alleato, che sentendosi da lei tradito nel corso delle guerre di Borgogna la fa imprigionare e in cella finisce anche Ludovica di soli 14 anni, che però sa approfittare di questi mesi di solitudine per intensificare la preghiera e la meditazione.
Vengono liberate per l’intervento del re di Francia e tornano a Vercelli, dove la madre muore due anni dopo, distrutta dalla gotta.
E’ quindi ancora il re di Francia Luigi XI a prendere in mano la situazione, ospitando le nipoti nella sua corte e organizzando anche con sontuosità il matrimonio di Ludovica con Ugo di Chalon, il giovane che fin da bambina le aveva messo gli occhi addosso. E che adesso si rivela lo sposo adatto a lei, circondandola di venerazione e rispetto e sperimentando con lei alcuni princìpi di buon governo sui loro possedimenti.
Ugo e Ludovica, sempre teneramente insieme, migliorano le strade, aiutano i poveri, sostengono le opere benefiche, permettono ai poveri di andare a far legna gratuitamente nei loro boschi.
Ma è soprattutto lei a trasformarsi in infermiera premurosa e sollecita di malati e lebbrosi. Questo crescendo di affinità umana e spirituale viene messo a dura prova 11 anni dopo con l’improvvisa morte di Ugo nel 1490.
E’ a questo punto che Ludovica decide di assecondare la vocazione sentita fin da bambina, entrando nel convento delle Clarisse di Orbe.
Qui si lascia assorbire interamente da Dio, edificando le consorelle con la sua pietà, la sua umiltà e la sua disponibilità verso tutte.
Muore il 24 luglio 1503, anche lei poco più che quarantenne, e subito viene invocata come santa. Nel 1839 la Chiesa convalida questo sentimento popolare riconoscendo il titolo di beata a Ludovica di Savoia, preceduta nella gloria degli altari da suo papà, il beato Amedeo di Savoia.
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SERVI DI DIO MARCHESI DI BAROLO, CARLO TANDREDI FALLETTI E JULIETTE COLBERT
Lei, della cattolicissima Vandea, ha ancora negli occhi le atrocità della Rivoluzione francese e, nel cuore, il rimpianto di sua madre, che di quella carneficina fu vittima.
Lui, ultimo rampollo di una delle famiglie più in vista della “Torino-bene”, è ricco, intelligente e culturalmente preparato.
Tanto lei è vulcanica, impulsiva ed ostinata, quanto lui è riflessivo, ponderato e calmo secondo la miglior tradizione piemontese.
Due personalità così contrapposte si sposano il 18 agosto 1807, in nome di una strategia matrimoniale che risponde alla necessità di far imparentare tra loro le famiglie nobili del tempo.
Fautore di queste nozze è lo stesso Napoleone Bonaparte, mentre i due giovani sono ospiti al palazzo imperiale di Parigi, lui come paggio, lei come damigella di corte. Una volta tanto la “politica dei matrimoni” non fa danni alla coppia, perché i due scoprono di avere in comune l’identica passione per la cultura, la stessa attenzione verso i bisogni sociali, forti analogie nella sensibilità religiosa.
Nell’ambiente parigino, senza contravvenire alla loro posizione sociale, frequentano gli ambienti nobiliari, ma nello stesso tempo si avvicinano alle varie istituzioni di assistenza e beneficenza, affinando la loro sensibilità e anche la loro strategia caritativa.
Alla caduta dell’impero napoleonico si spostano a Torino, andando a stabilirsi nel sontuoso palazzo della famiglia di lui, che in breve tempo diventa un cenacolo di economia, politica e cultura, frequentato, tra gli altri, da Cavour, Cesare Balbo e i Marchesi di Saluzzo, oltre che da ambasciatori, cardinali e nunzi pontifici, che, forse, neppure immaginano che in quegli stessi locali frequentati ogni sera, lungo il giorno viene servito il pranzo a circa duecento poveri: Torino, infatti, insieme all’industrializzazione, sta affrontando i problemi di una povertà diffusa, se non di vere e proprie sacche di miseria, di abbandono minorile e di delinquenza, dovute in larga parte all’immigrazione dalla campagna di una massa di disoccupati in misura molto superiore a quella che le nuove fabbriche possono realmente assorbire.
I due sposi non fanno della semplice filantropia, ma svolgono una vera e propria opera di promozione umana nel segno della più squisita carità.
Lei lo dimostra girando per le strade di Torino alla ricerca dei poveri, per contattare i quali ha voluto imparare anche il piemontese; lui, che di Torino diventerà sindaco, fa costruire nuovi giardini, potenzia il numero di fontane di acqua potabile, migliora l’illuminazione pubblica, fa distribuire migliaia di razioni di legna ai poveri, mentre di tasca sua fa costruire il cimitero generale e, all’interno del proprio palazzo, un asilo per i figli degli operai.
Poi, insieme alla moglie, cosa non certo comunissima per un laico, fonda addirittura una congregazione religiosa, le Suore di Sant’Anna, perché prosegua nel tempo l’educazione giovanile che tanto gli sta a cuore.
Questa coppia, che non ha avuto figli, finisce così per adottare come tali i poveri di Torino; normale, quindi, che al momento della morte, il 4 settembre 1838, a soli 56 anni, lasci il suo consistente patrimonio alla moglie, per metterla “in grado di proseguire a beneficio dei miei concittadini” l’attività caritativa che insieme fino ad allora hanno svolto.
E lei, non appena elaborato il lutto, si rituffa a capofitto tra i poveri, aiutata dal suo carattere forte e determinato di cui rimane traccia nei suoi frequenti scontri con don Bosco. D’altronde, se tale non fosse il suo carattere, non avrebbe il coraggio di farsi rinchiudere nelle celle del carcere femminile, per cercare di redimere,evangelizzare e migliorare le sorti di quelle infelici.
Da quando il grido di un detenuto (“non il Viatico voglio, ma la zuppa”) le ha fatto scoprire le condizioni di miseria e degrado delle carceri, si batte perché in esse si favorisca il recupero del detenuto e si prepari il suo reinserimento nella società a fine pena. Mantiene, potenzia e gestisce una colossale e multiforme opera di carità, strutturata e all’avanguardia, che va dal monastero di clausura per ex carcerate desiderose di cambiar vita, all’ospedale per bimbe disabili.
Sopravvive a suo marito 26 anni e muore il 19 gennaio 1864, ma dei Marchesi di Barolo si continua a parlare, e non solo in quanto protagonisti di un pezzo di storia torinese: la Chiesa, infatti, nel 1991 ha aperto il processo di beatificazione di Giulia Colbert e nel 1995 quello di suo marito Carlo Tancredi Falletti, successivamente unificati per portare un’altra coppia di sposi cristiani all’onore degli altari.
Per
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in fama di santità di Fabio Arduino (Collaborazioni)
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