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NATALE: TRADIZIONI E VARIE
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NATALE E PROVERBI
Il Natale deriva da tradizioni borghesi del secolo scorso, con simboli e usanze sia di origine pagana che cristiana. Negli anni recenti, il Natale, festa prettamente cristiana, è diventata occasione per una corsa al consumismo, un festeggiamento frenetico, sostituendosi da un clima di celebrazione e di riflessione a una gara commerciale, facendo intervenire spesso la Chiesa a promuovere con incisione il significato religioso.
Secondo Papa Francesco, il cammino che inizia in questi giorni, è «un nuovo cammino di Chiesa, un cammino del popolo di Dio, verso il Natale. E camminiamo all’incontro del Signore». Il Natale è infatti un incontro: non solo «una ricorrenza temporale oppure — ha specificato il Pontefice — un ricordo di qualcosa bella. Il Natale è di più. Noi andiamo per questa strada per incontrare il Signore». Dunque nel periodo dell’Avvento «camminiamo per incontrarlo. Incontrarlo con il cuore, con la vita; incontrarlo vivente, come lui è; incontrarlo con fede» (dall’Omelia del 2 dicembre 2013).
E, come ogni evento importante, anche il Natale ha i suoi proverbi. La saggezza popolare non ha limiti nel creare proverbi e detti per qualsiasi occasione.
Si dice che il Natale porta serenità e pace, forse per il semplice fatto che si festeggia allo stesso modo degli anni precedenti. Solitamente la famiglia è riunita attorno al tavolo ricco di cibo e coi sorrisi dei più piccoli, ma da un paio d’anni le riunioni conviviali sono bandite a causa del ‘covid’ che impedisce riunioni ed assembramenti, ma i proverbi non cambiano nel tempo, anzi se ne aggiungono altri.
È noto che il proverbio è una frase breve, ricordata nella memoria collettiva o tramandata in forma scritta, frutto di una verità proveniente da esperienze per confermare un’argomentazione. C’è incertezza sull’origine della parola “proverbio”, sta di fatto che ha molti sinonimi: sentenza, adagio, aforisma, motto, che coincidono perfettamente con il suo significato. Insomma il proverbio è una regola generale che conferma un fatto naturale, meteorologico, somatico ecc.
Recentemente è stato pubblicato un mio libro sull’argomento che tratta di storie, curiosità e… proverbi, nel quale sono trattati vari argomenti in relazione alle massime.
La maggior parte dei detti popolari sul Natale si riferisce al periodo delle semine e dei raccolti, alla previsione del tempo, alle tradizioni religiose. Alcuni di essi sono di provenienza pagana.
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IL PRESEPE TRA STORIA E CURIOSITA'
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Il presepe o presepio è quella rappresentazione della nascita di Gesù che si fa nelle chiese e nelle case durante le feste natalizie e che riproduce scenicamente la Natività e l’Adorazione dei Magi. La diffusione del presepio è dovuta ai Francescani, ai Domenicani ed in seguito ai Gesuiti, da un’idea di San Francesco dalla quale ebbe origine il famoso presepio di Greccio.
Sono gli evangelisti Luca e Matteo i primi a descrivere la Natività. Nei loro brani c’è già tutta la sacra rappresentazione che a partire dal medioevo prenderà il nome latino di ‘praesepium’ ovvero recinto chiuso, mangiatoia. Si narra infatti della umile nascita di Gesù, come riporta Luca, “in una mangiatoia perché non c’era per essi posto nell’albergo” (Ev. 2,7).
In base a quanto riferisce lo stesso Luca, Gesù nacque in una stalla, o comunque in un luogo destinato al ricovero degli animali. Infatti il vocabolo Presepio deriva etimologicamente dal verbo latino ‘praesepire’ per cui assume il significato odierno di mangiatoia, greppia. Il termine pare comparso per la prima volta a proposito della Basilica Mariana dell’Esquilino, Santa Maria Maggiore, chiamata sin dal VII secolo “Sancta Maria ad praesepe”, in quanto in tale epoca, secondo la tradizione, vi furono traslate le reliquie della Sacra Culla.
Dalla voce del basso latino “cripia” invece, traducibile egualmente come mangiatoia, derivano i termini “crechè”, “crib”, “krippe”, “krubba”, che indicano il Presepio rispettivamente nelle lingue francese, inglese, tedesco e svedese. Allo stesso modo, in Polonia si parla di “szopka” e in Russia di “wertep”, termini aventi sempre il significato di greppia.
L’Enciclopedia dello Spettacolo definisce il Presepio come la rappresentazione plastica, tridimensionale della nascita di Gesù, realizzata con figure mobili spostabili secondo il senso artistico del costruttore. Insomma il presepio è come un teatro in quanto, analogamente a quest’ultimo, è teso a rendere attuale e reale un avvenimento remoto nel tempo e nello spazio.
Dal 1289, anno in cui Arnolfo di Cambio (1240-1302), scolpì le sue statue per la Basilica di Santa Maria Maggiore, quella che è considerata la prima rappresentazione del Presepio, bisognerà attendere quasi tre secoli per avere notizie certe, fondate su documenti probanti, circa l’esistenza di Presepi a Roma, e precisamente il 1581, quando il francescano spagnolo Juan Francisco Nuno, che aveva avuto l’incarico di condurre una ricerca sui conventi romani, riferisce come il Presepio venisse regolarmente allestito nei monasteri e nelle chiese e, come soprattutto quello dell’Aracœli, richiamasse una gran folla di fedeli, con la statua del Santo Bambino intagliata, secondo la tradizione, da un anonimo frate francescano in un tronco di ulivo del Getsemani.
Da allora, come avvenne a Napoli, a Genova e in Sicilia, il Presepio dalle chiese si diffuse alle case patrizie, con costruzioni artificiose e spettacolari il cui fine, in obbedienza ai canoni estetici barocchi, era quello di meravigliare, più che di edificare, e alla cui realizzazione parteciparono artisti eminenti (Bernini ne allestì uno per il principe Barberini).
Al ’700 appartengono il Presepio delle Clarisse di San Lorenzo, costituito da cinque grandi statue, quelli di Santa Maria in Trastevere e delle Benedettine del Monastero di Santa Cecilia.
Più ricca è la documentazione pervenutaci sull’Ottocento, quando l’uso di allestire il Presepio si allarga a tutti i ceti sociali, con la produzione di statuine in terracotta a basso costo, modellate da scultori mediocri e ricavate con stampi dai “bucalettari” di Trastevere. È una curiosità che lo stesso Bartolomeo Pinelli, “er pittor de Trastevere”, da ragazzo lavorò nella bottega del padre, figurinaio, plasmando in terracotta pupazzi da presepio.
Alcuni presepi vengono innalzati su portici di basiliche, su terrazze e loggette, con una scenografia naturale e il cielo come sfondo. Fra questi, il Presepio più visitato era quello che l’industriale Forti allestiva ogni anno in Trastevere, con figure realizzate con una tecnica particolare: il tronco di legno, testa ed arti di cartapesta, abiti di tela indurita con la colla e poi colorata.
A Napoli, verso la metà del Cinquecento, con l’abbandono del simbolismo medioevale, nasce il Presepio moderno. La tradizione ne attribuisce il merito a San Gaetano da Thiene che, esaltato dal mistero della Natività, allestì nel 1534, nell’oratorio di Santa Maria della Stalletta, presso l’Ospedale degli Incurabili, un grande Presepio con figure lignee fisse, abbigliate secondo la foggia del tempo. Su questa scia, nel corso del Cinquecento numerosi furono i Presepi costruiti a Napoli in chiese e monasteri, ma bisognerà attendere il secolo successivo per l’affermarsi del Presepio mobile a figure articolabili, il cui primo esempio fu quello allestito dai padri Scolopi nel Natale del 1627.
Infine, dal momento che la cartapesta, fin dalle sue origini, rappresenta un’arte tipicamente leccese, molto diffusa perché i motivi e la lavorazione erano e rimangono essenzialmente popolari e soprattutto di basso costo, parliamo del Presepio leccese. La cartapesta è composta da carta ricavata da stracci o da carta di giornale, pestata fino ad essere ridotta in poltiglia, mescolata con colla di farina, e quindi bollita con acqua avvelenata, per impedire la tarlatura: il composto così ottenuto viene poi disposto a strati, il cui spessore varia a seconda delle dimensioni della figura. Le prime opere in cartapesta vengono datate intorno al sedicesimo secolo, ma solo nell’Ottocento si hanno dati certi che indicano il caposcuola nel “Maestro Pietro dei Cristi”, soprannome attribuitogli perché era solito modellare immagini sacre.
Per concludere una curiosità. In Italia, a Dalmine, è presente il Museo del Presepio, conserva e valorizza una collezione unica al mondo che ruota tutta attorno al tema della natività. Nato dalla volontà di don Giacomo Piazzoli (1920-1988), un prete straordinario, seriamente impegnato nel sociale, che ancora oggi, a oltre un trentennio dalla scomparsa, è ricordato con affetto da tutti i suoi parrocchiani e soprattutto dagli “Amici del Presepio”, un’associazione di volontari dotati di grande cultura storico-artistica e religiosa che hanno continuato a svolgere il lavoro iniziato dal fondatore portando questo museo ai massimi livelli internazionali.
Il museo, sorto nel 1974, raccoglie 800 presepi provenienti da tutto il mondo, è dotato di archivio, di biblioteca, di fototeca e di nastroteca che documentano la storia, le tradizioni, i costumi, la musica, il folklore, le immagini sacre, i francobolli e le cartoline riguardanti il Natale ed il Presepio. Don Giacomo, appassionato ricercatore, approfondisce diversi aspetti storici legati al presepio e ai suoi personaggi, con particolare predilezione per gli studi sulla Terra Santa e avvia le prime ricerche sulle tradizioni del presepio bergamasco.
Da sempre con l’obiettivo di una maggiore diffusione del presepio, utilizzando tutti i metodi e tutti i canali possibili, Don Giacomo si rivela negli anni un instancabile comunicatore del presepio, si approccia alla radio e alla televisione, con numerose interviste, documentari e apparizioni televisive fino alla partecipazione, nel 1980, alla celebre trasmissione Rai “Portobello”, condotta da Enzo Tortora.
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“San Nicola e i bambini” è stato un progetto artistico che la città di Bari, ha portato avanti per alcuni anni in onore del suo Santo patrono, che è anche protettore dei bambini. Progetto che ha raccolto una cospicua collezione dedicata ai Santi delle tradizioni pugliesi. L’Amministrazione comunale intende farne dono alla cittadinanza esponendoli in un museo dedicato ai piccoli cittadini. Trattasi di una interpretazione iconografica contemporanea dell’eterno fascino che il protettore dei bambini esercita da sempre in tutte le latitudini.
Le mostre furono allestite con opere di Valeri Tarasov, Milvia Maglione, Luisa Gambuti, Gennaro Picinni, Patrizia Elisa Pareo, Gioacchino Leonetti, del greco Jannis Chalambalakis, dell’italiana e barese, Anna Maria Di Terlizzi e del tarantino Nicola Vinci. Con Chalambalakis scopriamo come l’immediata pregnanza dell’icona, che campeggia al centro dei due dipinti, debba fare i conti con un universo segnico, assolutamente contemporaneo, il quale si contende l’attenzione del fruitore.
Anna Maria Di Terlizzi, scultrice e autrice di una vasta raccolta di Santi della tradizione, propone San Nicola in trono, un’installazione che da sola è capace di animare lo spazio intorno a sé. Il lavoro possiede - come scrive Giusy Petruzzelli nella presentazione - una notevole dimensione ambientale per l’imponenza del vescovo insediato, ma parlano soprattutto i simboli, dalla mitria, alla stola, al pastorale, alle tre sfere, ai puttini. Un’opera veramente bella che l’autrice, com’è solita fare, ricorre al suo colto bricolage, tra oggetti della tradizione popolare.
Per l’occasione il prof. Domenico D’Oria, assessore alle Politiche Educative e docente universitario, scomparso nel 2019, e Padre Giovanni Distante O.P., attuale Rettore della Basilica di San Nicola, presentarono una nuovissima edizione di un volume a fumetti edito da Éditions du Signe di Strasburgo, “San Nicola tra Oriente e Occidente” di Thierry Wintzner e Vincent Wagner, opera pubblicata in sette edizioni, italiana compresa, alla quale ultima ha collaborato, tra gli altri, Nino Lavermicocca, mentre la traduzione è dello stesso Domenico D’Oria.
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IL PRESEPE TRA STORIA E CURIOSITA'
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Il presepe o presepio è quella rappresentazione della nascita di Gesù che si fa nelle chiese e nelle case durante le feste natalizie e che riproduce scenicamente la Natività e l’Adorazione dei Magi. La diffusione del presepio è dovuta ai Francescani, ai Domenicani ed in seguito ai Gesuiti, da un’idea di San Francesco dalla quale ebbe origine il famoso presepio di Greccio.
Sono gli evangelisti Luca e Matteo i primi a descrivere la Natività. Nei loro brani c’è già tutta la sacra rappresentazione che a partire dal medioevo prenderà il nome latino di ‘praesepium’ ovvero recinto chiuso, mangiatoia. Si narra infatti della umile nascita di Gesù, come riporta Luca, “in una mangiatoia perché non c’era per essi posto nell’albergo” (Ev. 2,7).
In base a quanto riferisce lo stesso Luca, Gesù nacque in una stalla, o comunque in un luogo destinato al ricovero degli animali. Infatti il vocabolo Presepio deriva etimologicamente dal verbo latino ‘praesepire’ per cui assume il significato odierno di mangiatoia, greppia. Il termine pare comparso per la prima volta a proposito della Basilica Mariana dell’Esquilino, Santa Maria Maggiore, chiamata sin dal VII secolo “Sancta Maria ad praesepe”, in quanto in tale epoca, secondo la tradizione, vi furono traslate le reliquie della Sacra Culla.
Dalla voce del basso latino “cripia” invece, traducibile egualmente come mangiatoia, derivano i termini “crechè”, “crib”, “krippe”, “krubba”, che indicano il Presepio rispettivamente nelle lingue francese, inglese, tedesco e svedese. Allo stesso modo, in Polonia si parla di “szopka” e in Russia di “wertep”, termini aventi sempre il significato di greppia.
L’Enciclopedia dello Spettacolo definisce il Presepio come la rappresentazione plastica, tridimensionale della nascita di Gesù, realizzata con figure mobili spostabili secondo il senso artistico del costruttore. Insomma il presepio è come un teatro in quanto, analogamente a quest’ultimo, è teso a rendere attuale e reale un avvenimento remoto nel tempo e nello spazio.
Dal 1289, anno in cui Arnolfo di Cambio (1240-1302), scolpì le sue statue per la Basilica di Santa Maria Maggiore, quella che è considerata la prima rappresentazione del Presepio, bisognerà attendere quasi tre secoli per avere notizie certe, fondate su documenti probanti, circa l’esistenza di Presepi a Roma, e precisamente il 1581, quando il francescano spagnolo Juan Francisco Nuno, che aveva avuto l’incarico di condurre una ricerca sui conventi romani, riferisce come il Presepio venisse regolarmente allestito nei monasteri e nelle chiese e, come soprattutto quello dell’Aracœli, richiamasse una gran folla di fedeli, con la statua del Santo Bambino intagliata, secondo la tradizione, da un anonimo frate francescano in un tronco di ulivo del Getsemani.
Da allora, come avvenne a Napoli, a Genova e in Sicilia, il Presepio dalle chiese si diffuse alle case patrizie, con costruzioni artificiose e spettacolari il cui fine, in obbedienza ai canoni estetici barocchi, era quello di meravigliare, più che di edificare, e alla cui realizzazione parteciparono artisti eminenti (Bernini ne allestì uno per il principe Barberini).
Al ’700 appartengono il Presepio delle Clarisse di San Lorenzo, costituito da cinque grandi statue, quelli di Santa Maria in Trastevere e delle Benedettine del Monastero di Santa Cecilia.
Più ricca è la documentazione pervenutaci sull’Ottocento, quando l’uso di allestire il Presepio si allarga a tutti i ceti sociali, con la produzione di statuine in terracotta a basso costo, modellate da scultori mediocri e ricavate con stampi dai “bucalettari” di Trastevere. È una curiosità che lo stesso Bartolomeo Pinelli, “er pittor de Trastevere”, da ragazzo lavorò nella bottega del padre, figurinaio, plasmando in terracotta pupazzi da presepio.
Alcuni presepi vengono innalzati su portici di basiliche, su terrazze e loggette, con una scenografia naturale e il cielo come sfondo. Fra questi, il Presepio più visitato era quello che l’industriale Forti allestiva ogni anno in Trastevere, con figure realizzate con una tecnica particolare: il tronco di legno, testa ed arti di cartapesta, abiti di tela indurita con la colla e poi colorata.
A Napoli, verso la metà del Cinquecento, con l’abbandono del simbolismo medioevale, nasce il Presepio moderno. La tradizione ne attribuisce il merito a San Gaetano da Thiene che, esaltato dal mistero della Natività, allestì nel 1534, nell’oratorio di Santa Maria della Stalletta, presso l’Ospedale degli Incurabili, un grande Presepio con figure lignee fisse, abbigliate secondo la foggia del tempo. Su questa scia, nel corso del Cinquecento numerosi furono i Presepi costruiti a Napoli in chiese e monasteri, ma bisognerà attendere il secolo successivo per l’affermarsi del Presepio mobile a figure articolabili, il cui primo esempio fu quello allestito dai padri Scolopi nel Natale del 1627.
Infine, dal momento che la cartapesta, fin dalle sue origini, rappresenta un’arte tipicamente leccese, molto diffusa perché i motivi e la lavorazione erano e rimangono essenzialmente popolari e soprattutto di basso costo, parliamo del Presepio leccese. La cartapesta è composta da carta ricavata da stracci o da carta di giornale, pestata fino ad essere ridotta in poltiglia, mescolata con colla di farina, e quindi bollita con acqua avvelenata, per impedire la tarlatura: il composto così ottenuto viene poi disposto a strati, il cui spessore varia a seconda delle dimensioni della figura. Le prime opere in cartapesta vengono datate intorno al sedicesimo secolo, ma solo nell’Ottocento si hanno dati certi che indicano il caposcuola nel “Maestro Pietro dei Cristi”, soprannome attribuitogli perché era solito modellare immagini sacre.
Per concludere una curiosità. In Italia, a Dalmine, è presente il Museo del Presepio, conserva e valorizza una collezione unica al mondo che ruota tutta attorno al tema della natività. Nato dalla volontà di don Giacomo Piazzoli (1920-1988), un prete straordinario, seriamente impegnato nel sociale, che ancora oggi, a oltre un trentennio dalla scomparsa, è ricordato con affetto da tutti i suoi parrocchiani e soprattutto dagli “Amici del Presepio”, un’associazione di volontari dotati di grande cultura storico-artistica e religiosa che hanno continuato a svolgere il lavoro iniziato dal fondatore portando questo museo ai massimi livelli internazionali.
Il museo, sorto nel 1974, raccoglie 800 presepi provenienti da tutto il mondo, è dotato di archivio, di biblioteca, di fototeca e di nastroteca che documentano la storia, le tradizioni, i costumi, la musica, il folklore, le immagini sacre, i francobolli e le cartoline riguardanti il Natale ed il Presepio. Don Giacomo, appassionato ricercatore, approfondisce diversi aspetti storici legati al presepio e ai suoi personaggi, con particolare predilezione per gli studi sulla Terra Santa e avvia le prime ricerche sulle tradizioni del presepio bergamasco.
Da sempre con l’obiettivo di una maggiore diffusione del presepio, utilizzando tutti i metodi e tutti i canali possibili, Don Giacomo si rivela negli anni un instancabile comunicatore del presepio, si approccia alla radio e alla televisione, con numerose interviste, documentari e apparizioni televisive fino alla partecipazione, nel 1980, alla celebre trasmissione Rai “Portobello”, condotta da Enzo Tortora.
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STORIE, STORIELLE, LEGGENDE E CURIOSITA' DI NATALE
di VITTORIO POLITO – |
Vito Maurogiovanni nel libro “Antico Natale” (Edipuglia), racconta che la notte del 24 dicembre un bambino fu rapito da briganti e non avendo ottenuto il riscatto dalla famiglia lo dovevano uccidere. Mentre stavano per compiere l’orrendo misfatto, una luce vivissima apparve nel cielo ed accecò gli assassini. Il bambino si salvò e vide un altro bel Bambino che teneva la corona in capo, la croce in mano ed il mondo nell’altra. Era Gesù.
Un’altra leggenda di Maurogiovanni “Gesù e l’usignolo”, ricorda la Madonna che tentava di addormentare il dolce Figliuolo che invece continuava a frignare come tutti i bambini del mondo. Quasi disperata pregò il Signore di consolare il divino Infante che non aveva pace e che la metteva al limite della cosiddetta santa pazienza. Fu in quel momento che entrò nella grotta un usignolo il quale si mise a cantare con tanta soavità e con tale trasporto che il Messia se ne andò in estasi e cadde in un sonno profondo e per non disturbarlo l’usignolo non trillò più e uscì dalla capanna per annunciare a tutti gli animali del mondo di tacere a lungo per non interrompere il sonno del santo Fanciullo sceso sulla terra.
Questi racconti ci portano al grande evento della Natività, festa della cristianità e delle tradizioni popolari, che vengono da lontano.
Qual è l’origine della natività? Pare nata nell’ottica di una importante festa pagana, la celebrazione del ‘Sol invictus’, dio del Sole e signore dei pianeti. Il Messia veniva spesso descritto come ‘Sole di giustizia’ e lo stesso Vangelo ne parla, a volte, paragonandolo al Sole. Ecco la preferenza per il 25 dicembre, data, anche se probabilmente non esatta, scelta per la necessità di contrapporre una festa cristiana ad una pagana nel momento in cui si diffondeva una nuova religione, il Cristianesimo.
In Palestina ed a Gerusalemme, invece, fino al V secolo era comunque l’Epifania ad essere festeggiata in memoria della nascita di Cristo. Storici famosi come Clemente Alessandrino propendevano per il 6 o il 10 gennaio, altri addirittura per il 25 marzo. Nell’antica Roma, dal 17 al 24 dicembre, si festeggiavano i Saturnali in onore di Saturno, dio dell’agricoltura, un periodo in cui si viveva in pace, si scambiavano doni, venivano abbandonate le divisioni sociali e si facevano sontuosi banchetti.
Nel 274 d.C. l’Imperatore Aureliano decise che il 25 dicembre si festeggiasse il Sole, da cui nasce la tradizione del ceppo natalizio, ceppo che nelle case doveva bruciare per 12 giorni consecutivi e doveva essere preferibilmente di quercia, un legno propiziatorio. Il ceppo natalizio nei nostri giorni si è trasformato nelle luci e nelle candele che oggi addobbano case, alberi, e strade. Ai giorni nostri il Natale deriva da tradizioni borghesi del secolo scorso, con simboli e usanze sia di origine pagana che cristiana. Negli anni recenti, il Natale, festa prettamente cristiana, è diventata occasione per una corsa al consumismo, un festeggiamento frenetico, sostituendosi da un clima di celebrazione e di riflessione, a una gara commerciale, facendo intervenire spesso la Chiesa a promuovere con incisione il significato religioso.
L’Epifania, una delle principali feste cristiane, la cui celebrazione ricorre il 6 gennaio, nata in oriente per commemorare il battesimo di Gesù, fu presto introdotta in occidente dove assunse contenuti religiosi diversi, come la celebrazione delle nozze di Cana e il ricordo dell’offerta dei doni dei Magi nella grotta di Betlemme. Quest’ultimo aspetto sovrapponendosi a precedenti tradizioni folcloriche, ha determinato la nascita della figura della Befana che distribuisce doni.
I Magi, che non erano maghi, ma astronomi e sacerdoti, guidati da una stella, arrivarono dall’Oriente per rendere omaggio a Gesù appena nato a Betlemme, donandogli oro, incenso e mirra. Successivamente vengono indicati come “re” e il loro numero viene fissato a tre, con i nomi di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. Questa festa, che dà un supplemento di regali ai bambini, pone termine al ciclo di festeggiamenti dedicato al Santo Natale.
Natale, notte d’amore e di speranza, una delle ricorrenze più importanti dell’anno, riporta alla nostra mente il gran numero di persone che vivono in povertà e solitudine. Per loro non esistono feste, tradizioni, scambio di doni, luci, ma solo miseria. Eppure c’è qualcuno che si accontenta del lumicino della candela per accendere tutte le luci del Natale.
Una decina di anni fa mi capitò di ascoltare, per la prima volta, durante la Santa Messa di Natale, la declamazione da parte del celebrante, di una poesia, non in italiano o latino, ma in dialetto barese. Una testimonianza che il dialetto, la lingua dei nostri padri, si rivela utile anche per trasmettere messaggi d’amore e di speranza. E, a proposito di dialetto, mi piace ricordare quanto scrive Anna Maria Tripputi, già docente di Storia delle Tradizioni popolari presso la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Bari, nella presentazione del libro “Natale a Bari”, di Celeste e Vito Maurogiovanni (Paolo Malagrinò Editore), citando Mario Sansone (1900-1966), docente di letteratura: “Il dialetto è la lingua che i Romani avrebbero parlato se fossero sopravvissuti fino ad oggi. E non è un caso che alcuni dialetti, come il sardo, siano annoverati tra le lingue nazionali. Come non è un caso che nei momenti cruciali della vita, nel dolore, nella rabbia o nella paura affiorino improvvisamente nell’ancestrale memoria le parole del dialetto lingua-madre”.
A seguire la poesia di autore sconosciuto, di cui sopra, che voleva essere un messaggio di augurio della Commissione Cultura e Comunicazione del Santuario di Sant’Antonio di Bari, per confermare che basta un po’ d’amore e il lume di una candela per accendere tutte le luci di Natale!
NATALE
Jind’a chessa vescigghie
chiène de lusce inudele, capetone
augurie e tanda iose
ji me ne sò sciute
jind’a na chièssie, sò state citte citte
sò acchiedute l’ecchie e sò sendute
la vosce du Natale:
«Uaggnune – me dèceve – addò sciate?
non avìte angore accapesciute c’avaste
nu picche d’amore, picche quand’a la lusce
de na cannèle, p’appeccià tutte le
lusce de stasère?»
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I versi sono stati rivisti dallo scrivente, per dare una forma più conveniente sotto il profilo della scrittura del dialetto. |
IL PRESEPE, UNA TRADIZIONE MILLENARIA
di VITTORIO POLITO – |
Secondo l’evangelista Luca, Gesù nacque in una stalla o in luogo di ricovero per animali e il termine “Presepio” deriva etimologicamente dal verbo latino “praesepire” (recingere con siepe), assumendo poi il significato odierno di mangiatoia o greppia.
Il Presepe, com’è noto, è apparso per la prima volta a Greccio nella notte del Natale 1223, ad opera di San Francesco d’Assisi, in uno scenario naturale e con personaggi reali, tutti coinvolti nella rievocazione del sacro evento.
Il 29 novembre di quell’anno, papa Onorio III, con la bolla “Solet annuere”, approvò definitivamente la Regola dei frati Minori. Nelle settimane successive Francesco d’Assisi si avviò verso l’eremo di Greccio dove espresse il suo desiderio di celebrare in quel luogo il Natale.
Nella notte di Natale a Greccio non c’erano né statue e neppure raffigurazioni, ma unicamente una celebrazione eucaristica sopra una mangiatoia, tra il bue e l’asinello. Solo più tardi tale avvenimento ispirò la rappresentazione della Natività mediante immagini, ossia il presepio in senso moderno.
A Bari, attraverso l’archivio della Basilica di San Nicola, che rappresenta una fonte inesauribile di informazioni e documentazioni relative a storia, tradizioni e folklore baresi, dal momento che da nove secoli registra ogni avvenimento cittadino e presso il quale vi sono informazioni di ogni tipo, sono presenti anche quelle sulla usanza del presepio. A sostenere quanto sopra è Vito Antonio Melchiorre (1922-2010) nel suo capitolo «Presepi e riti natalizi baresi nella Basilica di San Nicola» del volume “Antico Natale” (Edipuglia), che insieme a Giorgio Otranto, Nino Lavermicocca (1942-2014), Vito Maurogiovanni (1924-2009) e Anna Maria Tripputi dissertano sul fascino discreto del Presepe.
Melchiorre ricorda che fu Papa Liberio (352-366) a iniziare in Italia la consuetudine del presepio dedicando alla Natività l’attuale Basilica di Santa Maria Maggiore di Roma. La simpatica usanza incontrò largo consenso e si divulgò ovunque.
A Bari la più antica testimonianza di un presepio risale al 1487, ubicato nella Basilica di San Nicola e precisamente nella cripta ove è oggi l’altare dei Santi Cirillo e Metodio.
Lo stesso archivio nicolaiano, scrive Melchiorre, riporta anche i riti natalizi che si svolgevano in Basilica. Nella Notte Santa i canonici facevano riscaldare l’ambiente con grandi bracieri utilizzando grandi quantitativi di carbone. Altra tradizione era quella di far accompagnare le funzioni con fragorosi spari di mortaretti e di far eseguire particolari musiche da parte di rinomati professori d’orchestra e di cantanti famosi nelle varie ricorrenze (traslazione e morte di San Nicola, Settimana Santa, Corpus Domini, Sant’Antonio Abate, Natale, ecc.).
Nella ricorrenza del Natale, molti atti di solidarietà e di carità cristiana venivano compiuti dagli amministratori dell’Ospizio a favore del gran numero di pellegrini che affluivano a Bari da ogni parte d’Europa per venerare la tomba di San Nicola. I documenti dell’Ospizio dimostrano con dovizia di particolari quali vivande venivano servite ai poveri in occasione del pranzo di Natale. In quello del 1751 si legge che ai poveri furono dispensati: 14 caraffe di vino vecchio e sei di vino nuovo, pane di semola, salsiccia, fegato, carne di agnello per antipasto, minestra di verdura, bollito di carne, carne arrosto, maccheroni, uova (usate come ingredienti) e dolce. Agli stessi poveri furono donati anche dodici carlini d’argento.
Vent’anni dopo, i buoni canonici di San Nicola, forse a causa della diminuzione degli introiti, il pranzo per i poveri fu così composto: pane di semola, una quartara di vino, fegato di maiale, cervellata, trippa, minestra verde, carne di vitello bollita, filetto di maiale arrosto, maccheroni, carne di vitello a ragù, finocchi e cardoni, uova per accompagnare la trippa.
L’usanza del pranzo natalizio fu mantenuta per tutta la durata del Settecento e per diversi decenni dell’Ottocento, ma il pasto col passare degli anni diventò sempre più magro, così come dimostrano le scritture contabili del tempo.
Nel volume citato, Rosa Maria Manzionna nel suo capitolo “Leggere il presepio” ci dà una mano a capire il presepio. Il tema stesso è in rapporto di connessione con la rappresentazione dei Misteri medievali, mentre il paesaggio rinvia alla tradizione dell’opera lirica tra fine Ottocento e primo Novecento con i suoi anfratti, dirupi, greggi e pastori che fanno da sfondo alle scene della Natività, dell’Annuncio, della Taverna con intorno una serie di figure come l’acquaiolo, l’arrotino, il fabbro, lo scrivano e tutti quei personaggi che si collegano all’iconografia secentesca che trovano riscontri nella drammatica “popolare” e popolareggiante fino a risalire al teatro delle maschere, alla commedia dell’arte. Vi sono infatti presepi da chiesa, da museo, delle nostre nonne, conservati in polverose campane di
vetro o in riposti locali contadini. I più belli sono forse quelli settecenteschi con le figure policrome, vivaci e gesticolanti.
Insomma, non c’è Natale senza presepio piccolo o grande che sia con poche o numerose figure. «Un Natale per ogni uomo – scriveva il giornalista Michele Campione (1928-2003) - ognuno con il suo Natale a tessere la trama dei giorni, degli anni, lieti, tristi, drammatici, felici come l’estatico incantamento dei pastori nella Notte Santa di Betlemme sotto la gran luce della cometa».
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Natale, festa prettamente cristiana, è diventata negli ultimi anni, occasione per una corsa al consumismo, un festeggiamento frenetico, sostituendosi da un clima di celebrazione e di riflessione a una gara commerciale, facendo intervenire spesso la Chiesa a promuovere con incisione il significato religioso.
I simboli di Natale sono numerosi ma il più importante e significativo è rappresentato dal Presepe. Nel medioevo prese il nome latino di ‘praesepium’ che significa recinto chiuso o mangiatoia, quella mangiatoia che vide nascere Gesù.
Il simbolismo biblico del bue e dell’asino, sul piano umano rimanda a virtù come umiltà, pazienza, capacità di portare pesi, non di servire in guerra, per quanto riguarda l’asino, mentre il bue esprime fecondità, forza, lavoro costruttivo, fedeltà al padrone. Sul piano teologico i due animali mostrano la continuità tra Antico e Nuovo Testamento, tra figura e realtà, tra profezia e compimento. Mentre i re Magi, il cui numero di tre è fissato da San Leone Magno (gli Evangelisti, quando li citano, non dicono quanti sono), rappresentano le tre età dell’uomo (gioventù, maturità e vecchiaia) e le tre razze in cui si divide l’umanità: semitica (dal nome Sem, figlio di Noè, che secondo la tradizione biblica, sarebbe stato il progenitore dei popoli orientali), camitica (da Cam, figlio di Noè che ha generato i popoli africani nord-orientali), e giapetica (da Giapeto uno dei titani della mitologia greca che ha generato i popoli occidentali). I loro nomi - Gaspare, Melchiorre e Baldassarre - sono mutuati dal vangelo apocrifo armeno e ormai sono accettati anche dalla tradizione occidentale. I doni dei Magi, invece, sono interpretati in riferimento alla duplice natura di Gesù: l’incenso per la sua Divinità, la mirra per la sua umanità, l’oro perché era un dono riservato ai re.
Gli angeli rappresentano gli esempi di creature superiori, i pastori l’umanità da redimere e infine Maria e Giuseppe, in atteggiamento di adorazione, sottolineano la regalità dell’infante.
Il Presepe, ideato da San Francesco nel 1223 a Greccio, e che Giotto ha dipinto nell’affresco della Basilica Superiore di Assisi, è essenzialmente la rievocazione del Mistero dell’Incarnazione del Verbo. Nell’attesa del Natale in famiglia, si può puntare lo sguardo interiore a Betlemme per vivere con gioia l’attesa di Gesù.
Il vischio, pianta natalizia per eccellenza, ne parlava anche Virgilio nell’Eneide, era considerata pianta divina e miracolosa, tanto che la potevano raccogliere, utilizzando un falcetto d’oro solo i sacerdoti.
L’agrifoglio e il pungitopo, considerati portatrici di fortuna, sono piante caratterizzate dalla presenza di foglie dure e spine, simbolo di forza e prevenzione contro i mali, ma secondo la leggenda le foglie spinose ricordano le spine della corona di Gesù. Le bacche rosse simboleggiano il Natale, ma ricordano anche il rosso del sangue.
Il cero natalizio rappresenta la luce, infatti nella notte di Natale arriva la luce tra gli uomini, l’avvento del Bambino Gesù.
La stella di Natale, secondo la tradizione, è stato il regalo di un bimbo a Gesù. In un lontano 25 dicembre un bambino povero entrò in Chiesa per offrire un dono al Signore, ma era talmente povero che offrì solo un mazzo di erbacce, ma su quei rametti cadde una lacrima del Bimbo che, per miracolo, si trasformò in uno splendido fiore rosso: la stella di Natale.
Anche il gioco della Tombola pare avesse origini antiche. Durante i Saturnali che precedevano il solstizio d’inverno, nell’antica Roma, si concedeva il gioco d’azzardo, proibito nel resto dell’anno. Il gioco era quindi strettamente connesso con la funzione rinnovatrice di Saturno, quindi la buona sorte del giocatore non era dovuta al caso, ma al volere della divinità.
Le sfere colorate che appendiamo all’albero pare rappresentino le risate di Gesù bambino. Infatti, un giocoliere che non aveva nulla da portare a Gesù si presentò ugualmente a mani vuote, ma volle offrire quello che meglio sapeva fare, facendo ridere Gesù Bambino, e da quel giorno si dice che le palline colorate da noi utilizzate rappresentano le risate del piccolo Gesù.
Le campane di Natale ricordano la leggenda di un bambino cieco desideroso di andare a far visita a Gesù e non avendo alcun riferimento visivo sentì da lontano il suono di una campana. Pensò si trattasse di una mucca che si trovava nella stalle del sacro neonato e seguendo quel suono, arrivò fino alla mangiatoia dove si trovava il piccolo Re.
L’Albero di Natale, inserito nel contesto religioso delle festività, è segno di pace e speranza. Si diffuse nell’Europa del Nord verso il secolo XI, ma una documentazione certa ne dà la nascita in Alsazia nel 1512. L’abete simboleggia la figura di Gesù, che rinforza e rinsalda la comunione tra Dio e l’uomo.
Buon Natale!
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L’Epifania, com’è noto, è una delle principali feste cristiane la cui celebrazione cade il 6 gennaio per commemorare il battesimo di Gesù. L’evento, introdotto in occidente dove assunse contenuti religiosi diversi, come la celebrazione delle nozze di Cana e il ricordo dell’offerta dei doni dei Magi nella grotta di Betlemme, ha sostituito precedenti tradizioni folcloriche, introducendo la figura della Befana che distribuisce doni.
I Magi, che contraddistinguono l’evento, erano personaggi che guidati da una stella, arrivavano dall’Oriente per rendere omaggio a Gesù, appena nato, per donargli oro, incenso e mirra. Successivamente verranno indicati come “re” e il loro numero venne fissato a tre, con i nomi di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. Questa festa, che dà un supplemento di regali ai bambini, pone termine al ciclo di festeggiamenti dedicato al Santo Natale.
Non si sa come mai la celebrazione dei tre avvenimenti accadesse lo stesso giorno. In maniera del tutto arbitraria fu stabilito che essi fossero accaduti in uno stesso giorno in differenti epoche. I Greci chiamano l’Epifania, Teofania, cioè apparizione di Dio, e la celebrarono insieme a quella del Natale, almeno per i primi tre secoli. Nel IV secolo, invece, sotto Giulio I, queste due feste furono separate nella Chiesa Latina e tale separazione fu adottata al principio del V secolo nelle Chiese di Siria e di Alessandria.
La sua origine si perde nella notte dei tempi, discende da tradizioni magiche precristiane e, nella cultura popolare, si fonde con elementi folcloristici e cristiani: la Befana porta i doni in ricordo di quelli offerti a Gesù Bambino dai Magi.
L’iconografia della Befana è più o meno fissa: un gonnellone scuro ed ampio, un grembiule con le tasche, uno scialle, un fazzoletto o un cappellaccio in testa, un paio di ciabatte consunte, il tutto vivacizzato da numerose toppe colorate a cavallo della classica scopa.
Una leggenda narra che un giorno i Re Magi partirono carichi di doni (oro, incenso e mirra) per Gesù Bambino. Attraversarono molti paesi guidati da una stella, e in ogni luogo in cui passavano, gli abitanti accorrevano per conoscerli e unirsi a loro. Ci fu solamente una vecchietta che in un primo tempo voleva andare, ma all’ultimo minuto cambiò idea, rinunciando a seguirli. Il giorno dopo, pentita, cercò di raggiungere i Re Magi, che, però erano già lontani. Per questo la vecchina non vide Gesù Bambino, né quella volta, né mai. Da allora, nella notte fra il 5 e il 6 Gennaio, volando su una scopa con un sacco sulle spalle, passa per le case a portare, ai bambini buoni, i doni che non dette a Gesù.
Alcuni studiosi delle tradizioni etnico-popolari, fanno notare come la Befana, al contrario di Gesù Bambino e Santa Lucia, conservi anche un tratto ambiguo, quasi da strega. Come tutte le tradizioni, anche la Befana si può analizzare con le tecniche storico-archeologiche, cercando di scavare gli strati delle varie epoche per arrivare alle tracce di quelle più antiche. La curiosa portatrice di doni, potrebbe avere una qualche parentela con la “vecchia” che si brucia in piazza per festeggiare la fine dell’anno: un simbolo della ciclicità del tempo che continuamente finisce e ricomincia.
La tradizione della “vecchia” non è diffusa solo nelle zone in cui la Befana distribuisce i suoi doni, ma è presente nel nord Italia. È infatti una tradizione dei popoli celtici che erano insediati in tutta la pianura padana e in parte sulle Alpi. I Celti celebravano strani riti (officiati da maghi-sacerdoti chiamati druidi), durante i quali grandi fantocci di vimini venivano dati alle fiamme per onorare divinità misteriose. Divinità che non dovevano essere molto benigne, se è vero quanto riportano alcune fonti: in epoche antiche, all’interno dei fantocci si legavano vittime sacrificali, animali e, talvolta, prigionieri di guerra.
Dalle nostre parti la tradizione vuole che nella notte tra il 5 e il 6 gennaio, i ragazzi lasciavano in cucina o sull’uscio di casa una parte del loro pasto serale o altre cose insieme alla classica calza, che allora era un normale calzino, che non ha nulla a che vedere con quella odierna. Quella della Befana era una notte di paura e di raccoglimento e tutti i bambini andavano (e vanno) a letto presto per consentire alla Befana di non trovare ostacoli durante il suo passaggio.
Man mano che gli anni passano ed i piccoli diventano adulti, si dimenticano della simpatica vecchina e dei suoi doni, e così i sogni della Befana svaniscono rimanendo solo un piacevole ricordo.
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In ogni presepio del mondo, sopra la grotta che ospita la Sacra Famiglia, o sulla punta dell’albero addobbato per la festa, trova posto da tempo immemorabile una splendente “stella cometa”. Si tratta di una locuzione popolare impropria che gli astronomi chiamano semplicemente “cometa”, ossia astro chiomato. Infatti il vocabolario Treccani così la definisce: «Corpo celeste gravitante intorno al Sole, per lo più su orbite molto eccentriche, composto, tipicamente, di un nucleo circondato da un alone (chioma) e da una coda allungata».
La tradizione vuole che i Re Magi fossero stati guidati nel luogo dove nacque Gesù proprio da una luminosa cometa, divino messaggero del glorioso evento. Ma quanto c’è di verificabile, dal punto di vista astronomico, in questa affascinante rappresentazione? La stella dei Magi è esistita davvero? Da oltre un secolo si sa che si tratta di un corpo del sistema solare fatto in gran parte di ghiaccio, quindi proprio il contrario di una stella. La trasformazione di questa stella in cometa risale addirittura al 1301 e il merito va a Giotto. Egli infatti osservò personalmente in quel periodo una fantastica apparizione della cometa di Halley e, comprensibilmente, non resistette all’idea di disegnare la grande cometa sulla scena della natività nella Cappella degli Scrovegni a Padova.
I progressi odierni della scienza permettono, grazie a computer con programmi di calcolo sempre più potenti ed all’affinamento dell’indagine storiografica ed archeologica, di ricostruire con grande precisione il cielo notturno osservato dai nostri progenitori e di dare un contributo decisivo alla risoluzione di un “caso” affascinante ed assai complicato.
L’interesse degli astronomi per la stella di Betlemme è sempre stato vivo e non accenna a diminuire: dopo duemila anni si susseguono ancora interpretazioni e studi al riguardo. Superata, come è giusto che sia, la volontà di far corrispondere fatti ed eventi scientificamente provati ai riferimenti degli Evangelisti.
I Magi, che secondo il Vangelo armeno erano tre fratelli: Melkon, che regnava sui Persiani, Balthasar, che regnava sugli Indiani e il terzo, Gaspar, che possedeva il paese degli Arabi, appartenevano originariamente ad una delle tribù in cui era diviso il popolo dei Medi. Essi costituivano la classe sacerdotale. Infatti, in Persia (oggi Iran), dove vivevano, il loro nome assunse il significato generico di sacerdoti.
I Magi esercitavano una professione che oggi definiremmo astrologia. Alla corte di Babilonia essi interpretavano i segni celesti, osservando i moti delle stelle e dei pianeti, traendone auspici sia favorevoli che negativi. La “stella” che essi videro era uno di quei segnali con i quali presso i pagani la divinità rendeva noti i propri disegni. Alcuni testi arabi collegano i Magi alla religione iranica e a Zoroastro (o Zarathustra), “fondatore della dottrina del magismo”, al quale veniva attribuita tra le altre cose anche la profezia della nascita di Cristo.
Oggi sorridiamo del fatto che gli astri possono avere un’influenza prevedibile sul nostro agire quotidiano, o che tanto meno, permettano di predire eventi futuri. L’astrologia ha perso ogni fondamento e scientificità, anche presunta, con l’avvento del metodo scientifico del 16° secolo. Non dobbiamo dimenticare, tuttavia, che astronomia e astrologia hanno proceduto di pari passo per secoli, la prima al servizio della seconda. Fu a causa della creduta influenza dei corpi celesti sul destino dell’uomo che i sapienti dell’epoca affinarono la propria conoscenza sull’astronomia posizionale.
I Vangeli sono una fonte privilegiata per inquadrare con una certa precisione la “stella” che videro i Magi. Dal Vangelo di Matteo proviene un’utile informazione: il fenomeno astronomico osservato dai Magi fu si importante ma non certo eclatante, ossia perfettamente evidente a chiunque. In caso contrario anche Erode ne sarebbe stato a conoscenza e non avrebbe dovuto chiedere informazioni dettagliate. Da perfetti conoscitori della volta celeste, quali erano i Magi, sicuramente si resero conto che ciò che videro, nel loro lungo viaggio da Babilonia a Betlemme, era qualcosa di importante per la propria esperienza di studiosi del cielo, anche se poi, a livello popolare, poteva passare del tutto inosservato. Ecco dunque perché furono i Magi a notare “la stella” e non altri: solo loro erano in grado, come esperti osservatori delle stelle, di apprezzarne la particolarità.
È possibile che in futuro emergano nuovi elementi archeologici o storiografici risalenti ai primi anni della cristianità: essi potranno così dar peso ad un’interpretazione piuttosto che ad un’altra.
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IL PRESEPE E LA NATIVITA' TRA ORIENTE, OCCIDENTE E PUGLIA
Pubblicato il dicembre 22, 2017
Il presepe (o presepio) è quella rappresentazione della nascita di Gesù che si fa nelle chiese, nelle case o sui sagrati durante le feste natalizie e che riproduce scenicamente la Natività e l’Adorazione dei Magi.
Il termine, dalla voce del basso latino “cripia”, è traducibile egualmente come mangiatoia, da cui derivano i termini “crechè”, “crib”, “krippe”, “krubba”, “pesebre”, “kerststal” “presépio”, che indicano il Presepio rispettivamente nelle lingue francese, inglese, tedesco, svedese, spagnolo, olandese e portoghese. Allo stesso modo, in Polonia si parla di “szopka” e in Russia di “wertep”, termini aventi sempre il significato di greppia.
L’Enciclopedia dello Spettacolo definisce il Presepio come la rappresentazione plastica, tridimensionale della nascita di Gesù, realizzata con figure mobili spostabili secondo il senso artistico del costruttore. Insomma il presepio è come un teatro in quanto, analogamente a quest’ultimo, è teso a rendere attuale e reale un avvenimento remoto nel tempo e nello spazio.
Non si può parlare di presepi senza fare riferimento ad una data, il Natale del 1223, quando San Francesco d’Assisi ebbe per primo l’idea di realizzarlo a Greccio (Rieti). San Francesco con l’intento di ricreare la mistica atmosfera del Natale di Betlemme e per vedere con i propri occhi dove nacque Gesù, con l’aiuto della popolazione del luogo, approntò, con l’autorizzazione di Papa Onorio III, il primo presepe vivente del mondo. Se il miracolo francescano può essere considerato un passaggio rinforzante nella tradizione giunta fino a noi, di fatto il presepio non ha una precisa “data di nascita”, in quanto si è formato nei secoli attraverso usi e forme diverse, nella pittura e nella scultura delle chiese, nelle sacre raffigurazioni.
Per aver notizie certe, fondate su documenti probanti circa l’esistenza di Presepi a Roma, bisognerà attendere quasi tre secoli e precisamente il 1581, quando il francescano spagnolo Juan Francisco Nuno, che aveva avuto l’incarico di condurre una ricerca sui conventi romani, riferisce come il Presepio venisse regolarmente allestito nei monasteri e nelle chiese e, come soprattutto quello dell’Aracœli, richiamasse una gran folla di fedeli, con la statua del Santo Bambino intagliata, secondo la tradizione, da un anonimo frate francescano, in un tronco di ulivo del Getsemani.
La prima aria di Natale si avverte il giorno di San Nicola quando la mattina, molto presto, i fedeli si recano ad ascoltare la Santa Messa in Basilica, ed in chiesa si suonava la “ninna nanna”. Gli zampognari, provenienti dall’Abruzzo e dal Molise, eseguivano per le strade note nenie natalizie creando un clima di tenerezza che esaltava i valori autentici della famiglia, oltre che per strappare qualche spicciolo ai passanti.
Sono gli evangelisti Luca e Matteo per primi a descrivere la Natività. Nei loro brani c’è già tutta la sacra rappresentazione che a partire dal medioevo prenderà il nome latino di ‘praesepium’, ovvero recinto chiuso, greppia, mangiatoia. Luca nel suo vangelo riporta che Gesù è nato «in una mangiatoia perché non c’era per essi posto nell’albergo».
Sono gli evangelisti Luca e Matteo per primi a descrivere la Natività. Nei loro brani c’è già tutta la sacra rappresentazione che a partire dal medioevo prenderà il nome latino di ‘praesepium’, ovvero recinto chiuso, greppia, mangiatoia. Luca nel suo vangelo riporta che Gesù è nato «in una mangiatoia perché non c’era per essi posto nell’albergo».
E in Puglia quando è nato il Presepe? Le più antiche testimonianze risalgono alla seconda metà del Quattrocento, come ricorda Clara Gelao nel volume “Il Presepe Pugliese - Arte e Folklore” (Adda Editore), mentre un notevole sviluppo si ebbe nel Cinquecento. Ma quello che è rimasto è solo una parte di quello che testimonianze storiche, orali e documentarie dimostrano. Si sa che nella Cattedrale di Cerignola esisteva un presepe che servì da modello per quello di Matera, distrutto poi nel Settecento, e così pure nella chiesa di Sant’Andrea a Barletta e in quella di Santa Maria dei Martiri a Molfetta.
Nel secolo XVI pare che la scultura presepiale in pietra raggiunge la massima affermazione a cui segue un lento declino per riprendersi in seguito, con forme differenti e con l’influenza dei presepi napoletani in cartapesta o terracotta. Grottaglie, Polignano a Mare e Martina Franca conservano importanti presepi realizzati da Stefano Putignano, lo scultore più fortemente plastico.
Un raffinato presepe può considerarsi quello esistente nella Cattedrale di Lecce, mentre il più antico presepe presente nel territorio regionale è quello conservato nella Chiesa di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina in provincia di Lecce.
Esclusivamente leccese è anche l’arte autenticamente popolare della cartapesta. La cartapesta è composta da carta ricavata da stracci senza cellulosa, ridotta in poltiglia e mescolata con colla di farina e quindi bollita in acqua con aggiunta di sostanze insetticide per impedirne la tarlatura. La sostanza così ottenuta viene disposta a strati, quindi modellata unicamente a mano e perfezionata con ferri roventi, una fase chiamata ‘fuocheggiatura’. La statua realizzata viene fatta essiccare e quindi dipinta.
Alla fine del secolo XVI erano i barbieri che, per incrementare i loro scarsi guadagni, lavoravano la cartapesta, così ogni bottega di barbiere diventava laboratorio di statuine che venivano poi vendute alla Fiera dei Pupi e dei Pastori, fiera che si svolge a Lecce ancora oggi nel giorno di Santa Lucia.
Bianca Tragni, coautrice del volume sopra citato, scrive che la tradizione presepiale pugliese impallidisce di fronte alla grande tradizione folklorica del Salento e di Lecce. «Il presepe - scrive sempre Bianca Tragni - è più che un rito o un abitudine: è una passione inestinguibile, un amore sconfinato, un tarlo roditore, un virus contagioso, un gene in più di questa razza speciale di meridionali di razza che sono i leccesi».
Mariagraziella Belloli, nel simpatico tascabile della Stilo Editrice “Il Presepe tra Oriente e Occidente”, scrive che il Presepe fra Oriente e Occidente, è una tradizione che con quella di San Nicola è certamente la più emozionante e commovente. È il caso di ricordare che Gesù è nato al centro del Vicino Oriente sotto la dominazione dell’Impero romano d’Occidente e si ipotizza che la visita dei Magi, provenienti dal lontano Oriente, abbiano contribuito a legare in maniera indissolubile i due mondi.
In sostanza il Presepe e la Natività inducono stupore e meraviglia e inducono ad un antico atto di fede che giunge al cuore con un messaggio di pace e amore.
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Natale, notte d’amore e di speranza, una delle ricorrenze più importanti dell’anno, riporta alla nostra mente il gran numero di persone che vivono in povertà e solitudine. Per loro non esistono feste, tradizioni, scambio di doni, luci, ma solo miseria. Eppure c’è qualcuno che si accontenta del lumicino della candela per accendere tutte le luci del Natale.
Una decina di anni fa, per la prima volta mi capitò di ascoltare, durante la Santa Messa di Natale, la declamazione del celebrante, di una poesia, non in italiano o latino, ma in dialetto barese. Ulteriore testimonianza che il dialetto, la lingua dei nostri padri, si rivela utile anche per trasmettere messaggi d’amore e di speranza.
Anna Maria Tripputi, nella presentazione del libro “Natale a Bari”, di Celeste e Vito Maurogiovanni (Paolo Malagrinò Editore), scriveva che, secondo Mario Sansone (1900-1966), docente di letteratura, “Il dialetto è la lingua che i Romani avrebbero parlato se fossero sopravvissuti fino ad oggi. E non è un caso che alcuni dialetti, come il sardo, siano annoverati tra le lingue nazionali. Come non è un caso che nei momenti cruciali della vita, nel dolore, nella rabbia o nella paura affiorino improvvisamente nell’ancestrale memoria le parole del dialetto lingua-madre”.
È appunto il caso della poesia di autore sconosciuto, recitata dal celebrante nella Santa Messa di Natale, che voleva essere un messaggio di augurio della Commissione Cultura e Comunicazione del Santuario di Sant’Antonio di Bari, per confermare che basta un po’ d’amore e il lume di una candela per accendere tutte le luci di Natale!
NATALE
Jind’a chessa vescigghie
chiène de lusce inudele, capetone
augurie e tanda iose
ji me ne sò sciute
jind’a na chièssie, sò state citte citte
sò acchiedute l’ecchie e sò sendute
la vosce du Natale:
«Uaggnune – me dèceve – addò sciate?
non avìte angore accapesciute c’avaste
nu picche d’amore, picche quand’a la lusce
de na cannèle, p’appeccià tutte le
lusce de stasère?»
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I versi sono stati rivisti dallo scrivente, per dare una forma più conveniente sotto il profilo della scrittura del dialetto..
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Il Natale non è solo una grande festa religiosa, ma è anche una festa assai popolare che richiama e perpetua tradizioni e credenze diverse da paese a paese, sentita da tutti, cristiani e non cristiani, e sottolinea soprattutto la sacralità della famiglia.
Il periodo natalizio rappresenta la principale festività dell’anno e parte dal solstizio d’inverno (il giorno più corto dell’anno), per terminare con l’Epifania. Il solstizio d’inverno ha anche un forte significato simbolico, infatti nell’antichità, durante questo giorno, le forze oscure (notte) e quelle della luce (giorno) si eguagliavano. Dopo tale giorno, con il progressivo allungarsi delle giornate, la luce inizia a prevalere sull’oscurità.
L’evento, che appartiene all’anno liturgico cristiano in cui si ricorda la nascita di Gesù, viene ricordato nella cristianità occidentale, il 25 dicembre, mentre in quella orientale il 6 gennaio. Ma, quale l’origine della natività? Pare derivasse da altra importante festa pagana, la celebrazione del ‘Sol invictus’, dio del Sole e signore dei pianeti. Il Messia veniva spesso descritto come “Sole di giustizia” e lo stesso vangelo ne parla, a volte, paragonandolo al Sole. Ecco la preferenza per il 25 dicembre, data che, anche se probabilmente non esatta, è stata scelta per la necessità di contrapporre una festa cristiana ad una pagana nel momento in cui si diffondeva una nuova religione, il Cristianesimo.
In Palestina ed a Gerusalemme, invece, fino al V secolo, era comunque l’Epifania ad essere festeggiata in memoria della nascita di Cristo. Storici famosi come Clemente Alessandrino propendevano per il 6 o il 10 gennaio, altri addirittura per il 25 marzo. Nell’antica Roma, dal 17 al 24 dicembre, si festeggiavano i Saturnali in onore di Saturno, dio dell’agricoltura, un periodo in cui si viveva in pace, si scambiavano doni, venivano abbandonate le divisioni sociali e si facevano sontuosi banchetti.
Nel 274 d.C. l’Imperatore Aureliano decise che il 25 dicembre si festeggiasse il Sole. Da qui l’origine della tradizione del ceppo natalizio, ceppo che nelle case doveva bruciare per 12 giorni consecutivi e doveva essere preferibilmente di quercia, un legno propiziatorio. Oggi il ceppo natalizio si è trasformato nel cosiddetto “Albero di Natale”.
Il Natale di oggi deriva da tradizioni borghesi del secolo scorso, con simboli e usanze sia di origine pagana che cristiana. Negli anni recenti, il Natale, festa prettamente cristiana, è diventata occasione per una corsa al consumismo, un festeggiamento frenetico, sostituendosi da un clima di celebrazione e di riflessione a una gara commerciale, facendo intervenire spesso la Chiesa a ribadire con incisione il significato religioso.
Il pranzo di Natale, per tradizione, viene consumato in casa e varia a seconda dei paesi. Abbiamo anche una ricchezza di dolci deliziosi e prelibati, che ricordano spesso simboli solari o tradizioni rurali; i dolci spesso richiedono lunghi preparativi e la lavorazione viene fatta diversi giorni prima. La serie di festeggiamenti continua con il cenone di fine anno e, dopo la breve euforia di pranzi, brindisi, auguri e abbracci, si fa una pausa di riflessione nella giornata di Capodanno. Il primo giorno dell’anno, festa di rinnovamento, viene celebrata in tutte le civiltà ed è caratterizzata da rituali che simbolicamente chiudono un ciclo annuale e inaugurano quello successivo.
Infine arriva l’Epifania, una delle principali feste cristiane la cui celebrazione cade il 6 gennaio. Nata nella regione orientale per commemorare il battesimo di Gesù, fu presto introdotta in occidente dove assunse contenuti religiosi diversi, come la celebrazione delle nozze di Cana e il ricordo dell’offerta dei doni dei Magi nella grotta di Betlemme. Quest’ultimo aspetto ha finito per prevalere e sovrapponendosi a precedenti tradizioni folcloriche, ha determinato la nascita della figura della Befana che distribuisce doni.
Epifania, dal greco apparizione, è la triplice solennità istituita dagli Apostoli in cui la Chiesa ricorda tre grandi miracolosi avvenimenti: l’apparizione dell’astro che dall’oriente fino alla stalla di Betlemme guidò i Re Magi all’adorazione del neonato, Salvatore del mondo; la conversione dell’acqua in vino alle nozze di Cana in Galilea; il battesimo di Gesù Cristo nel Giordano somministrato da San Giovanni Battista, assistito dallo Spirito Santo in forma di colomba e dall’eterno Padre, che dichiarò Gesù essere figlio suo diletto.
I Magi erano personaggi che, guidati da una stella, arrivavano dall’Oriente per rendere omaggio a Gesù, appena nato a Betlemme, per donargli oro, incenso e mirra. Successivamente verranno indicati come “re” e il loro numero venne fissato a tre, con i nomi di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. Questa festa, che dà un supplemento di regali ai bambini, pone termine al ciclo di festeggiamenti dedicato al Santo Natale.
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Nella magica notte di Natale può accadere di tutto: fioriscono gli alberi, parlano gli animali, nascono tante leggende, frutto delle credenze popolari che attraverso millenni sono giunte a noi. Oltre ad essere la ricorrenza più importante del calendario liturgico cristiano Natale è legato anche a varie manifestazioni agrarie che si svolgevano all’inizio dell’anno e che col passare del tempo hanno acquisito valenze simboliche diverse, legate soprattutto al mistero della nascita divina.
Tra gli elementi da considerare c’è il fuoco, che assume un ruolo di primo piano nella ritualità delle feste agrarie ma è anche elemento essenziale nella tradizione natalizia, dal momento che il ceppo ha una funzione purificatrice. Infatti, le ceneri purificano dal peccato e dalla malattia, considerate conseguenza del peccato.
Anna Maria Tripputi ricorda che il digiuno della vigilia ha antiche radici agrarie, dal momento che i contadini lo praticavano in coincidenza con le pratiche agricole più importanti che cadevano all’inizio dell’anno. Un proverbio popolare recita “Ci non fasce u desciune de Natale o è turche, o è cane” (Chi non fa il digiuno di Natale o è turco - nel senso che non ha sensibilità - o è cane), (da Placida notte, Malagrinò Editore).
Vito Maurogiovanni, invece, racconta che la notte del 24 dicembre un bambino fu rapito da briganti e non avendo ottenuto il riscatto dalla famiglia lo dovevano uccidere. Mentre stavano per compiere l’orrendo misfatto, una luce vivissima apparve nel cielo ed accecò gli assassini. Il bambino si salvò e vide un altro bel Bambino che teneva la corona in capo, la croce in mano ed il mondo nell’altra. Era Gesù. Un’altra leggenda di Maurogiovanni “Gesù e l’usignolo” (Antico Natale, Edipuglia), ricorda la Madonna che tentava di addormentare il dolce Figliuolo che invece continuava a frignare come tutti i bambini del mondo. Quasi disperata pregò il Signore di consolare il divino Infante che non aveva pace e che la metteva al limite della cosiddetta santa pazienza. Fu in quel momento che entrò nella grotta un usignolo il quale si mise a cantare con tanta soavità e con tale trasporto che il Messia se ne andò in estasi e cadde in un sonno profondo e per non disturbarlo l’usignolo non trillò più e uscì dalla capanna per annunciare a tutti gli animali del mondo di tacere a lungo per non interrompere il sonno del santo Fanciullo sceso sulla terra.
Negli anni recenti, il Natale, festa prettamente cristiana, è diventata occasione per una corsa al consumismo, un festeggiamento frenetico, sostituendosi da un clima di celebrazione e di riflessione a una gara commerciale, facendo intervenire spesso la Chiesa a promuovere con incisione il significato religioso. I simboli di Natale sono numerosi ma il più importante e significativo è rappresentato dal Presepe che nel medioevo prese il nome latino di ‘praesepium’ che significa recinto chiuso o mangiatoia, quella mangiatoia che vide nascere Gesù.
Il bue e l’asino divengono simboli del popolo ebreo e pagano, mentre i re Magi, il cui numero tre è fissato da S. Leone Magno (gli Evangelisti, quando li citano, non dicono quanti sono). Essi rappresentano le tre età dell’uomo (gioventù, maturità e vecchiaia) e le tre razze in cui si divide l’umanità: semitica (dal nome Sem, figlio di Noè, che secondo la tradizione biblica, sarebbe stato il progenitore dei popoli orientali), camitica (da Cam, figlio di Noè che ha generato i popoli africani nord-orientali), e giapetica (da Giapeto uno dei titani della mitologia greca che ha generato i popoli occidentali). I loro nomi - Gaspare, Melchiorre e Baldassarre - sono mutuati dal vangelo apocrifo armeno e ormai sono accettati anche dalla tradizione occidentale. I doni dei Magi, invece, sono interpretati in riferimento alla duplice natura di Gesù: l’incenso per la sua Divinità, la mirra per la sua umanità, l’oro perché era un dono riservato ai re.
Gli angeli rappresentano gli esempi di creature superiori, i pastori l’umanità da redimere e infine Maria e Giuseppe, in atteggiamento di adorazione, sottolineano la regalità dell’infante. Oltre al Presepe ideato da San Francesco nel 1223 a Greccio, e che Giotto ha dipinto nell’affresco della Basilica Superiore di Assisi, i simboli del Natale sono numerosi e vari.,
Il vischio, pianta natalizia per eccellenza, ne parlava anche Virgilio nell’Eneide, era considerata pianta divina e miracolosa, tanto che la potevano raccogliere, utilizzando un falcetto d’oro solo i sacerdoti. L’agrifoglio e il pungitopo, considerati portatrici di fortuna, sono piante caratterizzate dalla presenza di foglie dure e spine, simbolo di forza e prevenzione contro i mali, ma secondo la leggenda le foglie spinose ricordano le spine della corona di Gesù. Le bacche rosse simboleggiano il Natale, ma ricordano anche il rosso del sangue. La melagrana, simbolo della terra, rappresenta la rigenerazione della natura, quindi il significato simbolico di rinascita e resurrezione.
Il cero natalizio rappresenta la luce, infatti nella notte di Natale arriva la luce tra gli uomini, l’avvento del bambino Gesù. La stella di Natale, secondo la tradizione, è stato il regalo di un bimbo a Gesù. In un lontano 25 dicembre un bambino povero entrò in Chiesa per offrire un dono al Signore, ma era talmente povero che offrì solo un mazzo di erbacce, ma su quei rametti cadde una lacrima del bimbo che per miracolo si trasformò in uno splendido fiore rosso: la stella di Natale. Pare che anche il gioco della Tombola avesse origini antiche. Durante i Saturnali che precedevano il solstizio d’inverno, nell’antica Roma, si concedeva il gioco d’azzardo, proibito nel resto dell’anno. Il gioco era quindi strettamente connesso con la funzione rinnovatrice di Saturno, quindi la buona sorte del giocatore non era dovuta al caso, ma al volere della divinità! Le palline colorate che appendiamo all’albero, pare rappresentino le risate di Gesù bambino. Infatti, un giocoliere che non aveva nulla da portare a Gesù si presentò ugualmente a mani vuote, ma volle offrire quello che meglio sapeva fare, il giocoliere, facendo ridere Gesù Bambino, e da quel giorno si dice che le palline colorate da noi utilizzate rappresentano le risate del piccolo Gesù.
Le campane di Natale ricordano la leggenda di un bambino cieco desideroso di andare a far visita a Gesù e non avendo alcun riferimento visivo sentì da lontano il suono di una campana. Pensò si trattasse di una mucca che si trovava nella stalle del sacro neonato e seguendo quel suono, arrivò fino alla mangiatoia dove si trovava il piccolo Re.
L’Albero di Natale, infine, si diffuse nell’Europa del Nord verso il secolo XI, ma una documentazione certa ne dà la nascita in Alsazia nel 1512. L’abete di Natale simboleggia la figura di Gesù, Colui che ha sconfitto le tenebre del peccato e per questo motivo si è cominciato ad adornarlo di luci. |
L'ASINO E IL BUE NELLA TRADIZIONE CRISTIANA
Solitamente consideriamo il bue e l’asinello solo due graziosi accessori dei nostri presepi per riscaldare il Bambino e la grotta, ma proprio così non è, secondo Salvatore Schirone e Rosario Scognamiglio che hanno pubblicato il tascabile “Ti rivelerai tra due animali” con il sottotitolo “L’asino e il bue nella Tradizione cristiana” (Levante Editori, pagine 124 € 6).
Salvatore Schirone, docente di religione, e Rosario Scognamiglio, domenicano e docente di esegesi patristica presso l’Istituto di Teologia Ecumenica “San Nicola” di Bari, con questa pubblicazione chiariscono un po’ le idee su questo argomento.
I due autori ci fanno scoprire che c’è invece tanto di più, a partire dai vangeli apocrifi, al medioevo, all’età moderna, fino a Benedetto XVI. Infatti attraverso le pagine di questo pratico tascabile si scorrono temi come i vangeli “segreti”, il simbolismo biblico, i Padri della Chiesa, l’innografia latina e bizantina, i testi patristici, l’innografia, le leggende popolari, e tanti altri argomenti.
Il messaggio che riceviamo dalla lettura di questo libro è innanzitutto un grande senso di unità, evidenziando che il bue e l’asino fanno parte di un programma divino unitario e che il centro stesso del programma è il mistero di Cristo.
Il simbolismo biblico dei due animali sul piano umano rimanda a virtù come umiltà, pazienza, capacità di portare pesi, non di servire in guerra, per quanto riguarda l’asino, mentre il bue esprime fecondità, forza, lavoro costruttivo, fedeltà al padrone. Sul piano teologico i due animali mostrano la continuità tra Antico e Nuovo Testamento, tra figura e realtà, tra profezia e compimento. Sul piano della vita ecclesiale, invece, il messaggio dei due animali non è meno ricco di spunti. Nella dimensione cosmica, infine, stalla, mangiatoia con bue ed asino, Vergine, Magi, stella, pastori ed angeli, nel clima natalizio dell’Oriente Cristiano, si configurano come altrettanti elementi di un inno di lode e di un immenso offertorio elevato da tutto il creato al Dio della gloria. Il bue e l’asinello sono inginocchiati perché malgrado siano semplici animali, sanno che quel Bambino è Figlio di Dio e come tale lo devono adorare.
Giuseppe Micunco, che firma la presentazione, scrive che dalla lettura di queste pagine, «Nasce un senso ed un bisogno di adorazione del mistero del Dio fatto uomo. Dice il presepiaro napoletano di San Gregorio Armeno: “Il bue e l’asino sono inginocchiati perché, malgrado siano semplici animali, lo sanno che quel Bambino è Figlio di Dio e come tale lo devono adorare. Non vi pare?” Ad adorare le meraviglie di Dio siamo condotti per mano, mistagogicamente, attraverso queste pagine».
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LA NATIVITÀ TRA ORIENTE, OCCIDENTE E PUGLIA
Storie, libri e leggende sui presepi realizzati in Puglia
Il presepio (o presepe) è quella rappresentazione della nascita di Gesù che si fa nelle chiese e nelle case durante le feste natalizie e che riproduce scenicamente la Natività e l’Adorazione dei Magi. La diffusione del presepio è dovuta ai Francescani, proseguita dai Domenicani ed in seguito dai Gesuiti.
Non si può parlare di presepi senza fare riferimento ad una data, il Natale del 1223, quando San Francesco ebbe per primo l’idea di realizzarlo a Greccio (Rieti). Se il miracolo francescano può essere considerato un passaggio rinforzante nella tradizione giunta fino a noi, di fatto il presepio non ha una precisa “data di nascita”, in quanto si è venuto formando nei secoli attraverso usi e forme diverse, nella pittura e nella scultura delle chiese, nelle sacre raffigurazioni.
La prima aria di Natale si avverte il giorno di San Nicola quando la mattina, molto presto, i fedeli si recano ad ascoltare la Santa Messa in Basilica, ed in chiesa si suonava la “ninna nanna”. Gli zampognari, provenienti dall’Abruzzo e dal Molise, eseguivano per le strade note nenie natalizie creando un clima di tenerezza che esaltava i valori autentici della famiglia, anche per strappare qualche soldino ai passanti.
San Francesco d’Assisi con l’intento di ricreare la mistica atmosfera del Natale di Betlemme e per vedere con i propri occhi dove nacque Gesù, con l’aiuto della popolazione del luogo, approntò, con l’autorizzazione di Papa Onorio III, il primo presepe vivente del mondo. Era il Natale del 1223.
Sono gli evangelisti Luca e Matteo i primi a descrivere la Natività. Nei loro brani c’è già tutta la sacra rappresentazione che a partire dal medioevo prenderà il nome latino di praesepium ovvero recinto chiuso, greppia, mangiatoia. Luca nel suo vangelo riporta che Gesù è nato «in una mangiatoia perchè non c’era per essi posto nell’albergo» (Ev., 2,7).
E in Puglia quando è nato il Presepio? Le più antiche testimonianze risalgono alla seconda metà del Quattrocento, come ricorda Clara Gelao nel volume “Il Presepe Pugliese - Arte e Folklore” (Adda Editore), mentre un notevole sviluppo si ebbe nel Cinquecento. Ma quello che è rimasto è solo una parte di quello che testimonianze storiche, orali e documentarie dimostrano.
Si sa che nella Cattedrale di Cerignola esisteva un presepe che servì da modello per quello di Matera, distrutto poi nel Settecento, e così pure nella chiesa di Sant’Andrea a Barletta e in quella di Santa Maria dei Martiri a Molfetta.
Nel secolo XVI pare che la scultura presepiale in pietra raggiunge la massima affermazione a cui segue un lento declino per riprendersi in seguito, con forme differenti e con l’influenza dei presepi napoletani in cartapesta o terracotta. Grottaglie, Polignano a Mare e Martina Franca conservano importanti presepi realizzati da Stefano Putignano, lo scultore più fortemente plastico.
Un raffinato presepe può considerarsi quello esistente nella Cattedrale di Lecce, mentre il più antico presepe presente nel territorio regionale è quello conservato nella Chiesa di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina in provincia di Lecce.
Esclusivamente leccese è anche l’arte autenticamente popolare della cartapesta. La cartapesta è composta da carta ricavata da stracci senza cellulosa, ridotta in poltiglia e mescolata con colla di farina e quindi bollita in acqua con aggiunta di sostanze insetticide per impedirne la tarlatura. La sostanza così ottenuta viene disposta a strati, quindi modellata unicamente a mano e perfezionata con ferri roventi, una fase chiamata fuocheggiatura. La statua realizzata viene fatta essiccare al sole e quindi si passa alla dipintura.
Alla fine del secolo XVI erano i barbieri che, per incrementare i loro scarsi guadagni, lavoravano la cartapesta, così ogni bottega di barbiere diventava laboratorio di statuine che venivano poi vendute alla Fiera dei Pupi e dei Pastori, fiera che si svolge a Lecce ancora oggi nel giorno di Santa Lucia.
Bianca Tragni, coautrice del volume sopra citato, scrive che la tradizione presepiale pugliese impallidisce di fronte alla grande tradizione folklorica del Salento e di Lecce. «Il presepe - scrive sempre Bianca Tragni - è più che un rito o un abitudine: è una passione inestinguibile, un amore sconfinato, un tarlo roditore, un virus contagioso, un gene in più di questa razza speciale di meridionali di razza che sono i leccesi».
Mariagraziella Belloli nel simpatico tascabile della Stilo Editrice “Il Presepe tra Oriente e Occidente”, anche se di qualche anno fa, scrive che il Presepe fra Oriente e Occidente, è una tradizione che con quella di San Nicola è certamente la più emozionante e commovente. È il caso di ricordare che Gesù è nato al centro del Vicino Oriente sotto la dominazione dell’Impero romano d’Occidente e si ipotizza che la visita dei Magi, provenienti dal Lontano Oriente, abbiano contribuito a legare in maniera indissolubile i due mondi.
Oggi anche in Capitanata e nelle provincia di Brindisi il presepe sta registrando una notevole ripresa, segno di una nuova vitalità di questa tradizione che sotto certi aspetti concorre a condividere la storia tra Oriente e Occidente e quindi a dare un notevole contributo all’ecumenismo.
Da Barisera del 17 dicembre 2008, pag. 1
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IL PRESEPIO TRA STORIA E CURIOSITÀ
Il presepio è quella rappresentazione della nascita
di Gesù che si fa nelle chiese e nelle case durante
le feste natalizie e che riproduce scenicamente la Natività
e l’Adorazione dei Magi. La diffusione del presepio
è dovuta ai Francescani, proseguita dai Domenicani
ed in seguito dai Gesuiti.
Non si può parlare di presepi senza fare riferimento
ad una data, il Natale del 1223, quando San Francesco ebbe
per primo l’idea di realizzarlo a Greccio (Rieti). Se
il miracolo francescano può essere considerato un passaggio
rinforzante nella tradizione giunta fino a noi, di fatto il
presepe non ha una precisa “data di nascita”,
in quanto si è venuto formando nei secoli attraverso
usi e forme diverse, nella pittura e nella scultura delle
chiese, nelle sacre raffigurazioni.
In base a quanto riferisce l’evangelista Luca, Gesù
nacque in una stalla, o comunque in un luogo destinato al
ricovero degli animali. Ed infatti la parola “Presepio”
deriva etimologicamente dal verbo latino praesepire per cui
assume il significato odierno di mangiatoia, greppia. Il termine
pare comparso per la prima volta a proposito della basilica
Mariana dell’Esquilino, Santa Maria Maggiore, chiamata
sin dal VII secolo “Sancta Maria ad praesepe”,
in quanto in tale epoca, secondo la tradizione, vi furono
traslate le reliquie della Sacra Culla.
Dalla voce del basso latino cripia invece, traducibile egualmente
come mangiatoia, derivano i termini “crèche”,
“crib”, “krippe”, “krubba”,
che indicano il Presepio rispettivamente nelle lingue francese,
inglese, tedesco e svedese. Allo stesso modo, in Polonia si
parla di “szopka” e in Russia di “wertep”,
termini aventi sempre il significato di greppia.
L’Enciclopedia dello Spettacolo definisce il Presepio
come la rappresentazione plastica, tridimensionale della nascita
di Gesù, realizzata con figure mobili spostabili secondo
il senso artistico del costruttore. Insomma il presepio è
come un teatro in quanto, analogamente a quest’ultimo,
è teso a rendere attuale e reale un avvenimento remoto
nel tempo e nello spazio.
Dal 1289, anno in cui Arnolfo di Cambio scolpì le sue
statue per la basilica di Santa Maria Maggiore, quella che
è considerata la prima rappresentazione del Presepio,
bisognerà attendere quasi tre secoli per aver notizie
certe, fondate su documenti probanti, circa l’esistenza
di Presepi a Roma, e precisamente il 1581, quando il francescano
spagnolo Juan Francisco Nuno, che aveva avuto l’incarico
di condurre una ricerca sui conventi romani, riferisce come
il Presepio venisse regolarmente allestito nei monasteri e
nelle chiese e, come soprattutto quello dell’Aracœli,
richiamasse una gran folla di fedeli, con la statua del Santo
Bambino intagliata, secondo la tradizione, da un anonimo frate
francescano in un tronco di ulivo del Getsemani.
Da allora, come avvenne a Napoli, a Genova e in Sicilia, il
Presepio dalle chiese si diffuse alle case patrizie, con costruzioni
artificiose e spettacolari il cui fine, in obbedienza ai canoni
estetici barocchi, era quello di meravigliare, più
che di edificare, e alla cui realizzazione parteciparono artisti
eminenti (Bernini ne allestì uno per il principe Barberini).
Al ’700 appartengono il Presepio delle Clarisse di San
Lorenzo, costituito da cinque grandi statue, quelli di Santa
Maria in Trastevere e delle Benedettine del Monastero di Santa
Cecilia.
Più ricca è la documentazione pervenutaci sull’Ottocento,
quando l’uso di allestire il Presepio si allarga a tutti
i ceti sociali, con la produzione di statuine in terracotta
a basso costo, modellate da scultori mediocri, e ricavate
con stampi dai “bucalettari” di Trastevere. È
una curiosità che lo stesso Bartolomeo Pinelli, “er
pittor de Trastevere”, da ragazzo lavorò nella
bottega del padre, figurinaio, plasmando in terracotta pupazzi
da presepio.
Alcuni presepi vengono innalzati su portici di basiliche,
su terrazze e loggette, con una scenografia naturale e il
cielo come sfondo. Fra questi, il Presepio più visitato
era quello che l’industriale Forti allestiva ogni anno
in Trastevere, con figure realizzate con una tecnica particolare:
il tronco di legno, testa ed arti di cartapesta, abiti di
tela indurita con la colla e poi colorata.
Come si vede, il Presepio romano è, nell’insieme,
meno sfarzoso e più severo rispetto al modello partenopeo:
la Sacra Famiglia ritorna al centro della composizione, le
figure sono meno sontuose, la scenografia più sobria
e contenuta. Peraltro, molto curato è il fondale, che
riproduce di solito il paesaggio della campagna romana.
A Napoli, verso la metà del Cinquecento, con l’abbandono
del simbolismo medioevale, nasce il Presepio moderno. La tradizione
ne attribuisce il merito a San Gaetano da Thiene che, esaltato
dal mistero della Natività, allestì nel 1534,
nell’oratorio di Santa Maria della Stalletta, presso
l’Ospedale degli Incurabili, un grande Presepio con
figure lignee fisse, abbigliate secondo la foggia del tempo.
Su questa scia, nel corso del Cinquecento numerosi furono
i Presepi costruiti a Napoli in chiese e monasteri, ma bisognerà
attendere il secolo successivo per l’affermarsi del
Presepio mobile a figure articolabili, il cui primo esempio
fu quello allestito dai padri Scolopi nel Natale del 1627.
Da ricordare anche il Presepio della chiesa di Santa Maria
in Portico, commissionato dalla duchessa Orsini, e l’allestimento
realizzato dalla bottega del Ceraso per la chiesa di San Gregorio
Armeno. Ma il secolo d’oro dell’arte presepiale
a Napoli sarà il ’700. Con Carlo III di Borbone
infatti, la città, ridivenuta capitale di un regno
autonomo dopo essere stata, per oltre due secoli, una provincia
spagnola, va ad annoverarsi tra le più brillanti capitali
europee, conoscendo, grazie soprattutto al mecenatismo del
suo sovrano, una meravigliosa fioritura culturale ed artistica,
della quale il presepio costituirà una delle espressioni
più splendide.
Infine, dal momento che la cartapesta, fin dalle sue origini,
rappresenta un’arte tipicamente leccese, molto diffusa
perché i motivi e la lavorazione erano e rimangono
essenzialmente popolari e soprattutto di basso costo, parliamo
del Presepio leccese. La cartapesta è composta da carta
ricavata da stracci o da carta di giornale, perché
non contiene cellulosa, pestata fino ad essere ridotta in
poltiglia, mescolata con colla di farina, e quindi bollita
con acqua avvelenata, per impedire la tarlatura: il composto
così ottenuto viene poi disposto a strati, il cui spessore
varia a seconda delle dimensioni della figura.
Le prime opere in cartapesta vengono datate intorno al sedicesimo
secolo, ma solo nell’Ottocento si hanno dati certi che
indicano il caposcuola nel “Maestro Pietro dei Cristi”,
soprannome attribuitogli perché era solito modellare
immagini sacre.
Alla fine del secolo erano essenzialmente i barbieri, a corto
di clienti, che lavoravano la cartapesta, per incrementare
i loro scarsi guadagni, per cui ogni “salone”
diventava anche laboratorio di “figurinaio”. Le
statuine così realizzate venivano poi vendute alla
Fiera dei Pupi e dei Pastori, che ancora oggi si svolge a
Lecce nel giorno di Santa Lucia.
Per concludere una curiosità. Esiste in Italia sull’autostrada
Milano-Venezia il Museo del Presepio, nato dalla volontà
di don Giacomo Piazzoli, un prete straordinario, seriamente
impegnato nel sociale, che ancora oggi a dieci anni dalla
scomparsa è ricordato con affetto da tutti i suoi parrocchiani
e soprattutto dagli “Amici del Presepio”, un’associazione
di volontari dotati di grande cultura storico-artistica e
religiosa che hanno continuato a svolgere il lavoro iniziato
dal fondatore portando questo museo ai massimi livelli internazionali.
Il museo, sorto nel 1974, raccoglie 800 presepi provenienti
da tutto il mondo, è dotato di archivio, di biblioteca,
di fototeca e di nastroteca che documentano la storia, le
tradizioni, i costumi, la musica, il folklore, le immagini
sacre, i francobolli e le cartoline riguardanti il Natale
ed il Presepio.
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LEGGENDE DI NATALE
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Terlizzi. Chiesa dell'Immacolata. Natività
di Corrado Giaquinto (1703-1766)
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Nella magica notte di Natale può accadere di tutto
fioriscono gli alberi, parlano gli animali, nascono tante
leggende, frutto delle credenze popolari che attraverso millenni
sono giunte a noi.
Le leggende, infatti, sono state per tante generazioni il
“mistero” che ha avvolto le tante credenze popolari
frammiste a ingenuità.
Natale non è solo la ricorrenza più importante
del calendario liturgico cristiano ma è legato anche
a varie manifestazioni agrarie che si svolgevano all’inizio
dell’anno e che col passare del tempo hanno acquisito
valenze simboliche diverse, legate soprattutto al mistero
della nascita divina.
Tra gli elementi da considerare c’è il fuoco,
che assume un ruolo di primo piano nella ritualità
delle feste agrarie ma è anche elemento essenziale
nella tradizione natalizia, dal momento che il ceppo ha una
funzione purificatrice. Infatti, le ceneri purificano dal
peccato e dalla malattia, considerate conseguenza del peccato.
Anna Maria Tripputi ricorda che il digiuno della vigilia ha
antiche radici agrarie, dal momento che i contadini lo praticavano
in coincidenza con le pratiche agricole più importanti
che cadevano all’inizio dell’anno. Un proverbio
popolare recita “Ci non fasce u desciune de Natale o
è turche, o è cane” (Chi non fa il digiuno
di Natale o è turco - nel senso che non ha sensibilità
- o è cane), (Placida notte, Malagrinò Editore).
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Bari, Pinacoteca Provinciale. Natività
in pietra di Paolo da Cassano (Notizie 1511-1535)
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Vito Maurogiovanni, invece, racconta che la notte del 24 dicembre
un bambino fu rapito da briganti e non avendo ottenuto il
riscatto dalla famiglia lo dovevano uccidere. Mentre stavano
per compiere l’orrendo misfatto, una luce vivissima
apparve nel cielo ed accecò gli assassini. Il bambino
si salvò e vide un altro bel Bambino che teneva la
corona in capo, la croce in mano ed il mondo nell’altra.
Era Gesù che scendeva dal cielo con gli angeli per
liberare gli uomini dalla schiavitù del peccato.
Un’altra leggenda di Maurogiovanni “Gesù
e l’usignolo” (Antico Natale, Edipuglia), ricorda
la Madonna che tentava di addormentare il dolce Figliuolo
che invece continuava a frignare come tutti i bambini del
mondo. Quasi disperata pregò il Signore di consolare
il divino Infante che non aveva pace e che la metteva al limite
della cosiddetta santa pazienza.
Fu in quel momento che entrò nella grotta un usignolo
il quale si mise a cantare con tanta soavità e con
tale trasporto che il Messia se ne andò in estasi e
cadde in un sonno profondo e per non disturbarlo l’usignolo
non trillò più e uscì dalla capanna per
annunciare a tutti gli animali del mondo di tacere a lungo
per non interrompere il sonno del santo Fanciullo sceso sulla
terra.
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Bari, Pinacoteca Provinciale. Presepio napoletano
del '700
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SIMBOLOGIA DEL NATALE |
Negli anni recenti, il Natale, festa prettamente cristiana,
è diventata occasione per una corsa al consumismo,
un festeggiamento frenetico, sostituendo il clima di celebrazione
e di riflessione con una gara commerciale, facendo intervenire
spesso la Chiesa a promuoverne con incisione il significato
religioso.
I simboli di Natale sono numerosi ma il più
importante e significativo è rappresentato dal
Presepe che nel medioevo prese il nome latino di praesepium
che significa recinto chiuso o mangiatoia, quella mangiatoia
che vide nascere Gesù.
Il bue e l’asino divengono simboli del popolo
ebreo e pagano, mentre i re Magi, il cui numero tre
è fissato da S. Leone Magno (gli Evangelisti,
quando li citano, non dicono quanti sono), rappresentano
le tre età dell’uomo (gioventù,
maturità e vecchiaia) e le tre razze in cui si
divide l’umanità: semitica (dal nome Sem,
figlio di Noè, che secondo la tradizione biblica,
sarebbe stato il progenitore dei popoli orientali),
camitica (da Cam, figlio di Noè che ha generato
i popoli africani nord-orientali), e giapetica (da Giapeto
uno dei titani della mitologia greca che ha generato
i popoli occidentali).
I loro nomi - Gaspare, Melchiorre e Baldassarre - sono
mutuati dal vangelo apocrifo armeno e ormai sono accettati
anche dalla tradizione occidentale. I doni dei Magi,
invece, sono interpretati in riferimento alla duplice
natura di Gesù: l’incenso per la sua Divinità,
la mirra per la sua umanità, l’oro perché
era un dono riservato ai re.
Gli
angeli rappresentano gli esempi di creature superiori, i pastori
l’umanità da redimere e infine Maria e Giuseppe,
in atteggiamento di adorazione, sottolineano la regalità
dell’infante.
Oltre al Presepe, ideato da San Francesco nel 1223 a Greccio
e che Giotto ha dipinto nell’affresco della Basilica
Superiore di Assisi, i simboli del Natale sono numerosi e
vari.
Il vischio, pianta natalizia per eccellenza, ne parlava anche
Virgilio nell’Eneide, era considerata pianta divina
e miracolosa, tanto che la potevano raccogliere, utilizzando
un falcetto d’oro solo i sacerdoti.
L’agrifoglio e il pungitopo, considerati portatrici
di fortuna, sono piante caratterizzate dalla presenza di foglie
dure e spine, simbolo di forza e prevenzione contro i mali,
ma secondo la leggenda le foglie spinose ricordano le spine
della corona di Gesù. Le bacche rosse simboleggiano
il Natale, ma ricordano anche il rosso del sangue.
La melagrana, simbolo della terra, rappresenta la rigenerazione
della natura, quindi il significato simbolico di rinascita
e resurrezione.
Il cero natalizio rappresenta la luce, infatti nella notte
di Natale arriva la luce tra gli uomini, l’avvento del
bambino Gesù.
La stella di Natale, secondo la tradizione, è stato
il regalo di un bimbo a Gesù. In un lontano 25 dicembre
un bambino povero entrò in Chiesa per offrire un dono
al Signore, ma era talmente povero che offrì solo un
mazzo di erbacce, ma su quei rametti cadde una lacrima del
bimbo che per miracolo si trasformò in uno splendido
fiore rosso: la stella di Natale.
Anche il gioco della Tombola pare avesse origini antiche.
Durante i Saturnali che precedevano il solstizio d’inverno,
nell’antica Roma, si concedeva il gioco d’azzardo,
proibito nel resto dell’anno. Il gioco era quindi strettamente
connesso con la funzione rinnovatrice di Saturno, quindi la
buona sorte del giocatore non era dovuta al caso, ma al volere
della divinità.
Le palline colorate che appendiamo all’albero
pare rappresentino le risate di Gesù bambino.
Infatti, un giocoliere che non aveva nulla da portare
a Gesù si presentò ugualmente a mani vuote,
ma volle offrire quello che meglio sapeva fare, il giocoliere,
facendo ridere Gesù Bambino, e da quel giorno
si dice che le palline colorate da noi utilizzate rappresentano
le risate del piccolo Gesù.
Le campane di Natale ricordano la leggenda di un bambino
cieco desideroso di andare a far visita a Gesù
e non avendo alcun riferimento visivo sentì da
lontano il suono di una campana. Pensò si trattasse
di una mucca che si trovava nella stalle del sacro neonato
e seguendo quel suono, arrivò fino alla mangiatoia
dove si trovava il piccolo Re.
L’Albero di Natale, infine, si diffuse nell’Europa
del Nord verso il secolo XI, ma una documentazione certa
ne dà la nascita in Alsazia nel 1512.
L’abete di Natale simboleggia la figura di Gesù,
Colui che ha sconfitto le tenebre del peccato e per
questo motivo si è cominciato ad adornarlo di
luci.
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EPIFANIA: STORIE E CURIOSITÀ
Con la festività dell’Epifania si commemora
la visita dei Re Magi a Gesù in Betlemme. Il termine,
che nel mondo greco indicava le azioni con cui la divinità
si manifestava, passò nel mondo cristiano a designare
la celebrazione delle principali manifestazioni della divinità
di Gesù Cristo (battesimo nel Giordano, adorazione
dei Magi e primo miracolo).
Epifania, dal greco apparizione, è la triplice solennità
istituita dagli Apostoli in cui la Chiesa ricorda tre grandi
miracolosi avvenimenti:
- l’apparizione dell’astro che dall’oriente
fino alla stalla di Betlemme guidò i Re Magi all’adorazione
del neonato, Salvatore del mondo;
- la conversione dell’acqua in vino alle nozze di Cana
in Galilea;
- il battesimo di Gesù Cristo nel Giordano somministrato
da San Giovanni Battista, assistito dallo Spirito Santo in
forma di colomba e dall’eterno Padre, che dichiarò
Gesù essere figlio suo diletto. Non si sa come mai
la celebrazione dei tre diversi avvenimenti accadesse lo stesso
giorno. In maniera del tutto arbitraria fu stabilito che essi
fossero accaduti in uno stesso giorno in differenti epoche.
I Greci chiamavano l’Epifania Teofania, cioè
apparizione di Dio, e la celebrarono insieme a quella del
Natale, almeno per i primi tre secoli. Nel IV secolo, invece,
sotto Giulio I, queste due feste furono separate nella Chiesa
Latina e tale separazione fu adottata al principio del V secolo
nelle Chiese di Siria e di Alessandria. Nel giorno dell’Epifania
il Diacono annuncia il giorno in cui dovrà cadere la
Pasqua. Anticamente all’Epifania precedeva un digiuno
rigoroso di un’intera giornata.
La Befana, (termine che è degenerazione di Epifania,
cioè manifestazione) è nell’immaginario
collettivo un mitico personaggio con l’aspetto da vecchia
che porta doni ai bambini buoni la notte tra il 5 e il 6 gennaio,
festa appunto dell’Epifania, che segue al Natale.
La
sua origine si perde nella notte dei tempi, discende da tradizioni
magiche precristiane e, nella cultura popolare, si fonde con
elementi folcloristici e cristiani: la Befana porta i doni
in ricordo di quelli offerti a Gesù Bambino dai Magi.
L’iconografia è più o meno fissa: un gonnellone
scuro ed ampio, un grembiule con le tasche, uno scialle, un
fazzoletto o un cappellaccio in testa, un paio di ciabatte
consunte, il tutto vivacizzato da numerose toppe colorate.
Una leggenda narra che un giorno i Re Magi partirono carichi
di doni (oro, incenso e mirra) per Gesù Bambino. Attraversarono
molti paesi guidati da una stella, e in ogni luogo in cui
passavano, gli abitanti accorrevano per conoscerli e unirsi
a loro. Ci fu solamente una vecchietta che in un primo tempo
voleva andare, ma all’ultimo minuto cambiò idea,
rifiutandosi di seguirli. Il giorno dopo, pentita, cercò
di raggiungere i Re Magi, che, però erano già
troppo lontani. Per questo la vecchina non vide Gesù
Bambino, né quella volta né mai. Da allora,
nella notte fra il cinque e il sei Gennaio, volando su una
scopa con un sacco sulle spalle, passa per le case a portare
ai bambini buoni i doni che non ha dato a Gesù.
Studiosi delle tradizioni etnico-popolari, fanno notare come
la Befana, al contrario di Gesù Bambino e Santa Lucia,
conservi anche un tratto ambiguo, quasi da strega. Come tutte
le tradizioni, anche la befana si può analizzare con
le tecniche storico-archeologiche, cercando di scavare gli
strati delle varie epoche per arrivare alle tracce di quelle
più antiche. La Befana potrebbe avere una qualche parentela
con la “vecchia” che si brucia in piazza per festeggiare
la fine dell’anno: un simbolo della ciclicità
del tempo che continuamente finisce e ricomincia. È
un simbolo antico e pagano che suggestiona anche noi moderni
dell’era tecnologica. La tradizione della “vecchia”
non è diffusa solo nelle zone in cui la befana distribuisce
i suoi doni, è presente anche nel nord Italia. È
infatti una tradizione dei popoli celtici, che erano insediati
in tutta la pianura padana e in parte sulle Alpi. I Celti
celebravano strani riti (officiati da maghi-sacerdoti chiamati
druidi), durante i quali grandi fantocci di vimini venivano
dati alle fiamme per onorare divinità misteriose. Divinità
che non dovevano essere molto benigne, se è vero quanto
riferiscono alcune fonti: in epoche antiche e feroci, all’interno
dei fantocci si legavano vittime sacrificali, animali e, talvolta,
prigionieri di guerra.
Dalle nostre parti la tradizione vuole che nella notte tra
il 5 e il 6 gennaio, i ragazzi lasciassero in cucina o sull’uscio
di casa una parte del loro pasto o altri piccoli doni, insieme
alla classica calza, che allora era un normale calzino, che
nulla ha a che vedere con quella odierna. Quella della Befana
era una notte di paura e di raccoglimento e tutti i bambini
andavano (e vanno) a letto presto per consentire alla Befana
di non trovare ostacoli durante il suo passaggio.
Purtroppo, però, man mano che gli anni passano diventiamo
più grandi e più disillusi, dimenticandoci di
giocattoli e caramelle e dei sogn; tutta la magica ed impalpabile
atmosfera connessa a questa festa svanisce, lasciando solo
il ricordo dell'attesa fanciullesca legata alla figura della
Befana. |
NATALE NELLA STORIA
Il ciclo natalizio, che rappresenta la principale festività
dell’anno, parte dal solstizio d’inverno (il giorno
più corto dell’anno) e termina con l’Epifania.
L’evento, che appartiene all’anno liturgico cristiano
in cui si commemora la nascita di Gesù, viene ricordato,
nella cristianità occidentale, il 25 dicembre, in quella
orientale il 6 gennaio.
Ma qual’è l’origine della natività?
Pare considerata nell’ottica di una importante festa
pagana, la celebrazione del Sol invictus, dio del Sole e signore
dei pianeti. Il Messia veniva spesso descritto come “Sole
di giustizia” e lo stesso Vangelo ne parla, a volte,
paragonandolo al Sole. Ecco la preferenza per il 25 dicembre,
data che, anche se probabilmente non esatta, è stata
scelta per la necessità di contrapporre una festa cristiana
ad una pagana nel momento in cui si diffondeva una nuova religione,
il Cristianesimo.
In Palestina ed a Gerusalemme, invece, fino al V secolo era
comunque l’Epifania ad essere festeggiata in memoria
della nascita di Cristo. Storici famosi come Clemente Alessandrino
propendevano per il 6 o il 10 gennaio, altri addirittura per
il 25 marzo.
Nell’antica Roma, dal 17 al 24 dicembre, si festeggiavano
i Saturnali in onore di Saturno, dio dell’agricoltura,
un periodo in cui si viveva in pace, si scambiavano doni,
venivano abbandonate le divisioni sociali e si facevano luculliani
banchetti.
Nel 274 d.C. l’Imperatore Aureliano decise che il 25
dicembre si festeggiasse il Sole. Da qui l’origine della
tradizione del ceppo natalizio, ceppo che nelle case doveva
bruciare per 12 giorni consecutivi e doveva essere preferibilmente
di quercia, un legno propiziatorio. Il ceppo natalizio nei
nostri giorni si è trasformato nelle luci e nelle candele
che oggi addobbano case, alberi, e strade.
Ai giorni nostri il Natale deriva da tradizioni borghesi del
secolo scorso, con simboli e usanze sia di origine pagana
che cristiana. Negli ultimi anni però, il Natale, festa
prettamente cristiana, è diventata una specie di gara
commerciale, una corsa al consumismo, trasformando questo
periodo di attesa, di riflessione e di celebrazioni liturgiche
in un festeggiamento frenetico, tanto che la Chiesa è
dovuta intervenire spesso per sottolineare, incisivamente,
il significato religioso di tale festa.
Il pranzo di Natale per tradizione viene consumato in casa
e varia a seconda dei paesi. Abbiamo anche una ricchezza di
dolci preziosi e prelibati, che ricordano spesso simboli solari
o tradizioni rurali; i dolci spesso richiedono lunghi preparativi
e la lavorazione viene fatta diversi giorni prima.
La serie di festeggiamenti continua con il cenone di fine
anno a cui segue, dopo la breve euforia di pranzi, brindisi,
auguri e abbracci, una pausa di riflessione nella giornata
di Capodanno.
Il primo giorno dell’anno, festa di rinnovamento, viene
celebrata in tutte le civiltà ed è caratterizzata
da rituali che simbolicamente chiudono un ciclo annuale e
inaugurano quello successivo.
Infine arriva l’Epifania, una delle principali feste
cristiane, la cui celebrazione ricorre il 6 gennaio. Nata
nella regione orientale per commemorare il battesimo di Gesù,
fu presto introdotta in occidente dove assunse contenuti religiosi
diversi, come la celebrazione delle nozze di Cana e il ricordo
dell’offerta dei doni dei magi nella grotta di Betlemme.
Quest’ultimo aspetto ha finito per prevalere e, sovrapponendosi
a precedenti tradizioni folcloriche, ha determinato la nascita
della figura della Befana che distribuisce doni...
I magi, infatti, erano un gruppo di personaggi che, guidati
da una stella, arrivarono dall’oriente per rendere omaggio
a Gesù appena nato a Betlemme, donandogli oro, incenso
e mirra. Successivamente verranno indicati come i “
tre re”, chiamati Gaspare, Melchiorre e Baldassarre.
Questa festa, che dà un supplemento di regali ai bambini,
pone termine al ciclo di festeggiamenti dedicato al Santo
Natale.
Le immagini sono tratte dal volume “Antico
Natale” di autori vari, edito da Edipuglia,
Bari |
LA COMETA, I RE MAGI E GIOTTO
“Quando Gesù fu nato a Betlemme di Giudea ai
tempi di Re Erode, ecco apparire dall’Oriente a Gerusalemme
alcuni Magi, i quali andavano chiedendo dove fosse nato il
Re dei Giudei, perché – dicevano – avevano
visto la sua stella al suo sorgere ed erano venuti ad adorarlo
[…]”. Matteo (II, 1-2).
In ogni presepio del mondo, sopra la grotta
che ospita la Sacra Famiglia, o sulla punta dell’albero
addobbato per la festa, trova posto da tempo immemorabile
una splendente “stella cometa”. Si tratta di una
locuzione popolare impropria che gli astronomi chiamano semplicemente
“cometa”, ossia astro chiomato.
La tradizione vuole che i re Magi fossero stati guidati nel
luogo dove nacque Gesù proprio da una luminosa cometa,
divino messaggero del glorioso evento. Ma quanto c’è
di verificabile, dal punto di vista astronomico, in questa
affascinante rappresentazione? La stella dei Magi è
esistita davvero? Da oltre un secolo si sa che si tratta di
un corpo del sistema solare fatto in gran parte di ghiaccio,
quindi proprio il contrario di una stella. La trasformazione
di questa stella in cometa risale addirittura al 1301 e il
merito va a Giotto.
Egli infatti osservò personalmente in quel periodo
una fantastica apparizione della cometa di Halley e, comprensibilmente,
non resistette all’idea di disegnare la grande cometa
sulla scena della natività nella Cappella degli Scrovegni
a Padova.
I progressi odierni della scienza permettono, grazie a computer
con programmi di calcolo sempre più potenti ed all’affinamento
dell’indagine storiografica ed archeologica di ricostruire
con grande precisione il cielo notturno osservato dai nostri
progenitori e di dare un contributo decisivo alla risoluzione
di un “caso” affascinante ed assai complicato.
L’interesse degli astronomi per la stella di Betlemme
è sempre stato vivo e non accenna a diminuire: dopo
duemila anni si susseguono ancora interpretazioni e studi
al riguardo. Superata, come è giusto che sia, la volontà
di far corrispondere fatti ed eventi scientificamente provati
ai riferimenti degli Evangelisti.
I Magi, che secondo il Vangelo armeno erano tre fratelli:
Melkon, che regnava sui Persiani, Balthasar, che regnava sugli
Indiani e il terzo, Gaspar, che possedeva il paese degli Arabi,
appartenevano originariamente ad una delle tribù in
cui era diviso il popolo dei Medi. Essi costituivano la classe
sacerdotale. In Persia, infatti, dove vivevano, il loro nome
assunse il significato generico di sacerdoti.
I Magi esercitavano la professione che oggi definiremmo astrologia.
Alla corte di Babilonia essi interpretavano i segni celesti,
osservando i moti delle stelle e dei pianeti, traendone auspici
favorevoli o meno. La “stella” che essi videro
era uno di quei segnali con i quali presso i pagani la divinità
rendeva noti i propri disegni. Alcuni testi arabi collegano
i Magi alla religione iranica e a Zoroastro “fondatore
della dottrina del magismo”, al quale veniva attribuita
tra le altre cose anche la profezia della nascita di Cristo.
Oggi sorridiamo del fatto che gli astri possono avere un’influenza
prevedibile sul nostro agire quotidiano, o che tanto meno,
permettano di predire eventi futuri. L’astrologia ha
perso ogni fondamento e scientificità, anche presunta,
con l’avvento del metodo scientifico del 16° secolo.
Non dobbiamo dimenticare, tuttavia, che astronomia e astrologia
hanno proceduto di pari passo per secoli, la prima al servizio
della seconda. Fu a causa della creduta influenza dei corpi
celesti sul destino dell’uomo che i sapienti dell’epoca
affinarono la propria conoscenza sull’astronomia posizionale.
I Vangeli sono una fonte privilegiata per inquadrare con una
certa precisione la “stella” che videro i Magi.
Dal Vangelo di Matteo proviene un’utile informazione:
il fenomeno astronomico osservato dai Magi fu si importante
ma non certo eclatante, ossia perfettamente evidente a chiunque.
In caso contrario anche Erode ne sarebbe stato a conoscenza
e non avrebbe dovuto chiedere informazioni dettagliate. Da
perfetti conoscitori della volta celeste, quali erano i Magi,
sicuramente si resero conto che ciò che videro, nel
loro lungo viaggio da Babilonia a Betlemme, era qualcosa di
importante per la propria esperienza di studiosi del cielo,
anche se poi, a livello popolare, poteva passare del tutto
inosservato. Ecco dunque perché furono i Magi a notare
“la stella” e non altri: solo loro erano in grado,
come esperti osservatori delle stelle, di apprezzarne la particolarità.
È possibile che in futuro emergano nuovi elementi archeologici
o storiografici risalenti ai primi anni della cristianità:
essi potranno così dar peso ad un’interpretazione
piuttosto che ad un’altra. |
IL NATALE BARESE TRA LEGGENDE E DIALETTO
“Placida notte quella di Natale; magica notte nella
quale tutto può accadere: l’universo si ferma
per un attimo, gli animali parlano, gli alberi fioriscono
in pieno inverno, i fiumi si trasformano in colate di oro
e miele”.
Natale, un evento cristiano ricordato nella cristianità
occidentale il 25 dicembre è una delle feste più
belle dell’anno sotto molteplici aspetti: religioso,
tradizionale, folcloristico, poetico, ecc.
Nino Lavermicocca e Anna Maria Tripputi, hanno curato per
l’editore Paolo Malagrinò (pag. 108, euro 15,00),
una bella pubblicazione dal titolo “Placida notte”,
da sempre sinonimo della notte di Natale, e che in collaborazione
con Vito Maurogiovanni, Nicola Cortone, Vincenzo Carlone,
Pietro Squeo e Alfredo Ventola indirizzano ai lettori una
sorta di messaggio augurale inconsueto. Infatti, gli autori
illustrano riti, tradizioni, racconti, culto, poesie, iconografia
e tutta la suggestione della importante festività,
quale testimonianza del patrimonio barese del Natale.
Vari i temi trattati: il lungo cammino del Presepio (Lavermicocca)
il Natale nella letteratura popolare (Tripputi), il colore
della festa tra ricordi e racconti (Maurogiovanni), l’alfabeto
del Natale barese (Lavermicocca), le poesie “baresi”
per il Natale barese (Nicola Cortone), il presepe arcaico
di Raffaele Spizzico (Carlone) ed anche le delizie natalizie
(Squeo e Ventola), che sono parte integrante ed insostituibile
della solenne festività.
Ed anche il dialetto, che “oltre ad assolvere la funzione
di soddisfare le esigenze espressive di uso giornaliero e
di carattere popolare, ha anche quella di rievocare tradizioni
e costumi della civiltà del passato”, entra di
prepotenza in questa pubblicazione, che Nicola Cortone ha
voluto rappresentare con tre belle poesie: “La Pastorale
au Prisebie de Gesù Bammine” di F. Saverio Abbrescia,
“Pastorella natalizia” di F. Babudri e “U
Natale de le poveridde” di P. Santoro. Foto di Beppe
Gernone, copertina su progetto grafico di Stefano Lavermicocca.
Una bella pubblicazione da leggere, conservare e regalare.
Ne vale la pena.
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SAN NICOLA? UN SANTO NATALIZIO |
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Che San Nicola sia un Santo natalizio è fuor di dubbio
dal momento che fin dalla sua giovane età si fece ammirare
per la bontà e la generosità che animavano il
suo operato, soprattutto verso i più poveri, ai quali
donò le ricchezze ereditate dai genitori.
In diversi paesi la sentita devozione verso il Santo di Mira
ha dato origine a tradizioni che si intrecciano con la grande
festa della Natività di Cristo.
Pare che lo stesso Santa Claus (S. Nicola) americano, sia
di derivazione olandese, come ricorda p. Gerardo Cioffari
o.p. nel suo volume “San Nicola – La vita, i miracoli,
le leggende”, edito dal Centro Studi Nicolaiani per
i tipi di Levante Editori.
La storia viene narrata per la prima volta dallo scrittore
umoristico americano Washington Irving, nel suo volume “A
history of New York by Diedrich Knickerbocker "(1809),
una vicenda dei primi colonizzatori inglesi. Anche l’Olanda
ha dato il suo contribuito attraverso il trasferimento delle
proprie tradizioni verso il Nuovo Mondo per mezzo del suo
Sinter Klaus (Santa Claus) con l’abito rosso, la barba
bianca e la mitra vescovile in testa, adottato come portatore
di doni per i più piccoli.
Con il passare del tempo il suo aspetto mutò, la mitra
si trasformò in cappuccio a punta, l’abito, pur
rimanendo rosso, si trasformò in giacca e pantaloni
ornati di pelliccia bianca, mantenendo la folta barba bianca,
ma un po’ ingrassato.
Dall’America ritornò in Europa trasformato da
Babbo Natale, sorridente e instancabile nel distribuire regali
ai più piccoli. |
“San Nicola e i bambini” rappresenta anche un
progetto artistico che Bari, porta avanti da alcuni anni in
onore del suo Santo patrono, che è anche protettore
dei bambini. Progetto che sta raccogliendo una cospicua collezione
di immagini dedicata ai Santi delle tradizioni pugliesi e
che l’Amministrazione comunale intende donare alla cittadinanza,
esponendola in un museo dedicato ai piccoli cittadini. Trattasi
di una interpretazione iconografica contemporanea dell’eterno
fascino che il protettore dei bambini esercita da sempre in
tutte le latitudini. |
Foto 2 |
Foto 1
Le foto mostrano un collage dell’artista
barese Anna Maria Di Terlizzi, che propone un San
Nicola con i bambini (foto 1) ed un altro San Nicola
in trono (foto 2), un’installazione che da sola
è capace di animare lo spazio intorno a sé.
Il lavoro possiede, infatti, una notevole dimensione
ambientale per l’imponenza del vescovo insediato,
ma a parlare sono soprattutto i simboli: dalla mitria,
alla stola, al pastorale, alle tre sfere, ai puttini.
Un’opera veramente bella che l’autrice,
com’è solita fare, è ricorsa al
suo colto bricolage, tra oggetti della tradizione
popolare. |
|
Anche Nino Lavermicocca nel suo libro “Bari vecchia”
(Adda editore) ricorda che San Nicola è diventato il
buon vegliardo che distribuisce doni dal camino anziché
dalla finestra nella notte tra il 5 e 6 dicembre, soprattutto
nei paesi dell’Europa centrale (Austria, Svizzera, Lussemburgo,
Germania, Francia, Olanda e Belgio), accompagnato dal paziente
asinello carico di regali e dall’irrequieto “uomo
nero” (chiamato in modo diverso nei vari paesi), che
minaccia con un fascio di verghe i più discoli.
Per l’occasione si formano pittoreschi cortei con le
tre figure, i carri allegorici e le bande musicali. I più
fastosi sono segnalati a Nancy, Strasburgo, Friburgo, Magonza,
Colonia, Amsterdam, Bruxelles, Gand), mentre minicortei girano
per le case.
E in questa atmosfera natalizia anche i nostri bambini attendono
fiduciosi il buon Babbo Natale che elargisce doni, ma in Italia
questo avviene il 24 dicembre. |
NATALE NEL MONDO
La festività di Natale non è soltanto la ricorrenza
più importante del calendario liturgico ma è
una celebrazione che viene da molto lontano. Si festeggiava
infatti presso quasi tutti i popoli già prima della
nascita di Gesù. Forse per questi motivi nelle varie
parti del mondo il Natale ha inizio in date diverse e si celebra
in modo differente. Vediamone qualcuno.
In Svizzera le mamme acquistano all’inizio
di dicembre una varietà di calendari che danno la possibilità
di aprire finestrelle e mangiare il cioccolatino che vi è
contenuto, aspettando pazientemente la ricorrenza. Uno scampanellio
annuncia che il Bambino sta arrivando ed entra in tutte le
case a distribuire doni.
In Francia i bambini lasciano le loro scarpe
presso il camino per ritrovarle con i doni elargiti da Babbo
Natale. Nelle piazze delle Cattedrali viene rappresentata
la natività con attori e marionette. Nel sud della
Francia vengono bruciati tronchi d’albero dalla vigilia
fino alla fine dell’anno.
Gli Inglesi amano molto le musiche natalizie,
decorare gli alberi ed appendere rametti sempreverdi, in attesa
di Babbo Natale con la veste rossa che alla vigilia lascia
regali. Generalmente i doni, al contrario di quanto avviene
in Italia, non vengono aperti fino al pomeriggio successivo.
Pare che i festeggiamenti per il Natale in Inghilterra sia
iniziato nel lontano 596, quando Sant’Agostino approdò
nell'isola per evangelizzare i popoli anglo-sassoni.
In Spagna, sia nelle case che nelle chiese,
il presepe viene realizzato utilizzando figure completamente
intagliate a mano. Nella settimana precedente il Natale le
famiglie si riuniscono cantando intorno ai loro presepi, mentre
i bambini suonano tamburelli e ballano. Per la Befana mettono
le loro scarpette sui balconi nella speranza di trovare i
doni.
In Grecia alla vigilia di Natale si suonano
canti natalizi ed i piccoli accompagnano i canti suonando
tamburello e triangolo. Vanno di casa in casa a portare fichi
secchi, mandorle, noci, dolcetti o altri piccoli doni. A Natale
vengono scambiati molti regali e ci si reca con un piccolo
dono a trovare le persone povere, sole e ammalate. La vigilia
è anche occasione per radunarsi festosi e consumare
insieme fichi secchi e un pane preparato con spezie chiamato
“Chrisopsomo”.
Negli Stati Uniti il Natale è celebrato
in molti modi, a seconda delle regioni e delle tante popolazioni
di culture diverse che vi abitano.
Nel Sud, il giorno di Natale si sparano colpi d’arma
da fuoco, mentre a Washington il Presidente accende le luci
di un enorme e spettacolare albero. A Boston, invece, i cantanti
di musiche natalizie, che sono molto famosi, sono accompagnati
da campanelle suonate a mano. In Arizona si inscena una specie
di presepe vivente e peregrinante, nel quale Maria e Giuseppe
fanno il giro delle locande per cercare un alloggio dove far
nascere Gesù, ammirando i presepi delle famiglie visitate.
Alle Hawaii, il Natale comincia con l’arrivo di una
“Barca di Natale”, carica di tanti abeti, dalla
quale sbarca anche Babbo Natale. In California Babbo Natale
“viaggia” su una tavola da surf.
E in Africa, paese dalle mille etnie che
succede?
In Nigeria alberi e presepi sono presenti
solo nelle regioni con più alta concentrazione cristiana
e la tradizione più diffusa è quella del pranzo
con la famiglia allargata.
Nel Ghana chiese addobbate festosamente,
musica, processioni e parate. Una festa che diventa occasione
per incontrare parenti e amici che vivono in villaggi diversi
e lontani. Il pranzo prevede riso, pollo agnello e frutta
di ogni tipo. Le famiglie cristiane preparano l’albero,
ma non é né pino e neanche abete: il mango è
quello più diffuso.
In Kenia le non numerose chiese cristiane
vengono addobbate con fiori coloratissimi, gli stessi che
decorano anche gli alberi di Natale. Il piatto tradizionale
è il “nyama choma” un arrosto di capra.
L’Egitto, paese musulmano con una forte
presenza cristiana, anche se copta, ha un calendario diverso
dal nostro. Natale è festeggiato, infatti, il 7 gennaio,
mentre le celebrazioni iniziano il 25 novembre e per 40 giorni
spariscono dalla tavola carne e latte e il “digiuno”
termina la sera del 6 gennaio. Il piatto tradizionale è
il “fatta”, a base di carne e riso. Da alcuni
anni è comparso l’albero di Natale, ma rigorosamente
artificiale.
In Cina il Natale riflette le particolari
condizioni politiche del gigante asiatico. I cristiani sono
una piccolissima minoranza, ma possono celebrare il Natale,
anche se in modo poco tradizionale, solo in alcune grandi
città dove c’è una più alta concentrazione
di cristiani. Quasi impossibile rintracciare un presepe, anche
se tre anni fa una spedizione archeologica ne rinvenne uno
databile all’800 d.C. Il Babbo Natale locale si chiama
“Dun Che Lao Ren”.
Nella Corea del Sud il Natale religioso
è molto sentito rispetto al vicino Giappone. Dopo la
messa di mezzanotte si celebrano i battesimi dei nuovi fedeli
che hanno deciso di convertirsi al Cristianesimo, successivamente
alcuni gruppi corali intonano una serie di canti tradizionali
nelle strade della città. Il pranzo prevede una torta
salata a base di riso, il “kimki” (verdure grigliate
con spezie) e arrosto di carni. Lo scambio dei regali è
comunque una tradizione diffusissima.
E per concludere ricordo come si dice “Buon Natale”
in alcune lingue europee: Glaedelig (Danese), Joyeux Noel (Francese), Vrolyk Kerstfeast
(Olandese), Boze Narodzenie (Polacco), Feliz
Navidad (Spagnolo), Froelich Weihnacten (Tedesco), Yeliniz Kitu Oslum (Turco).
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TRADIZIONI E LEGGENDE
DEL NATALE A BARI
La Natività di Gesù Cristo è considerata
una delle più solenni ed importanti ricorrenze religiose
dell’umanità. Non è facile risalire
all’epoca in cui è iniziata la celebrazione,
ma certamente non è più antica del Concilio
ecumenico di Nicea (325), anche se all’epoca non era
festeggiata lo stesso giorno in tutto il mondo. Nei paesi
settentrionali d’Europa si usa fare l’albero
di Natale, un abete o un pino, usanza che si è diffusa
anche in Italia dove si era soliti fare il Presepio.
L’uso poi di celebrare tre messe in questa solennità,
una a mezzanotte, l’altra all’aurora e la terza
di giorno, esisteva già prima del VI secolo. Nel
Medioevo per rendere ancora più splendida questa
festa vi si rappresentavano certi misteri tra gli uffizi
divini; il popolo cantava dei natali, cioè piccoli
cantici accompagnati dall’organo e ricordavano i cantici
dei pastori alla nascita del Salvatore. Le rappresentazioni
dei misteri e i natali sono una usanza ormai quasi del tutto
scomparsa.
Qual’era l’atmosfera in questo periodo? Mentre
nelle città vi è un gran via vai di gente,
traffico impazzito, negozi ricolmi di merci, nelle città
vecchie l’atmosfera è forse ancora quella del
buon tempo antico. Infatti, sono pochi coloro che sfuggono
al fascino del messaggio natalizio della bontà, dell’amore,
della fraternità e della pace, insomma ci sentiamo
tutti più buoni e disponibili.
Alcune tradizioni baresi le ricorda Alfredo Giovine nelle
sue pubblicazioni “Bari la zita mè” (Edizioni
Fratelli Laterza, Bari) e “Ricorrenze notevoli del
popolino barese” (Edizione Centro Studi Baresi, Bari).
La prima aria di Natale si avvertiva il giorno di San Nicola
quando la mattina, molto presto, si andava a sentir Messa
nella Basilica di San Nicola (cosa che avviene ancora oggi),
ed in chiesa si suonava la “ninna nanna”. Gli
zampognari, provenienti dall’Abruzzo e dal Molise,
eseguivano per le strade note nenie natalizie creando un
clima di tenerezza che esaltava i valori autentici della
famiglia ed anche per strappare qualche soldino ai passanti.
Con
la festività dell’Immacolata in ogni casa si
preparava il presepe e si recitava la novena. Il giorno
della Vigilia, sul tardi, dopo l’abbondante cena,
si celebrava una specie di funzione religiosa e si faceva
nascere il Bambino, che il più piccolo della famiglia
portava in processione all’interno della casa, cantando
il famoso canto “Tu scendi dalle stelle”, le
cui parole furono scritte da Sant’Alfonso. Non si
faceva a meno degli immancabili “tric e trac”
(piccoli botti natalizi) e delle stelle filanti. Anticamente
si riteneva che poiché la notte di Natale poteva
nascere solo Gesù, ogni altro nato era considerato
uomo lupo (lupo mannaro o licantropo).
Il giorno di Natale gli adulti si recavano ad ascoltare
la Messa mentre i ragazzi si recavano in casa di parenti
per ottenere leccornie, gli amici, invece, si scambiavano
piatti di dolci e assaggi, mentre molti continuavano a finire
i giochi iniziati la vigilia.
Il giorno di Santo Stefano la festa continuava, ma attenuandosi.
La leggenda vuole che Santo Stefano sia nato così:
la sera della vigilia, quando incominciò a spargersi
la voce che Gesù era nato, tutte le donne maritate
potevano recarsi a far visita alla Madonna nella grotta
di Betlemme. C’era una ragazzina che voleva essere
tra le visitatrici, ma per il fatto di essere minorenne
(e non sposata) non poteva entrare. Allora che fare? La
fanciulla prese una pietra, la ravvolse con stracci e se
la pose in braccio come se si trattasse di un lattante in
fasce. Entrò nella grotta e gioì immensamente
nel vedere Gesù bambino. In quel mentre si avvicinarono
a lei due guardiani della Sacra Famiglia per vedere chi
ci fosse sotto gli stracci, la Madonna, che seguiva la scena,
s’accorse del turbamento della ragazzina, e mentre
i guardiani con le mani cercavano di scostare gli stracci
per controllare, si sentì il pianto di un bimbo.
Così la pietra si trasformò in essere umano
e nacque Santo Stefano.
Oggi invece le tradizioni stanno letteralmente cambiando.
C’è uno sfrenato ricorso a internet, infatti,
si può sapere tutto su Babbo Natale attraverso vari
siti disponibili sia italiani che stranieri. Si trovano
cartoline natalizie, barzellette sulle festività,
i piatti preferiti da Babbo Natale e molto altro. Insomma
sono finiti i tempi in cui si preparava il Presepio col
sughero e col muschio raccolto su tetti e terrazze o si
ornava l’albero, rigorosamente di pino o di alloro,
con arance e mandarini.
Oggi tutto è sintetico dall’albero al Presepio,
alle statuine e finanche il gioco della tombola, patrimonio
esclusivo della nonna, ha perduto il suo valore a favore
del più attuale e moderno Bingo o di tutti quegli
altri giochi elettronici che sembrano avere la preferenza
da parte dei giovani.
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COSA SI MANGIA A BARI A NATALE ?
Per Giovanni Panza, autore del libro bilingue
(italiano e dialetto barese), “La checine de nononne”
(Schena Editore), “La cucina barese è una cucina
così buona che può anche rianimare i moribondi”.
Alfredo Giovine, invece, nella sua pubblicazione “Bari
la zita mè” (Edizioni Fratelli Laterza), descrive
con dovizia quello che si mangia nelle festività
natalizie.
Ma qual’è l’atmosfera che si vive in
questi giorni? Nella città vi è un gran via
vai di gente, traffico impazzito, mentre nella città
vecchia l’atmosfera è forse ancora quella del
buon tempo antico, quando nell’aria si sentivano i
buoni profumi “du ccuètte” (vin cotto),
o della “tièdde de castaggnèdde”
(teglia di dolci di mandorle), o di “pecciuatèddre”
(taralli di farina scaldati con anice o senza), od anche
di “ècchie de Sanda Lecì” (tarallini
natalizi ricoperti di glassa) e di altro bene della Provvidenza
che provenivano “da le settàne a la strate”
(locali alla strada) o dai forni di pietra a legna.
La prima aria di Natale si avverte il 6 dicembre giorno
di San Nicola, quando si va ad ascoltare la Messa nella
Basilica, o quando si sentono le note della “ninna
nanna” e delle nenie natalizie che gli zampognari,
prevalentemente abruzzesi, eseguono per le strade.
E, come in tutte le circostanze, la satira popolare, che
così recitava, non trascurava i fornai:: “A
PPàsque e a Natàle / s’arrechèscene
le fernàre; / passàte ca so le fiìste
/ vonne cercànne terrìse mbriìste”
(A Pasqua e a Natale si arricchiscono i fornai; trascorse
le feste vanno chiedendo soldi in prestito).
Quali sono le tradizioni baresi per questa notevole ricorrenza?
Le rammenta Giovanni Panza nel citato volume, che Franco
Sorrentino ha definito: «... Bellissimo volume scritto
con un amore e con una maestria che lo rendono degno di
ogni casa barese».
Leggiamo, infatti, delle “feste terribele”,
cioè le festività più importanti dell’anno,
come Natale, Capodanno e Pasqua, in occasione delle quali
si prepara un lungo corteo di piatti in perfetto ossequio
alle tradizioni culinarie cittadine e che citerò
in parte per motivi di spazio, rimandando il lettore all’opera
originale.
Ma vediamo in dettaglio cosa ci consiglia Panza per il pranzo
di Natale:
Vescigghie: vermeciidde
cu grenghe o capetone, capetone arrestute mbond’o
spiite che le fronze de llore; u ccrute, tomacchie e mignitte,
baccalà sott’acìte; sopataue, nusce,
aminue, necedde, chiacune, frutte de stagione, pecciuateddre,
carteddate, castagnedde, pastriache, ecchie de Sanda Lecì,
resolie de lemone, de mandarine, anesette, streghe, stomàdeche,
ecc.
(Vigilia di Natale: spaghetti con il gronco (pesce di mare
affine all’anguilla) o capitone, o con frutti di mare
(noci, cozze, datteri, muscoli, o seppie, ecc.); capitone
allo spiedo con foglie di alloro; frutta di mare cruda,
comacchio (anguille e capitone fritti conservati in salamoia
a base di aceto); baccalà e pesciolini fritti e sott’aceto;
verdura cruda, cartellate, castagnelle, paste reali, occhi
di Santa Lucia (tarallini natalizi ricoperti di glassa),
torrone, liquore di limone o di mandarino, anisetta, strega,
amaro, ecc.).
Natale: brote de vicce
che la verdure o granerise o alde cose ca se fàscene
cu bbrote; vicce allesse che l’anzalate; scarcioffe
e lambasciune ndorat’e fritte; u ccrute d’avanze,
ecc.
(Natale: brodo di tacchino con verdura, riso o altro; lesso
di tacchino con contorno di insalata verde; carciofi e lampascioni
indorati e fritti; frutta di mare eventualmente avanzata;
verdura cruda, frutta di stagione e tutto il resto come
il giorno della vigilia).
Sande Stèfene:
tembane ’o furne, carne a ragù; agniidde arrestute
e patane fritte; u reste accom’a l’alde dì.
(Santo Stefano: timballo al forno, carne a ragù,
agnello alla brace con contorno di patatine fritte; il resto
come i giorni precedenti).
Per i baresi sono irrinunciabili certi
antipasti di mare come l’aliscette (alicette); l’allìive
(seppioline); le calamarìidde (calamaretti); la meroske
(piccoli pesci); le pulperizze (piccoli polpi arricciati);
le rizze (i ricci) e, dulcis in fundo, u ccrute (il crudo),
rappresentato dalla varietà di frutti di mare (cozze
pelose, noci, ostriche, canestrelle, tartufi di mare, datteri,
ecc.). Tutte prelibatezze marine da consumare rigorosamente
crude, ma sconsigliate, per motivi di igiene, da alcune
ordinanze comunali, mentre un decreto ministeriale ha proibito,
per motivi di tutela ambientale, il prelievo, la vendita
ed il consumo dei datteri di mare.
Che i frutti di mare siano stati sempre sacri per i baresi,
lo conferma anche un’ordinanza dell’Intendente
di Bari del lontano 1819, con la quale autorizzava barbieri
e marinai a svolgere liberamente le rispettive attività
pure nei giorni di festa.
Come baresi ed estimatori di baresità è doveroso
dare atto a Giovanni Panza del suo particolare attaccamento
alla nostra città e ai valori storici e morali ad
essa collegati, nonché alle tradizioni culinarie
miranti a mettere in risalto il nostro dialetto e le nostre
usanze con le sue preziose ricette, tanto utili alla casalinga
barese e tanto salutari per la dieta mediterranea, ampiamente
riconosciuta dai dietologi, il cui regno è la Puglia.
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Le foto che accompagnano l'articolo "Simbologia
di Natale" e "Il Natale nel mondo"
sono dell'Archivio di Cartantica
dello stesso Autore:
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