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NOTIZIE SU VARI SANTI
A CHE SANTO VOTARSI?
Nella religione cristiana, specie cattolica, si definisce santo chi è venerabile e oggetto di culto. L’espressione “non sapere a che santo votarsi” significa non sapere a chi rivolgersi in caso di bisogno o come risolvere una situazione difficile, ed allora si ricorre ai Santi come ultima speranza di guarigione.
Vi sono santi che erano medici, i Santi Medici, o il santo napoletano Giuseppe Moscati, meglio conosciuto come il “medico santo” che curava gratis e dava anche farmaci gratis ai bisognosi. A Napoli quest’ultimo Santo è veneratissimo nella Chiesa del Gesù Nuovo, ove migliaia di quadretti votivi ricordano le suppliche rivolte per guarigioni o altro e sono anche tanti coloro che si recano a venerarlo.
Mi piace ricordare che molti sono i Santi a cui viene riconosciuto il potere taumaturgico, da San Vito (patrono e protettore dei danzatori), a San Biagio (protettore della gola e degli otorinolaringoiatri), ai Santi Medici, detti anàrgiri perché curavano gratis. L’iconografia di questi ultimi ce ne mostra solo due: Cosma e Damiano, mentre in realtà furono cinque con Antimo, Euprepio e Leonzio. Si narra, infatti, che questi ultimi furono oscurati dalla fama dei primi due. Per non parlare del nostro San Nicola, taumaturgo per eccellenza, a cui tutto il mondo fa riferimento. I suoi miracoli, a parte le leggende, non si contano e sono molto noti (il maritaggio, i tre bambini in salamoia, il miracolo del grano, la Santa manna, ecc.).
Il Santo per antonomasia è considerato sant’Antonio da Padova, il santo dei miracoli; San Francesco d’Assisi è invece il santo dei poveri e degli umili, Santa Rita da Cascia, rappresenta la santa degli impossibili, nel senso che si attribuiscono interventi miracolosi nei casi più disperati. Sant’Anna ha il potere di sconfiggere la sterilità, mentre a San Cataldo spetta quello di curare l’ernia inguino-scrotale; San Cono, protettore del naso e dei rinologi è anche il Santo patrono di Naso, ridente cittadina di 4000 anime, situata a 500 mt sopra il livello del mare in provincia di Messina. San Michele Arcangelo oltre che protettore della Polizia di Stato, è protettore di molte altre categorie di lavoratori: farmacisti, doratori, commercianti, fabbricanti di bilance, giudici, radiologi, ecc. Santa Lucia è invocata per la cecità e le malattie degli occhi, San Lorenzo per le ustioni. San Calimero viene implorato per la siccità.
Infine vi sono i Santi invocati per la pandemia del Covid-19. Si tratta di Santa Rita da Cascia che, come detto, risolveva i casi impossibili, San Rocco che cancellava la peste col suo energico incedere e San Sebastiano, con il torace segnato da ferite che simbolicamente ricordavano i bubboni del terribile morbo. Sono loro gli invocati per la pandemia. Sono trascorsi due anni da quando il coronavirus ha costretto il mondo a misurarsi con contagi e quarantene, come una sorta di “peste moderna”. La prima reazione di fronte a una malattia sconosciuta, senza cura né vaccino, è stata quella di trovare conforto nel santi protettori.
E i proverbi che dicono?
Ogni santo ha la sua festa. A ciascuno deve essere tributato onore; a ciascuno deve essere dato il giusto riconoscimento dei meriti e delle competenze.
Ogni santo vuole la sua candela. Non bisogna trascurare nessuno, anche se di poca importanza, se non si vogliono intralci nella vita, causati da sdegno, risentimento di chi si sente offeso o trascurato.
Avere qualche santo in Paradiso. Amicizie tra le persone “che contano” e che agevolano il raggiungimento di posizioni di prestigio.
Non si crede al santo finché non ha fatto il miracolo. Ci si arrende solo all’evidenza dei fatti, non ci si contenta delle parole, non si crede alla capacità o al potere di qualcuno se non a ragion veduta.
Ognuno ha il suo santo in Paradiso. Ognuno ha chi lo protegge, un potente al quale si raccomanda, un forte che lo assiste o almeno crede di averlo.
Non essere uno stinco di santo. Non essere una persona del tutto onesta. |
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BARI E I SANTI PROTETTORI
Per protettore si intende chi protegge o agisce in difesa o in soccorso di qualcuno, aiutandolo, favorendolo e soccorrendolo nelle necessità, nel nostro caso, a Bari, abbiamo San Nicola che è il protettore e il patrono per eccellenza, insieme a San Sabino e alla Madonna Odegitria.
Il patrono è un santo (o una santa) che una regione o una città ha scelto e che onora con speciale culto come San Francesco d’Assisi, Santa Caterina da Siena, che sono anche protettori dell’Italia.
Nella nostra città come sono stati scelti i protettori? Ed ecco il solito storico Vito Antonio Melchiorre (1922-2010), che ricorda gli avvenimenti epocali nel suo libro “Storie di Bari” (Adda Editore), che cita, nella sua nota, le conclusioni decurionali di Bari nei secoli passati, i cui amministratori sceglievano l’uno o l’altro santo, a seconda delle necessità, per porre la città sotto protezione o patronati. 23 giugno 1744 decisero di scegliere la Madonna Addolorata che si festeggiava la terza domenica di settembre. Il 29 maggio 1749, per liberarsi di un particolare male che rendeva cieco chi ne veniva colpito, scelsero San Sabino, che si festeggiava il 9 febbraio. Ma tutto ciò comportava l’offerta di un obolo in favore della Cattedrale che poteva essere in ducati o in cera lavorata.
Il 1° marzo 1751, per l’ansia destata dai fulmini, Bari si affidò a S. Irene, che aveva la capacità di “sviare le scariche temporalesche”, e il 16 maggio successivo fu inclusa fra i patroni di Bari.
Il 7 marzo 1763 per “combattere le miserie dei tempi correnti e le morti repentine”, si affidò ai santi Gaetano da Thiene e Andrea Avellino, mentre il 18 maggio 1781, fu la volta di San Francesco d’Assisi, il 14 maggio 1782 fu scelto San Francesco di Paola e il 13 marzo 1784 si optò per San Vincenzo de’ Paoli, tutti chiamati a far parte della corte dei difensori della nostra città.
Nel 1785, la Regia Camera di S. Chiara, rese noto che il priore di San Nicola era molto dispiaciuto per l’atteggiamento degli arcivescovi, i quali, considerando San Sabino come principale protettore, oscuravano la figura di San Nicola.
Un chiarimento era indispensabile, cosa che poteva fare solo il consiglio decurionale con una votazione segreta e, così il 14 agosto l’operazione ebbe luogo con il risultato di soli 3 voti a favore di San Sabino e 24 a favore di San Nicola.
Ma il problema non era ancora risolto: ci furono 8 anni di dispute e, solo un Decreto della Sacra Congregazione dei Riti del 30 gennaio 1793, dichiarò entrambi i santi “patroni aeque principales” (ugualmente principali), con il chiaro intendimento di non scontentare nessuno. |
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QUEST'ANNO SAN VALENTINO E SAN FAUSTINO SI FESTEGGIANO IN TONO MINORE
Diversi sono i Santi del martirologio che ricordano San Valentino, ma quello più conosciuto è il Vescovo di Terni, martirizzato a Roma nel 273, molto venerato nella città umbra e considerato, com’è noto, patrono degli innamorati, la cui ricorrenza è ricordata il 14 febbraio.
San Valentino è ritenuto protettore dei fidanzati perché durante la sua vita amava soprattutto i giovani, al punto che riscattava gli schiavi adolescenti, aiutandoli a divenire buoni cristiani, mentre ai fidanzati poveri procurava la dote per il matrimonio.
La fama di San Valentino, Santo dell’amore, protagonista di storie lontane che sfumano nella leggenda, ha superato oceani, ha scavalcato montagne, ha attraversato continenti ed è considerato il Santo dell’amore anche in Giappone, Stati Uniti, America Latina, Asia e Oceania. Le sue spoglie riposano nella città di Terni, ove fu primo vescovo, ma i suoi miracoli lo resero famoso ben oltre i confini dell’Impero.
Ma chi era San Valentino? Correva l’anno 175 d.C. quando nacque a Terni Valentino, oggi patrono della Città, che dedicò la sua vita alla comunità cristiana che si era formata nei pressi di Roma, ove infuriava la persecuzione dei cristiani. L’eco degli eclatanti miracoli compiuti dal Santo, arrivò fino a Roma, diffondendosi in tutto l’impero, per cui fu consacrato primo vescovo di Terni ove, ancora oggi, si conservano le spoglie mortali. Il suo nome è legato all’amore per un episodio che a quel tempo sollevò molto clamore. Infatti la leggenda riferisce che Valentino fu il primo religioso a celebrare l’unione tra una giovane cristiana, Serapia, e il legionario pagano Sabino.
Molti furono in seguito a desiderare la sua benedizione, ancora oggi ricordata durante la festa della promessa nella Basilica che porta il suo nome. Durante la sua visita pastorale fu amatissimo dalle popolazioni umbre, quando l’imperatore Aureliano ordinò atroci persecuzioni contro il clero cristiano. San Valentino fu imprigionato e flagellato, lontano dalla città per evitare tumulti e rappresaglie dei fedeli e fu quindi martirizzato. Era il 14 febbraio del 273 d.C.: una data che da quel momento viene ricordata in tutto il mondo per celebrare San Valentino, un Santo ricco di umana simpatia e di fede quasi contagiosa.
In Puglia San Valentino è patrono di Vico del Gargano e gli abitanti vivono intensamente il culto del Santo dal 1618, quando entrarono in paese le sue reliquie, tuttora conservate presso la Chiesa Madre. Il Santo viene invocato affinché i venti gelidi di tramontana e le gelate improvvise non mettono in pericolo il raccolto degli agrumi. A Vico del Gargano c’è il “Vicolo del bacio”, la versione più biblica delle famose tenzoni amorose tra Giulietta e Romeo. Si tratta del Vicolo che collega Via S. Giuseppe al Rione Terra, lungo una trentina di metri e non più largo di 50 centimetri. La leggenda vuole che questo Vicolo fosse una sorte di luogo benedetto per coppie di innamorati, uomini in cerca d’amore e donne in attesa di compagnia. I fidanzatini si davano appuntamento nel vicolo, lo attraversavano più volte, da direzioni opposte per potersi toccare ad ogni passaggio. È facile immaginare di quanti “scontri amorosi” sia stato testimone, nel tempo, il Vicolo del Bacio. I vichesi vivono intensamente il culto del Santo dal 1618, data in cui entrarono in paese le reliquie, conservate presso la Chiesa Madre. San Valentino viene invocato affinché le gelate e il vento di tramontana non danneggi il raccolto degli agrumi. Durante i festeggiamenti, le Chiese e le strade sono ricolme di arance e limoni intrecciati con foglie di alloro benedette. Le arance, dopo la festa, vengono spremute e bevute con la consapevolezza che il frutto si trasformerà in uno speciale filtro d’amore.
Dopo San Valentino, festa degli innamorati, in virtù della “par condicio” è stata istituita anche la festa di San Faustino, protettore di Brescia e dei single, che si festeggia, guarda caso il 15 febbraio, come per una ideale continuità. E, dal momento che essere single oggi è diventata quasi una norma, e non mi riferisco solo ai pensionati abbandonati al loro destino, ma a persone anche professionalmente impegnate, che per scelta di vita o per difficoltà ad incontrare una gradevole compagnia, restano soli.
Negli Stati Uniti e in Canada San Valentino si festeggia attraverso lo scambio di bigliettini, chiamati “valentini”, che contengono messaggi d’amore. In Gran Bretagna i ragazzi cantano canzoni tradizionali e si scambiano denaro e dolcetti. In alcuni paesi dell’entroterra siciliana le giovani ragazze si alzano presto nel giorno di San Valentino e si mettono alla finestra per scegliere come promesso sposo il primo uomo che passa, ma per evitare sorprese le ragazze tengono gli occhi chiusi fino a quando non sentono una voce gradita!
Raymond Peynet, il pittore degli innamorati, ha saputo con la sua arte rapire e raccontare la magia dell’amore, evitando di tracciare i contorni della passione, dell’attrazione tra due amanti, per concentrarsi su tutto quello che c’è prima e dopo e che non si può descrivere con una parola o con un concetto. Un colpo di fulmine che avviene in ogni momento, senza tempo né luogo. I suoi Valentino e Valentina nascono e vivono un momento, fugace, nobile, affettuoso, gioioso e tenero: quello dell’innamoramento. Sono gli innamorati per eccellenza, i romantici interpreti di un sentimento che nasce dal cuore: puri, leggeri, soavi, evanescenti nel loro appartenere l’uno all’altra ed entrambi ad un fantastico contorno, ad un mondo onirico in cui l’amore è il motore che, senza sosta, muove tutto.
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OGGI SI CELEBRA SANT'ANTONO ABATE CHE DA' INIZIO AL CARNEVALEi
Il 17 gennaio, data fissa di inizio del Carnevale, si festeggia Sant’Antonio Abate, per i baresi ‘Sand’Andè’, che a soli vent’anni, abbandonò ogni cosa per seguire il consiglio di Gesù: «Se vuoi essere perfetto, va’ vendi ciò che hai…», rifugiandosi in una zona deserta dell’Egitto tra antiche tombe abbandonate e successivamente sulle rive del Mar Rosso, dove visse per ottant’anni da eremita.
Antonio abate, uno dei più illustri eremiti della storia della Chiesa, nacque intorno al 250 a Coma, oggi Qumans, Egitto, e a vent'anni, come detto, abbandonò ogni cosa per vivere una vita anacoretica. La sua vicenda è raccontata da un discepolo, Sant'Atanasio, che contribuì a farne conoscere l’esempio in tutta la Chiesa e combatté duramente l’eresia di Ario. Suo grande sostenitore fu Sant’Antonio Abate, di cui scrisse la biografia.
L’iconografia rappresenta il Santo con il bastone tipico degli eremiti, un maiale ai piedi, a simboleggiare il demonio, un campanello e la fiamma. E, proprio a causa del simbolo del maiale, Sant’Antonio divenne in breve il protettore degli animali domestici, mentre la fiamma ricorda la sua capacità di guaritore dell’ergotismo (intossicazione da alcaloidi della segala cornuta).
L’esperienza del “deserto” in senso reale o figurato, è ormai un metodo di vita ascetica, fatto di austerità, di sacrificio e di estrema solitudine: Sant’Antonio ne fu l’esempio più insigne e stimolante. Infatti, pur senza alcuna regola monastica, esercitò un grande influsso dapprima tra i suoi conterranei e poi in tutta la Chiesa.
A lui è associato il bastone a forma di T, tau, 19ª lettera dell’alfabeto greco, e un maiale. Cosa c’entra il maiale che per i cristiani era simbolo del male? Secondo gli studiosi all’inizio si trattava di un cinghiale, attributo del dio celtico Lug, dio del gioco e della divinazione, venerato in Gallia a cui erano consacrati cinghiali e maiali. Gli stessi sacerdoti venivano chiamati “Grandi Cinghiali Bianchi”, mentre il dio Lug regnava anche sugli inferi. L’emblema del cinghiale appariva anche sugli stendardi e sugli elmi dei celti. In realtà il maiale rappresenta simbolicamente il maligno e le seduzioni che i piaceri della carne provocano.
Vito Lozito (1943-2004), nel suo volume “Agiografia, Magia, Superstizione” (Levante Editori), fa una esauriente descrizione del protettore degli animali, morto ultracentenario nel 356. Nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggio nel tempo, da Alessandria a Costantinopoli, fino in Francia nell’XI secolo a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore. In questo luogo per venerarne le reliquie, affluivano folle di malati, soprattutto di ergotismo canceroso, causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segala, usata all’epoca per fare il pane. In epoche successive si adoperò il grasso di maiale che, posto sull’immaginetta del Santo, veniva portato dai monaci all’ammalato e usato per guarire le ferite del “fuoco sacro”. In questo modo era completa la figura di Sant’Antonio Abate, padrone del fuoco, vittorioso sulle tentazioni del demonio, del male e protettore del maiale.
La storia di Sant’Antonio Abate è stata oggetto anche di una tesi di laurea in “Storia delle tradizioni popolari” di Elisabetta Battista (relatrice prof.ssa Anna Maria Tripputi), nella quale la laureanda fa un’ampia disamina della storia di Sant’Antonio Abate nella tradizione popolare barese tra agiografia, iconografia, culto, tradizioni, ecc., completata da interviste e corredo fotografico. Battista nella sua tesi narra anche della Chiesa sul “Fortino” di Bari, le cui prime notizie risalgono al 1226, abate Pietro Gambinazo, ove fino a qualche anno fa il Rettore della Basilica di San Nicola, officiava la benedizione degli animali.
Oggi la cerimonia si svolge nel piazzale della Chiesa di Sant’Anna, sempre nella centro storico barese.
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CURIOSITA' SU SAN SILVESTRO TRA STORIA E LEGGENDE
San Silvestro
Il 31 dicembre, com’è noto, segna la fine dell’anno corrente e l’inizio del nuovo e si festeggia San Silvestro, primo Papa eletto nell’anno 314 in una Chiesa non più minacciata dalle persecuzioni dei primi secoli. Nel 325 indice il primo Concilio ecumenico a Nicea, dove viene approvato il “Credo”. Un anno dopo la morte a Papa Silvestro era già dedicata una festa, il 31 dicembre, mentre in Oriente viene ricordato il 2 gennaio. Silvestro, 33° Vescovo di Roma, fu eletto il 31 gennaio 314 e morì il 31 dicembre del 335.
Tra le leggende si narra un episodio che portò alla conversione della madre di Costantino e degli ebrei che assistettero. Durante una discussione tra Silvestro e alcuni rabbini, il Papa riportò in vita, davanti ai presenti increduli, un toro dicendo che “Dio non uccide ma resuscita”. Il 31 dicembre è detto di “San Silvestro” perché morì in questa data e ricevette gli onori della Chiesa senza aver subito alcun martirio.
Nel 1691 Papa Innocenzo XII stabilì che venisse sancita come data d’inizio d’anno il Primo Gennaio. Da allora il calendario gregoriano viene usato universalmente. Per convenzione, dunque, ogni anno ha inizio il 1° Gennaio. Prima dell’intervento di Papa Innocenzo XII, soprattutto nell’Impero Romano, ogni località attribuiva l’inizio dell’anno ad una data diversa.
Ancora oggi in molte culture il capodanno non si festeggia il 1° Gennaio. In Cina il capodanno viene festeggiato il 21 Dicembre, giorno della seconda luna piena dopo il solstizio d’inverno. I festeggiamenti cinesi sono molto affascinanti, pensiamo ai draghi volanti simbolo di una cultura molto diversa da quella occidentale!
Anche nella cultura islamica ed in quella tibetana, così come in molte altre, il capodanno viene festeggiato in un altro periodo dell’anno. Tuttavia, convenzionalmente, in tutto il mondo si fa riferimento alla data del 1° Gennaio per indicare l’inizio di un nuovo anno!
Perché si mangiano lenticchie a fine anno? Mangiare lenticchie la notte di San Silvestro è un rito propiziatorio per augurarsi la prosperità economica. È noto che una volta cucinate le lenticchie aumentano di volume e per tale motivo, per similitudine, porterebbero fortuna a chi le mangia. L’uso dei petardi, invece, serviva per spaventare gli spiriti maligni durante la notte di San Silvestro.
Da dove deriva l’usanza di indossare un capo rosso a fine anno? Esaminiamo due ipotesi. La prima ci riporta ai tempi dell’Impero Romano che prevedeva l’uso di un capo rosso per il Capodanno, come buon auspicio ed anche per favorire la fertilità sia delle donne che degli uomini.
La seconda ipotesi è riferita alla leggenda del mostro “Nian” che in Cina mangiava le persone. Questi viveva in fondo all’Oceano tutto l’anno, tranne l’ultimo giorno del calendario lunare che rappresenta l’inizio della “Nuova Primavera”. Nian, in quel giorno, esce dall’Oceano e va sulla terra e divora ogni cosa che trova. In quella notte le persone hanno il terrore di lui e fuggono verso la montagna. Ma tutti gli anni puntualmente ritorna e nessuno riesce a catturarlo. Una sera un viaggiatore arrivato in un villaggio cercando del cibo e un posto per dormire, notò che tutti gli abitanti del villaggio erano impegnati per preparare la loro fuga verso la montagna, tranne un’anziana signora che lo ospitò e lo rifocillò. Il viaggiatore, commosso dalla sua gentilezza, svela all’anziana il segreto per sconfiggere il mostro Nian.
Quella sera Nian arriva al villaggio e trova tutte le case buie, ma la dimora dell’anziana è illuminata. Il mostro Nian è molto affamato e leccandosi la bocca, si avvicina alla casa. Improvvisamente, un grande fragore di petardi lo impaurisce. Vedendo la casa con affisse alla porta delle insegne dipinte di rosso il mostro, impaurito, scappa via ritornando nel suo Oceano. Al ritorno nelle loro case gli abitanti chiedono all’anziana, come abbia fatto a sconfiggere il mostro Nian.
L'anziana raccontò a tutti che il fragore dei petardi è il colore rosso sulla porta hanno fatto scappare il temuto mostro Nian. Così nel nuovo anno, tutte le persone del villaggio restano sveglie tutta la notte, si vestono in rosso, scoppiando petardi, appendendo lanterne rosse in tutto villaggio, sulle porte e sulle finestre affiggono la carta rossa e danzano al suono di tamburi e piatti. Da quel momento in poi, il mostro Nian non è più tornato.
La notte tra il 31 Dicembre e il 1° Gennaio è molto sentita in quasi tutte le culture, ogni paese ha proprie tradizioni e modi di vivere la festa. Usanza molto diffusa è quella di preparare grandi cenoni e sparare fuochi d’artific
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SAN GIOVANNI CRISOSTOMO, VESCOVO E DOTTORE DELLA CHIESA
Giovanni, dall’ebraico Jôhânân, significa “dono del Signore”. Anticamente veniva imposto a un figlio lungamente atteso e nato quando ormai i genitori avevano perso la speranza di essere rallegrati dalla nascita di un bimbo.
Giovanni d’Antiochia detto Crisostomo è nato tra il 344 e il 354. Crisostomo significa «Bocca d’Oro» e rappresenta il soprannome attribuitogli dai bizantini, per il fascino della sua arte oratoria. Nacque da una famiglia cristiana appartenente alla borghesia di Antiochia. Perse il padre, ufficiale dell’esercito siriano, in tenera età. Fu allievo del celebre oratore e maestro Libanio che ebbe a dire di questo suo discepolo: «Sarebbe stato uno dei miei migliori allievi se la Chiesa non me lo avesse rubato». Secondo quanto Giovanni racconta di sé nei suoi scritti, in giovane età fu molto irrequieto e secondo la sua stessa definizione «incatenato alle passioni del mondo», egli fu gastronomo, amante dell'eloquenza giudiziaria e del teatro.
Negli anni giovanili condusse vita monastica nella propria casa, poi, morta la madre si recò nel deserto e vi rimase per sei anni, gli ultimi due li trascorse in solitaria meditazione dentro una caverna a scapito della salute fisica. Ordinato sacerdote dal Vescovo Fabiano, collaborò attivamente al governo della chiesa di Antiochia, specializzandosi nella predicazione. Nel 398 fu chiamato a succedere al patriarca Nettario nella prestigiosa sede di Costantinopoli. In quella sede esplicò una notevole attività pastorale tanto da suscitare ammirazione e perplessità. Infatti, creò ospedali, evangelizzò nelle campagne, fece sermoni di fuoco fustigando vizi e tiepidezze e severi richiami ai monaci indolenti e agli ecclesiastici troppo sensibili alla ricchezza. Predicatore insuperabile, fu deposto illegalmente da un gruppo di vescovi capeggiati da quello di Alessandria, Teofilo, ed esiliato con la complicità dell’Imperatrice Eudossia, ma venne richiamato quasi subito dall’imperatore Arcadio. Ma a nulla valse poiché solo qualche mese dopo Giovanni era di nuovo esiliato sulle rive del Mar Nero.
Durante quest’ultimo trasferimento Giovanni morì. Era il 14 settembre 407 e il figlio dell’Imperatore, Arcadio, fece trasferire trent’anni dopo le sue spoglie in Costantinopoli, dove giunsero il 27 gennaio 438, tra una folla osannante e collocati nella Cattedrale di Santa Sofia. La vasta produzione letteraria di Crisostomo è caratterizzata dalla grande comprensione delle vicende umane, da stile armonioso e finezza linguistica, caratteristiche che hanno fatto di lui il più grande oratore cristiano dell’antichità. Il cristianesimo bizantino ne ha onorato la memoria come teologo e come modello della vocazione monastica, dedicandogli la liturgia più diffusa nella chiesa orientale, detta appunto “la liturgia di san Giovanni Crisostomo”.
Giovanni era solito inveire contro le pratiche superstiziose dei suoi fedeli, soprattutto le donne, invitandoli a non utilizzare talismani e scongiuri per superare malattie, a non credere nel malocchio, ma a servirsi dei medici, ad avere fiducia nella potenza del segno della croce.
Il Martirologio romano, come pure i sinassari orientali, hanno iscritto la festa di Giovanni al 27 gennaio, anniversario del ritorno del corpo a Costantinopoli. Nello stesso giorno la festa è celebrata presso i siri. La Chiesa bizantina lo festeggia anche il 30 gennaio, insieme a San Basilio e a San Gregorio di Nazianzo, e il 13 novembre, giorno del suo ritorno dall’esilio.
In Oriente si incontrano molti monasteri a lui dedicati. Dottore della Chiesa, Giovanni circonda con i Santi Atanasio, Ambrogio e
La Chiesa lo ricorda il 13 Settembre, vigilia della sua morte, poiché il giorno successivo viene celebrata l’Esaltazione della Croce.
Protettore degli esiliati e dei predicatori è invocato contro l’epilessia.
A Bari, nel centro storico, è presente una Chiesa di rito bizantino dedicata a San Giovanni Crisostomo, dedicata in precedenza a San Giovanni Battista.
Nonostante le incertezze delle fonti documentarie medioevali, si può ritenere che questa Chiesa è stata costruita nell’XI secolo.
Nel 1957 Mons. Enrico Nicodemo la destinò alla liturgia di rito Bizantino costituendola Parrocchia con giurisdizione su tutti i fedeli orientali della Diocesi barese. Bari, città protesa verso l’Oriente, è stata sempre scalo di Orientali per motivi di commercio, di studio e di altre attività sociali ed interreligiose.
La Parrocchia di San Giovanni Crisostomo di Bari, è retta dal Pàpas Monsignor Antonio Magnocavallo, che sin dall’inizio ha contribuito a rinforzare questo legame tra l’Oriente e l’Occidente.
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SAN FRANCESCO DI ASSISI, PATRONO D'ITALIA, E' PASSATO ANCHE DA BARI
Oggi si festeggia San Francesco d’Assisi (1182-1226), al secolo Giovanni Bernardone, proclamato da Pio XII, il 18 giugno 1939, insieme a Santa Caterina da Siena (1347-1380), patroni d’Italia. In quell’occasione il Santo Padre lo definì “Il più italiano dei santi e il più santo degli italiani”.
Francesco, figlio di un mercante, da giovane aspirava a entrare nella cerchia della piccola nobiltà cittadina. Per questo ricercò la gloria tramite le imprese militari, finché comprese di dover servire solo il Signore. Si diede quindi a una vita di penitenza e solitudine in totale povertà, dopo aver abbandonato la famiglia e i beni terreni.
Nel 1209, in seguito a un’ulteriore ispirazione, iniziò a predicare il Vangelo nelle città, mentre si univano a lui i primi discepoli. Con loro si recò a Roma per avere dal papa Innocenzo III l'approvazione della sua scelta di vita. Dal 1210 al 1224 peregrinò per le strade e le piazze d’Italia: dovunque accorrevano a lui folle numerose e schiere di discepoli che egli chiamava “frati”, cioè “fratelli”.
Accolse poi la giovane Chiara che diede inizio al Secondo Ordine francescano, e fondò un Terzo Ordine per quanti desideravano vivere da penitenti, con regole adatte per i laici. Morì la sera del 3 ottobre del 1226 presso la chiesa di Santa Maria degli Angeli ad Assisi. È stato canonizzato da papa Gregorio IX il 16 luglio 1228.
Assisi rappresenta il luogo più noto dedicato al ‘Poverello’, ma vi sono molti altri luoghi non meno importanti nei quali Francesco ha vissuto la sua intensa vita spirituale. È nota la Valle Reatina, ritenuta dagli studiosi la terza patria di San Francesco, dopo quella di Assisi e della Verna. Infatti, si trovano luoghi assai cari al Serafico Padre: Fonte Colombo, Greccio, San Fabiano, Poggio Bustone e nella provincia di Terni, lo Speco di Narni.
Lo Speco di Narni, eremo fondato con ogni probabilità dallo stesso San Francesco nel 1213, è il Santuario dove il poverello dimorò per qualche tempo. Qui avvenne il miracolo dell’acqua cambiata in vino, mentre il Santo soffriva di una gravissima infermità. Le origini del romitorio risalgono all’anno mille, dipendeva dai monaci Benedettini e comprendeva le varie grotte sotto la scogliera e l’oratorio di San Silvestro con l’attigua cisterna.
Un altro importante luogo per San Francesco fu Greccio, primo eremo francescano detto “Betlemme Francescana”. Un villaggio della Sabina a 705 metri sul livello del mare, ove è presente il celebre Santuario Francescano in mezzo ad una folta selva di lecci. La leggenda ricorda che Francesco, che già nel 1217 abitava sulla cima del Monte Lacerone che sovrasta Greccio, scese più volte ad evangelizzare gli abitanti del castello. È in questo luogo che San Francesco realizza, con l’aiuto della popolazione, il primo presepe vivente con l’intento di ricreare la mistica atmosfera del Natale di Betlemme, per vedere con i propri occhi dove nacque Gesù, il Re povero.
Molti episodi della vita di San Francesco sono ispirati ai “Fioretti”, opera di un anonimo trecentesco, e nella prima e seconda “Vita”, scritte dal discepolo Tommaso da Celano. Il ciclo pittorico più celebre resta, ovviamente, quello di Giotto presente nella Basilica Superiore di Assisi, realizzato tra il 1292 e il 1296.
Umiltà, castità e povertà sono state le prerogative della sua vita. Infatti da una tra le più agiate della città e da una vita spensierata e mondana si convertì al Vangelo, vivendo in indigenza e letizia.
Celebre il su “Cantico delle Creature”, noto anche come “Cantico di Frate Sole”, uno dei più antichi testi poetici di tutta la letteratura italiana. Il componimento poetico di San Francesco è una preghiera che il Santo rivolge a Dio, lodando le sue opere.
Curiosità - Saverio La Sorsa (1877-1970), uno dei maggiori scrittori baresi in fatto di tradizioni e leggende popolari, ricorda nella sua Antologia “Folklore Pugliese” (Paolo Malagrinò Editore), una leggenda che narra che San Francesco sia passato da Bari. Giunto sulla spiaggia di San Cataldo, s’imbatté in alcuni disperati pescatori che cercavano acqua e non trovandola bestemmiavano e imprecavano. Il Santo d’Assisi impietositosi, con un colpo di bastone fece zampillare acqua copiosa e fresca dissetando così i pescatori. Questo il motivo, secondo il racconto, che quel luogo, oggi spiaggia dei baresi, fu chiamato «San Francesco alla Rena».
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SANT'IVO E LA PREGHIERA DEGLI AVVOCATI ANCHE IN DIALETTO BARESE
Il 19 maggio di ogni anno, la Chiesa ricorda Sant’Ivo (Yves Hélory de Kermartin, 1253-1303), proclamato santo da Papa Clemente VI nel 1347, patrono degli avvocati, dei magistrati, degli uomini di legge e della Bretagna (regione nel nord-ovest della Francia).
Per chi crede che la Fede (quella con la F maiuscola) abbia un ruolo in tutte le cose della vita, e quindi anche nel proprio lavoro, ho cercato in rete una preghiera per l´avvocato. In verità non c´è una preghiera ufficialmente riconosciuta, ma ve ne sono molte, alcune anche con una esplicita approvazione ecclesiale, come quella dell’avvocato Mario Salciarini (1934-1974) del Foro di Perugia, regolarmente approvata dall’arcivescovo di Perugia, Giuseppe Chiaretti, il 13 giugno 1999.
Anche papa Francesco nella sua meditazione mattutina nella cappella di Santa Marta del 3 giugno 2014, trattò l’argomento ricordando che San Paolo, «nel capitolo ottavo della Lettera ai Romani ci dice che è una preghiera di intercessione». Così «oggi, mentre noi preghiamo qui, Gesù prega per noi, prega per la sua Chiesa». E «l’apostolo Giovanni» ci rassicura che, quando pecchiamo, comunque sappiamo di «avere un avvocato davanti al Padre: uno che prega per noi, ci difende davanti al Padre, ci giustifica».
Anche Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787), vescovo e compositore italiano, fondatore della Congregazione del Santissimo Redentore, autore di opere letterarie, teologiche e musicali, tra cui il famoso brano “Tu scendi dalle stelle”, all’apice della sua carriera di avvocato (20 anni), non aveva mai perso una causa a Napoli. Era l’inizio del XVIII secolo. Si dedicava al diritto in modo disinteressato e vinceva tutte le cause perché difendeva solo quelle che riteneva giuste.
Preoccupato dalla malizia e dalla menzogna con cui agivano i suoi colleghi, prima di desistere dalla carriera ed essere ordinato sacerdote scrisse una lista di condotte etiche che possono essere applicate anche oggi, tra cui: non è mai lecito accettare cause ingiuste, perché sono perniciose per la coscienza e il decoro; non si deve difendere una causa con mezzi illeciti; non si deve caricare il cliente con troppe spese, con l’obbligo di restituire ciò che non è necessario; le cause dei clienti devono essere trattate con la dedizione con cui si trattano le proprie; l’avvocato deve implorare da Dio il suo ausilio nella difesa, perché Dio è il primo protettore della giustizia; un avvocato che perde una causa per negligenza è obbligato a riparare i danni e, infine, i requisiti di un avvocato sono scienza, diligenza, verità, fedeltà e giustizia.
Curiosità - Si narra di una originale controversia tra un oste e un mendicante. Quest’ultimo era accusato dal primo di aver annusato gli odori della sua cucina senza pagare. La lite fu risolta da Sant’Ivo, il quale prese una moneta dalla sua borsa e la gettò sul tavolo dell’oste facendola tintinnare. Questi fece per prenderla ma fu fermato dal santo che gli disse: “Il suono ripaghi l’odore. A quest’uomo l’odore della tua cucina e a te il suono di questa moneta”.
Per l’occasione riporto la preghiera dell’avvocato di Mario Salciarini con la traduzione in dialetto barese.
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PERCHE' DOPO 3 SECOLI DI BEATIFICAZIONE E 5 DI CULTO, IL BEATO GIACOMO NON E' STATO ELEVATO AGLI ONORI DEGLI ALTARI?
Sono trascorsi più di tre secoli dalla beatificazione di Giacomo Varingez, meglio noto come Beato Giacomo, e dopo 5 secoli di culto e devozione ininterrotti non viene eletto ancora agli onori degli Altari?
Nato a Zara nei primi anni del ‘400, i suoi genitori lo educarono ai princìpi cristiani e venne battezzato con lo stesso nome che ha conservato anche da frate e vestì il saio francescano proprio a Bitetto intorno al 1437.
L’obbedienza gli affidò ripetutamente il compito di sacrista, di cuciniere, di ortolano e di questuante a favore dei suoi confratelli, svolgendo il suo lavoro con cuore lieto e generoso, senza estinguere lo spirito di devozione e della santa orazione.
Dopo il 1469, il Beato, fu certamente a Cassano delle Murge, ospite del Convento di Santa Maria degli Angeli, la cui devozione popolare ha tramandato alcuni episodi, tra questi la presenza di un cipresso, ancora visibile nel Convento.
Nel 1480 Giacomo tornò a Bitetto dove imperversava la peste. Alla popolazione non fece mancare il suo conforto materiale e spirituale, prodigandosi nella preghiera, nella cura e nell’assistenza degli appestati. La memoria di tale tragica circostanza e della presenza del Beato tra gli appestati è rimasta indelebile nel vissuto storico della cittadina. Nel 1656, imperversò nuovamente la peste nel Regno di Napoli ma questa volta Bitetto rimase immune da essa, il popolo attribuì il merito dello scampato pericolo al Beato Giacomo, “che quasi visibilmente parve tenere distesa la mano in aria per trattenere l’ira di Dio” e, per tale motivo, lo elesse a suo compatrono.
Muore a Bitetto nel 1496.
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Numerose grazie e miracoli sono state raccolte nel tempo dai suoi biografi, sin dal tempo in cui era in vita, che giustificano l’acclamazione spontanea del popolo che lo trasse fuori dal sepolcreto collocandolo sull’altare, ciò avvenne vent’anni dopo la sua morte quando in occasione della sepoltura di un altro frate il suo corpo fu rinvenuto incorrotto e ancora flessibile. Il processo canonico fu avviato solo nel 1629, poi sospeso e ripreso nel 1694 durante il vescovado di Mons. Odierna a conclusione dell’iter processuale, riconosciuti i carismi di Giacomo Varingez e la secolare devozione di Bitetto e dei paesi vicini, il 29 dicembre del 1700, Clemente XI lo dichiarò Beato.
Dopo più di tre secoli dalla beatificazione e dopo 5 secoli di culto e devozione ininterrotti, nel 1986 l’evento storico della ricognizione medico-canonica alla presenza di una qualificata equipe di medici e docenti universitari, fu l’occasione per riaprire il processo di canonizzazione.
Il 27 giugno 1989, presso la Curia Ecclesiastica di Bari-Bitonto, si aprì l’inchiesta diocesana “super continuatione famae sanctitatis necnon super virtutibus” (continuazione delle virtù e della reputazione della santità). Il 30 novembre 1999 si tenne la “Seduta dei Consultori Storici”.
I padri Cardinali e Vescovi, nella Congregazione Ordinaria del 27 ottobre 2009, hanno riconosciuto che il Beato Giacomo Illirico da Bitetto, ha esercitato le virtù teologali, cardinali ed annesse in modo eroico. (‘Illirico’ da Illiria, l’antica provincia romana che includeva la sua terra d’origine).
È trascorso un altro decennio e la Chiesa non ha ancora riconosciuto la santità di fra Giacomo per proporlo alla venerazione universale. Perché?
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OGGI SAN VITO, UNO DEI SANTI AUSILIATORI
Oggi la Chiesa venera San Vito (III secolo-303), forse nato in Sicilia, ma morto sicuramente in Lucania, come risulta dal Martirologio Geronimiano, popolarissimo nel medioevo fu inserito nel gruppo dei 14 Santi Ausiliatori (insieme ad Acacio, Barbara, Biagio, Caterina d’Alessandria, Ciriaco, Cristoforo, Dionigi, Egidio, Erasmo, Eustachio, Giorgio, Margherita, Pantaleone), la cui intercessione era considerata molto efficace ed i fedeli si rivolgevano per particolari necessità, solitamente per guarire da particolari malattie. Una malattia che fa capo al nome di Vito è il cosiddetto “Ballo di San Vito”, oggi chiamato “Corea”, caratterizzato da contrazioni muscolari, complicate da movimenti involontari, che colpisce di preferenza i ragazzi tra 5 e 15 anni e il sesso femminile più del maschile. Ha stretti rapporti col reumatismo articolare.
A sette anni, iniziò a fare prodigi ed era molto noto nella zona di Mazara del Vallo. Il padre, non riuscendo a farlo abiurare, lo denunziò al preside Valeriano, che ordinò di arrestarlo. Un padre pagano, che facesse arrestare un figlio (o figlia) cristiano, pur sapendo delle torture e forse morte a cui sarebbe andato incontro, è figura molto comune nei Martirologi dell’età delle persecuzioni.
La leggenda dice che nel 294 fu incarcerato e torturato per volere del governatore Valeriano, liberato poi miracolosamente da un angelo. Ritornato a Roma per disposizione dell’Imperatore Diocleziano, lo volle presso di sé per guarire il figlio indemoniato. Vito, considerato un vero e proprio taumaturgo, testimoniando la sua fede con la parola e con i prodigi, fu condotto a Roma dall’imperatore, il cui figlio coetaneo di Vito era ammalato di epilessia, malattia che all’epoca era molto impressionante, considerando l’ammalato un indemoniato.
Purtroppo bisogna dire che il martirio in Lucania è l’unica notizia attendibile su san Vito, mentre per tutto il resto si finisce nella leggenda. Il suo culto si diffuse in tutta la Cristianità, colpiva soprattutto la giovane età del martire e le sue doti taumaturgiche.
Protegge i muti, i sordi e singolarmente anche i ballerini, per la somiglianza nella gestualità agli epilettici. È patrono dei calderai, ramai e bottai.
Bisogna dire che delle reliquie di san Vito è piena l’Europa; circa 150 cittadine vantano di possedere sue reliquie o frammenti, compreso Mazara del Vallo, che conserva un braccio, un osso della gamba e altri più piccoli.
Nella città ritenuta suo luogo di nascita, san Vito è festeggiato ogni anno con una solenne e tipica processione, che si svolge fra la terza e la quarta domenica d’agosto. Il “fistinu” in onore del santo patrono ricorda la traslazione delle suddette reliquie, avvenuta nel 1742 ad opera del vescovo Giuseppe Stella.
Il santuario in cui è venerato è nel Comune di Eboli in Campania, denominato S. Vito al Sele, mentre nella vicina città di Capaccio, nella chiesa di S. Pietro, è custodita una reliquia del santo.
È invocato contro l’epilessia, la rabbia, l’insonnia, i morsi dei rettili, e ovviamente il “ballo di San Vito”.
Ed ora vediamo il significato del nome Vito. Possiede spirito di avventura, coraggio e senso dell’opportunità. È animato da una costante e positiva tensione verso l’altro, ma è anche disposto ad accantonare i propri ideali per trarre vantaggio dalle condizioni del momento. Solitamente allegro, gioviale, amante delle liete riunioni, Vito sente il fascino dell’ignoto e dell’imprevisto.
Dalle nostre parti San Vito è Patrono di Polignano a Mare (BA), San Vito dei Normanni (BR), di Castrì, Lequile, Taurisano, Tricase (LE), Celle San Vito (FG).
Da segnalare l’Abbazia di San Vito di Polignano a Mare (Bari), che fu casa dei Frati Minori conventuali dei SS. Apostoli e nel 1785, verso la fine del XVIII secolo, divenne proprietà dei marchesi Tavassi-La Greca. Vale la pena visitarla per la sua posizione e per le sue eleganti forme, non perdete la visita alla incredibile loggia che si affaccia sul mare. Potrete ancora vedere la chiesa incorporata al monastero, le mura di cinta delimitata da quattro torri angolari e dai porticati. Una leggenda narra che una nobildonna salernitana che stava annegando nel fiume Sele, venne miracolosamente salvata da San Vito che le chiese di portare le sue spoglie in Puglia.
La donna condusse le spoglie del Santo nel luogo in cui successivamente venne fondata l’Abbazia.
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SAN ROCCO, VALENZANO E L'EPIDEMIA DI PESTE DEL 1656
Com’è noto nel 1656 ci fu una grave epidemia di peste in Europa e nel sud Italia. Il Regno di Napoli fu colpito a lungo dall’infezione che devastò contrade, paesi e città, con grande aggressività. Proprio come sta facendo oggi il “coronavirus”, che dalla Cina ha invaso tutto il mondo.
La peste è una malattia infettiva di origine batterica tuttora diffusa in molte parti del mondo, anche in alcune regioni dei paesi industrializzati. È causata da un batterio, che normalmente è portata da roditori, ratti, da alcune specie di scoiattoli, ecc.
A Napoli la peste giunse via mare dalla Sardegna e fu vera “peste bubbonica”, malattia caratterizzata da una mortalità che si aggirava intorno all’80%. Anche la Puglia a causa della sua posizione geografica e della presenza di numerosi porti è stata sempre esposta al bacillo della peste, trasmesso agli uomini da ratti e pulci, attraverso le merci trasportate dalle navi provenienti dall’Oriente.
La Puglia fu colpita nel 1656 da una forma non grave. Solo la Terra d’Otranto fu risparmiata, probabilmente perché si dette immediata esecuzione alle disposizioni vicereali. Mentre altre città attraversate dalla via Traiana come Canosa, Andria, Corato, Ruvo e Modugno, come pure Trani e Barletta, furono colpite dal morbo. Anche Bitonto fu salva.
L’arcivescovo di Bari e il priore della Basilica di San Nicola, sollecitati da più parti, promossero processioni di penitenza, ma ebbero, purtroppo, l’effetto di favorire il contagio. I morti si contavano a decine al giorno e cessarono solo ai primi di marzo del 1657, in coincidenza con la Festa della Madonna di Costantinopoli, ed il 17 aprile, al termine dell’ultima quarantena, si tornò alla normalità.
La peste del 1656 non fu certamente l’unica causa del calo demografico, della crisi agricola e commerciale che colpì un po’ tutte le province del Regno, facendo rallentare le attività produttive e intensificando il ricorso ai Santi Protettori, ma a questa si aggiunsero le epidemie di tifo tra gli anni 1648 e 1668, in cui la Terra di Bari perdette il 35% della popolazione.
A Valenzano (BA), terra protetta da San Rocco, in occasione dei solenni festeggiamenti in suo onore nel 2002 il Comitato delle Feste Patronali organizzò a Valenzano, nel Castello Baronale, la mostra documentaria “La peste del 1656 a Valenzano ed il voto a San Rocco”. Per l’occasione lo stesso Comitato fece pubblicare un interessante volume, firmato da Salvatore Camposeo, che nei ritagli della sua professione di agronomo e ricercatore presso l’Università di Bari curò, offrendo una testimonianza dell’amore che egli riserva al Santo di Montpellier.
Ricordo qualche notizia su San Rocco, nato a Montpellier, che rimasto orfano vendette tutti I suoi beni, distribuendo il ricavato ai poveri e partì in pellegrinaggio a Roma. Si fermò all’Ospizio di Acquapendente (Viterbo), dove si dedicò al servizio degli appestati, operando guarigioni miracolose. San Rocco è rappresentato con il cane, quel cane del nobile Gottardo Pallastrelli che gli portava da mangiare per l’impossibilità del Santo di camminare a causa di un “bubbone” ad una gamba. Morì in provincia di Varese nel 1379. San Rocco è protettore dei pellegrini, dei chirurghi, dei prigionieri e del bestiame, è invocato contro la peste, le malattie contagiose ed i disastri naturali.
Il 27 ottobre 1656, mentre il contagio mieteva vittime sia a Bari che in molte altre città vicine, Valenzano ne rimase esente ed allora il sindaco e gli eletti di Valenzano riuniti in consiglio, presente il governatore, votarono la città a San Rocco. Dal documento si apprende anche che il voto consistette nel far celebrare ogni settimana ed in perpetuo una messa cantata nel suo Altare dai reverendi sacerdoti del Capitolo e nello stesso giorno in cui si festeggia il Santo. Da quel momento a San Rocco, già Patrono di Valenzano, sono tributati solenni festeggiamenti.
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DOPO SAN VALENTINO, OGGI SI FESTEGGIA SAN FAUSTINO, PROTETTORE DEI SINGLE
Dopo San Valentino, festa degli innamorati, in virtù della “par condicio” è stata istituita anche la festa di San Faustino, protettore dei single. E, dal momento che essere single oggi è diventata quasi una norma, e non mi riferisco solo ai pensionati abbandonati al loro destino ma a persone anche professionalmente impegnate, che per scelta di vita o per difficoltà ad incontrare una gradevole compagnia restano soli.
Merita pertanto un breve cenno anche San Faustino, Patrono di Brescia, che si festeggia, guarda caso, il 15 febbraio, come per una ideale continuità.
Fino alla recente riforma del calendario venivano festeggiati in questo giorno i Santi Faustino e Giovita. Nel Martirologio Romano si leggeva: «A Brescia si festeggia il natale dei santi Martiri Faustino e Giovita, fratelli, i quali sotto l’imperatore Adriano, dopo molti combattimenti sostenuti per la fede di Cristo, ricevettero la vittoriosa corona del martirio».
Gli estensori del nuovo calendario hanno però espresso questo severo giudizio: «La memoria dei Santi Faustino e Giovita, introdotta nel Calendario romano nel sec. XIII, viene cancellata: si tratta dei martiri bresciani Faustino e Giovenza, dei quali si possiedono degli Atti interamente leggendari; in essi Giovita viene ritenuto diacono, benché fosse una donna».
La loro vita viene ricostruita, con l’aggiunta di diversi elementi leggendari, dalla «Legenda maior». Di storico vi è l’esistenza dei due giovani cavalieri, convertiti al cristianesimo, tra i primi evangelizzatori del Bresciano e morti martiri tra il 120 e il 134 al tempo dell’imperatore Adriano. La tradizione arricchisce di particolari il loro martirio. La loro conversione viene attribuita al vescovo Apollonio, lo stesso che poi ordina Faustino presbitero e Giovita diacono.
Al di là di quello che prescrive il calendario, i due martiri sono raffigurati spesso in veste militare romana con la spada in un pugno e la palma del martirio nell’altra, in altre raffigurazioni sono in vesti religiose, Faustino da presbitero, Giovita da diacono. Di storico vi è l’esistenza dei due giovani cavalieri, convertitisi al cristianesimo, tra i primi evangelizzatori delle terre bresciane e morti martiri al tempo di Adriano. Il loro culto si diffuse verso l’VIII secolo, periodo in cui fu scritta la leggenda, prima a Brescia e poi per mezzo dei longobardi in tutta la penisola ed in particolare a Viterbo.
Così anche i cuori solitari hanno il loro buon protettore. |
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SAN VALENTINO, IL SANTO DELL'AMORE
La fama di San Valentino, Santo dell’amore, protagonista di storie lontane che sfumano nella leggenda, ha superato oceani, ha scavalcato montagne, ha attraversato continenti ed è considerato il Santo dell’amore anche in Giappone, Stati Uniti, America Latina, Asia e Oceania. Le sue spoglie riposano nella città di Terni, ove fu primo vescovo, ma i suoi miracoli lo resero famoso ben oltre i confini dell’Impero.
San Valentino, vescovo di Terni, è ritenuto protettore dei fidanzati anche perché durante la sua vita amava soprattutto i giovani, al punto che riscattava i giovani schiavi, aiutandoli a divenire buoni cristiani, mentre ai fidanzati poveri procurava la dote per il matrimonio.
Durante il periodo della sua vita pastorale il Santo fu amatissimo dalle popolazioni umbre: quando l’imperatore Aureliano ordinò atroci persecuzioni contro il clero cristiano, San Valentino fu imprigionato e flagellato lungo la via Flaminia, lontano dalla città. Per evitare tumulti e rappresaglie dei fedeli, fu martirizzato il 14 febbraio del 273, ma è considerato il protettore degli innamorati soprattutto per aver celebrato il matrimonio tra una giovane cristiana ed un legionario pagano. È il caso di una bella ragazza di nome Serapia, la quale abitava in una piazza di Terni, l’attuale Piazza Clai. Passando spesso di lì un giovane centurione romano, di nome Sabino, la osservò più volte, se ne innamorò e la chiese in sposa. I parenti di lei, però, non volevano, perché Sabino era pagano mentre loro erano tutti cristiani. Allora lei suggerì di andare dal Vescovo e farsi istruire ben bene e farsi battezzare. Cosa che Sabino per amore di lei fece. Quando questo ostacolo fu superato, ne sorse un altro grandissimo: si scoprì che Serapia era affetta da una grave forma di tubercolosi, facendo disperare i genitori e il giovane legionario romano. Fatto venire il santo Vescovo presso il letto della moribonda, Sabino supplicò il Santo di non permettere la separazione dalla sua amata. La vita, in tal caso, sarebbe stata un insopportabile lungo martirio. Valentino alzò le mani e la voce al Padre di tutti. Un sonno beatificante unì per l’eternità quei due cuori dal palpito sincrono, mentre si stringevano per l’eternità.
Un’altra leggenda narra che San Valentino aveva l’abitudine di offrire alle fanciulle e ai giovani che passavano davanti al suo chiostro, un fiore del suo giardino, divenendo nel contempo il loro consigliere spirituale. Due di questi giovani si innamorarono e la loro unione risultò felice al punto che molti giovani ricorrevano a San Biagio per essere benedetti e così fu stabilito un giorno all’anno per benedire tutte le coppie, divenendo così il “Santo degli innamorati”.
Particolari manifestazioni si svolgono nella Chiesa Madre di Vico del Gargano (FG), la cui statua, dopo la novena, viene posta in trono su un baldacchino, ove vengono sistemati numerosi inserti di arance offerte dai proprietari degli agrumeti. Nella stessa Chiesa Matrice sono anche conservate alcune reliquie portate nel 1618. La processione con San Valentino raggiunge la zona del Carmine chiamato “Le Croci” e il sacerdote benedice le campagne e i rami di alloro tra la folla di fedeli che ne porta a casa qualche foglia in segno di protezione, mentre gli agricoltori portavano un ramo nel proprio agrumeto in segno di devozione.
Raymond Peynet, il pittore degli innamorati, ha saputo con la sua arte rapire e raccontare la magia dell’amore, evitando di tracciare i contorni della passione, dell’attrazione tra due amanti, per concentrarsi su tutto quello che c’è prima e dopo e che non si può descrivere con una parola o con un concetto. Un colpo di fulmine che avviene in ogni momento, senza tempo né luogo. I suoi Valentino e Valentina nascono e vivono in un momento, fugace, nobile, affettuoso, gioioso e tenero: quello dell’innamoramento. Sono gli innamorati per eccellenza, i romantici interpreti di un sentimento che nasce dal cuore: puri, leggeri, soavi, evanescenti nel loro appartenere l’uno all’altra ed entrambi ad un fantastico contorno, ad un mondo onirico in cui l’amore è il motore senza sosta del tutto.
In omaggio ai suoi fidanzatini il suo amico Georges Brassens scriverà la celebre canzone “Les bancs publics” (Le panchine). Dal 1982 il chiosco di Valence è ormai un monumento storico e l’immagine dei due innamorati diventa un francobollo, disegnato proprio da Peynet, che commemora la festa di San Valentino. Nel 1995 ha partecipato alle Manifestazioni di Terni in onore di San Valentino, patrono della città e dell’amore, con una sua mostra personale. Nel 1998 la città di Antibes, dove Peynet è vissuto fino alla sua morte, ha inaugurato il museo dedicato alla sua opera. |
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IL 3 FEBBRAIO FESTA DI SAN BIAGIO, PROTETTORE DEGLI OTORINOLARINGOIATRI E DELLE MALATTIE DELLA GOLA
Il 3 febbraio di ogni anno si celebra San Biagio, protettore degli otorinolaringoiatri e invocato per le malattie della gola. È noto il miracolo del bimbo che rischiò di soffocare a causa di una lisca di pesce che si era conficcata in gola. La benedizione del Santo con due ceri incrociati lo risanò immediatamente. Fra i tanti miracoli, operati anche durante le torture, merita particolare ricordo quello della vedova, alla quale un lupo aveva portato via un maialino. La donna, riavuta la sua bestia per intercessione di Biagio, in segno di riconoscenza portò cibi e candele al Santo che, commosso, le disse: «Offri ogni anno una candela alla chiesa che sarà innalzata al mio nome ed avrai molto bene e nulla ti mancherà».
Numerose le chiese e gli oratori a lui dedicati in ogni parte del mondo cristiano: nella nostra Regione San Biagio è protettore di Ruvo di Puglia (BA), dal momento che nel 1857 in occasione di una grave epidemia che colpì la gola di molti bambini, fu esposta la reliquia del Santo che compì il prodigio di far scomparire il morbo e da quel momento San Biagio fu eletto protettore della città. I devoti invocano il Santo e presentano per la benedizione piccoli pani detti “frecedduzze” realizzati nelle forme di mitria, pastorale, anello, mano benedicente, piedi. Mangiandoli esprimono la condivisione con la vita del Santo fino a farne nutrimento di vita spirituale. Un pane è confezionato anche a forma di “nodo” perché il Santo sciolga dai mali di gola tutti i sofferenti. Inoltre ai fedeli viene posto alla gola, come segno di protezione un nastro generalmente rosso, detto “misura”, a ricordo del martirio del Santo.
Le raffigurazioni relative al Santo, alla sua vita e al suo martirio sono numerose, forse perché alcune leggende ne avvicinarono il culto al gusto ed alla sensibilità popolari. Suo attributo comune è, oltre alle costanti insegne episcopali, il pettine di ferro da cardatore - strumento della tortura subita. Ma l’attributo iconografico che appare più frequentemente sono due ceri incrociati per la benedizione della gola.
Molteplici sono anche le opere in cui gli artisti vollero mettere in luce la figura del Santo, soprattutto la grandezza, raffigurandolo seduto in trono, vestito di sontuosi paramenti sacri, le mani levate in alto con gesto benedicente, la croce episcopale e le insegne del martirio. Nel giorno della sua festa, in Spagna, Francia e Germania, vengono distribuiti speciali piccoli pani, che nella forma ricordano le parti malate. Anche a Roma, nella Chiesa di San Biagio della Pagnotta, tale tradizione sopravvive, mentre a Milano, e pian piano anche nel resto d’Italia, si mangia una fetta di “Panettone di San Biagio” che sarebbe poi quello avanzato durante le festività natalizie.
Anche in Albania si festeggia il 3 febbraio San Biagio, dove da una roccia trasuda un olio molto curativo che, ancor oggi, è meta di fedeli cristiani che festeggiano il protettore della gola.
Il potere taumaturgico del Santo si estese, oltre alle malattie della gola anche a numerose altre patologie: in particolare, in Germania, è invocato anche contro i mali della vescica, per l’affinità fra il suo nome e il termine tedesco “blase” che indica appunto quell’organo.
In occasione della sua festa, vengono celebrate messe e festeggiamenti nei reparti di otorinolaringoiatria, dal momento che San Biagio è considerato protettore della gola e degli otorinolaringoiatri.
L’Otorinolaringoiatra è notoriamente lo specialista di altri due apparati: l’orecchio ed il naso. Forse non è altrettanto noto che anche gli altri due organi di senso, udito ed odorato, hanno un Santo protettore in San Cono da Naso (Me). La curiosità di conoscere quanto di più sulla vita di questi due Santi e, in particolare, del meno noto San Cono, ha indotto Domenico Petrone, direttore dell’U.O.C. di Otorinolaringoiatria dell’Ospedale “Di Venere” di Bari-Carbonara, Matteo Gelardi, otorinolaringoiatra, citologo nasale, docente dell’Università di Foggia e Past Presidente dell’Accademia di Rinologia (AICNA), insieme al sottoscritto, a ricercare nella storia, e talvolta nella leggenda, notizie sulla loro esistenza, integrandole con fatti ed episodi della tradizione popolare ed a pubblicare, con il contributo dell’Istituto Acustico Maico e il Gruppo Menzietti, il testo “I Santi protettori degli Otorinolaringoiatri tra storia, leggenda e tradizione” (ECA Editrice).
Da Naso (ME) ci giungono molte notizie relative alla vita di San Cono (o Conone), iscritte nella storia. Conone Navacita, comunemente chiamato Cono, nasce a Naso (Me) nell’anno 1139 sotto il Regno di Ruggero II, nell’agiata famiglia del conte Anselmo Navacita e della nobildonna Claudia Santapau. I genitori auspicando per il figlio, come si era soliti per quell’epoca, una carriera politica e militare, lo educarono presto a questa disciplina. Ma Conone rivela presto il suo animo nobile e sensibile, più incline alla preghiera, alla meditazione e alla contemplazione, anziché alla vita militare e mondana. I genitori non ostacolarono questa sua tendenza, neanche lontanamente immaginando quello che sarebbe poi accaduto. Per le ulteriori notizie su San Cono, che si affianca a San Biagio per la protezione del naso e dell’udito, rimando a settembre quando si celebrano i festeggiamenti per questo Santo.
E così gli otorinolaringoiatri e tutti gli organi di competenza sono debitamente protetti dai due Santi. |
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OGGI SANT'ANTONIO ABATE E GIORNATA NAZIONALE DEL DIALETTO
- Oggi si festeggia Sant’Antonio Abate, per i baresi ‘Sand’Andè’ che, a soli vent’anni, abbandonò ogni cosa per seguire il consiglio di Gesù: «Se vuoi essere perfetto, va’ vendi ciò che hai…», rifugiandosi in una zona deserta dell’Egitto tra antiche tombe abbandonate e successivamente sulle rive del Mar Rosso, dove visse per ottant’anni da eremita.
A lui è associato il bastone a T, tau, 19ª lettera dell’alfabeto greco, e un maiale. Cosa c’entra il maiale, che per i cristiani era simbolo del male? Secondo gli studiosi all’inizio si trattava di un cinghiale, attributo del dio celtico Lug, dio del gioco e della divinazione, venerato in Gallia a cui erano consacrati cinghiali e maiali. Gli stessi sacerdoti venivano chiamati “Grandi Cinghiali Bianchi”, mentre il dio Lug regnava anche sugli inferi. L’emblema del cinghiale appariva anche sugli stendardi e sugli elmi dei celti. In realtà il maiale rappresenta simbolicamente il maligno e le seduzioni che i piaceri della carne provocano.
Nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggiare nel tempo, da Alessandria a Costantinopoli, fino in Francia nell’XI secolo a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore.
In questo luogo, per venerarne le reliquie, affluivano folle di malati, soprattutto di ergotismo canceroso, causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segala, usata all’epoca per fare il pane.
Le leggende a carattere popolare vogliono Sant’Antonio Abate in lotta con il demonio, ovvero con il male, con le passioni umane, con il fuoco eterno. Il Santo divenne così il padrone del fuoco, custode dell’inferno, e per tali prerogative, guaritore dell’herpes zoster, una patologia detta “fuoco di Sant’Antonio”. I monaci Antoniani, infatti, consigliavano di «implorare il patrocinio del Santo e di cospargere le parti malate con il vino nel quale erano state immerse le sacre reliquie». In epoche successive si adoperò il grasso di maiale che, posto sull’immaginetta del Santo, veniva portato dai monaci all’ammalato e usato per guarire le ferite del “fuoco sacro”. In questo modo era completa la figura di Sant’Antonio abate, padrone del fuoco, vittorioso sulle tentazioni del demonio, del male e protettore del maiale.
L’allevamento del maiale era svolto per conto dei monaci, gratuitamente e per devozione dei contadini i quali, ad opera compiuta ricevevano protezione per se stessi e per i lavori da effettuare durante il ciclo annuale di produzione. Il maiale in questo modo era “sacralizzato” e perdeva la sua connotazione demoniaca, dal momento che diventava il tramite più vicino perché le masse contadine ottenessero rassicurazione e promesse di fecondità e fertilità.
L’iconografia rappresenta il Santo con il bastone tipico degli eremiti, un maiale ai piedi, a simboleggiare il demonio, un campanello e la fiamma. E, proprio a causa del simbolo del maiale, Sant’Antonio divenne in breve il protettore degli animali domestici, mentre la fiamma ricorda la sua capacità di guaritore dell’ergotismo.
Fu così che Sant’Antonio Abate divenne il protettore degli animali ed una testimonianza di festeggiamento romano ce l’ha lasciata il poeta tedesco Goethe, che in un suo diario parla del 17 gennaio 1787, giorno sereno e tiepido dopo una notte che aveva gelato, nel quale poté assistere alla consacrazione degli animali domestici, con cavalli e muli infiocchettati e benedetti con copiose aspersioni d’acqua santa.
Oggi ricorre anche la Giornata Nazionale del Dialetto e numerose manifestazioni vengono svolte in tutta Italia. A Bari per iniziativa dell’Assessorato alle Politiche Culturali e Turismo del Comune con la collaborazione di Vito Signorile, direttore artistico del Teatro Abeliano e Coordinatore delle Associazioni che confluiscono per “oMaggio a Bari”, sono state predisposte alcune manifestazioni che si svolgeranno nel Salone della Polizia Municipale di Bari (Via Aquilino, 3 - Rione Japigia) secondo il seguente programma:
Ore 10-12 Autorità e studenti celebreranno la Festa del Dialetto;
Ore 18-20 Poeti ed artisti si esibiranno in performance che vedrà protagonista il dialetto.
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SAN BARTOLOMEO, PROTETTOREE DEI DERMATOLOGI E DELLE MALATTIE DELLA PELLE
di VITTORIO POLITO -
La dermatologia (dal greco ‘derma’, pelle) è la disciplina medico-biologica che studia la struttura, le funzioni e le malattie della pelle e dei suoi annessi (peli, unghie, ghiandole sebacee e sudoripare) dell’uomo, che nel corso degli anni ha portato a un’approfondita conoscenza delle singole lesioni che caratterizzano le varie dermatosi. Ma chi protegge i dermatologi e gli ammalati con patologie della pelle? San Bartolomeo.
San Bartolomeo (in ebraico “dono di Dio”), uno dei dodici apostoli, a causa del suo cruento martirio, è considerato, appunto, protettore dei dermatologi e degli ammalati affetti da malattie della pelle. Secondo la tradizione, il Santo è stato spellato vivo per aver convertito il re dell’Armenia e per questa ragione gli si riconosce la protezione dei dermatologi e di alcune malattie della pelle come le eruzioni cutanee, le infiammazioni, la psoriasi, particolari forme di herpes zoster (quest’ultima nota anche come fuoco di Sant’Antonio). Sant’Antonio Abate, protettore anche degli animali, è forse uno dei santi più noti che protegge dal “Fuoco di Sant'Antonio”.
La Chiesa Cattolica riconosce molti Santi che proteggono le malattie della pelle, ma da cosa dipende la specializzazione di ciascuno di loro?
Spesso deriva dal tipo di martirio sofferto: per esempio San Bartolomeo, spellato vivo, viene invocato per ogni tipo di problema legato alla pelle, mentre a San Lorenzo, martirizzato su una graticola, ci si rivolge per le ustioni. Ma gli esempi non finiscono qui. Accanto a San Rocco, morto dopo aver contratto la peste assistendo gli infetti nell'epidemia del 1327, è invocato per ogni malattia che comporta la comparsa di piaghe, troviamo San Giorgio di Lydda (luogo del suo sepolcro, vicino a Tel Aviv), che entra a far parte della tradizione popolare almeno dal IV secolo, sotto le spoglie di un cavaliere che affronta e sconfigge un drago, simbolo della fede che trionfa sulla forza del maligno. Anche lui, come San Rocco, viene invocato contro la peste e le malattie della pelle.
Tra i Santi protettori della pelle sono riconosciuti anche Sant’Alberto Magno (guarigione delle fistole), San Cassiano Martire (verruche ai piedi), San Mattia e San Marcello, invocati per le epidemie di vaiolo, o Santa Cristina per le piaghe ribelli. Il Santo più riconosciuto dagli adolescenti pare essere San Giacomo, risolutore della foruncolosi, al quale si aggiunge San Lazzaro per la lebbra. Ma molti altri Santi proteggono altre patologie della pelle.
Mi piace ricordare Luigi Maria Monti (1825-1900), fondatore della Congregazione dei “Figli dell’Immacolata Concezione”, beatificato nel 2003 da San Giovanni Paolo II, per l’impegno nella ricerca e nella cura delle patologie dermatologiche. L’opera di Monti si ispira ai principi della carità cristiana e il servizio operato nei confronti di un ammalato rappresenta la più genuina delle preghiere. Rende importante l’opera di Monti, l’esempio per i suoi figli spirituali, a cui ha lasciato un’eredità religiosa e professionale che portò agli inizi del ’900 alla creazione a Roma di un ospedale specializzato nella cura delle malattie della pelle.
San Bartolomeo, che si festeggia il 24 agosto, è protettore anche dei calzolai, conciatori, rilegatori di libri, macellai, fattori, imbianchini, malattie dei nervi, convulsioni ed ernie.
Nell’iconografia il Santo è spesso raffigurato mentre viene scuoiato o con un coltello in mano. La più nota scultura di san Bartolomeo è un'opera di Marco d’Agrate, un allievo di Leonardo, esposta all’interno del Duomo di Milano, in cui è appunto rappresentato scorticato con la Bibbia in mano. L’opera è caratterizzata dalla minuta precisione anatomica con cui viene reso il corpo umano privo della pelle, che è scolpita drappeggiata attorno al corpo, con la pelle della testa penzolante sulla schiena del martire. Michelangelo, nel Giudizio Universale della Cappella Sistina, lo rappresenta con la propria pelle in mano. Il volto che appare su questa pelle, pare essere dell’autore che avrebbe voluto porvi il proprio autoritratto. San Bartolomeo è stato immortalato anche con un posto d’onore nel Giudizio Universale, infatti è una delle figure più conosciute dell’affresco.
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SAN FRANCESCO D'ASSISI, PATRONO D'ITALIA, E' PASSATO ANCHE DA BARI
di VITTORIO POLITO -
Il 4 ottobre si festeggia San Francesco d’Assisi (1182-1226), al secolo Giovanni Bernardone, proclamato da Pio XII, insieme a Santa Caterina da Siena, patroni d’Italia
Francesco, figlio di un mercante, da giovane aspirava a entrare nella cerchia della piccola nobiltà cittadina. Per questo ricercò la gloria tramite le imprese militari, finché comprese di dover servire solo il Signore. Si diede quindi a una vita di penitenza e solitudine in totale povertà, dopo aver abbandonato la famiglia e i beni terreni. Nel 1209, in seguito a un’ulteriore ispirazione, iniziò a predicare il Vangelo nelle città, mentre si univano a lui i primi discepoli.
Con loro si recò a Roma per avere dal papa Innocenzo III l'approvazione della sua scelta di vita. Dal 1210 al 1224 peregrinò per le strade e le piazze d’Italia: dovunque accorrevano a lui folle numerose e schiere di discepoli che egli chiamava “frati”, cioè “fratelli”.
Accolse poi la giovane Chiara che diede inizio al Secondo Ordine francescano, e fondò un Terzo Ordine per quanti desideravano vivere da penitenti, con regole adatte per i laici.
Morì la sera del 3 ottobre del 1226 presso la chiesa di Santa Maria degli Angeli ad Assisi. È stato canonizzato da papa Gregorio IX il 16 luglio 1228.
Secondo lo storiografo Paul Sabatier (1858-1928), San Francesco avrebbe peregrinato e visitato nella valle reatina tutti gli eremi della Sabina e, tra questi, quello di Poggio Bustone, altra località la cui bellezza della natura ed il silenzio dei monti circostanti offrirono al Poverello un momento di estrema tranquillità. Il Santo ormai cieco si riconcilia con gli uomini e con la natura e, nell’intimità più vera e profonda, con Dio.
Il Padre Celeste gli rimette i peccati e gli concede il perdono, confermandogli la bontà dell’opera iniziata, l’amore, la cura e la protezione dei suoi frati. Gioioso e felice per il perdono ottenuto, San Francesco nella fiduciosa certezza di un futuro benedetto dall’Onnipotente, invia i suoi frati, ormai numerosi, a predicare nel mondo il Vangelo, la grandezza dell’amore del Signore e di tutte le sue creature
Assisi rappresenta il luogo più noto dedicato al ‘Poverello’, ma vi sono molti altri luoghi non meno importanti nei quali Francesco ha vissuto la sua intensa vita spirituale. È nota la Valle Reatina, ritenuta dagli studiosi la terza patria di San Francesco, dopo quella di Assisi e della Verna. Infatti, si trovano luoghi assai cari al Serafico Padre: Fonte Colombo, Greccio, San Fabiano, Poggio Bustone e nella provincia di Terni, lo Speco di Narni.
Lo Speco di Narni, eremo fondato con ogni probabilità dallo stesso San Francesco nel 1213, è invece il Santuario dove il poverello dimorò per qualche tempo. Qui avvenne il miracolo dell’acqua cambiata in vino, mentre il Santo soffriva di una gravissima infermità. Le origini del romitorio risalgono all’anno mille, dipendeva dai monaci Benedettini e comprendeva le varie grotte sotto la scogliera e l’oratorio di San Silvestro con l’attigua cisterna.
L’attuale chiostro, lo Speco, una costruzione del quattrocento, all’epoca di San Bernardino da Siena, apostolo dell’osservanza, fu considerato come suo luogo naturale e ne fece un insigne centro dell’umiltà e della povertà francescana. Vi è poi lo Speco del Santo che consiste in una grotta che ha dato il nome al Santuario.
Un altro importante luogo per San Francesco fu Greccio, primo eremo francescano detto “Betlemme Francescana”. Un villaggio della Sabina a 705 metri sul livello del mare, ove è presente il celebre Santuario Francescano in mezzo ad una folta selva di lecci.
La leggenda ricorda che Francesco, che già nel 1217 abitava sulla cima del Monte Lacerone che sovrasta Greccio, scese più volte ad evangelizzare gli abitanti del castello. È in questo luogo che San Francesco realizza, con l’aiuto della popolazione, il primo presepe vivente con l’intento di ricreare la mistica atmosfera del Natale di Betlemme, per vedere con i propri occhi dove nacque Gesù, il Re povero.
Altro luogo francescano è il Santuario di San Fabiano, oggi denominato Santa Maria de la Foresta, posto a ridosso della vallata ed è circondato da boschi di castagni. Nel percorso per giungere al Santuario s’incontrano le mura e le stazioni della Via Crucis di scuola napoletana del XVIII secolo provenienti dal Convento di San Bonaventura in Frascati e benedette da San Leonardo da Porto Maurizio, ideatore della Via Crucis.
La “Foresta” è detta anche “Tabor Francescano”, poiché qui ebbero tregua le atroci sofferenze di San Francesco, luogo nel quale con ogni probabilità ebbe l’ispirazione del “Cantico delle Creature”.
Curiosità - Saverio La Sorsa (1877-1970), uno dei maggiori scrittori baresi in fatto di tradizioni e leggende popolari, ricorda nella sua Antologia “Folklore Pugliese” (Paolo Malagrinò Editore), una leggenda che narra che San Francesco sia passato da Bari. Giunto sulla spiaggia di San Cataldo, s’imbatté in alcuni disperati pescatori che cercavano acqua e non trovandola bestemmiavano e imprecavano. Il Santo d’Assisi impietositosi, con un colpo di bastone fece zampillare acqua copiosa e fresca dissetando così i pescatori. Questo il motivo, secondo il racconto, che quel luogo, oggi spiaggia dei baresi, fu chiamato «San Francesco alla Rena». |
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di TERESA GENTILE
Oggi segnaliamo una assoluta novità editoriale relativa a un inusuale campo di ricerca relativo ai Santi protettori degli Otorinolaringoiatri. Si tratta di un testo agile, raffinato, ricco di numerosi e interessanti spunti di fede, di scienze e di storia, leggenda e tradizione. Il testo è stato certosinamente curato da Domenico Petrone, Matteo Gelardi e Vittorio Polito, con il coordinamento editoriale di Valentina Faricelli, Virginia Gigante e Antonio Lauriola (ECA Editrice).
Nella dotta prefazione il presidente della Società Italiana di Otorinolaringoiatria, Claudio Vicini, rimarca il binomio inscindibile che pone in costante equilibrio la salute del corpo e quella dell’anima intese come campi d’azione di medicina e religione presenti al di là d’ogni effimero limite di spazio e di tempo in ogni zona del mondo ed in ogni epoca.
Interessantissimi si rivelano poi alcuni documenti rari e le notizie sui Santi che proteggono coloro che soffrono, a causa di malanni che colpiscono gli organi del gusto, del tatto, dell’udito e della fonazione. Si susseguono, come in un prezioso caleidoscopio, notizie, detti popolari, ricette mediche, proverbi, modi di dire molto diffusi, non solo in campo nazionale ma anche internazionale. Inoltre davvero suggestivi sono i rimandi relativi ai costanti e graduali progressi delle conoscenze mediche e di cura popolare volte a serbare in un ottimo stato di salute i preziosissimi organi sensoriali che mirano a spalancare le nostre sensazioni più intime e intense volte ad ascoltare, assaporare, parlare, gustare e, addirittura, imparare a dipingere il proprio dolore per aver perso l’udito, come il pittore spagnolo Goya, o comporre meravigliose sinfonie, come l’inno alla Gioia di Beethoven, per placare l’angoscia derivante dalla sordità.
Di prima mano poi le notizie relative al Santo armeno Biagio e al simpaticissimo San Naso di Cono (ME), festeggiato il 1° settembre. È oggi …poco noto ma ...certamente vi attirerà con la forza della sua esuberante fede e il suo combattivo spirito francescano con cui… spesso dimostra di voler continuare a proteggere la sua terra da malattie, epidemie, carestie, terremoti e tiranniche dominazioni.
La pubblicazione si avvale del contributo dell’Istituto Acustico Maico e del “Gruppo Menzietti”. |
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di VITO FERRI -
Ogni anno (3 febbraio) ricorre la festività di San Biagio, indiscusso protettore della gola e degli Specialisti Otorinolaringoiatri. L’Otorinolaringoiatra è notoriamente lo specialista di altri due apparati: l’orecchio ed il naso. Forse non è altrettanto noto che anche questi due organi di senso (udito ed odorato) hanno un Santo protettore in San Cono da Naso (Me). La curiosità di conoscere quanto di più sulla vita di questi due Santi ha indotto gli autori a ricercare nella storia, e talvolta nella leggenda, notizie sulla loro esistenza, integrandole con la storia e la tradizione popolare ci tramandano, talvolta condite da “pillole” di folclore e amenità.
In occasione del 106° Congresso Nazionale della Società Italiana di Otorinolaringologia, che si terrà a Rimini dal 29 maggio al 1° giugno prossimi, sarà fatto omaggio ai congressisti del volume “I Santi Protettori degli Otorinolaringoiatri tra storia, leggenda e tradizione” (ECA Editrice), scritto a tre mani da Domenico Petrone, direttore dell’U.O.C. di Otorinolaringoiatria dell’Ospedale “Di Venere” di Bari-Carbonara, Matteo Gelardi, otorinolaringoiatra e citologo nasale al Policlinico di Bari e Presidente della Accademia di Rinologia (AICNA), e Vittorio Polito, giornalista e scrittore.
In particolare Gelardi ha scoperto che a Naso (Messina) si onora San Cono (o Conone), che insieme al più noto San Biagio, proteggono rispettivamente gli organi di senso dell’udito, del naso e della gola, coinvolgendo Petrone e Polito e dando così il via alle ricerche finalizzate alla raccolta della storia e dell’iconografia di quest’ultimo Santo, meno noto ai più.
Gelardi ha anche organizzato a Naso un esclusivo Congresso di Rinologia “Inter-Accademico AICA-IAR”, anche per saperne di più su San Cono che, come detto, risulta essere protettore del naso e dell’orecchio.
Ed ecco che Cono o Conone Navacita, figlio del conte normanno Anselmo, governatore della città, ancora ragazzo abbandonò la casa e le ricchezze e si ritirò nel locale convento di San Basilio. Trasferito al Convento di Fragalà, nel comune di Frazzanò, ebbe come maestri spirituali san Silvestro da Troina (1110-1164) e san Lorenzo da Frazzanò (1116-1162), che lo prepararono al sacerdozio. Conone, dopo l’ordinazione, continuò a manifestare segni di vocazione all’eremitaggio e, col permesso dei superiori, si ritirò in una grotta, che prese il nome di Rocca d’Almo. Ben presto la sua fama di santità superò i confini di Naso. Richiamato al monastero dai suoi superiori, fu eletto Abate. In seguito, al ritorno a Naso da un pellegrinaggio in Terra Santa, elargì ai poveri la ricca eredità del padre e si ritirò nella grotta di San Michele. La città era stata colpita da un morbo contagioso e i nasitani si rivolsero allora all’Abate che li liberò dalla malattia. Del miracolo vi è ricordo nello stesso stemma della città. Morì a 97 anni, un venerdì Santo del 28 marzo 1236. Canonizzato nel 1630, san Cono è patrono di Naso.
Il volume che racconta storia, vita, miracoli, curiosità, preghiere e poesie relative ai due Santi Biagio e Cono, si avvale della prefazione del prof. Claudio Vicini, presidente della Società Italiana di Otorinolaringoiatria, che valuta la pubblicazione “Molto gradevole la veste editoriale e l’iconografia, strutturata con gusto e intelligenza”, e raccomanda i lettori di “portare a termine la lettura di tutto il volumetto che ristorerà nel riposo il fisico e arricchirà lo spirito”.
La pubblicazione, che si avvale del coordinamento di Valentina Faricelli, Virginia Gigante e Antonio Lauriola, progetto grafico di Lara D’Onofrio, è stata realizzata con il contributo dell’Istituto Acustico Maico e del Gruppo Menzietti.
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https://www.giornaledipuglia.com/2019/02/san-valentino-e-san-faustino-proteggono.html
SAN VALENTINO E SAN FAUSTINO PROTEGGONO INNAMORATI E SINGLE
Perché il 14 febbraio è diventato il giorno degli innamorati? La risposta è data da una simpatica tradizione che viene dai paesi anglosassoni. Nel Medioevo, infatti, si riteneva che in questo giorno gli uccelli, avvertendo i primi tepori primaverili, cominciassero a nidificare, quindi si disse che la festa di San Valentino segnava l’annuale risveglio della vita e quindi dell’amore. Fu così che il Santo è stato adottato come patrono e protettore degli innamorati di tutto il mondo. Ma pare che anche gli innamorati delusi hanno un protettore che, secondo una leggenda dell’area tarantina, è riconoscibile in San Vito e si festeggia il 15 giugno.
La notorietà di San Valentino quale patrono degli innamorati deriva, oltre che dalla famosa storia di Serapia e Sabino, anche da altre storie e curiosità nelle quali sono interessati anche bambini, colombi ed anche l’Amleto di Shakespeare.
La più antica notizia su San Valentino è in un documento ufficiale della Chiesa dei secoli V-VI nel quale si legge il suo anniversario di morte. Ancora nel sec. VIII un altro documento narra alcuni particolari del martirio: la tortura, la decapitazione e la
sepoltura, ad opera dei discepoli Proculo, Efebo e Apollonio, il successivo martirio di questi e la loro sepoltura. Altri testi del sec. VI, raccontano che San Valentino, cittadino e vescovo di Terni dal 197, divenuto famoso per la santità della sua vita, per la carità ed umiltà, per lo zelante apostolato e per i miracoli che fece, venne invitato a Roma da un certo Cratone, oratore greco e latino, perché gli guarisse il figlio infermo da alcuni anni. Guarito il giovane, lo convertì al cristianesimo insieme alla famiglia ed ai greci studiosi di lettere latine Proculo, Efebo e Apollonio ed al figlio del Prefetto della città.
Mentre finora la vicenda del Santo era collocata tra il 197, data della sua consacrazione episcopale, ed il 273, data del suo martirio, rendendo difficile pensare che abbia esercitato l’episcopato per oltre settant’anni, ora la data del martirio è stata fissata intorno alla metà del IV secolo. Il suo corpo fu dai discepoli sepolto a Terni (Fonte: www.santiebeati.it).
Dopo San Valentino, festa degli innamorati, oggi in virtù della “par condicio” è stata istituita anche la festa di San Faustino, protettore dei ‘single’ che si festeggia, guarda caso, il 15 febbraio, come per una ideale continuità. E, dal momento che essere ‘single’ è diventata quasi una norma, e non mi riferisco solo ai pensionati abbandonati al loro destino, ma anche a persone, professionalmente impegnate, che per scelta di vita o per difficoltà ad incontrare una gradevole compagnia restano soli, un breve cenno merita anche San Faustino, Patrono di Brescia.
Fino alla recente riforma del calendario venivano festeggiati in questo giorno i Santi Faustino e Giovita. Il Martirologio Romano diceva: «A Brescia si festeggia il natale dei santi Martiri Faustino e Giovita, fratelli, i quali sotto l’imperatore Adriano, dopo molti combattimenti sostenuti per la fede di Cristo, ricevettero la vittoriosa corona del martirio». Gli estensori del nuovo calendario hanno però espresso questo severo giudizio: «La memoria dei Santi Faustino e Giovita, introdotta nel Calendario romano nel sec. XIII, viene cancellata: si tratta dei martiri bresciani Faustino e Giovenza, dei quali si possiedono degli Atti interamente leggendari; in essi Giovita viene ritenuto diacono, benché fosse una donna». Per l’occasione il 15 febbraio, a Brescia, si svolge la tradizionale e popolarissima Fiera di San Faustino, con oltre 600 bancarelle che occupano il centro e la folla (si parla di 150-200 mila persone) che non mancherà di rispondere all’appello di una città che per l’occasione propone anche celebrazioni religiose nella Basilica dedicata ai patroni Fustino e Giovita.
Al di là di quello che prescrive il calendario, i due martiri sono raffigurati spesso in veste militare romana con la spada in un pugno e la palma del martirio nell’altra, in altre raffigurazioni sono in vesti religiose, Faustino da presbitero, Giovita da diacono. Di storico vi è l’esistenza dei due giovani cavalieri, convertitisi al cristianesimo, tra i primi evangelizzatori delle terre bresciane e morti martiri tra il 120 ed il 134, al tempo di Adriano. Il loro culto si diffuse verso l’VIII secolo, periodo in cui fu scritta la leggenda, prima a Brescia e poi per mezzo dei longobardi in tutta la penisola ed in particolare a Viterbo. Così anche i cuori solitari hanno il loro buon protettore.
San Valentino, che è anche Patrono di Vico del Gargano, è un martire e Michele Biscotti lo ricorda nel suo libro “San Valentino Prete”, nel quale fa un’ampia storia del Santo degli innamorati, senza trascurare in modo particolare gli eventi particolari legati a quel Santo nel paese garganico. Il volume è ricco di notizie e documentazioni, frutto di appassionate ricerche, insomma i seguaci del Santo degli innamorati potranno apprendere tante curiosità sul loro protettore, non sempre diffuse dai media.
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Domani 3 febbraio il calendario liturgico ricorda san Biagio, il Santo vescovo e martire di Sebaste, l’unico santo “armeno” ad avere una memoria liturgica nel calendario latino, se pur nella forma minimale di “memoria facoltativa”.
“Tra i Santi di più antica devozione che l’Oriente ha trasmesso all’Occidente tramite i documenti provenienti da Bisanzio nel periodo dell’Iconoclasmo, emerge la figura di san Biagio, ritenuto martire in Armenia al tempo dell’imperatore Licinio durante l’ultima, violenta ondata di persecuzioni contro i cristiani, accusati di contrastare la restaurazione dei culti tradizionali e di rifiutare la divinizzazione dell’imperatore” (Stefania Colafranceschi, San Biagio di Cento, Minerva Edizioni).
San Biagio, martire e vescovo di Sebaste (Armenia), indicato in alcuni atti, non si sa in base a quale fondamento, come medico. Il suo martirio sarebbe avvenuto sotto Diocleziano o Licinio, ma l’opinione preferibile è per l’epoca di Licinio (Vito Lozito, “Agiografia, magia, superstizione”, Levante Editori).
Scoppiata la persecuzione, Biagio si allontanò dalla sua sede vescovile e andò a vivere in una caverna, dove guariva con un segno di croce gli animali sofferenti. Scoperto da alcuni cacciatori in mezzo ad un branco di bestie e denunciato al magistrato, venne catturato e rinchiuso in prigione.
Un giorno si recò da lui una donna, il cui figlio era sul punto di morire a causa di una lisca di pesce che si era conficcata in gola. La benedizione del Santo con due ceri incrociati lo risanò immediatamente. Fra tanti miracoli, operati anche durante le torture, merita particolare ricordo quello della vedova, alla quale un lupo aveva portato via un maialino. La donna, riavuta la sua bestia per intercessione di Biagio, in segno di riconoscenza portò cibi e candele al Santo che, commosso, le disse: «Offri ogni anno una candela alla chiesa che sarà innalzata al mio nome ed avrai molto bene e nulla ti mancherà».
San Biagio subì la decapitazione (probabilmente il 3 febbraio del 316). Il suo culto è tra i più diffusi in Oriente e in Occidente, sebbene, sembra, non si affermò immediatamente dopo la sua morte. La festa è celebrata dagli orientali l’11 febbraio, dagli occidentali, invece, il 3 o anche il 15 dello stesso mese.
Numerose le chiese e gli oratori a lui dedicati in ogni parte del mondo cristiano: nella nostra Regione San Biagio è protettore di Ruvo di Puglia (BA), dal momento che nel 1857 in occasione di una grave epidemia che colpì la gola di molti bambini, fu esposta la reliquia del Santo che compì il prodigio di far scomparire il morbo e da quel momento San Biagio fu eletto protettore della città. I devoti invocano il Santo e presentano per la benedizione piccoli pani detti “frecedduzze” realizzati nelle forme di mitria, pastorale, anello, mano benedicente, piedi. Mangiandoli esprimono la condivisione con la vita del Santo fino a farne nutrimento di vita spirituale. Un pane è confezionato anche a forma di “nodo” perché il Santo sciolga dai mali di gola tutti i sofferenti. Inoltre ai fedeli viene posto alla gola, come segno di protezione un nastro generalmente rosso, detto “misura”, a ricordodel martirio del Santo.
Tra il patrimonio artistico della Cattedrale di Ruvo, si annovera la statua in legno intagliato del Santo, risalente al XVI secolo. Numerose sono anche le opere in cui gli artisti vollero mettere in luce soprattutto la grandezza del Santo, raffigurandolo seduto in trono, vestito di sontuosi paramenti sacri, le mani levate in alto con gesto benedicente, la croce episcopale e le insegne del martirio
Le raffigurazioni relative al Santo, alla sua vita e al suo martirio sono numerose, forse perché alcune leggende ne avvicinarono il culto al gusto ed alla sensibilità popolari. Suo attributo comune è, oltre alle costanti insegne episcopali, il pettine di ferro da cardatore - infatti è assunto anche come patrono dei cardatori – strumento della tortura subita. Ma l’attributo iconografico che appare più frequentemente sono due ceri incrociati per la benedizione della gola.
Numerose sono anche le opere in cui gli artisti vollero mettere in luce soprattutto la grandezza della figura del Santo, raffigurandolo seduto in trono, vestito di sontuosi paramenti sacri, le mani levate in alto con gesto benedicente, la croce episcopale e le insegne del martirio. Nel giorno della sua festa, in Spagna, Francia e Germania, vengono distribuiti speciali piccoli pani, che nella forma ricordano le parti malate. Anche a Roma, nella Chiesa di San Biagio della Pagnotta, tale tradizione sopravvive, mentre a Milano, e pian piano anche nel resto d’Italia, si mangia una fetta di “Panettone di San Biagio” che sarebbe poi quello avanzato durante le festività natalizie.
Anche in Albania si festeggia San Biagio, dove da una roccia trasuda un olio molto curativo e che ancor oggi è meta di fedeli cristiani che festeggiano il protettore della gola il 3 febbraio mentre i mussulmani festeggiano l’11 febbraio. Alcuni tra loro... amano festeggiare in entrambe le date.
Il potere taumaturgico del Santo si estese, oltre alle malattie della gola anche a numerose altre patologie: in particolare, in Germania, è invocato anche contro i mali della vescica, per l’affinità fra il suo nome e il termine tedesco “blase” che indica appunto quell’organo.
In occasione della sua festa, vengono celebrate messe e festeggiamenti nei reparti di otorinolaringoiatria, dal momento che San Biagio è considerato protettore della gola e degli otorinolaringoiatri.
Il 3 febbraio si celebra anche la 41ª Giornata Nazionale per la Vita, che sarà ricordata in tutte le diocesi.
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Oggi, come ogni anno, in molti comuni italiani si festeggia Sant’Antonio Abate protettore degli animali. Con la celebrazione della festa (Sand’Andè per i baresi) inizia ogni anno il periodo dedicato al Carnevale. In questo giorno i cittadini portano gli animali per la benedizione (a Bari presso la Chiesa di Sant’Anna del centro storico, mentre in precedenza la cerimonia si svolgeva presso il Fortino).
A questo Santo è associato il bastone a T, tau, 19ª lettera dell’alfabeto greco, e un maiale. Cosa c’entra il maiale, che per i cristiani era simbolo del male? Secondo gli studiosi all’inizio si trattava di un cinghiale, attributo del dio celtico Lug, dio del gioco e della divinazione, venerato in Gallia a cui erano consacrati cinghiali e maiali. Gli stessi sacerdoti venivano chiamati “Grandi Cinghiali Bianchi”, mentre il dio Lug regnava anche sugli inferi. L’emblema del cinghiale appariva anche sugli stendardi e sugli elmi dei celti. In realtà il maiale rappresenta simbolicamente il maligno e le seduzioni che i piaceri della carne provocano.
Vito Lozito, nel suo volume “Agiografia, Magia, Superstizione” (Levante Editori), fa una esauriente descrizione del protettore degli animali, nato intorno al 250 a Coman in Egitto e morto ultracentenario nel 356. Negli ultimi anni accolse presso di sé due monaci che l’accudirono nell’estrema vecchiaia. Il 17 gennaio del 356 e fu seppellito in un luogo segreto. In questo luogo per venerarne le reliquie, affluivano folle di malati, soprattutto di “ergotismo” (herpes zoster, cosiddetto “fuoco di S. Antonio”), causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segala, usata all’epoca per fare il pane.
Sant’Antonio Abate divenne protettore degli animali ed una testimonianza di festeggiamento romano ce l’ha lasciata il poeta tedesco Goethe, che in un suo diario parla del 17 gennaio 1787, giorno sereno e tiepido, che, dopo una notte di gelo, poté assistere alla consacrazione degli animali domestici, con cavalli e muli infiocchettati e benedetti con copiose aspersioni d’acqua santa.
Ed infine qualche curiosità. In alcune località delle Marche, la festa di Sant’Antonio si festeggia anche con balli popolari, specie con il saltarello, accompagnato da corni e tamburi sino a tarda notte. Anche il fuoco è considerato parte integrante della festa. Secondo alcuni i riti attorno alla figura del Santo testimoniano un forte legame con le culture precristiane, soprattutto quella celtica e druidica. Una festa dunque di origini antiche finalizzata a sconfiggere il male e le malattie.
A Novoli, in Puglia, viene accesa “la Fòcara”, una pira alta 25 metri per 20 metri di diametro, ed eretta con migliaia di fascine di tralci di vite arrivate da tutta la regione.
Sul Gargano a San Marco in Lamis (FG), nel passato i bambini erano soliti scavare per terra con le mani alla ricerca di pezzi di carbone, mentre a Mattinata e Monte Sant’Angelo (FG) “usavasi mangiare pancotto con pane conservato a Natale”. A San Nicandro Garganico (FG), verso l’imbrunire si accendono “i fuochi” (falò), che saranno ripetuti la sera del 20 gennaio festa di San Sebastiano e il 3 febbraio, festa di San Biagio. Al termine della cerimonia ogni persona prende una pala di brace e la porta a casa in segno di devozione. La cenere sarà sparsa successivamente nei campi affinché siano preservati da qualsiasi intemperia e produrre molti raccolti. Queste ultime notizie sono riprese dal volume di Grazia Galante “La religiosità popolare di San Marco in Lamis – Li còse de Ddì” (Levante editori).
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OGGI SI CELEBRA SAN VITTORIO MARTIRE
maggio 21, 2018
Il ‘Martyrologium Romanum’ riporta l’elenco ufficiale dei Santi e Beati della Chiesa, elencandone circa 10.000, tra i quali San Vittorio, martire a Cesarea, che si festeggia proprio oggi e lo si invoca contro il fulmine, la grandine, gli spiriti maligni, ecc. E, dal momento che il mio nome è Vittorio, consentitemi di ricordarlo.
San Vittorio non ha lasciato molte notizie di sé, si sa solo che ha subito il martirio a Cesarea di Cappadocia e che era un romano. Il “Martirologio Romano” lo ricorda il 21 maggio, insieme ad altri due martiri, Polieuto e Donato, che si celebrano lo stesso giorno. Altro non si sa. Comunque il gruppo lo si ritrova sempre nei martirologi storici occidentali. La mancanza di notizie, contrariamente alle regole, non l’ha messo nel dimenticatoio della storia, egli è certamente più nominato nei secoli successivi di quanto non fosse conosciuto in vita.
Vittorio è l’unico Santo con questo nome, proviene dal latino Victorius, variante di Victor (vincitore). In Inghilterra fu portato dalla celebre regina Vittoria il cui nome segnò anche un’epoca ed uno stile (vittoriani). È invocato contro il fulmine, la grandine e gli spiriti maligni. In Italia, la sua notorietà è dovuta al fatto che fu, com’è noto, il nome di diversi sovrani e principi di Casa Savoia.
Il nome Vittorio è tradotto in varie lingue, come ad esempio Vike, Viktor e Viktoria in Germania, oppure Victoire in Francia o ancora Victor e Victoria in Gran Bretagna e in Spagna, ed anche Vìtor in Portogallo e così via. Si narra che San Vittorio nacque a Marsiglia intorno al 300 d.C. e che divenne un ufficiale sotto Traiano, convertendosi più tardi al Cristianesimo, a seguito dei contatti avuti con alcuni prigionieri cristiani. Proprio questa sua conversione lo portò alla morte, tramite decapitazione, per essersi dichiarato cristiano. Caratteristiche di questo Santo: molto estroverso e gioviale, ha molto a cuore le amicizie e le alleanze, che considera una delle cose più belle della vita.
Vittorio ottiene le sue vittorie, non con la forza bruta, ma al contrario, per un misterioso dono di chiaroveggenza. È infaticabile ed energico, doti che stimolano la sua voglia di conoscenza, il sua impulso di operare.
Chi si chiama Vittorio è una persona cordiale e generosa, che ama stare in compagnia. Ama il lavoro di gruppo e desidera una famiglia numerosa. Tiene molto ai valori della famiglia e dell’amicizia, ed è disposto a fare di tutto per le persone che ama.
PREGHIERA A SAN VITTORIO DI CESAREA
O glorioso San Vittorio, con devozione rivolgiamo a te la nostra preghiera. Tu, sempre osservante degli insegnamenti del Vangelo, offristi la tua vita a Dio tra i tormenti del martirio.
Ammirando il tuo eroismo, imploriamo dal Signore di essere sempre fedeli alla nostra religione; mantenerci sereni nelle prove della vita e saper resistere alle tentazioni del demonio.
O San Vittorio, con la tua intercessione proteggici dai flagelli della natura e dagli spiriti maligni, conforta gli afflitti nel corpo e nello spirito.
Ottieni a tutti noi dal Signore la perseveranza, affinché al termine di questa vita, veniamo a contemplare, accanto a te il volto di Dio nella gloria del Paradiso.
Amen. |
In questi giorni si celebra a Taranto San Cataldo, nato a Munster (Irlanda) all’inizio del VII secolo e, dopo essere stato monaco e abate del Monastero di Lismore, divenne vescovo di Rachau. Durante un pellegrinaggio in Terra Santa, morì a Taranto, ove fu sepolto nella Cattedrale. Nel 1094, in occasione della ricostruzione dell’edificio, distrutto dai saraceni, fu ritrovato il corpo ed i tarantini lo considerarono loro vescovo.
Il 10 maggio è infatti il giorno in cui la Chiesa universale ricorda San Cataldo di Rachau, vescovo irlandese, è caro alla Puglia tanto da diventare non soltanto il Santo Patrono di Taranto, ma anche di Corato (BA).
Gaetano Bucci, scrittore e docente di Lettere a Corato, pubblicò qualche anno fa il volume “Alla San Cathal” (Edizioni Tipolito Martinelli s.n.c. Corato), nel quale descrive la vita del Santo venuto dall’Irlanda a Taranto, tra storia e leggenda, e la sua “elezione” anche a protettore della città di Corato col sostegno dei Frati francescani. Viene anche presentato il fascino della Grande Festa in suo onore in prosa, per immagini e in poesia.
San Cataldo è, come pochi, un Santo che incanta e affascina, sia per aver migrato ed essersi spostato in terre lontane, che per aver rappresentato con la sua vita di monaco, di pellegrino e di evangelizzatore un antesignano del cristiano che vive alla ricerca della fede e della sua testimonianza.
La “magnificenza” della figura del Santo definì e accompagnò il suo culto sin dalle origini. Dopo l’anno Mille, lentamente, si iniziò a venerare San Cataldo in alcune città rivierasche del sud Italia (Taranto, Barletta, Catania, Palermo e lungo le coste della Campania, fino a giungere al nord Italia (Supino e Verona).
L’autore passa in rassegna la storia e le leggende popolari. Il nome del Santo, che rappresenta un “nodo” mai veramente sciolto a causa della incertezza del nome originario “Cathal”, che pare derivare dal nome irlandese “Cathail” che significava “forte in guerra”. Da quest’ultimo nome, deriverebbe il cognome di “Cahill”, diffuso sia in Irlanda che negli Stati Uniti d’America. Nella “vicenda agiografica” del Santo il nome di riferimento diviene “Cathaldus o Cataldus”, da cui è poi derivato il nome “volgare” o “italianizzato” di Cataldo.
Nel volume vengono descritti il tempo, i luoghi, l’origine irlandese del Santo, il viaggio in Terra Santa, l’arrivo a Taranto, la predicazione e i miracoli. Viene ricordata l’origine del culto di San Cataldo a Corato e la eredità del Francescanesimo. Inoltre, si parla della Festa Grande di San Cataldo a Corato che è frutto di una lunga e complessa gestazione nella quale vi sono tracce bizantine, spagnole e barocche. Anche le feste dedicate a San Cataldo in Italia e all’estero vengono ricordate, compresa quella dei coratini a Torino che è stata la città che ha registrato il maggior numero degli emigranti di Corato, i quali sono riusciti non solo a darsi grande dignità e prospettiva, ma anche a mantenere e rinsaldare i legami con la città di origine.
L’autore ha anche inserito 60 sonetti in dialetto coratino “Le senett”, nel desiderio di recuperare e conservare l’anima più genuina e popolare del culto e della festa di San Cataldo a Corato (10 maggio), oltre al dialetto. Il numero dei sonetti, che rappresentano presumibilmente gli anni di vita del Santo, ripercorrono in una sorta di ‘saga paesana’, tutti i contenuti, le tradizioni e le storie più direttamente legate al Santo protettore di Corato ed al suo culto, richiamando momenti di storia della stessa città. La trascrizione in italiano dei sonetti allarga la fruizione degli stessi, anche se la resa, sul piano linguistico-espressivo e su quello ritmico-fonetico non è la stessa cosa. Alcuni sonetti sono stati tradotti in inglese, in segno di omaggio all’Irlanda ed alla città di Lismore, anche in considerazione del carattere europeo ante-litteram e trans-nazionale di San Cataldo.
A Corato, San Cataldo pellegrino e santo predicatore, assume anche il significato di “protettore della comunità”, soprattutto per i disastri naturali e le disgrazie collettive che la città ha subito nel passato.
Una ricca iconografia a colori e b/n, con le immagini del Santo, con la preziosa statua in argento, e di varie manifestazioni e una nutrita bibliografia, completano l’interessante volume finalizzato a soddisfare non solo le esigenze dei devoti di San Cataldo, degli abitanti di Corato e di Taranto, ma anche quelle degli studiosi e dei cultori della materia.
La copertina è del prof. Francesco Granito. |
OGGI SAN BIAGIO IL SANTO HE PROTEGGE LA GOLA E GLI OTORINOLARINGOIATRI
Com’è noto il 3 febbraio, ricorre la festività di San Biagio, indiscusso protettore della gola e degli specialisti otorinolaringoiatri. Biagio - il cui nome latino ‘Blasius’, deriva dall’aggettivo ‘blaesus’, balbuziente, ed a sua volta, dal greco ‘blaisos’, storto.
“Tra i Santi di più antica devozione che l’Oriente ha trasmesso all’Occidente tramite i documenti provenienti da Bisanzio nel periodo dell’Iconoclasmo, emerge la figura di San Biagio, ritenuto martire in Armenia al tempo dell’imperatore Licinio durante l’ultima, violenta ondata di persecuzioni contro i cristiani, accusati di contrastare la restaurazione dei culti tradizionali e di rifiutare la divinizzazione dell’imperatore”, scrive Stefania Colafranceschi nel suo capitolo “La Vita di San Biagio” (San Biagio Patrono di Cento – Minerva Edizioni).
Uno dei miracoli più noti è quello in cui si recò da lui una donna, il cui figlio era sul punto di morire a causa di una lisca di pesce che si era conficcata in gola e la benedizione del Santo con due ceri incrociati lo risanò immediatamente. Pare che il culto di San Biagio sia particolarmente diffuso al Sud, ove si celebra, come in altre chiese, il rito dei due ceri per la benedizione della gola.
San Biagio, martire e vescovo di Sebaste (Armenia), sarebbe stato martirizzato nel 316 per decapitazione, sotto la dominazione di Licinio (307-323).
Arrestato durante la persecuzione ordinata da Licinio, Biagio fu imprigionato, picchiato e sospeso ad un legno, dove con pettini di ferro gli fu scorticata la pelle e quindi lacerate le carni. Dopo un nuovo periodo di prigionia, fu gettato in un lago, dal quale uscì salvo, quindi per ordine dello stesso giudice, subì la decapitazione.
Il potere taumaturgico del Santo si estese nel tempo anche a numerose altre malattie: in Germania è invocato contro i mali della vescica, per l’affinità fra il suo nome e il termine tedesco che indica quest’organo.
San Biagio è stato innalzato alla dignità di santo ed è invocato contro i mali di gola. Il corpo di Biagio venne deposto nella sua cattedrale a Sebaste (Turchia), ma nel 732, mentre gli Arabi incalzano nella loro guerra di espansione religiosa, le sue spoglie vengono imbarcate da alcuni armeni alla volta di Roma. Secondo la leggenda, un’improvvisa tempesta costrinse la nave ad interrompere il viaggio nelle acque di Maratea (PZ) presso l’isolotto di Santo Ianni. Maratea rappresenta uno dei più importanti luoghi sacri di riferimento per i fedeli di San Biagio, poiché sede di un importante Basilica Pontificia che custodisce i resti del santo, tra cui il torace.
Il Santo viene ritratto da solo o con altri santi, rivestito con le insegne episcopali, spesso con il libro in mano o con altri attributi specifici, cioè con le candele incrociate, con il vaso delle medicine e, nei paesi germanici e scandinavi, con il corno da caccia. Da qui deriva il patronato affidato a San Biagio per i suonatori di strumenti a fiato e per estensione anche dei venti.
San Biagio fa anche parte dei quattordici santi cosiddetti ausiliatori, ossia, quei santi invocati per la guarigione di mali particolari. È venerato in moltissime città e località italiane, in molte delle quali è stato proclamato anche santo patrono. Interessanti sono anche alcune tradizioni popolari tramandatesi nel tempo in occasione dei festeggiamenti a lui riservati.
In molti posti la tradizione porta al consumo di particolari alimenti: a Milano si mangia l’ultima fetta di panettone avanzato da Natale, a Roma, presso la chiesa di San Biagio della Pagnotta erano offerti piccoli pani benedetti; a Ruvo di Puglia (ove il Santo ne è il protettore è venerata una statua in legno del XVI sec.) si benedicono e distribuiscono i «frecedduzze» (ciambelline a forma di nodo, quello della gola che il Santo deve sciogliere).
Lo scheletro del Santo è conservato a Maratea ma reliquie importanti sono presenti in molte Chiese. In Puglia sono a Ruvo, Carosino (un pezzo di lingua), Avetrana, Ostuni, Nardò, Gallipoli. Dal monastero situato sul monte Subasio invitano a bere la «birra di San Biagio» che «riflette la natura mistica di chi la produce». E consoliamoci perché il detto popolare avverte: «Per San Biagio il vento è andato... da ogni pertugio entra il sole».
Alcune di queste note sono state riprese dalla pubblicazione di Domenico Petrone e del sottoscritto “San Biagio tra storia, leggenda e tradizione” (ECA Edizioni). |
Il 17 gennaio, data fissa di inizio del Carnevale, si festeggia Sant’Antonio Abate, per i baresi ‘Sand’Andè’, che, a soli vent’anni, abbandonò ogni cosa per seguire il consiglio di Gesù: «Se vuoi essere perfetto, va’ vendi ciò che hai…», rifugiandosi in una zona deserta dell’Egitto tra antiche tombe abbandonate e successivamente sulle rive del Mar Rosso, dove visse per ottant’anni da eremita.
Antonio abate, uno dei più illustri eremiti della storia della Chiesa, nacque intorno al 250 a Coma, oggi Qumans, Egitto, e a vent'anni, come detto, abbandonò ogni cosa per vivere una vita anacoretica. La sua vicenda è raccontata da un discepolo, Sant'Atanasio, che contribuì a farne conoscere l’esempio in tutta la Chiesa e combatté duramente l’eresia di Ario. Suo grande sostenitore fu Sant’Antonio Abate, di cui scrisse la biografia. L’iconografia rappresenta il Santo con il bastone tipico degli eremiti, un maiale ai piedi, a simboleggiare il demonio, un campanello e la fiamma. E, proprio a causa del simbolo del maiale, Sant’Antonio divenne in breve il protettore degli animali domestici, mentre la fiamma ricorda la sua capacità di guaritore dell’ergotismo (intossicazione da alcaloidi della segala cornuta).
L’esperienza del “deserto” in senso reale o figurato, è ormai un metodo di vita ascetica, fatto di austerità, di sacrificio e di estrema solitudine: Sant’Antonio ne fu l’esempio più insigne e stimolante. Infatti, pur senza alcuna regola monastica, esercitò un grande influsso dapprima tra i suoi conterranei e poi in tutta la Chiesa.
A lui è associato il bastone a forma di T, tau, 19ª lettera dell’alfabeto greco, e un maiale. Cosa c’entra il maiale che per i cristiani era simbolo del male? Secondo gli studiosi all’inizio si trattava di un cinghiale, attributo del dio celtico Lug, dio del gioco e della divinazione, venerato in Gallia a cui erano consacrati cinghiali e maiali. Gli stessi sacerdoti venivano chiamati “Grandi Cinghiali Bianchi”, mentre il dio Lug regnava anche sugli inferi. L’emblema del cinghiale appariva anche sugli stendardi e sugli elmi dei celti. In realtà il maiale rappresenta simbolicamente il maligno e le seduzioni che i piaceri della carne provocano.
Vito Lozito (1943-2004), nel suo volume “Agiografia, Magia, Superstizione” (Levante Editori), fa una esauriente descrizione del protettore degli animali, morto ultracentenario nel 356. Nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggio nel tempo, da Alessandria a Costantinopoli, fino in Francia nell’XI secolo a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore. In questo luogo per venerarne le reliquie, affluivano folle di malati, soprattutto di ergotismo canceroso, causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segala, usata all’epoca per fare il pane. In epoche successive si adoperò il grasso di maiale che, posto sull’immaginetta del Santo, veniva portato dai monaci all’ammalato e usato per guarire le ferite del “fuoco sacro”. In questo modo era completa la figura di Sant’Antonio Abate, padrone del fuoco, vittorioso sulle tentazioni del demonio, del male e protettore del maiale.
Il morbo era conosciuto sin dall’antichità come ‘ignis sacer’ per il bruciore che provocava. Per ospitare gli ammalati, si costruì un ospedale e una Confraternita di religiosi, l’antico Ordine ospedaliero degli ‘Antoniani’, il cui villaggio prese il nome di Saint-Antoine di Viennois. Il papa
accordò loro il privilegio di allevare maiali per uso proprio e a spese della comunità, per cui i porcellini potevano circolare liberamente fra cortili e strade, nessuno li toccava se portavano una campanella di riconoscimento. Il loro grasso veniva usato, come già detto, per curare l’ergotismo (herpes zoster), che venne chiamato “il male di Sant’Antonio” e poi “fuoco di Sant’Antonio”
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Per superare, l’interpretazione negativa del maiale, presente nel pensiero ebraico- e cristiano comprendendo l’abbinamento iconografico santo-maiale immondo, è utile conoscere alcuni avvenimenti storici e leggendari.
Nel secolo XI, dopo la creazione dell’Ordine ospedaliero degli Antoniani, fu concesso ai monaci anche il diritto di allevare maiali che circolavano liberamente nelle città e nei luoghi ove sorgevano i loro conventi. Tale disposizione risultava necessaria dal momento che i maiali girando in villaggi e città provocavano numerosi danni. L’allevamento vero e proprio, tuttavia, era svolto per conto dei monaci, gratuitamente e per devozione dei contadini, i quali, ad opera compiuta, ricevevano protezione per se stessi e per i lavori da effettuare durante il ciclo annuale di produzione. Il maiale in questo modo era “sacralizzato” e perdeva la sua connotazione demoniaca, dal momento che diventava il tramite più vicino perché le masse contadine ottenessero rassicurazione e promesse di fecondità e fertilità.
Fu così che Sant’Antonio Abate divenne il protettore degli animali ed una testimonianza di festeggiamento romano ce l’ha lasciata il poeta tedesco Goethe, che in un suo diario parla del 17 gennaio 1787, giorno sereno e tiepido dopo una notte che aveva gelato, nel quale poté assistere alla consacrazione degli animali domestici, con cavalli e muli infiocchettati e benedetti con copiose aspersioni d’acqua santa.
A Bari si festeggia con la benedizione degli animali che da qualche anno si svolge nel centro storico, presso la Chiesa di Sant’Anna in via Palazzo di Città. |
STORIA, ARTE E CULTURA SU SAN BIAGIO, PATRONO DI CENTO
lunedì, maggio 29, 2017
Di San Biagio, il cui martirio si registra intorno al 316, non si conosce molto, ma quel tanto che basta a riconoscere e qualificare il Vescovo, protettore della gola e degli otorinolaringoiatri, che è anche patrono di Cento in provincia di Ferrara.
Recentemente è stato pubblicato a cura di Stefania Colafranceschi, Tiziana Contri e Cristina Grimaldi Fava, un elegante volume su “San Biagio Patrono di Cento” (Edizioni Minerva), nel quale è presente storia, cultura e una ricca iconografia relativa all’arte e alla devozione in Italia.
Il volume, presentato da Mons. Salvatore Baviera e Stefano Borghi, descrive la tradizione agiografica orientale (Riccardo Pane), l’iconografia di San Biagio (Colafranceschi), in cui illustra con magnifiche immagini, gli attributi relativi a San Biagio per quanto riguarda il martirio, le guarigioni, le intercessioni e la devozione in Italia.
In sostanza i curatori portano a nostra conoscenza, in dettaglio, la storia e la vita del Santo, non solo nella tradizione letteraria, ma anche attraverso le raffigurazioni dei vari artisti in una vasta rassegna di opere d’arte e le loro collocazioni e reperibilità.
Riccardo Pane analizza con cura le fonti armene, per scoprirne l’origine e la diffusione e ricostruisce la storia della chiesa armena e dell’Armenia, terra perseguitata da secoli, dove San Biagio è vissuto ed è morto.
Il capitolo dedicato a San Biagio, protettore di Cento, firmato da Tiziana Contri, ripercorre la crescita e la devozione che il popolo centese ha tributato al suo Santo, attraverso testimonianze colte e popolari che si sono susseguite nel tempo.
La pubblicazione, illustratissima e di grande formato, riporta anche un appendice documentaria (Colafranceschi) ed un elenco dei Patronati di San Biagio in Italia divisi per regione e di Parrocchie intitolate al vescovo armeno.
Un testo da non perdere per gli agiografi, gli studiosi dell’arte, i devoti e per tutti coloro che sono legati al Santo, che si festeggia il 3 febbraio, desiderosi di saperne di tutto e di più.
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Sapete perché il 14 febbraio è diventato il giorno degli innamorati? La risposta è data da una simpatica tradizione che viene dai paesi anglosassoni.
Nel medioevo, infatti, si riteneva che in questo giorno gli uccelli, avvertendo i primi tepori primaverili, cominciassero a nidificare, quindi si disse che la festa di San Valentino segnava l’annuale risveglio della vita e quindi dell’amore.
Fu così che il Santo è stato adottato come patrono e protettore degli innamorati di tutto il mondo. Ma pare che anche gli innamorati delusi hanno un protettore che, secondo una leggenda dell’area tarantina, è riconoscibile in San Vito e si festeggia il 15 giugno.
Chi era San Valentino? Correva l’anno 175 d.C. quando nacque a Terni Valentino, oggi patrono della Città, che dedicò la sua vita alla comunità cristiana che si era formata a cento chilometri da Roma, dove infuriava la persecuzione. L’eco degli eclatanti miracoli compiuti dal Santo, arrivò fino a Roma, diffondendosi in tutto l’impero, per cui fu consacrato primo Vescovo di Terni, ove ancora oggi si conservano le spoglie mortali.
Il suo nome è legato all’amore per un episodio che a quel tempo sollevò molto clamore.
Infatti la leggenda dice che Valentino fu il primo religioso a celebrare l’unione tra una giovane cristiana, Serapia, e un legionario pagàno. Molti furono in seguito a desiderare la sua benedizione, ancora oggi ricordata durante la festa della promessa nella Basilica che porta il suo nome.
Durante la sua visita pastorale fu amatissimo dalle popolazioni umbre, quando l’imperatore Aureliano ordinò atroci persecuzioni contro il clero cristiano.
San Valentino fu imprigionato e flagellato, lontano dalla città per evitare tumulti e rappresaglie dei fedeli e fu quindi martirizzato.
Era il 14 febbraio del 273 d.C.: una data che da quel momento viene ricordata in tutto il mondo per celebrare San Valentino, un Santo che fu ricco di umana simpatia e di fede quasi contagiosa.
Più recentemente Raymond Peynet, il pittore degli innamorati, ha saputo con la sua arte rapire e raccontare la magia dell’amore, evitando di tracciare i contorni della passione, dell’attrazione tra due amanti, per concentrarsi su tutto quello che c’è prima e dopo e che non si può descrivere con una parola o con un concetto.
Un colpo di fulmine che avviene in ogni momento, senza tempo né luogo. I suoi Valentino e Valentina nascono e vivono in un momento, fugace, nobile, affettuoso, gioioso e tenero: quello dell’innamoramento.
Sono gli innamorati per eccellenza, i romantici interpreti di un sentimento che nasce dal cuore: puri, leggeri, soavi, evanescenti nel loro appartenere l’uno all’altra ed entrambi ad un fantastico contorno, ad un mondo onirico in cui l’amore è il motore senza sosta del tutto.
In Puglia San Valentino è patrono di Vico del Gargano e gli abitanti vivono intensamente il culto del Santo dal 1618, quando entrarono in paese le sue reliquie, tuttora conservate presso la Chiesa Madre.
Il Santo viene invocato affinché i venti gelidi di tramontana e le gelate improvvise non mettano in pericolo il raccolto degli agrumi.
Vico del Gargano possiede un suo “Vicolo del bacio”. Si tratta del Vicolo che collega Via San Giuseppe al Rione Terra, lungo una trentina di metri e non più largo di 50 centimetri.
La leggenda vuole che questo Vicolo fosse una sorte di luogo benedetto per coppie di innamorati, uomini in cerca d’amore e donne in attesa di compagnia. I fidanzatini si davano appuntamento nel vicolo che attraversavano, più volte, da direzioni opposte per potersi toccare ad ogni passaggio.
È facile immaginare di quanti “scontri amorosi” sia stato testimone, nel tempo, il Vicolo del Bacio.
Durante i festeggiamenti, le Chiese e le strade sono ricolme di arance e limoni intrecciati con foglie d’alloro benedetto, ove chiunque può donare alla persona cara un’arancia presa dall’addobbo del Santo.
Le arance, dopo la festa, vengono spremute e bevute con la consapevolezza che il frutto si trasformerà in uno speciale filtro d’amore.
E se sei single? Interviene San Faustino, la cui ricorrenza cade proprio il 15 febbraio, subito dopo la festa degli innamorati, come per una ideale continuità.
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di GRAZIA STELLA ELIA - Un otorinolaringoiatra ed un giornalista si uniscono in un lavoro di ricerca sul Santo protettore dei malati di gola, ciascuno mosso da particolari motivazioni e danno alle stampe l’agile pubblicazione “San Biagio tra storia, leggenda e tradizione” (ECA, Pescara 2017).
Domenico Petrone, valido e ben noto otorinolaringoiatra, perché spinto dalla curiosità di saperne di più su quel Santo che, oltre a proteggere chi ha problemi di gola, è anche il protettore dei medici specialisti in malattie della gola.
Va detto per inciso che nel reparto ospedaliero in cui egli lavora, ogni anno, il 3 febbraio, San Biagio viene festeggiato con una degna celebrazione.
Il secondo autore, Vittorio Polito, giornalista impegnato in importanti ricerche relative a tradizioni, usi e costumi e dialetto dell’amatissima Bari, ha inteso approfondire la conoscenza di un Santo amato in Oriente e in Occidente e particolarmente venerato in Puglia.
Sono tante, infatti, le località pugliesi che vantano di possedere qualche reliquia di San Biagio. Si tratta di un Santo al quale è rivolto un culto antico. Inserito nei ‘Menologi’ e nel ‘Martirologio Geronimiano’, era considerato un medico. Soggetto alle persecuzioni, si ritirò in una spelonca, dove curava gli animali ammalati. Fu scoperto e ucciso con la decapitazione.
Tra i miracoli da lui compiuti, il più noto è la guarigione di un giovane che fu sul punto di morire a causa di una lisca di pesce rimastagli nella gola. Il suo potere taumaturgico è testimoniato da uno dei più noti medici bizantini del IV secolo, Ezio di Amida.
San Biagio fa parte dei quattordici Santi Ausiliatori, cioè quei Santi invocati per la guarigione di mali particolari. Venerato in molte località europee e dell’Italia, viene invocato in molti posti della Puglia, specialmente dove la presenza dei monaci basiliani ne diffuse il culto.
Importante va ritenuto, dal punto di vista demologico, il lavoro dei due autori riguardo alle località, italiane e straniere, dove il culto per questo Santo è ancora espresso con particolari manifestazioni religiose e folcloristiche. I festeggiamenti in onore di San Biagio si svolgono in Oriente l’11 febbraio e in Occidente il 3 febbraio, cioè il giorno dopo la Candelora, che viene considerato come chiusura dell’inverno e apertura ai primi segnali della dolce primavera.
Non mancano le ‘Curiosità’ legate al 3 febbraio: candele incrociate, il Santo e la filatelia, il panettone e Milano, la birra di San Biagio, prodotta nel monastero di San Biagio, nel Parco del Monte Subasio; una birra speciale, con profumi, colori e gusti certamente particolari.
Sono riportate alcune preghiere da rivolgere al Santo ed anche alcuni detti popolari, come questo, simbolico del ritorno della fertilità: “Nel giorno della festa di San Biagio ogni pollastra fa l’uovo”. Si leggono poi pagine di medicina tra il popolare e lo scientifico, che esortano alla moderazione, ad evitare i cosiddetti “peccati di gola”.
Si trovano di seguito i più semplici consigli per curare i mali di gola e, per finire, le notizie riguardanti San Cono, protettore dei mali del naso e delle orecchie e alcuni cenni su San Francesco di Sales, protettore dei sordomuti. Si tratta, dunque, di un libro (definito, per modestia, opuscolo dal Dottor Petrone) che, “lungi dal voler essere un testo-documentario sulla vita del Santo, è un piccolo omaggio da offrire a Colui che ‘dietro le quinte’ accompagna ogni gesto della Professione…”.
Ci piace dire che “San Biagio tra storia, leggenda e tradizione” è anche altro e di più. Sono infatti pagine che, tra lo storico e il leggendario, illuminate da belle immagini (magnifica quella che riproduce lo splendido rosone della cattedrale rubastina) servono a rinverdire e rafforzare la devozione a San Biagio per le sue straordinarie virtù taumaturgiche.
Meritano menzione Valentina Faricelli, Antonio Lauriola, Lara D’Onofrio e Mauro Menzietti, per il loro apporto tecnico-grafico, e l’Istituto Acustico Italiano Maico per il contributo, i quali tutti hanno reso possibile la realizzazione del volume. |
OTORINOLARINGOIATRI IN FESTA PER SAN BIAGIO, PROTETTORE DELLA GOLA
1/26/2017 08:56:00 AM
BARI - Il 3 febbraio di ogni anno si commemora San Biagio, protettore della gola e degli otorinolaringoiatri. Domenico Petrone, direttore dell’Unità Operativa di Otorinolaringologia dell’Ospedale “Di Venere” di Bari-Carbonara, e Vittorio Polito, giornalista e scrittore, hanno pensato bene di pubblicare, in omaggio a San Biagio, vescovo di Sebaste (Armenia), il libretto “San Biagio tra storia, leggenda e tradizione” edita da ECA
(Edizioni Comunicazioni Adriatiche), che non vuole essere un testo-documentario, ma una raccolta di notizie in cui sono messe in evidenza storia, leggende e curiosità su Colui che, “dietro le quinte”, accompagna ogni gesto della professione specialistica, proteggendo nel contempo anche coloro che sono affetti da malattie della gola.
Gli autori, dopo una serie di ricerche, descrivono vita, miracoli e vicissitudini del Vescovo di Sebaste. È notorio il miracolo di San Biagio che salva un ragazzo che stava per soffocare a causa di una lisca di pesce che si era conficcata in gola. Il prodigio inasprì le autorità che tentarono di far rinnegare la fede a Biagio, ma il Santo con fermezza dimostrò che quello era un atto indegno di una creatura ragionevole, per cui un giudice lo fece battere con verghe e poi lasciato languire in carcere.
Parte delle sue spoglie sono presenti a Maratea (PZ), uno dei più importanti luoghi sacri di riferimento per i fedeli di San Biagio, ove viene festeggiato due volte l’anno, il 3 febbraio, giorno della sua morte, e la seconda Domenica di Maggio, in occasione della ricorrenza della traslazione, con un cerimoniale stabilito da un protocollo di diversi secoli.
In Puglia, nella Cattedrale di Ruvo, è custodito un frammento del braccio del Santo ed una statua lignea; a Carosino (TA), è conservato un pezzo di lingua; ad Avetrana (TA), un frammento della gola, ad Ostuni (BR), un frammento di osso. Altre reliquie sono presenti in altre località.
Petrone e Polito, hanno allargato le ricerche a leggende e tradizioni. E così ci fanno sapere che a Cannara (PG) i festeggiamenti del Santo sono occasione per sfidarsi in antichi giochi di abilità; a Fiuggi, invece, la sera prima della festa, si bruciano nella Piazza davanti al Municipio, le “stuzze”, grandi cataste di legna a forma piramidale, in ricordo del miracolo avvenuto nel 1298 che vide San Biagio far apparire delle finte fiamme in città, costringendo le truppe nemiche, che attendevano fuori le mura, a ripiegare, pensando di essere stati preceduti dagli alleati.
Nel volumetto non mancano curiosità, preghiere, immagini, detti popolari, “consigli” empirici, una nota che tratta la gola nell’accezione popolare, su come curare il mal di gola, tradizioni popolari ed anche la menzione di altri protettori degli Otorinolaringoiatri, come San Cono e San Francesco di Sales, quest’ultimo protettore dei sordomuti.
La pubblicazione è stata resa possibile con il contributo dell’Istituto Acustico Maico.
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Il 17 gennaio di ogni anno, in molti comuni italiani, si benedicono gli animali. Qualcuno sostiene che in questa notte gli animali possano addirittura parlare (?), ma da dove trae origine questa festa? Perché tanta importanza ai… maiali?
Con la celebrazione della festa di Sant’Antonio Abate (Sand’Andè per i baresi), inizia, il 17 gennaio di ogni anno, il periodo dedicato al Carnevale. Il Santo di cui parliamo a soli vent’anni, abbandonò ogni cosa per seguire il consiglio di Gesù: «Se vuoi essere perfetto, va’ vendi ciò che hai…», rifugiandosi così in una zona deserta dell’Egitto tra antiche tombe abbandonate e successivamente sulle rive del Mar Rosso, dove visse per ottant’anni da eremita.
L’esperienza del “deserto”, in senso reale o figurato, è ormai un metodo di vita ascetica, fatto di austerità, di sacrificio e di estrema solitudine. S. Antonio ne fu l’esempio più insigne e stimolante. Infatti, pur senza alcuna regola monastica, esercitò un grande influsso dapprima tra i suoi conterranei e poi in tutta la Chiesa.
A lui è associato il bastone a T, tau, 19ª lettera dell’alfabeto greco, e un maiale. Cosa c’entra il maiale, che per i cristiani era simbolo del male? Secondo gli studiosi all’inizio si trattava di un cinghiale, attributo del dio celtico Lug, dio del gioco e della divinazione, venerato in Gallia a cui erano consacrati cinghiali e maiali. Gli stessi sacerdoti venivano chiamati “Grandi Cinghiali Bianchi”, mentre il dio Lug regnava anche sugli inferi. L’emblema del cinghiale appariva anche sugli stendardi e sugli elmi dei celti. In realtà il maiale rappresenta simbolicamente il maligno e le seduzioni che i piaceri della carne provocano.
Vito Lozito, nel suo volume “Agiografia, Magia, Superstizione” (Levante Editori), fa una esauriente descrizione del protettore degli animali, nato intorno al 250 a Coman in Egitto e morto ultracentenario nel 356. Negli ultimi anni accolse presso di sé due monaci che l’accudirono nell’estrema vecchiaia; morì a 106 anni, il 17 gennaio del 356 e fu seppellito in un luogo segreto.
Nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggio nel tempo, da Alessandria a Costantinopoli, fino in Francia nell’XI secolo a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore.
In questo luogo per venerarne le reliquie, affluivano folle di malati, soprattutto di “ergotismo” (herpes zoster, cosiddetto “fuoco di S. Antonio”), causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segala, usata all’epoca per fare il pane.
I monaci Antoniani, infatti, consigliavano di «implorare il patrocinio del Santo e di cospargere le parti malate con il vino nel quale erano state immerse le sacre reliquie». In epoche successive si adoperò il grasso di maiale che, posto sull’immaginetta del Santo, veniva portato dai monaci all’ammalato e usato per guarire le ferite del “fuoco sacro”. In questo modo era completa la figura di Sant’Antonio abate, padrone del fuoco, vittorioso sulle tentazioni del demonio, del male e protettore del maiale.
Il morbo era conosciuto sin dall’antichità come ‘ignis sacer’ per il bruciore che provocava. Per gli ammalati che giungevano da lontano, si costruì un ospedale e una Confraternita di religiosi, l’antico Ordine ospedaliero degli ‘Antoniani’; il cui villaggio prese il nome di ‘Saint-Antoine de Viennois’. Il papa accordò loro il privilegio di allevare maiali per uso proprio e a spese della comunità, per cui i porcellini potevano circolare liberamente fra cortili e strade, nessuno li toccava se portavano una campanella di riconoscimento. Tale disposizione risultava necessaria dal momento che i maiali, girando per villaggi e città, provocavano numerosi danni.
L’allevamento vero e proprio, tuttavia, era svolto per conto dei monaci, gratuitamente e per devozione dei contadini, i quali, ad opera compiuta, ricevevano protezione per se stessi e per i lavori da effettuare durante il ciclo annuale di produzione. Il maiale in questo modo era “sacralizzato” e perdeva la sua connotazione demoniaca, dal momento che diventava il tramite più vicino perché le masse contadine ottenessero rassicurazione e promesse di fecondità e fertilità.
Fu così che Sant’Antonio Abate divenne il protettore degli animali ed una testimonianza di festeggiamento romano ce l’ha lasciata il poeta tedesco Goethe, che in un suo diario parla del 17 gennaio 1787, giorno sereno e tiepido dopo una notte che aveva gelato, nel quale poté assistere alla consacrazione degli animali domestici, con cavalli e muli infiocchettati e benedetti con copiose aspersioni d’acqua santa.
A Bari da qualche anno la benedizione degli animali, domestici e da cortile, si svolge sulla Piazzetta antistante la Chiesa di Sant’Anna, via Palazzo di Città, nel centro storico.
A Bari da qualche anno la benedizione degli animali, domestici e da cortile, si svolge sulla Piazzetta antistante la Chiesa di Sant’Anna, via Palazzo di Città, nel centro storico.
Ed infine qualche curiosità. In alcune località delle Marche, la festa di Sant’Antonio si festeggia anche con balli popolari, specie con il saltarello, accompagnato da corni e tamburi sino a tarda notte. Anche il fuoco è considerato parte integrante della festa. Secondo alcuni i riti attorno alla figura del Santo testimoniano un forte legame con le culture precristiane, soprattutto quella celtica e druidica. Una festa dunque di origini antiche finalizzata a sconfiggere il male e le malattie.
Una delle feste più belle si svolge a Soriano nel Cimino, nel Lazio, con la benedizione degli animali e la sfilata nel centro della cittadina del viterbese del carro del “Signore della Festa”. A Bagnaia, sempre nel viterbese, viene accesa una enorme pira, alta otto metri per circa 30 di diametro, che brucia per tutta la notte tra il 16 e il 17 gennaio. E, sempre la sera del 16 gennaio, due enormi torcioni di cinque metri di altezza, vengono accesi tradizionalmente a Collelongo (L’Aquila).
In Sardegna si fanno enormi falò, ma il fuoco più grande viene acceso a Novoli, in Puglia, denominata “la Fòcara” alta 25 metri, per 20 metri di diametro, ed eretto con migliaia di fascine di tralci di vite arrivate da tutta la regione. |
È stato pubblicato da “Basilica San Nicola Editore” il volume di grande formato “San Domenico – Fondatore dell’Ordine dei Frati Predicatori”, di padre Gerardo Cioffari o.p., eccelso storico della Basilica.
Il volume è stato edito in occasione delle celebrazioni degli 800 anni della nascita dell’Ordine domenicano e l’incarico a padre Cioffari e a fr. Santo Pagnotta (responsabile della grafica e dell’impostazione editoriale) è stata voluta dal Priore Provinciale Francesco La Vecchia, col consenso del Consiglio Provinciale.
Scrivere la Vita di un Santo come Domenico non è cosa facile, ma per padre Gerardo Cioffari, grande agiografo di San Nicola, non è stata cosa difficile, essendo anche poliglotta.
“Fr. Gerardo – scrive il priore provinciale nella presentazione - persegue lo scopo di offrire un’immagine di Domenico più aderente alla realtà, in cui il Santo è sempre spinto da motivazioni spirituali, ma è al contempo dotato di un forte senso della realtà concreta”.
Molti scrittori domenicani hanno preferito riempire i vuoti documentari con retorici discorsi sulle sue virtù, o con stereotipi vari in cui si fanno apparire come dati certi quelle che sono solo supposizioni. Ma padre Cioffari, è andato oltre, ha tentato di staccarsi da questa storiografia tradizionale, prendendo sul serio ed analizzando quanto scrivono quegli studiosi che ardiscono mettere in discussione dei “dogmi” della storiografia domenicana.
Scrive padre Cioffari nella premessa: “Dato che ritengo che la vita dell’uomo Domenico è bella in sé, non ho ritenuto opportuno appesantirla con una santità “senza macchia sempre. La santità non è nel non cadere, ma nel trovare la forza di rialzarsi. Anche Domenico fu un uomo del suo tempo, e il suo fu un tempo di grandi sconvolgimenti. Tutta la sua predicazione si svolse in un contesto di inaudite violenze, perpetrate anche dai suoi amici, ecclesiastici e non”.
Il Priore, fr. Francesco La Vecchia, ringrazia fr. Gerardo Cioffari e fr. Santo Pagnotta per aver contribuito con il volume di cui parliamo a celebrare il Giubileo dell’Ordine. Un contributo che, inserendosi per vocazione “in medio Ecclesiæ”, continua a narrare la storia dei figli di Domenico, pronti a cercare quella Verità che rende possibile ogni Carità.
Il volume è elegantemente confezionato, illustrato e con una impaginazione forse anche troppo appariscente per la materia trattata, giustificabile con gli 800 anni “d’età anagrafica” dell’Ordine, ed è disponibile presso la stessa Basilica di Bari.
La cultura e l’impegno di Cioffari ci ricordano che “Non omnia possumus omnes” e in questo penso al sottoscritto e a tanti miei colleghi “impegnati oltre”. |
L’editore AGA di Alberobello ha pubblicato recentemente il volume illustrato e di grande formato “I Santi Patroni delle Forze di Polizia”, a cura di Vinicio Aquaro, scrittore e saggista, con la collaborazione di Gian Carlo Pozzo, Dirigente Generale di Pubblica Sicurezza, Santo Marcianò, Arcivescovo Militare per l’Italia, Giuseppe Casetta OSB, Abate Generale, Don Giuseppe Cangiano, Coordinatore Nazionale Polizia di Stato, Don Virgilio Balducchi, Ispettore generale Cappellani Carceri, Loretta Cardoni, Assunta Lanni, Francesco Gosciu, Raffaele Romano, Francesco Cacucci, Salvatore Pede, Donato Mazzaro.
Il protettore, com’è noto, è un Santo, oggetto di particolare culto, nella convinzione che egli possa intercedere presso Dio in favore di una categoria di persone o di una comunità. Essi non sono soltanto un riferimento religioso, ma costituiscono una cattedra di insegnamenti e di testimonianze di enorme portata etica.
Le tipologie canoniche di patrocinio, scrive Vinicio Aquaro nella premessa, sono tre: “patronato angelico” con l’Arcangelo Michele, “patronato mariano” con la Virgo Fidelis e “patronato santuale” con San Matteo, San Basilide e San Giovanni Gualberto.
I vari contributi ci parlano di San Michele Arcangelo, principe delle schiere celesti e Protettore della Polizia di Stato; della “Virgo Fidelis” (appellativo di Maria madre di Gesù), patrona dell’Arma dei Carabinieri, ispirata alla fedeltà che è caratteristica dell’Arma dei Carabinieri che ha per motto “Nei secoli Fedele”; San Matteo, apostolo ed evangelista, protettore della Guardia di Finanza.
La città di Salerno, che custodisce le spoglie del Santo, fu determinante nel far attribuire a San Matteo il patronato della Guardia di Finanza; San Basilide, patrono della Polizia Penitenziaria fu soldato addetto a scortare i condannati. Con Bolla Pontificia del 12 settembre 1949, Papa Pio XII, dichiarava San Basilide, patrono di tutto il personale di custodia degli istituti penitenziari italiani.
Infine, si ricorda San Giovanni Gualberto, protettore dei Forestali, incaricato a realizzare rimboschimenti, rinsaldamenti e opere costruttive connesse, sistemazioni idraulico-forestali, ecc., dichiarato, dallo stesso Papa Pio XII, con atto del 12 gennaio 1951, “Celeste Principale Patrono presso Dio dei Forestali d’Italia con tutti gli onori e privilegi liturgici che giuridicamente competono ai Patroni, Principali delle Aggregazioni”.
E per concludere riporto, per brevità, la sola preghiera a San Michele della Polizia di Stato, rimandando per le altre al testo citato.
Preghiera della Polizia di Stato
San Michele Arcangelo, nostro celeste Patrono, che hai vinto gli spiriti ribelli - nemici della Verità e della Giustizia - rendi forti e generosi, nella reverenza e nell’adesione alla Legge del Signore, quanti la Patria ha chiamato ad assicurare concordia, onestà e pace tra i suoi cittadini, affinché - nel rispetto della legge - sia alimentino lo spirito di umana fraternità.
Per questo, imploriamo dal tuo Patrocinio, rettitudine alle nostre menti, vigore ai nostri voleri, onestà ai nostri affetti per la serenità delle nostre case e per la dignità della nostra terra.
Amen |
SANT'ANTONIO DA PADOVA, TEOLOGO E DOTTORE DELLA CHIESA
Sant’Antonio di Padova, primogenito di una nobile, potente e ricca famiglia del Portogallo, è nato a Lisbona tra il 1190 ed il 1195 e gli fu imposto il nome di Fernando, mentre il giorno esatto è ancora oggetto di discussione.
Nonostante i progetti ambiziosi che nutrivano i loro genitori per Fernando, questi a 15 anni è già novizio nel monastero di San Vincenzo a Lisbona, trasferendosi poi al monastero di Santa Croce di Coimbra, il maggior centro culturale del Portogallo, dove studia scienze e teologia, studi finalizzati all’ordinazione sacerdotale che avverrà nel 1219.
Nel monastero di Coimbra l’atmosfera era molto pesante, dal momento che era notevole l’ingerenza della Casa Reale, ed il priore Giovanni, forte della regia protezione, sperperava i beni della comunità conducendo addirittura una vita mondana, causando una divisione faziosa dei canonici che si schierarono pro o contro il priore.
Nel 1220 lo scandalo si allargò a tal punto che si rese necessario addirittura l’intervento del Papa, ma Fernando seppe estraniarsi dalla triste lotta, anche se ci fu qualche tentativo di coinvolgerlo dall’una o dall’altra parte. A questo punto, in seguito all’uccisione in Marocco di cinque missionari francescani, Fernando, colpito dalla gioia e dalla fede di questi frati, prese la decisione di abbandonare il suo Ordine e di entrare fra i francescani, dopo aver conosciuto il loro stile di vita e la figura carismatica di San Francesco. Questa decisione fu anche rapportata alla mediocrità della propria vita e del clima di compromessi che regnava nell’Abbazia da lui frequentata.
I frati francescani furono ben lieti di questa decisione, anche in considerazione del fatto che Fernando era un uomo colto, ma il priore, che era di tutt’altro avviso, ebbe qualche esitazione prima di concedere il consenso necessario al passaggio alla comunità dei frati minori. Cosa che avvenne fra le vibranti proteste dei parenti, assumendo il nome di Antonio, lasciando la comunità di Santa Croce e trasferendosi a Olivais. Il buon Antonio raggiunge il Marocco ma viene colpito da una malattia che lo costringe a ritornare in patria.
Fallì in questo modo il suo generoso sogno di apostolato e di martirio. Ma nella traversata di ritorno il veliero che lo riportava in Italia fu costretto, per le avverse condizioni atmosferiche, a cambiare rotta e ad attraccare sulle coste della Sicilia. Fu ospitato dai frati di Messina e per il suo fisico provato dalla malattia la convalescenza fu un vero toccasana.
Ad Assisi intanto stava per aprirsi il Capitolo generale dei frati Minori, presieduto da San Francesco, al quale furono invitati tutti i frati e così anche Antonio si incamminò verso la città umbra, ove convennero oltre 3000 frati sistemati in accampamenti di fortuna tra capanne e stuoie.
L’occasione fu propizia per Antonio, dal momento che ebbe la possibilità di incontrarsi con San Francesco, il Poverello che influì positivamente sulla decisione di seguirlo. Accettò così l’offerta di raggiungere l’eremo di Montepaolo in Romagna, espletando umili lavori di pulizia, non facendo mai trapelare la sua profonda cultura teologica ed i confratelli lo ritenevano più pratico di stoviglie che di teologia.
Intorno al 1222 un evento fece scoprire finalmente il suo talento e il suo eccezionale temperamento di predicatore. Infatti, mentre si trovava a Forlì in occasione di una ordinazione sacerdotale, mancando il predicatore incaricato, il superiore lo pregò di sostituirlo, anche perché nessuno si sentiva di improvvisare l’omelia. Il discorso rivelò l’ardente spiritualità e la profonda cultura biblica di Antonio e gli fu così conferito l’incarico di predicatore
Tra il 1223 ed il 1224, mentre il Santo si trovava a Bologna, a quel tempo era il secondo centro universitario della Cristianità dopo Parigi, ricevette da San Francesco, l’incarico di predicare al popolo, ed anche l’approvazione per l’apertura di una scuola di teologia: venne così inaugurato il primo Studium francescano e il Santo di Padova fu il primo docente di teologia dell’Ordine dei Minori. San Francesco nella lettera dell’incarico esprimeva anche il proprio rispetto verso il teologo Antonio che evidentemente era considerato quanto di meglio al momento disponeva l’Ordine.
Verso la fine del 1224 Antonio venne inviato nella Francia meridionale, forse su richiesta dello stesso Pontefice, per tentare di arginare una dilagante eresia albigese (dal nome dell’eretico Albigi). Si spostò poi ad Arles, ove si riunì il Capitolo provinciale di Provenza: qui mentre Antonio stava tenendo una predica, apparve San Francesco in atto di benedire i suoi frati. L’avvenimento fu considerato misterioso e impressionante dal momento che San Francesco si trovava in Italia, cingendo di un alone soprannaturale il missionario. |
Santuario di Sant'Antonio, Bari |
Di ritorno in Italia gli fu affidata nuovamente la provincia di Romagna comprensivo di un vasto territorio che lo costrinse a visitare periodicamente tutti i conventi della sua giurisdizione.
Le sue prediche e il suo insegnamento erano centrati sulla penitenza e sulla confessione. I vizi contro i quali Antonio si batteva e condannava con maggiore intensità erano il furto, l’usura, la superbia, la lussuria e l’avarizia.
Per pregare in solitudine si fece costruire una cella in un grande albero di noce nelle vicinanze del convento ed a sera rientrava nell’eremo.
Il 13 giugno 1231 – unica data certa della vita del Santo – Antonio fu colpito da un collasso; i frati che lo soccorsero si resero subito conto della gravità della situazione e poiché il Santo manifestò l’idea di essere riportato al convento di Santa Maria Mater Domini di Padova, i suoi fedeli frati, mentre lo accompagnavano, si resero conto che la situazione diventava sempre più grave. Allora decisero di fermarsi al monastero di Santa Maria de Cella (Arcella) e Antonio fu adagiato su un lettino in una cella ed i frati gli si strinsero intorno per accompagnare con la preghiera le sue ultime ore. Morì a 36 anni non ancora compiuti.
Solo nel 1263 il suo corpo fu traslato nella nuova chiesa; per l’occasione venne aperto il sarcofago, presente San Bonaventura, e fu notato che la lingua era intatta. San Bonaventura la mostrò alla folla esclamando: “O lingua benedetta, che sempre hai benedetto il Signore e lo hai fatto benedire dagli altri, ora è a tutti noi noto quanto merito hai acquistato presso Dio”. Nessuna immagine del Santo è disponibile dal vero. Le rappresentazioni popolari ce lo presentano come un giovane di grossa corporatura, vestito del saio religioso. Il libro che lo accompagna è il simbolo della sua solida conoscenza della Scrittura. Compare anche un giglio, simbolo di castità e spesso porta in braccio Gesù Bambino in ricordo di una apparizione, avvenuta in una delle sue frequenti estasi.
Pio XII nel 1946 lo proclamò “Dottore della Chiesa”.
Giovanni Paolo II, in occasione della sua visita a Padova (12 settembre 1982), definì Sant’Antonio “uomo evangelico”, dichiarando che «Se noi lo onoriamo come tale, è perché noi crediamo che lo Spirito Santo ha abitato in lui in modo straordinario arricchendolo con i suoi meravigliosi doni».
Ed ora qualche curiosità. Al Santo è attribuito il potere di ritrovare gli oggetti smarriti, caratteristica che si addice anche ai portatori del nome Antonio, che non considerano mai una partita persa. A proposito dell’etimologia del nome, gli esperti propongono due versioni: dal greco anthos, “fiore”, e dal latino antonius, “inestimabile”. La diversità è forse solo apparente: per esprimere il concetto di migliore non si usa forse l’immagine del fiore? Più probabilmente il nome Antonio deriva dal patronimico romano Antonius, appartenuto al tribuno Marcantonio, che si arrese prima al fascino di Cleopatra e poi all’esercito di Giulio Cesare.
Sant’Antonio da Padova, Patrono del Portogallo, è anche protettore degli orfani, dei messaggeri, delle reclute, dei naufraghi, degli affamati, dei poveri e dei prigionieri.
In Puglia Sant’Antonio è tra i più festeggiati. Numerose sono le manifestazioni a lui dedicate. Bari, Martina Franca, Ceglie Messapica, Fragagnano, Salve, Ortanova, San Paolo Civitate, Cisternino, Mottola, Gioia del Colle, Alberobello, Alessano, Minervino di Lecce, Felline, Galatina e Ugento, che rappresentano solo una parte delle città che vedono la partecipazione di molti cittadini, particolarmente devoti al Santo di Padova, in occasione delle celebrazioni.
La Chiesa di Sant’Antonio da Padova di Bari è stata elevata recentemente (8 dicembre 2015), al rango di Santuario dall’Arcivescovo di Bari-Bitonto, Monsignor Francesco Cacucci.
Si festeggia, com’è noto, il 13 giugno, giorno della sua morte. |
SAN BIAGIO PROTETTORE DELLA GOLA E DEGLI OTORINOLARINGOIATRI
San Biagio, martire e vescovo di Sebaste (Armenia), è indicato in alcuni atti, non si sa in base a quale fondamento, come medico. Il suo martirio sarebbe avvenuto sotto Diocleziano o Licinio, ma l’opinione preferibile è per l’epoca di Licinio (307-323).
Scoppiata la persecuzione, Biagio si allontanò dalla sua sede vescovile e andò a vivere in una caverna, dove guariva con un segno di croce gli animali sofferenti. Scoperto da alcuni cacciatori in mezzo ad un branco di bestie e denunciato al magistrato, venne catturato e rinchiuso in prigione.
Un giorno si recò da lui una donna, il cui figlio era sul punto di morire a causa di una lisca di pesce che si era conficcata in gola.
La benedizione del Santo con due ceri incrociati lo risanò immediatamente. Fra tanti miracoli, operati anche durante le torture, merita particolare ricordo quello della vedova, alla quale un lupo aveva portato via un maialino.
La donna, riavuta la sua bestia per intercessione di Biagio, in segno di riconoscenza portò cibi e candele al Santo che, commosso, le disse: «Offri ogni anno una candela alla chiesa che sarà innalzata al mio nome ed avrai molto bene e nulla ti mancherà».
San Biagio subì la decapitazione (probabilmente il 3 febbraio del 316). Il suo culto è tra i più diffusi in Oriente e in Occidente, sebbene, sembra, non si affermò immediatamente dopo la sua morte
La festa è celebrata dagli orientali l’11 febbraio, dagli occidentali, invece, il 3 o anche il 15 dello stesso mese. Numerose le chiese e gli oratori a lui dedicati in ogni parte del mondo cristiano: a Roma se ne contano diverse tra cui la Cappella sulla via Giulia.
Nella nostra Regione San Biagio è protettore di Ruvo di Puglia (BA), dal momento che nel 1857 in occasione di una grave epidemia che colpì la gola di molti bambini, fu esposta la reliquia del Santo che compì il prodigio di far scomparire il morbo e da quel momento San Biagio fu eletto a protettore della città.
Nel corso delle celebrazioni la tradizione prescrive la benedizione dei nastrini (re mesiure), che vengono messi al collo dei bambini e tarallini di varia forma (frecedduzze), raffiguranti la mano benedicente, il bastone e la mitra del Santo. Il vescovo guaritore è patrono anche di Avetrana (TA) e di Corsano (LE).
Numerose sono anche le opere in cui gli artisti vollero mettere in luce soprattutto la grandezza della figura del Santo, raffigurandolo seduto in trono, vestito di sontuosi paramenti sacri, le mani levate in alto con gesto benedicente, la croce episcopale e le insegne del martirio.
Nel giorno della sua festa, in Spagna, Francia e Germania, vengono distribuiti speciali piccoli pani, che nella forma ricordano le parti malate. Anche a Roma, nella Chiesa di San Biagio della Pagnotta, tale tradizione sopravvive, mentre a Milano, e pian piano anche nel resto d’Italia, si mangia una fetta di “Panettone di San Biagio” che sarebbe poi quello avanzato durante le festività natalizie.
In occasione della sua festa, che in Italia ricorre il 3 febbraio, vengono celebrate messe e festeggiamenti nei reparti di otorinolaringoiatria che considerano San Biagio protettore della gola e degli specialisti. |
domenica, febbraio 08, 2015 Attualità , Cultura e Spettacoli
A SAN VALENTINO E' D'AMORE OGNI BACINO
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Valentino, sacerdote romano, nonostante la sua amicizia con l’imperatore Claudio il Gotico, fu ugualmente mandato al supplizio, per aver convertito al cristianesimo il prefetto Asterio e tutta la sua famiglia
Ma chi era San Valentino? Correva l’anno 175 d.C. quando nacque a Terni Valentino, oggi patrono della Città, che dedicò la sua vita alla comunità cristiana che si era formata a cento chilometri da Roma, ove infuriava la persecuzione dei cristiani.
L’eco degli eclatanti miracoli compiuti dal Santo, arrivò fino a Roma, diffondendosi in tutto l’impero, per cui fu consacrato primo vescovo di Terni, ove ancora oggi si conservano nella Basilica a lui dedicata le spoglie mortali.
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Il suo nome è legato all’amore per un episodio che a quel tempo sollevò molto clamore. Infatti la leggenda narra che Valentino fu il primo religioso a celebrare l’unione tra la giovane cristiana, Serapia, e il legionario pagano Sabino. Molti furono in seguito a desiderare la sua benedizione, ancora oggi ricordata durante la festa della promessa nella Basilica che porta il suo nome. Durante la sua visita pastorale fu amatissimo dalle popolazioni umbre, quando l’imperatore Aureliano ordinò atroci persecuzioni contro il clero cristiano. San Valentino fu imprigionato e flagellato, lontano dalla città per evitare tumulti e rappresaglie dei fedeli e fu quindi martirizzato. Era il 14 febbraio del 273 d.C.: una data che da quel momento viene ricordata in tutto il mondo per celebrare San Valentino, un Santo che fu ricco di umana simpatia e di fede quasi contagiosa.
È il caso di ricordare anche San Faustino, protettore dei single, che si festeggia, guarda caso, il 15 febbraio, come per una ideale continuità. Infatti la condizione di single, oggi, è diventata quasi una norma.
E non mi riferisco solo ai pensionati abbandonati al loro destino, ma anche a persone professionalmente impegnate, sia per scelta di vita che per difficoltà ad incontrare una compagnia.
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San Valentino
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San Valentino è così popolare che anche i proverbi lo ricordano per il fatto che intorno alla metà di febbraio cominciano a rifiorire le siepi più riparate e soleggiate ed inizia anche la stagione degli amori di alcuni uccelli, per cui è il caso di ricordarne qualcuno.
“Per San Valentino metà pane e metà vino” (la riserva del grano e del vino devono essere a metà, se si vuol arrivare comodamente ai nuovi raccolti).
“A San Valentino ghiaccia la rota con tutto il mulino” (se febbraio si mostra freddo siamo in pieno inverno).
“San Valentino primavera sta vicina” (manca poco più di un mese alla primavera astronomica che entra con l’equinozio del 21 marzo).
“A San Valentino canta l’allodola in cima al pino” (uno dei primi uccelli che entri in amore e ci avvisa con il suo canto del ritorno della buona stagione).
“A San Valentino ogni uccello ricomincia il suo cammino” (in questi giorni il mondo degli uccelli riprende il ciclo vitale degli amori).
“A San Valentino è d’amore ogni bacino” (nel giorno del patrono degli innamorati ogni bacio che si dà è d’amore). |
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SAN GAETANO COME SAN NICOLA: DONO' MARITAGGI
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San Gaetano da Thiene (1480-1547), fu segretario di papa Giulio II e proto-notaio apostolico, rappresentò la voce sommessa nel coro di quanti lo invocavano, in seno alla Chiesa, per una riforma di vita e di costumi ed è invocato per la fiducia nella Provvidenza.
Il nome Gaetano deriva dal latino ‘Caietanus’ (abitante di Gaeta), fondatore dell’Ordine dei Teatini, congregazione basata sul voto di povertà e sul soccorso ai poveri.
A tal proposito mi piace ricordare un racconto pubblicato nel volume di Saverio La Sorsa “Fiabe e novelle del popolo pugliese” (Edizioni di Pagina) nel quale, tra i tanti racconti, scritti nei dialetti pugliesi con traduzione a fronte, si parla anche, della bontà di San Gaetano.
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Una donna indigente si recò in chiesa a pregare san Gaetano affinché l’aiutasse, poiché non poteva maritare tre sue figlie. Il Santo promise di aiutarla e ogni tanto si presentava a casa della donna sotto l’aspetto di un signore e lasciava una borsa di monete e la donna.
Le vicine, notando che la donna comprava tanti oggetti di valore da quando riceveva le visite del distinto signore, iniziarono a criticare il comportamento della donna, anzi ipotizzarono addirittura che la donna vendesse l’onore delle figlie e fecero insospettire il marito che chiese spiegazioni, nonostante la moglie disse che si trattava di san Gaetano. La donna allora si rivolse al santo affinché facesse trionfare la sua innocenza.
Il santo si recò a casa della donna e, dopo aver chiamato le vicine pettegole disse: “Non sono il signore che voi pensate; sono san Gaetano”. Dette tali parole, apparve sotto forma di santo e scomparve. E così fu acclarata l’innocenza della donna.
E per gli amanti del dialetto barese riporto l’ultima frase nella forma originale come narrata da Maria Donata Manzari di Bari e riportata nel citato testo di La Sorsa.
«U marite non nge credì, e acchemenzò a maldrattà e a torturà la poverèdde ca, non petènne cchjù seppertà le calunnie de la ggénde, e l’odie du marite, se revelgì ’o sande stésse, percè facèsse vedè l’innocénza so’.
’U sande l’acchendendò; scì alla case e, dopo ca se riunirene tutte le vecine, decì: “Ie non zò ’u segnore ca vu’ penzate, so’ san Ghètane”.
Come decì chisse parole, apparì sotte la vèste de Sande, e sparì.» |
SAN LUCA, PROTETTORE DEI MEDICI, SI RICORDA IL 18 OTTOBRE
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Il 18 ottobre il calendario liturgico ricorda San Luca, dal latino lux, lucis, “luce”, evangelista, medico di origine pagana e forse anche pittore.
Figlio di pagani, Luca appartiene alla seconda generazione cristiana. Compagno e collaboratore di San Paolo, che lo chiama «il caro medico», è soprattutto l’autore del terzo Vangelo, attraverso il quale ci fa intuire di aver conosciuto personalmente la Madonna, dalla quale avrà ascoltato i particolari intimi e dolci dell’infanzia e della vita di Gesù.
Secondo le fonti, Luca, uomo colto con inclinazioni artistiche e gusto letterario, fu cittadino di Antiochia in Siria, ove svolse la sua professione medica. Fu martirizzato a 84 anni. Luca è considerato colui che nella sua opera ha rivelato il volto misterioso di Dio.
Secondo la leggenda Luca fu anche pittore al quale si attribuiscono molte raffigurazioni della Vergine, forse per il fatto che meglio di ogni altro evangelista ha tratteggiato la figura della Madonna. Questo probabilmente il motivo che lo vede protettore dei medici, dei pittori, scultori ed artisti in genere.
Nell’iconografia popolare San Luca è affiancato da un bue alato che simboleggia il suo Vangelo. Luca viene inoltre rappresentato mentre scrive il suo libro o mentre ritrae la Vergine Maria. |
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Le sue ossa furono trasportate a Costantinopoli nella famosa Basilica dei Santi Apostoli, quindi giunsero a Padova, dove tuttora si trovano nella Basilica di Santa Cristina. La sua testa è stata traslata dalla Basilica di Santa Giustina alla Cattedrale di San Vito a Praga nel XIV secolo. Infine una costola del corpo di San Luca è stata donata nel 2000 alla Chiesa greco-ortodossa di Tebe. Esiste un’altra reliquia della testa del Santo nel Museo Storico Artistico “Tesoro” nella Basilica di San Pietro in Vaticano.
Per l’occasione mi piace pubblicare la toccante «Preghiera del medico» (Preghíre du Mídeche) composta da Nicola Simonetti, medico e giornalista, tradotta liberamente in dialetto barese da chi scrive e da Rosa Lettini Triggiani. |
PREGHIERA DEL MEDICO
di Nicola Simonetti
Accorri in mio aiuto, o Signore, mia salvezza.
La mia mano è stata chiamata più volte a guarire, la mia mente ha lottato per guarire, il mio cuore voleva sanare gli altri; mano, mente e cuore però sono malati anch’essi, non sanno strappare quel velo che tu hai posto davanti alla malattia e al dolore.
Aiutaci, o Signore, a guarire la nostra persona perché possiamo essere quel medico di cui il Siracide (38, 1-15)
dice che tu hai creato perché ce n’è bisogno.
Ti offro oggi, o Signore, il lungo grido di ribellione degli uomini schiavi del dolore.
Ti offro l’umiliazione e la pena di ognuno, la lotta di tutti e la sofferenza dell’uomo ansioso, che non si è potuto confidare.
Ti offro la pena di coloro che attendono una visita medica e non la ricevono.
Ti offro la pena di coloro che vogliono un posto in ospedale e non riescono ad entrare.
Ti offro la mestizia di chi muore solo,
la disperazione di chi si uccide.
Ti offro gli invalidi per le nostre mancanze, gli inabili per carenti prestazioni, gli anziani e i reietti perché cronici.
I malati a cui non riusciamo a dire la verità, quelli che non riusciamo a curare perché manca una macchina, un farmaco o un uomo.
Quell’esercito di afflitti che lottano
con l’arma della sofferenza, perché siano liberati i loro fratelli.
E io sono qui mentre essi soffrono
e l’amore di me rende sordo al loro grido.
L’amore di me, Signore, è un veleno che gusto ogni giorno.
L’amore di me, Signore, mi trova perfetto medico.
L’amore di me mi compatisce
E trascura la sofferenza altrui.
L’amore di me mi incita a guadagnare denaro e ammucchiarlo.
L’amore di me mi suggerisce di visitare gratuitamente dieci malati perché sia addormentata la mia coscienza, e uno poi, paghi per tutti.
L’amore di me fa ammonticchiare riviste e libri.
E mi infila tight e toga.
L’amore di me è soddisfatto di me.
Ma questo amore di me, Signore, è un amore rubato.
Era destinato agli altri e ora crea la miseria umana, la sofferenza umana, le ingiustizie, le umiliazioni, le disperazioni.
Abbiamo rovinato l’amore, ho rovinato il tuo amore, o Signore.
Oggi ti chiedo di aiutarmi ad amare.
Signore illumina con la tua luce gli afflitti, perché siano giusti nella lotta, generosi nel dono.
Purifica il nostro cuore, affinché possiamo capire il fratello che soffre,
perché possiamo non rubare più l’amore, perché possiamo offrirti, alla fine dei tempi, il paradiso che con i nostri pazienti avremo costruito con le nostre mani. |
PREGHÍRE DU MÍDECHE
Traduzione in dialetto barese di Vittorio Polito e Rosa Lettini Triggiani
Segnóre Dì, salvèzza mè, seccùrreme!
La mána mè chiú vòlde iè state chiamáte a uarì, la mènda mè ha combattùte pe curá, u córe mì veléve dená la salùte a ci sòffre; ma máne, mènde e córe sò malàte pure lóre, non rièscene a scuarciá cùdde véle ca tu si puèste nànze a la malatì e o delóre.
Segnóre Dì, dange a nú mídece la fòrze de uarì da le mále nèste percè ognùne de nú vóle ièsse cùdde mídeche ca, cóme dísce u Sìracide (38, 1-15), tu si criàte percè nge ne sta besègne.
A tè, Segnóre, affìdeche iósce u grite sènza fìne de ci schiàve du delóre se rebèlle.
A tè, Segnóre, affìdeche l’umigliazióne e la péne d’ognùne, la lòtte de tùtte, u delóre du uòmne anziùse ca non s’ha petùte hemmetá, u affànne de chìdde ca stònne ad aspettá la vìsete du mídeche ca non arrìve e de chìdde ca vòlene nu pòste o spetàle e non rièscene a trasì.
A tè, Segnóre, affìdeche la malanghenì de ci móre súle, la desperazióne de ci se léve la vìte.
A tè, Segnóre, affìdeche ci ha remanùte strepiàte pe le mangànze nòste, ci non è chiú iàbele percè u sime trascuràte, l’anziàne, chìdde ca vènene abbandenàte pe na malatì ca non uarìsce chíú; le malàte ca vòlene sapè e nú non tenìme u coràgge de dísce la veretá, chìdde ca non riescìme a curá percè mànghe na màgghene, na medecìne o ci àva operá; tùtte l’afflìtte ca combàttene e sòffrene pe liberá le fràte lóre da la malatì.
E mèndre lóre patìscene ji stògghe dó e u amóre de mè me rènne sùrde o grite lóre.
U amóre de mè, Segnóre, iè nu veléne ca me gùsteche ogneddì.
U amóre de mè, Segnóre, me iàcchie mídeche bràve e onèste.
U amóre de mè me chembatìsce
e non abbàde a le péne de l’alde.
U amòre de mè me spènge a uadagná terrìse a mùzze e astepàlle.
U amóre de mè, me chenzìglie de vesetá ndùne désce malàte p’accheièsce la chesciènza mè, tànde pó iùne pàghe pe tùtte.
U amóre de mè me fásce ammendrená libre e revìste e me fásce vestì tight e tóghe.
U amóre de mè iè chendènde de mè.
Ma cùsse amóre, Segnóre, iè n’amóre arrebbàte.
Iére destenáte o pròsseme e mbésce mó criésce o uòmne mesèrie, péne, umigliazióne, desperazióne e nu mùnne sènza gestìzie.
Sime arruináte u amóre.
Sò arruináte u amóre tú, Segnóre.
Iósce recòrreche a tè pe ièsse aietàte ad amá.
Segnóre, lumenísce che la lúscia tó l’afflìtte pe na lòtta giùste, pe nu dóne che tutte u córe.
Purifechísce u córe nèste, pe fànge accapì u fràte ca sòffre, pe fá sì ca non arrebbáme chiú u amóre, pe dànge la possibeletá de fá dóne a tè, a la fine du mùnne, de nu paravìse c’avima costruì che le máne nòste nzíme a le malàte nèste.
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BARI: CORTEO STORICO CON LE RELIQUIE DI SANT'ANTONIO
Le reliquie del Santo al Corteo Storico
Il 31 Maggio alle ore 18 a partire dalla Chiesa di Sant’Antonio di Padova di Bari, sfilerà il Corteo storico dedicato al Santo dei miracoli, anche per salutare le reliquie del Santo in visita alla omonima Chiesa della nostra città.
Il Corteo a lui dedicato è organizzato dalla stessa Parrocchia-Santuario.
Saranno rappresentate le scene più significative della vita del Santo dei miracoli, che spiegano i tanti appellativi con il quale il Santo è chiamato: martello degli eretici, dottore del vangelo, padre e avvocato dei poveri, amico dei fanciulli.
Un’occasione per contemplare e venerare la sua presenza fra noi e un motivo ulteriore per riconsiderare, in quest’anno dedicato alla fede, il nostro cammino di realizzazione umana e cristiana. Ognuno di noi, secondo lo stato e la condizione propria, può giungere alla santità.
Sant'Antonio, che passa per le strade della città, parla a noi tutti come un tempo parlava alle folle. Il suo esempio e le sue parole sono un invito ad amare Dio e i fratelli, a praticare la giustizia, a rispettare la vita, ad essere portatori di pace.
Per milioni di devoti sparsi in tutto il mondo, Sant’Antonio da Padova è un mito che non è rimasto scalfito né dal trascorrere del tempo, né dalle profonde trasformazioni culturali e dai tarli della secolarizzazione in atto in questi ultimi decenni. Di certo il fascino della sua santità non è mai venuto meno e il mistero di devozione, amore e culto nei suoi confronti rappresenta un fenomeno quasi unico al mondo per imponenza e universalità.
Non si contano gli altari, le cappelle, le chiese e i santuari eretti in suo
onore nel corso dei secoli. Antonio è considerato, anche dai non cristiani, una sorta di fratello o di amico che dispensa grazie, un confidente che lenisce le sofferenze e le ansie dell’uomo, un compagno di viaggio che garantisce protezione, una presenza benefica in ogni circostanza della vita, una mano amica che si apre a tutti, un sicuro protettore dei bambini.
È invocato persino per ritrovare oggetti smarriti e per assicurarsi un matrimonio!
Corteo Storico
Ma certo la sua personalità e il suo carisma sono molto più alti ed ampi degli angusti spazi in cui l’eccezionale alone di simpatia popolare sembra confinarlo.
Godette di grande prestigio fra gli intellettuali e i potenti del suo tempo, ma soprattutto fra i vertici della chiesa e dell’Ordine francescano. Gregorio IX lo chiamava «arca del Testamento» per la sua profonda conoscenza della Sacra Scrittura; San Francesco lo chiamava «mio vescovo» a dimostrazione della stima o venerazione che il Poverello aveva per quel frate venuto dal Portogallo; Leone XIII coniò per lui la definizione «Il Santo di tutto il mondo»; Pio XII lo proclamò «Dottore della chiesa universale», mentre più recentemente Giovanni Paolo II lo ha presentato come «figura carismatica universalmente venerata e invocata».
A Bari i frati del convento, attualmente retto da padre Miki Mangialardi ofm., celebrano il suo transito avvenuto il 12 giugno, in forma semplice e popolare, ma subito molto sentita e partecipata dalla popolazione.
Grazie all’organizzazione e alla cura dell’Arciconfraternita di Santa Maria della Pietà e di Sant’Antonio di Padova e della Fraternità Francescana insieme alla comunità parrocchiale, il transito è stato realizzato secondo la devozione e la forma delle “Sacre rappresentazioni”, seguendo l’antico modello medioevale creato già nel sec. XIII proprio dai frati francescani dell’Arcella a Padova.
Sant’Antonio visse 36 anni, dal 15 agosto 1195 al 13 giugno 1231, Il Santo soccorritore universale è considerato un fenomeno unico al mondo per imponenza, universalità e perennità. Infatti, fu acclamato santo a furor di popolo ad appena un mese dal trapasso e canonizzato nella cattedrale di Spoleto il giorno della Pentecoste del 1232 in presenza di papa Gregorio IX.
La rappresentazione storica mostra le scene più significative della sua vita. Egli è stato proclamato con tanti appellativi: “Arca dell’Antico Testamento”, “Scrigno delle Sacre Scritture”, “Santo di tutto il mondo”, “Martello degli eretici”, “Santo dei miracoli”. Noi lo onoriamo come tale, perché crediamo che lo Spirito Santo ha abitato in lui in modo straordinario. La fede in Gesù Cristo, l’amore per la Sua Chiesa e l’ardore nella Carità lo spinsero muovendolo "da dentro" a predicare per convertire i credenti alla buona vita del vangelo, a difendere la dottrina della Chiesa dagli attacchi delle false dottrine.
La sua testimonianza di vita evangelica nel praticare le virtù teologali della fede, della speranza e della carità e la sua fama di predicatore fu confermata dai molti miracoli. Un'attività notevolissima, nei trentasei anni della sua breve esistenza, a favore dei poveri e dei diseredati ma che è ben lontana dall’essersi esaurita nel tempo, continuando vigorosamente e provvidenzialmente, ancora ai nostri giorni.
Infatti Egli è considerato un fenomeno unico al mondo per imponenza, universalità e perennità. Il corteo storico di Sant’Antonio è un’occasione per contemplare la sua mirabile vita e un motivo ulteriore per riconsiderare, in quest’anno dedicato alla Fede, il nostro cammino di realizzazione umana e cristiana.
Le Reliquie di Sant'Antonio, che passano per le strade della nostra città, parlano a noi tutti come un tempo parlava alle folle. Il suo esempio e le sue parole sono un invito ad amare Dio e i fratelli, a praticare la giustizia, a rispettare la vita, ad essere portatori di pace.
Corteo Storico
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FESTA IN ONORE DI SANT'ANTONO DI PADOVA, IL SANTO DEI MIRACOLI
Arrivo delle reliquie
Nei prossimi giorni giungeranno a Bari le reliquie di Sant’Antonio da Padova per cui sono previste una serie di manifestazioni religiose dal 28 maggio al 13 giugno, organizzate dal Convento-Parrocchia Sant’Antonio di Padova in collaborazione con l’Arciconfraternita di Maria SS.ma della Pietà e di Sant’Antonio.
Come è noto Sant’Antonio da Padova è considerato il “santo dei miracoli”, il popolare santo che fa ritrovare le cose perdute, ma è soprattutto il grande maestro spirituale, così come indica il titolo di “dottore evangelico” attribuitogli dalla Chiesa. Nasce nel 1195 a Lisbona e viene battezzato col nome di Fernando.
Nel 1210 Fernando entra nel Monastero agostiniano di San Vincenzo de Fora. Nel 1212 si trasferisce nel convento di Santa Croce a Coimbra. Nel 1220 viene ordinato sacerdote.
Nel 1221 scosso per l’uccisione di cinque frati francescani missionari in Marocco, chiede e ottiene di farsi francescano e di partire in missione. Appena arrivato in terra africana, una strana malattia infrange il suo sogno ed è costretto a ritornare.
La nave sulla quale si era imbarcato, per evitare il naufragio è costretta ad approdare in Sicilia.
Da qui parte per prendere parte al Capitolo generale dei francescani, ad Assisi. Antonio incontra san Francesco.
Frate Graziano, ministro generale della Romagna, conduce con sé il frate portoghese, affinché celebri la santa Messa ai Frati del romitorio di Montepaolo.
Lí Antonio vive da eremita la regola francescana.
Nel 1222, in occasione di una ordinazione sacerdotale celebrata a Forlì, deve tenere, per obbedienza, un sermone, che fa un’enorme impressione. Cosi comincia la sua grande epopea di predicatore, di docente e di ministro dell’Ordine.
Di qui la sua predicazione si estende a tutta l’Italia
settentrionale e alla Francia meridionale. Nel 1224 insegna teologia nelle scuole di Bologna e di Montpellier. Nel 1226 è custode della provincia di Limoges e poi ministro provinciale della Romagna.
Nel 1230 provato dalla malattia, si ritira a Padova, nel convento di S. Maria Madre del Signore. Muore il 13 giugno 1231.
Arrivo delle reliquie alla Chiesa di Sant'Antonio, Bari
La Festa in onore del Santo dei miracoli e la Solenne Tredicina si svolgeranno secondo il seguente calendario:
28 maggio -
Ore 19: Accoglienza delle reliquie in Piazza del Ferrarese (Città vecchia) e fiaccolata verso la Chiesa di Sant’Antonio ove giungerà intorno alle 21;
29 maggio -
Ore 7,30 – 9,30 Sante Messe ed alle 10,30 Visita all’Ospedale Pediatrico Giovanni XXIII.
30 maggio -
Ore 10,30 - visita delle scolaresche presenti nel territorio parrocchiale; ” 16 - Visita detenuti del Carcere Minorile “Fornelli” di Bari; ” 21 - Proiezione film “Antonio guerriero di Dio”.
31 maggio -
Ore 10,30 – Visite scolaresche ” 17 - Incontro con i fanciulli ed i ragazzi del catechismo. ” 18 - XII Edizione del Corteo storico con le Reliquie lungo le vie cittadine;
La solenne Tredicina dal 31 maggio al 12 giugno sarà predicata dal Rev. Padre Alessandro Mastromatteo ofm. ed alla fine di ogni cerimonia si svolgerà la fiaccolata eucaristica sul piazzale della Chiesa.
Il 13 giugno dalle 6 alle 12 e dalle 17 alla 19 saranno celebrate Messe al termine delle quali vi sarà la benedizione dei bambini e la distribuzione del pane, mentre alle 20 è prevista la Processione del Santo su piazza “Luigi di Savoia” ed alle 21,30 i solenni festeggiamenti si concluderanno con i fuochi pirotecnici.
Nei giorni 29 e 30 maggio la Chiesa resterà aperta fino a mezzanotte.
Le reliquie portate in processione |
I SANTI SOCIALI, COSTRUTTORI DI COSE IMPOSSIBILI
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Sulla santità e sui santi vi sono opinioni diverse.
Lo scrittore Georges Bernanos (1888-1948), nel volume «Un curato di campagna» scriveva “Dio ci guardi dai santi», mentre Oscar Wilde (1854-1900), nel suo libro «Una donna senza importanza”, sosteneva che «La sola differenza tra un santo ed un peccatore è che ogni santo ha un passato e ogni peccatore un futuro». «La santità, scriveva Marcel Jouhandeau (1888-1979), forse non è altro che il colmo della buona educazione». Secondo Paolo VI (1897-1978), infine, «La santità, la vera aristocrazia del cristiano, può essere accessibile a tutti; può essere, per così dire, democratica».
Chi sono i Santi? Sono coloro che in vita hanno condotto una vita esemplare, imitando sotto certi aspetti la vita di Cristo e quanto suggerisce il Vangelo. Chiaramente nella devozione popolare e nell’accezione comune, sono considerati Santi anche i Beati, i Venerabili ed i Servi di Dio, che pur non essendo ancora assurti agli onori degli altari, sono sulla buona strada per la loro vita esemplare e per i miracoli operati.
I Santi sociali, invece sono uomini e donne che pur nella testimonianza viva del cristianesimo si sono distinti in modo particolare rispondendo ai bisogni di chi gli stava accanto, operando un cambiamento nel contesto in cui vivevano. Paola Bergamini, giornalista e vicedirettore del mensile “Tracce”, ha pubblicato il tascabile “Santi sociali tra Ottocento e Novecento” per le Edizioni di Pagina di Bari (pagg. 110, € 12), riportando la vita e le opere e gli scritti di alcuni Santi che hanno dedicato la loro vita soprattutto a favore dei bisognosi.
L’autrice ricorda, tra gli altri, Giuseppe Cottolengo (1786-1842), l’imprenditore della Divina Provvidenza, che in quattordici anni rivoluzionò l’assistenza ai poveri, facendo costruire dal niente una città nella città, coinvolgendo tante persone che gratuitamente prestavano le loro opere. Giovanni Bosco (1815-1888), il Santo tra i giovani, che rese famoso il rione Valdocco di Torino, creando laboratori e scuole per i ragazzi che vivevano per strada. Luigi Guanella (1842-1915), l’esiliato di Dio, considerato un sovversivo, a causa delle sua contrarietà al difficile rapporto tra Stato e Chiesa, che soppresse le congregazioni religiose convertendo il patrimonio a favore dello Stato. Francesca Cabrini (1850-1917), donna con grandi occhi e un sorriso attraente, sbarcata in America con altre 7 suore dell’Ordine delle Missionarie del Sacro Cuore, da lei fondato. Grazie a lei negli Stati Uniti ed in Europa, fiorirono orfanotrofi, collegi, scuole e ospedali. La sua forza?
L’amore per Cristo. Luigi Orione (1872-1940), il “facchino di Dio”, fondatore della Piccola Opera della Divina Provvidenza. Tra i Santi sociali, per concludere, c’è anche il “medico santo”: Giuseppe Moscati (1880-1927). Per lui gli ammalati rappresentavano la figura di Gesù Cristo. Era un uomo ed un filantropo.
Ai suoi pazienti, per la maggior parte bisognosi, oltre ai farmaci dava anche da mangiare. Celebre e ricercatissimo nell’ambiente partenopeo quando è ancora giovanissimo, il professor Moscati conquista ben presto una fama di portata nazionale ed internazionale per le sue ricerche originali, i risultati delle quali vengono da lui pubblicati in varie riviste scientifiche italiane ed estere.
Giuseppe Moscati è stato proclamato Beato da papa Paolo VI il 16 novembre 1975, e Santo il 25 ottobre 1987 da Giovanni Paolo II. Le sue spoglie riposano nella Chiesa del Gesù Nuovo di Napoli. |
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San Giuseppe Cottolengo |
Beato Luigi Guanella |
Giorgio Cittadini, presidente della “Fondazione per la sussidiarietà”, nella sua prefazione sottolinea che i Santi in cui si parla nel volume di Bergamini, sono da considerare “moderni” per aver operato nelle grandi periferie delle metropoli urbane dell’Otto-Novecento con questioni legate all’industrializzazione, all’emigrazione, all’inurbamento, alle nuove povertà, allo sfasciarsi dei nuclei familiari, alle conseguenze delle guerre, all’affermarsi di nuove ideologie (marxista, liberista, ecc.), capaci di costruire ciò che agli uomini sarebbe stato impossibile. |
San Luigi Orione
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Santa Francesca Cabrini
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San Giuseppe Moscati
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RELIGIONI E CULTURE IN DIALOGO A SANNICANDRO
DI BARI
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Nell’ambito delle manifestazioni dedicate a San Nicandro,
primo Vescovo di Mira, e fondatore di Sannicandro, la città
intende riappropriarsi di una delle pagine più significative
della sua storia religiosa e civile, segnata indelebilmente
nelle sue radici, dall’incontro del Vescovo Nicandro,
che, al pari di Nicola, suo successore in quella sede episcopale,
addita alla Chiesa che è in Bari il cammino del dialogo
e della mutua comprensione con le Chiese dell’Oriente,
in vista della piena unità.
Tra gli appuntamenti importanti di quest’anno presso
la Parrocchia di S. Maria Assunta è stata celebrata
una solenne Divina Liturgia in rito bizantino-greco presieduta
da Padre Emiliano Fabbricatore, Archimandrita esarca dell’Abbazia
di Santa Maria di Grottaferrata ed animata dalla Schola Melurgica
della stessa Abbazia e dalla Corale Polifonica di Grottaferrata.
Hanno concelebrato Don Nicola Gramegna, Don Nicola Rotundo,
parroco della Chiesa di S. Maria Assunta e mons. Giacomo Giampetruzzi
presidente del Comitato per le Celebrazioni in onore del Santo.
Il Monastero Esarchico della SS. Madre di Dio di Grottaferrata
(Roma), immediatamente dipendente dalla Santa Sede, è
stato fondato nell’anno 1004 dall’anziano monaco
San Nilo, 50 anni prima della divisione tra la Chiesa Cattolica
e la Chiesa Ortodossa (1054). San Nilo, che proveniva dalla
Calabria Bizantina, giunse a Grottaferrata con il suo discepolo
San Bartolomeo e un gruppo di Monaci Bizantini, diede inizio
alla comunità dei Monaci di Grottaferrata.
Il
culto a San Nicandro, primo Vescovo di Myra, in Asia minore,
sarebbe approdato in Puglia nella seconda metà dell’VIII
secolo, ad opera di monaci in fuga dall’Oriente, in
coincidenza con la persecuzione iconoclasta in quelle regioni.
In assenza di fonti documentarie, è da ritenersi plausibile
l’ipotesi secondo la quale in quell’epoca l’antico
Castel Mezardo sia stato ribattezzato col nome di San Nicandro.
Sulla vita del Santo non sono molte le notizie di prima mano.
I Sinassari bizantini e il Martirologio Romano concordano
nel ritenerlo originario di Creta e discepolo di Tito, compagno
dell’Apostolo Paolo, che lo avrebbe consacrato Vescovo
e inviato a Myra, in Lycia, intorno al 70 d.C., per reggervi
la prima comunità cristiana. |
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Con Nicandro sarebbe anche giunto in quella città un
sacerdote di nome Ermeo, partecipe della stessa missione e,
in seguito, del medesimo martirio. Infatti, l’esecuzione
di entrambi viene fissata al 95 d.C., ordinata dal Prefetto
della città, Libanio, al tempo dell’imperatore
Domiziano: «costui (Libanio) li puniva legandoli ai
suoi cavalli non ancora domati lanciati al galoppo. Pertanto,
trascinati a lungo, a tal punto che le loro carni dilaniate
sporcarono di sangue la terra. Poi ordinò che fossero
uccisi, dopo essere stati appesi, a bastonate e che fossero
gettati in una fornace! Essendo rimasti illesi per volontà
di Dio, il folle giudice ordinò che dei chiodi fossero
conficcati nel petto, nella testa e nell’intestino dei
nostri martiri, e che fossero buttati nella tomba, benché
continuassero ancora a respirare. Pertanto, con questo crudele
e intollerabile supplizio i due Santi resero le loro sante
anime a Dio» (dal Sinassario bizantino).
Le celebrazioni ecumeniche che si svolgono ogni anno a Sannicandro
in suo onore si pongono in ideale collegamento con l’arrivo
di una reliquia del Santo Vescovo, il 5 novembre 2004, dono
della Chiesa di Roma alla cittadina che, nel fare memoria
del Santo “fondatore”, intende riappropriarsi
di una delle pagine più significative della sua storia
religiosa e civile, segnata indelebilmente, nelle sue radici,
dall’incontro del Vescovo Nicandro, che al pari di Nicola,
suo successore in quella sede episcopale, addita alla Chiesa
che è in Bari il cammino del dialogo e della mutua
comprensione con le Chiese dell’Oriente cristiano, in
vista della piena unità, sostenendolo soprattutto con
iniziative di carattere spirituale.
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RIFLESSIONI SU MATRIMONIO E SANTI SPOSATI |
In un periodo in cui assistiamo ad un graduale allontanamento
dal matrimonio è appena il caso di fare alcune riflessioni
sull’unione coniugale ed in particolare su alcune persone
che, anche se sposate, sono assurte ugualmente agli onori
degli altari.
L’argomento è recente: solo a partire dal Concilio
il concetto di “santi sposati” è stato
adeguatamente sottolineato e Giovanni Paolo II lo ha pienamente
valorizzato.
Il calendario cristiano è pieno di santi “vergini”:
monaci, frati, papi, vescovi, eremiti, missionari. Ciò
è quantomeno anomalo per tre motivi: 1) il tessuto
sociale della Chiesa è costituito da famiglie, da coppie.
Se è vero che i Santi sono modelli di vita per i fedeli,
essi dovrebbero avere uno stato di vita simile a quello dei
fedeli da cui vengono venerati. Se un seminarista ha un infinità
di modelli a cui ispirarsi nel proprio cammino di fede, in
che modo le coppie cristiane possono essere aiutate nel loro
cammino se è vero che hanno pochissimi modelli a cui
ispirarsi?
Pastoralmente, oggi, non sarebbe più indicato porre
come modelli delle famiglie esempi di santità più
vicini a loro visto che quello in cui viviamo è un
tempo che ha bisogno fortemente della famiglia? 2) Sembra
quasi che chi vive “fuori dal mondo” sia più
agevolato nel cammino della santità in quanto lo può
fare per “mestiere”. Tutto ciò, come vedremo,
non è affatto vero; nella Bibbia la salvezza passa
quasi esclusivamente attraverso storie di famiglia. |
Nonostante ciò, il 92-93% dei
santi provengono da un percorso di verginità.
Su 1000, 75 sono sposati e di questi:
32 re o regine
- Luigi IX re di Francia – XIII
sec.
- Enrico II imperatore di Germania – X sec.
- santo Stefano re d’Ungheria,
a cavallo del primo millennio.
Una trentina di vedove o vedovi tra cui santa
Monica, e santa Rita da Cascia:
queste sante però sono state canonizzate e vengono
ricordate dai biografi più per quello che fecero
durante la loro vedovanza che nel periodo di matrimonio;
sembra quasi che il matrimonio fosse un pesante fardello
che, una volta tolto, permise loro di procedere speditamente
sulla via della santità.
Solo una quindicina sono santi sposati e, purtroppo,
alcuni di essi sono ricordati e venerati più
per come hanno “sopportato” il matrimonio
che per averlo vissuto con gioia.
In definitiva, si pensava che la santità potesse
essere raggiunta nonostante il matrimonio.
Invece il Concilio ribalta questo concetto: «compiendo
in forza del sacramento del matrimonio il loro dovere
coniugale e familiare, gli sposi, penetrati dallo Spirito
Santo, tendono a raggiungere sempre più la propria
perfezione e la mutua santificazione e perciò
partecipano alla glorificazione di Dio» (Gaudium
e Spes, 49).
In parole povere: gli sposi diventano Santi nella misura
in cui sapranno rendere santa la moglie o il marito;
anche il cammino di santità diviene indissolubile.
Si può affermare che gli sposi sono chiamati
a diventare santi “attraverso” il matrimonio,
“nel” matrimonio e non solo “nonostante”.
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A questo punto, la domanda che ci poniamo
è questa: in che modo gli sposi possono santificarsi
attraverso il loro matrimonio? Quale è la via
da seguire per realizzare quella “mutua santificazione”
di cui parla il Concilio?
Ci viene ancora in soccorso Giovanni Paolo II che, in
occasione della beatificazione dei coniugi Beltrame-Quattrocchi (gli unici “santi sposati” ricordati
dal calendario liturgico, vissuti a cavallo tra il XIX
e XX sec. a Roma, disse una cosa molto bella:
"Gli sposi sono chiamati a vivere
la propria vita ordinaria in modo straordinario" |
San Luigi Re di Francia |
Santa Rita da Cascia
Coniugi Beltrame-Quattrocchi |
Noi non siamo chiamati a fare cose eccezionali: al martirio,
a fondare case di accoglienza, a fare miracoli, ma a vivere
in maniera straordinaria una vita assolutamente ordinaria.
La nostra santità si misura nel modo con il quale spendiamo
il nostro denaro, trattiamo i nostri simili, trasmettiamo
i nostri valori ai figli, gestiamo la monotonia della vita
quotidiana, spesso il “corrosivo” più pericoloso
nella vita di coppia e familiare.
In particolare, abbiamo individuato tre vie privilegiate attraverso
le quali i coniugi esercitano la spiritualità, come
dice il Concilio “seguendo la loro propria via”
(Lumen Gentium, 41).
- Preghiera: fondamentale quella insieme, quotidiana e arricchita
dalla lettura della scrittura per evitare che la coppia perda
il proprio punto di riferimento. Ovviamente, va fatta calibrandola
alla situazione familiare.
- Dialogo, ascolto paziente, libero dai pregiudizi, premuroso,
attento, sereno; vissuto nello scambio dei sentimenti.
- Sessualità, che rappresenta il percorso di spiritualità
tipico degli sposi e non comune alle altre forme di spiritualità.
Una vita insieme vissuta in questo modo e la piena realizzazione
di questo percorso fatto insieme ci portano a vivere già
qui su questa terra una condizione di santità. |
Una bella figura di Santa (anche se è solo
beata) è Anna Maria Taigi (vissuta a cavallo
tra il 1700 e il 1800), l’unica santa “casalinga”.
Fatta beata non perché martire, eroica testimone
del Vangelo, ma perché aveva svolto il suo compito
di casalinga, moglie e madre di 7 figli incarnando il
Vangelo.
Il marito, un domestico di un conte della zona, quando
depose per la causa di beatificazione disse: «quando
mia moglie era con me, stare in casa era come stare
in paradiso».
Come sarebbe bello se nelle nostre case si percepisse
questo “profumo di paradiso”, questa atmosfera
di santità, che poi si traduce in un clima sereno,
di amore reciproco sincero, tenero. Ne beneficerebbero
in tanti: i figli prima di tutto, poi parenti, amici,
vicini di casa, poiché la santità è
contagiosa. Non sono pochi i santi canonizzati nella
stessa famiglia. |
Beata
Anna Maria Taigi |
Santa Monica e Sant'Agostino
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La Sacra Congregazione
per le cause dei Santi, infatti, sta iniziando a valutare
con interesse anche questo aspetto esaminando le figure
dei Santi e le famiglie nelle quali sono vissuti.
Ci sono importanti esempi di “famiglie cristiane”:
Agostino e Monica,
la famiglia di san Basilio (i due genitori
e 4 dei 10 fratelli),
Luigi Martin e Zeila Guerin (genitori
di Teresa di Lisieux).
Da segnalare in modo particolare due figure molto recenti,
non canonizzate, anche se è partito il processo
e che, inequivocabilmente, hanno “profumato”
di santità coloro che hanno vissuto nella loro
famiglia:
- Vittorio Bachelet (presidente Azione
Cattolica, vice presidente del Consiglio Superiore della
Magistratura e docente universitario, ucciso dalle brigate
rosse nel 1980), il cui figlio Giovanni suscitò
scalpore con il famoso perdono per gli assassini durante
il funerale. Giovanni ha potuto dire quelle cose fortissime
perché il padre gli ha trasmesso dei valori di
fede profondi.
Dice Giovanni del padre: «la testimonianza più
importante per uno come mio padre, che aveva molto da
fare, è stata quella di aver tempo per parlare
con me.
Ricordo discussioni dopo mezzanotte in cui pazientemente
mi stava a sentire, poi si discuteva di politica, di
Chiesa, di fede, dei miei problemi esistenziali.
Parlavamo di tutto e non mi ha mai dato l’impressione
di uno che aveva altro da fare. Invece da fare ne aveva
tanto».
- Alcide De Gasperi, che con la moglie
Francesca Romani ha costituito una vera coppia di santi
sposi, un rapporto tenerissimo e sereno nonostante abbiano
attraversato momenti difficilissimi: due volte in carcere,
ristrettezze economiche, minacce di morte.
In questa atmosfera di santità è cresciuta
una delle figlie, Lucia che dice: mi ha sempre impressionato
questa vicenda.
Nel 1947 nel periodo, forse, di maggior prestigio e
potere del padre Lucia sceglie di entrare in convento
di clausura. |
Luigi Martin e Zeila Guerin |
Alcide De Gasperi
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A questo punto riportiamo la nostra riflessione
sull’icona più importante che deve guidare
il camino di santità di ogni coppia e di ogni
nucleo familiare: la Sacra Famiglia, che Giovanni Paolo
II richiama non a caso al termine della sua esortazione
apostolica “Familiaris Consortio”.
Dice il Papa: «Ed ora, concludendo questo messaggio
pastorale, che intende sollecitare l’attenzione
di tutti i suoi compiti gravosi ma affascinanti della
famiglia cristiana, desidero invocare la protezione
della Santa Famiglia di Nazareth. Per misterioso disegno
di Dio, in essa è vissuto nascosto per lunghi
anni il Figlio di Dio: essa è dunque prototipo
ed esempio di tutte le famiglie cristiane.
E quella Famiglia, unica al mondo, che ha trascorso
un’esistenza anonima e silenziosa in un piccolo
borgo della Palestina; che è stata provata dalla
povertà, dalla persecuzione, dall’esilio;
che ha glorificato Dio in modo incomparabilmente alto
e puro, non mancherà di assistere le famiglie
cristiane, anzi tutte le famiglie del mondo, nella fedeltà
ai loro doveri quotidiani, nel sopportare le ansie e
le tribolazioni della vita, nella generosa apertura
verso le necessità degli altri, nell’adempimento
gioioso del piano di Dio nei loro riguardi. Che San
Giuseppe, «uomo giusto», lavoratore instancabile,
custode integerrimo dei pegni a lui affidati, le custodisca,
le protegga, le illumini sempre.
Che la Vergine Maria, come è Madre della Chiesa,
così anche sia la Madre della “Chiesa domestica”,
e, grazie al suo aiuto materno, ogni famiglia cristiana
possa diventare veramente una “piccola Chiesa”,
nella quale si rispecchi e riviva il mistero della Chiesa
di Cristo. Sia Lei, l’ancella del Signore, l’esempio
di accoglienza umile e generosa della volontà
di Dio; sia Lei, Madre Addolorata ai piedi della Croce,
a confortare le sofferenze e ad asciugare le lacrime
di quanti soffrono per le difficoltà delle loro
famiglie».
Vittorio Polito
Felice Di Maggio
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* Le immagini di questo articolo sono state
fornite dall'Archivio di Cartantica
LA PUGLIA DEI SANTI TRA RITI, CULTI E MONUMENTI
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La Puglia, com’è noto, riserva molte attenzioni
ai Santi, al punto che molti li indicano come i “Santi
di casa nostra”, titolo dato anche a un volume del Crsec
(Schena Editore).
Silvano Trevisani, giornalista, saggista e redattore capo
del “Corriere del Giorno” di Taranto, ha pubblicato
per Capone Editore, il volume “La Puglia dei Santi .
I luoghi di culto, i riti, i monumenti” (Capone Editore,
euro 15).
La pubblicazione vuole essere un contributo all’approfondimento
della ritualità popolare come modo di esprimersi delle
nostre genti. Per tale motivo l’autore non propone un
semplice almanacco delle feste né un dizionario delle
devozioni ma un vero e proprio viaggio nella ritualità
popolare che spesso assume carattere simbolico, liturgico
o paraliturgico.
L’autore pertanto fa un excursus non solo sui Santi
più amati e i Santi pugliesi, offrendo una rassegna
di alcune delle più significative “devozioni”
legate al culto degli stessi e alle “motivazioni”
ad essi connesse. Ma propone due capitoli principali riservati
ai culti legati alla Vergine, per i quali si indica l’origine
dei vari appellativi ed i luoghi di culto più significativi
(rilievo storico-artistico e festeggiamenti) e l’altro
dedicato al culto dei Santi per i quali vengono indicati profili
biografici, luoghi e culti principali.
Trevisani propone anche riferimenti alle feste liturgiche
principali quali la Nascita e la Resurrezione di Cristo, nonché
i riti popolari legati al Santissimo Crocifisso, quindi l’elenco
di tutti i Santi Patroni principali di tutti i Comuni della
Puglia, suddivisi per provincia e le più importanti
feste liturgiche.
L’autore non dimentica neanche di parlare della “Coalizione
dei Santi”, sottolineando come la mano divina interviene
per porre un freno agli sconvolgimenti sociali, politici e
culturali seguiti alla Rivoluzione francese ricordando che
l’anno dei prodigi per la Puglia fu il 1799, un anno
di svolta per la storia italiana del Mezzogiorno. Per cui
anche la Puglia sembra percorsa da un’ondata di eventi
prodigiosi, in parallelo a quanto accaduto a Roma e variamente
documentati da una nutrita schiera di storici locali, le cui
testimonianze furono raccolte da Antonio Lucarelli in “La
Puglia nella Rivoluzione napoletana del 1799”.
Un volume, con molte illustrazioni in bianco nero, da tenere
a portata di mano per sapere tutto sui nostri Santi, sulle
feste liturgiche principali, sui Santi patroni della Puglia
e sulla Vergine Maria che è sicuramente al vertice
delle innumerevoli feste a loro dedicate. |
CHIARA D’ASSISI, UNA SOLITUDINE ABITATA
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Chiara Offreducci, meglio conosciuta come Chiara d’Assisi,
aveva solo dodici anni quando Francesco d’Assisi compì
nella pubblica piazza il gesto di spogliarsi dei vestiti per
restituirli al padre. Sette anni dopo Chiara lo raggiunse
alla Porziuncola, la Cappella di antica costruzione e venerata
per le apparizioni angeliche in essa avvenute. Chiara fu anche
fondatrice dell’Ordine delle “povere recluse di
San Damiano”, chiamato in seguito “delle Clarisse”.
La Porziuncola, rimasta per lungo tempo in abbandono, fu restaurata
da S. Francesco, il quale comprese qui chiaramente la sua
vocazione e fondò l’Ordine dei Frati Minori (1209),
“fissando qui la sua dimora - dice S. Bonaventura -
per la riverenza che aveva verso gli Angeli e per il grande
amore alla Madre di Cristo”. Dai Benedettini ottenne
in dono il luogo e la cappella per farne il centro della sua
nuova istituzione. Il 28 marzo 1211 Chiara vi ricevette dal
poverello d’Assisi l’abito religioso, dando così
vita all’Ordine delle Clarisse.
Chiara Frugoni, considerata fra i maggiori medievisti italiani,
autrice di diversi libri tradotti in varie lingue, ha voluto
mettere in discussione alcuni punti dei racconti di Chiara,
come la storia del Crocifisso di San Damiano, la sua fuga
dalla casa paterna, alcune immagini che hanno rivelato sorprese
e così pure come alcuni disinvolti restauri.
L’autrice, nel suo volume “Una solitudine abitata.
Chiara d’Assisi” (Editori Laterza, Bari –
euro 24), ha voluto fare un’ampia ricognizione su tutto
quanto è stato scritto e detto su Chiara d’Assisi
consultando numerose ed autorevoli fonti. Cosa curiosa è
che di lei scrissero soprattutto uomini (il biografo, il Papa
e le gerarchie ecclesiastiche), con lo scopo di farla dimenticare.
Chiara Frugoni sottolinea come la vita di Chiara, pur segnata
dall’incontro con Francesco, non visse all’ombra
del poverello di Assisi, dal momento che era una donna dalla
forte personalità, dal grande fascino e da una straordinaria
libertà mentale.
Nell’interessante pubblicazione l’autrice scrive
anche delle sorprese dei restauri di alcune opere che in certi
casi hanno messo in luce scritte che commentavano le scene
della vita e dei miracoli della Santa. Inoltre, sono riportate
le voci fresche e vivaci delle consorelle e dei testimoni
del processo di canonizzazione, ed accanto a questi parla
anche Chiara, attraverso la penna di Frugoni, che intreccia
fonti scritte e figurate: miniature, tavole, affreschi, documenti
noti che, leggendo tra le righe, viene fuori una biografia
diversa. Insomma l’autrice riscopre attraverso un intenso
percorso quello che si nasconde dietro i miti agiografici
cuciti addosso al coraggio di Chiara.
Il pregevole volume, in elegante veste tipografica, riccamente
illustrato, riporta le referenze iconografiche ed una notevole
bibliografia, una tavola cronologica sinottica che racchiude
sommariamente la vita di Chiara, di Francesco, dei Papi che
si sono avvicendati e degli avvenimenti ad essi collegati.
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SULLE ORME DI SAN FRANCESCO
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Assisi rappresenta il luogo più conosciuto dedicato
a San Francesco, ma vi sono molti altri
luoghi non meno importanti
nei quali il “Poverello di Assisi” ha vissuto
la sua intensa vita spirituale. Mi riferisco alla valle reatina,
ritenuta dagli studiosi la terza patria di San Francesco,
dopo quella di Assisi e della Verna. Infatti, si trovano luoghi
assai cari al Serafico Padre: Fonte Colombo, Greccio, San
Fabiano, Poggio Bustone e nella vicina provincia di Terni,
lo Speco di Narni.
Fonte Colombo è il luogo ove San Francesco scrisse
la sua prima regola ed una soave leggenda narra che Francesco,
volendo attendere in quiete assoluta la redazione della stessa,
ordinò agli uccelli di tacere e da allora nessun loro
canto si ode più su questa montagna.
Fonte Colombo è detto anche il Sinai francescano, poiché
in questo luogo San Francesco compose (o ricevette da Dio)
la Regola per i suoi seguaci. Così come il Signore
dettò a Mosè il decalogo dei Comandamenti, a
San Francesco ha ispirato la regola francescana.
In questo località è presente il Sacro Speco,
luogo dove Francesco, stretto tra le rocce, si immergeva nell’intimità
con Dio, tra silenzio e preghiera, dettando la regola ai frati.
Un altro importante luogo per San Francesco fu Greccio, primo
eremo francescano detto “Betlemme Francescana”.
Un villaggio della Sabina a 705 metri sul livello del mare,
ove è presente il celebre Santuario Francescano in
mezzo ad una folta selva di lecci. La leggenda ricorda che
Francesco, che già nel 1217 abitava sulla cima del
Monte Lacerone, che sovrasta Greccio, scese più volte
ad evangelizzare gli abitanti del castello. |
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È in questo luogo che San Francesco realizza, con l’aiuto
della popolazione, il primo presepe vivente con l’intento
di ricreare la mistica atmosfera del Natale di Betlemme, per
vedere con i propri occhi dove nacque Gesù, il Re povero.
Attualmente è presente una grotta ove si conserva un
affresco di scuola giottesca del XIII secolo che rappresenta
il Natale di Betlemme e quello di Greccio. Percorrendo uno
stretto corridoio si arriva ai luoghi abitati dal Santo e
dai primi Frati: il dormitorio, il refettorio e la roccia
su cui dormiva San Francesco.
Lo Speco di Narni, eremo fondato con ogni probabilità
dallo stesso San Francesco nel 1213, è invece il Santuario
dove il poverello dimorò per qualche tempo. Qui avvenne
il miracolo dell’acqua cambiata in vino, mentre il Santo
soffriva di una gravissima infermità.
Le origini del romitorio risalgono all’anno mille, dipendeva
dai monaci Benedettini e comprendeva le varie grotte sotto
la scogliera e l’oratorio di San Silvestro con l’attigua
cisterna.
L’attuale chiostro, lo Speco, una costruzione del quattrocento,
all’epoca di San Bernardino da Siena, apostolo dell’osservanza,
fu considerato come suo luogo naturale e ne fece un insigne
centro dell’umiltà e della povertà francescana.
Vi è poi lo Speco del Santo che consiste in una grotta
che ha dato il nome al Santuario.
Un altro luogo francescano è il Santuario di San Fabiano,
oggi denominato Santa Maria de la Foresta, posto a ridosso
della vallata ed è circondato da boschi di castagni.
Nel percorso per giungere al Santuario s’incontrano
le mura e le stazioni della Via Crucis di scuola napoletana
del XVIII secolo provenienti dal Convento di San Bonaventura
in Frascati e benedette da San Leonardo da Porto Maurizio,
ideatore della Via Crucis. La “Foresta” è
detta anche “Tabor Francescano”, poiché
qui ebbero tregua le atroci sofferenze di San Francesco, luogo
nel quale con ogni probabilità ebbe l’ispirazione
del Cantico delle Creature.
In questo luogo, ove il Santo si rifugiò, ospite del
Parroco, per riposare e stare tranquillo per la sua cecità
incombente, accorse numerosa gente spinta dalla devozione
e dalla gioia ed anche da semplice curiosità. Tutto
ciò creò un gran via vai di gente che transitando
nella vigna del Parroco la saccheggiò e la devastò
con grande preoccupazione del sacerdote che vedeva ridursi
di parecchio il raccolto. Allora Francesco, che comprese appieno
il danno e l’amarezza del prete, si rivolse a lui chiedendo
quanta uva produceva il vigneto ed ottenuta la risposta, chiese
al prete di San Fabiano di non disperare, ma confidare nella
grazia di Dio, perché il prossimo anno avrebbe raccolto
molto di più. E così fu.
Secondo lo storiografo Paul Sabatier, San Francesco avrebbe
peregrinato e visitato nella valle reatina tutti gli eremi
della Sabina e, tra questi, quello di Poggio Bustone, altra
località la cui bellezza della natura ed il silenzio
dei monti circostanti offrirono al Poverello un momento di
estrema tranquillità. Il Santo ormai cieco si riconcilia
con gli uomini e con la natura e nell’intimità
più vera e profonda con Dio. Il Padre Celeste gli rimette
i peccati e gli concede il perdono, confermandogli la bontà
dell’opera iniziata, l’amore, la cura e la protezione
dei suoi frati.
Gioioso e felice per il perdono ottenuto, San Francesco nella
fiduciosa certezza di un futuro benedetto dall’Onnipotente,
invia i suoi frati, ormai numerosi, a predicare nel mondo
il Vangelo, la grandezza dell’amore del Signore e di
tutte le sue creature. |
UNA BREVE ESISTENZA NASCOSTA IN DIO
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A cura di padre Claudio Truzzi è stato appena pubblicato
dalla Edizioni OCD, un agile volumetto dedicato a Elia di
San Clemente, al secolo Teodora Fracasso, la suora di clausura
nata in Bari vecchia, morta a soli 26 anni e0 beatificata
da Benedetto XVI lo scorso 18 marzo.
“La vita di Sr. Elia si può narrare in poche
battute – sostiene il Definitore generale che firma
l’introduzione – crea quasi un certo imbarazzo
per la sua essenzialità, ma dentro questo frammento,
si scorge la profonda esperienza in Dio, la sua pienezza d’umanità”.
“Fin dal primo giorno la croce fu l’unico mio
appoggio, Gesù mi fece intendere in fondo in fondo
all’intimo del cuore, nella prima volta che andai a
mirarlo dalle grate, che già c’intendevamo assai
bene…”. Con queste parole scritte dalla stessa
beata inizia il capitolo “Dalla sua viva voce”.
La pubblicazione oltre a riportare la cronologia della vita
della suora racconta la breve vista nascosta in Dio. In sostanza
sottolinea come il “Soffrire in silenzio è il
più bel canto” e per Sr. Elia era lo scopo della
sua vita dedicata a Gesù. Infatti, sosteneva che la
sua missione era, tra le altre cose, “Condurre anime
a Dio colla preghiera, col sacrificio, col silenzio col nascondimento,
con la distruzione di me stessa…”.
Un fulgido esempio di come si può servire il Signore
nascosti in Dio e nella più grande umiltà.
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SANTI, TAUMATURGHI, RE E «INTRUGLI»
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Qualche tempo fa partecipando ad una conferenza ho letto
la seguente frase: «Coltivare le arti raffinate è
giustamente considerata un’attività della massima
importanza in ogni stato ben regolato; infatti, è universalmente
riconosciuto che, a seconda se esse siano incoraggiate o disapprovate,
i costumi del popolo diventano più civili, perciò
bisogna plaudire ad iniziative che danno la possibilità
a molti di apprendere interessanti informazioni culturali».
È stata appunto la conferenza sulla “terapia
intellettuale” che il dott. Nico Veneziani, cardiologo,
con la passione dell’arte e delle tradizioni popolari,
ha “somministrato” all’uditorio, intrattenendolo
con una interessante conversazione su Santi, Taumaturghi,
Re e placebo.
Nella letteratura medica anglosassone, alla fine del XVII
secolo fu introdotto il termine “placebo” (io
piacerò). Era la prima parola di un salmo cantato nell’ufficio
dei defunti: Placebo Domino in regione vivorum (Piacerò
al Signore nella regione dei vivi). Successivamente il termine
è stato impiegato a definire sostanze farmacologicamente
inerti, somministrate per compiacere il paziente.
Egli ha parlato delle credenze popolari esistenti in varie
regioni del mondo e che pian piano sono emigrate in occidente.
Infatti, ci ha parlato di San Paolo che durante un viaggio
a Malta, (come si narra negli Atti degli Apostoli), fu attaccato
da una vipera mentre attizzava il fuoco, senza avere alcun
danno. Successivamente si è saputo che a Malta i serpenti
non sono velenosi. Quindi fenomeni di suggestione? Veneziani
ha parlato, oltre che del potere taumaturgico dei Santi, anche
di quello dei colori, dei metalli, della musica e della danza.
Inoltre ha ricordato come la civiltà abbassa il livello
di sopportazione del dolore.
Anche «Nell’Ayurveda, la scienza che considera
la vita in modo olistico, cioè crede in una stretta
relazione tra corpo, mente, anima e ambiente, si narra che
strumenti musicali, specie i tamburi, spalmati di intrugli
di cenere e polveri, se suonati esplicavano effetto contro
calcolosi, coliche e avvelenamenti» (?).
Nella religione cristiana, ad esempio, molti sono i Santi
cui riconosciamo il potere taumaturgico, da San Vito a San
Biagio, ai Santi Medici. L’iconografia di questi ultimi
ce ne mostra solo due: Cosma e Damiano, mentre in realtà
furono cinque con Antimo, Euprepro e Leonzio.
Si narra, infatti,
che questi ultimi furono oscurati dalla fama dei primi due,
come dimostra anche la numerosa iconografia (Botticelli, Tiziano,
Mantegna), nella quale è narrato anche il primo caso
di trapianto d’organo della storia della medicina. Il
riferimento è alla gamba cancrenosa del sacrestano
della chiesa dei Santi Medici di Roma, sostituita in sogno
con quella di un saraceno deceduto. Gamba nera dunque al posto
di quella bianca.
Anche San Nicola, taumaturgo per eccellenza, diventa riferimento
importante per la vicenda dei tre bambini.
A conclusione della conferenza è stato offerto al pubblico
un “intruglio” a base di sedano, agrumi e chissà
che altro, a qualcuno forse ha fatto bene, per l’effetto
placebo del quale ha parlato l’oratore, cioè
di quella sostanza somministrata a chi la richiede e che in
realtà non ha alcun potere terapeutico. Si tratta di
suggestione? Forse.
L’argomento trattato e le immagini sono state in parte
riprese dal volume a cura di Nicola Cortone e Nino Lavermicocca,
“Santi di Strada” n. 3, edito da B.A. Graphis
e Pagina.
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SANT’ANTONIO CULTORE DELLA VERITÀ
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In occasione del cinquantenario dell’affidamento
della Parrocchia alla Chiesa di Sant’Antonio di Bari,
che ricade proprio il 13 giugno, sono state organizzate una
serie di manifestazioni per ricordare l’importante evento,
anche per la coincidenza con la festa del Santo.
Tra le iniziative culturali va segnalata la pubblicazione
di un bel volumetto dedicato al Santo di Padova, “Sant’Antonio
mio benigno…”, firmato da Paolo Malagrinò
e Anna Maria Tripputi, nel quale si parla della presenza francescana
in Puglia e di quella di San Francesco a Bari.
Una fra le
leggende più famose è quella della tentatrice,
che mette a confronto San Francesco e Federico II, il quale
ultimo colpito dalla predica di Francesco che condanna l’immoralità
e la corruzione, decide di metterlo alla prova e lo invita
a cena al castello, preparandogli una trappola con l’aiuto
dei cortigiani. Infatti, dopo una abbondante cena fu condotto
in una stanza e ad un tratto fecero comparire una bella fanciulla
abbigliata di tutti i tranelli della seduzione, ma il Santo
non cascò. Lo stesso Federico colpito dalla santità
del frate, abbracciandolo, gli chiese perdono per la sua nefandezza. |
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Il volume ricorda anche i conventi francescani a Bari, le
devozioni nella chiesa di Sant’Antonio (Sant’Antonio,
l’Addolorata e il Crocifisso), ed è arricchito
da un’appendice documentaria che illustra l’Archivio,
la biblioteca ed il patrimonio artistico del convento e della
chiesa di San Bernardino di Bari.
Infine viene descritta la Chiesa di Sant’Antonio e ricordato
padre Fedele Brandonisio che decretò l’erezione
della Confraternita di Maria SS. della Pietà e di Sant’Antonio
(19 marzo 1931).
Fra’ Vito Bracone, l’instancabile attuale parroco,
che firma la presentazione, nel ringraziare i due autori per
il dono generoso di un frutto così prelibato, sostiene
che “Leggerlo ci farà sentire più orgogliosi
delle nostre radici, della cultura arricchita dallo spirito
e dall’opera di Sant’Antonio e di San Francesco”.
Padre Vito auspica che i fedeli di S. Antonio guardino in
Lui non solo il protettore, ma anche il modello di vita. Va
ricordato a tal proposito come Sant’Antonio passava
dal vangelo alla vita e dalla vita al vangelo: si nutriva
di Cristo, pane vivo disceso dal cielo, ma distribuiva con
amore il pane e tanti altri doni ai più bisognosi.
Le belle foto sono di fra’ Giovanni Maria Novielli.
Il volume, che non è in vendita, è ottenibile
presso la stessa Parrocchia previa liberalità.
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ANTONIO DA PADOVA
SACERDOTE E DOTTORE DELLA CHIESA
Sant’Antonio di Padova, primogenito di una nobile,
potente e ricca famiglia del Portogallo, è nato a Lisbona
tra il 1190 ed il 1195, il giorno esatto è ancora oggetto
di discussione, gli fu imposto il nome di Fernando.
Nonostante i progetti ambiziosi che nutrivano i loro genitori
per Fernando, questi a 15 anni è già novizio
nel monastero di San Vincenzo a Lisbona, trasferendosi poi
al monastero di Santa Croce di Coimbra, il maggior centro
culturale del Portogallo, dove studia scienze e teologia,
studi finalizzati all’ordinazione sacerdotale che avverrà
nel 1219.
Nel monastero di Coimbra l’atmosfera era molto pesante,
dal momento che era notevole l’ingerenza della Casa
Reale, ed il priore Giovanni, forte della regia protezione,
sperperava i beni della comunità conducendo addirittura
una vita mondana causando una divisione faziosa dei canonici
che si schierarono pro o contro il priore.
Nel 1220 lo scandalo si allargò a tal punto che si
rese necessario addirittura l’intervento del Papa, ma
Fernando seppe estraniarsi dalla triste lotta, anche se ci
fu qualche tentativo di coinvolgerlo da una o dall’altra
parte. A questo punto, in seguito all’uccisione in Marocco
di cinque missionari francescani, Fernando, colpito dalla
gioia e dalla fede di questi frati, prese la decisione di
abbandonare il suo Ordine e di entrare fra i francescani,
dopo aver conosciuto il loro stile di vita e la figura carismatica
di San Francesco. Questa decisione fu anche rapportata alla
mediocrità della propria vita e del clima di compromessi
che regnava nell’Abbazia da lui frequentata.
I frati francescani furono ben lieti di questa decisione,
anche in considerazione del fatto che Fernando era un uomo
colto, ma il priore, che era di tutt’altro avviso, ebbe
qualche esitazione prima di concedere il consenso necessario
al passaggio alla comunità dei frati minori. Cosa che
avvenne fra le vibranti proteste dei parenti, assumendo il
nome di Antonio, lasciando la comunità di Santa Croce
e trasferendosi a Olivais. Il buon Antonio raggiunge il Marocco
ma viene colpito da una malattia che lo costringe a ritornare
in patria.
Fallì in questo modo il suo generoso sogno di apostolato
e di martirio. Ma nella traversata di ritorno il veliero che
lo riportava in Italia fu costretto, per le avverse condizioni
atmosferiche, a cambiare rotta e ad attraccare sulle coste
della Sicilia. Fu ospitato dai frati di Messina e per il suo
fisico provato dalla malattia la convalescenza fu un vero
toccasana. |
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Ad Assisi intanto stava per aprirsi il Capitolo generale dei
frati Minori, presieduto da San Francesco, al quale furono
invitati tutti i frati e così anche Antonio si incamminò
verso la città umbra, ove convennero oltre 3000 frati
sistemati in accampamenti di fortuna tra capanne e stuoie.
L’occasione fu propizia per Antonio, dal momento che
ebbe la possibilità di incontrarsi con San Francesco,
il Poverello che influì positivamente sulla decisione
di seguirlo. Accettò così l’offerta di
raggiungere l’eremo di Montepaolo in Romagna, espletando
umili lavori di pulizia, non facendo mai trapelare la sua
profonda cultura teologica ed i confratelli lo ritenevano
più pratico di stoviglie che di teologia.
Intorno al 1222 un evento fece scoprire finalmente il suo
talento e il suo eccezionale temperamento di predicatore.
Infatti, mentre si trovava a Forlì in occasione di
una ordinazione sacerdotale, mancando il predicatore incaricato,
il superiore lo pregò di sostituirlo, anche perché
nessuno si sentiva di improvvisare l’omelia. Il discorso
rivelò l’ardente spiritualità e la profonda
cultura biblica di Antonio e gli fu così conferito
l’incarico di predicatore.
Tra il 1223 ed il 1224, mentre il Santo si trovava a Bologna,
a quel tempo era il secondo centro universitario della Cristianità
dopo Parigi, ricevette da San Francesco, l’incarico
di predicare al popolo, ed anche l’approvazione per
l’apertura di una scuola di teologia: venne così
inaugurato il primo Studium francescano e il Santo di Padova
fu il primo docente di teologia dell’Ordine dei Minori.
San Francesco nella lettera dell’incarico esprimeva
anche il proprio rispetto verso il teologo Antonio che evidentemente
era considerato quanto di meglio al momento disponeva l’Ordine.
Verso la fine del 1224 Antonio venne inviato nella Francia
meridionale, forse su richiesta dello stesso Pontefice, per
tentare di arginare una dilagante eresia albigese (dal nome
dell’eretico Albigi). Si spostò poi ad Arles,
ove si riunì il Capitolo provinciale di Provenza: qui
mentre Antonio stava tenendo una predica, apparve San Francesco
in atto di benedire i suoi frati. L’avvenimento fu considerato
misterioso e impressionante dal momento che San Francesco
si trovava in Italia, cingendo di un alone soprannaturale
il missionario.
Di ritorno in Italia gli fu affidata nuovamente la provincia
di Romagna comprensivo di un vasto territorio che lo costrinse
a visitare periodicamente tutti i conventi della sua giurisdizione.
Le sue prediche e il suo insegnamento erano centrati sulla
penitenza e sulla confessione. I vizi contro i quali Antonio
si batteva e condannava con maggiore intensità erano
il furto, l’usura, la superbia, la lussuria e l’avarizia.
Per pregare in solitudine si fece costruire una cella in un
grande albero di noce nelle vicinanze del convento
Il 13 giugno 1231 – unica data certa della vita del
Santo – Antonio fu colpito da un collasso; i frati che
lo soccorsero si resero subito conto della gravità
della situazione e poiché il Santo manifestò
l’idea di essere riportato al convento di Santa Maria
Mater Domini di Padova, i suoi fedeli frati mentre lo accompagnavano
si resero conto che la situazione diventava sempre più
grave.
Allora decisero di fermarsi al monastero di Santa Maria
de Cella (Arcella) e Antonio fu adagiato su un lettino in
una cella ed i frati gli si strinsero intorno per accompagnare
con la preghiera le sue ultime ore. Morì a 36 anni
non ancora compiuti.
Solo nel 1263 il suo corpo fu traslato nella nuova chiesa;
per l’occasione venne aperto il sarcofago, presente
S. Bonaventura, e fu notato che la lingua era intatta. San
Bonaventura la mostrò alla folla esclamando: “O
lingua benedetta, che sempre hai benedetto il Signore e lo
hai fatto benedire dagli altri, ora è a tutti noi noto
quanto merito hai acquistato presso Dio”.
Nessuna immagine del Santo è disponibile dal vero.
Le rappresentazioni popolari ce lo presentano come un giovane
di grossa corporatura, vestito del saio religioso. Il libro
che lo accompagna è il simbolo della sua solida conoscenza
della Scrittura.
Compare anche un giglio, simbolo di castità
e spesso porta in braccio Gesù Bambino in ricordo di
una apparizione, avvenuta in una delle sue frequenti estasi.
Pio XII nel 1946 lo proclamò “Dottore della Chiesa”.
Giovanni Paolo II, in occasione della sua visita a Padova
(12 settembre 1982), definì Sant’Antonio “uomo
evangelico”, dichiarando che «Se noi lo onoriamo
come tale, è perché noi crediamo che lo Spirito
Santo ha abitato in lui in modo straordinario arricchendolo
con i suoi meravigliosi doni».
Ed ora qualche curiosità.
Al Santo è attribuito
il potere di ritrovare gli oggetti smarriti, caratteristica
che si addice anche ai portatori del nome Antonio, che non
considerano mai una partita persa. A proposito dell’etimologia
del nome, gli esperti propongono due versioni: dal greco anthos,
“fiore”, e dal latino antonius, “inestimabile”.
La diversità è forse solo apparente: per esprimere
il concetto di migliore non si usa forse l’immagine
del fiore? Più probabilmente il nome Antonio deriva
dal patronimico romano Antonius, appartenuto al tribuno Marcantonio,
che si arrese prima al fascino di Cleopatra e poi all’esercito
di Giulio Cesare.
Sant’Antonio da Padova, Patrono del Portogallo, è
anche protettore degli orfani, dei messaggeri, delle reclute,
dei naufraghi, degli affamati, dei poveri e dei prigionieri.
Si festeggia, com’è noto, il 13 giugno, giorno
della sua morte. |
Foto: Archivio di Cartantica
SAN VALENTINO PROTEGGE GLI INNAMORATI, E…
Perché il 14 febbraio è diventato il giorno
degli innamorati? La risposta è data da una simpatica
tradizione che viene dai paesi anglosassoni. Nel medioevo,
infatti, si riteneva che in questo giorno gli uccelli, avvertendo
i primi tepori primaverili, cominciassero a nidificare, quindi
si disse che la festa di San Valentino segnava l’annuale
risveglio della vita e quindi dell’amore. Fu così
che il Santo è stato adottato come patrono e protettore
degli innamorati di tutto il mondo. Ma pare che anche gli
innamorati delusi hanno un protettore che, secondo una leggenda
dell’area tarantina, è riconoscibile in San Vito
e si festeggia il 15 giugno.
Ma chi era San Valentino? Correva l’anno 175 d.C. quando
nacque a Terni Valentino, oggi patrono della Città,
che dedicò la sua vita alla comunità cristiana
che si era formata a cento chilometri da Roma, dove infuriava
la persecuzione dei cristiani. L’eco degli eclatanti
miracoli compiuti dal Santo, arrivò fino a Roma, diffondendosi
in tutto l’impero, per cui fu consacrato primo vescovo
di Terni, ove ancora oggi si conservano le spoglie mortali.
Il suo nome è legato all’amore per un episodio
che a quel tempo sollevò molto clamore. Infatti la
leggenda dice che Valentino fu il primo religioso a celebrare
l’unione tra una giovane cristiana, Serapia, e un legionario
pagano. Molti furono in seguito a desiderare la sua benedizione,
ancora oggi ricordata durante la festa della promessa nella
Basilica che porta il suo nome. Durante la sua visita pastorale
fu amatissimo dalle popolazioni umbre, quando l’imperatore
Aureliano ordinò atroci persecuzioni contro il clero
cristiano. San Valentino fu imprigionato e flagellato, lontano
dalla città per evitare tumulti e rappresaglie dei
fedeli e fu quindi martirizzato. Era il 14 febbraio del 273
d.C.: una data che da quel momento viene ricordata in tutto
il mondo per celebrare San Valentino, un Santo che fu ricco
di umana simpatia e di fede quasi contagiosa. |
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Più recentemente Raymond Peynet, il pittore degli innamorati,
ha saputo con la sua arte rapire e raccontare la magia dell’amore,
evitando di tracciare i contorni della passione, dell’attrazione
tra due amanti, per concentrarsi su tutto quello che c’è
prima e dopo e che non si può descrivere con una parola
o con un concetto. Un colpo di fulmine che avviene in ogni
momento, senza tempo né luogo
I suoi Valentino e Valentina
nascono e vivono in un momento, fugace, nobile, affettuoso,
gioioso e tenero: quello dell’innamoramento. Sono gli
innamorati per eccellenza, i romantici interpreti di un sentimento
che nasce dal cuore: puri, leggeri, soavi, evanescenti nel
loro appartenere l’uno all’altra ed entrambi ad
un fantastico contorno, ad un mondo onirico in cui l’amore
è il motore senza sosta del tutto.
In omaggio ai suoi fidanzatini il suo amico Georges Brassens
scriverà la celebre canzone “Les bancs publics”
(Le panchine). Dal 1982 il chiosco di Valence è ormai
un monumento storico e l’immagine dei due innamorati
diventa un francobollo, disegnato proprio da Peynet, che commemora
la festa di San Valentino. Nel 1995 ha partecipato alle Manifestazioni
di Terni in onore di San Valentino, patrono della città
e dell’amore, con una sua mostra personale. Nel 1998
la città di Antibes, dove Peynet è vissuto fino
alla sua morte, ha inaugurato il museo dedicato alla sua opera. |
…SAN FAUSTINO PROTEGGE I SINGLE
Come è ormai tradizione il 14 febbraio è la
giornata dedicata a San Valentino, protettore degli innamorati,
e per i cuori solitari cosa succede?. È presto detto.
Dal momento che i solitari in Italia sono circa 5 milioni,
anche loro hanno un Santo protettore: è San Faustino,
la cui ricorrenza cade proprio il 15 febbraio, subito dopo
la festa degli innamorati, come per una ideale continuità.
Oggi essere single è diventata quasi una norma. Una
tendenza, dunque, destinata a svilupparsi ancora, tanto più
che i nuovi solitari non sono pensionati abbandonati al loro
destino o studenti amanti della solitudine, ma spesso trattasi
di persone giovani, anche professionalmente impegnate, che,
per una scelta di vita o per la difficoltà di incontrare
una gradevole compagnia, restano soli.
Ma ricordiamo chi fu San Faustino. Fino alla recente riforma
del calendario venivano festeggiati in questo giorno i Santi
Faustino e Giovita. Il Martirologio Romano diceva: «A
Brescia si festeggia il natale dei Santi Martiri Faustino
e Giovita, fratelli, i quali sotto l’imperatore Adriano,
dopo molti illustri combattimenti sostenuti per la fede di
Cristo, ricevettero la vittoriosa corona del martirio».
Gli estensori del nuovo calendario hanno però espresso
questo severo giudizio: «La memoria dei Santi Faustino
e Giovita, introdotta nel Calendario romano nel sec. XIII,
viene cancellata: si tratta dei martiri bresciani Faustino
e Giovenza, dei quali si possiedono degli Atti interamente
leggendari; in essi Giovita viene ritenuto diacono, benché
fosse una donna».
Al di la di quello che prescrive il calendario, i due martiri
sono raffigurati spesso in veste militare romana con la spada
in un pugno e la palma del martirio nell’altra, in altre
raffigurazioni sono in vesti religiose, Faustino da presbitero,
Giovita da diacono. Sta di fatto che di storico vi è
l’esistenza dei due giovani cavalieri, convertitisi
al cristianesimo, tra i primi evangelizzatori delle terre
bresciane e morti martiri tra il 120 ed il 134, al tempo di
Adriano. Il loro culto si diffuse verso l’VIII secolo,
periodo in cui fu scritta la leggenda, prima a Brescia e poi
per mezzo dei longobardi in tutta la penisola ed in particolare
a Viterbo.
Così anche i cuori solitari hanno il loro buon protettore
da festeggiare rigorosamente il 15 febbraio.
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SAN BIAGIO VESCOVO E MEDICO
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San Biagio, dal latino balbuziente, è un Santo venerato
sia in Oriente che in Occidente. Un nome pieno di mistero,
richiama un dono degli dei che permette di accedere ai vaticini
ed alle profezie. Ma chi era San Biagio? Un eremita del IV
secolo che viveva in Armenia.
Ricco medico e fervente cristiano,
attuò in pieno le opere di misericordia corporale e
spirituale, distribuendo danari e medicine, curando ammalati,
infondendo speranza agli infermi ed ai moribondi. In breve
tempo si fece conoscere, amare ed ammirare da tutti. Per la
sua festa è diffuso il rito della “benedizione
della gola”, fatta poggiandovi due candele incrociate,
oppure con l’unzione, mediante olio benedetto, invocando
sempre la sua intercessione. L’atto si collega a una
tradizione secondo cui il vescovo Biagio avrebbe prodigiosamente
liberato un bambino da una spina conficcatasi nella sua gola.
L’Imperatore Licinio lo condannò a morte e fu
sottoposto al martirio dei pettini di ferro. Per tale motivo
i cardatori di lana scelsero San Biagio a loro protettore
e patrono. Per Biagio i racconti tradizionali, seguendo modelli
frequenti in queste opere, vogliono soprattutto stimolare
la pietà e la devozione dei cristiani e sono ricchi
di vicende prodigiose, ma allo stesso tempo incontrollabili.
Il corpo di Biagio è stato deposto nella sua cattedrale
di Sebaste; ma nel 732 una parte dei resti mortali viene imbarcata
da alcuni cristiani armeni alla volta di Roma. Una improvvisa
tempesta tronca però il loro viaggio a Maratea, e qui
i fedeli accolgono le reliquie del Santo in una chiesetta,
che poi diventerà l’attuale basilica, sull’altura
detta ora Monte San Biagio, sulla cui vetta fu eretta nel
1963 la grande statua del Redentore, alta 21 metri.
Dal 1863
anche Ponticello di Latina ha assunto il nome di Monte San
Biagio, disposto sul versante sudovest del Monte Calvo. Numerosi
altri luoghi nel nostro Paese sono intitolati a lui: San Biagio
della Cima (Imperia), San Biagio di Callalta (Treviso), San
Biagio Platani (Agrigento), San Biagio Saracinisco (Frosinone)
e San Biase (Chieti). Ma poi lo troviamo anche in Francia,
in Spagna, in Svizzera e nelle Americhe. Ne ha fatta tanta
di strada il vescovo armeno della cui vita sappiamo molto
poco. La comunità armena di Roma gestisce la Chiesa
di S. Biagio “della Pagnotta” a Roma, edificata
sulle rovine di un tempio di Nettuno, concessa da papa Gregorio
XVI. Non mancano le curiosità legate a San Biagio.
C’è una sua statua su una guglia del Duomo di
Milano, la città dove in passato il panettone natalizio
non si mangiava mai tutto intero, riservandone sempre una
parte per la festa del Santo. E tuttora si vende a Milano
il “panettone di San Biagio”, che sarebbe quello
avanzato durante le festività natalizie, usanza che
si è estesa un po’ in tutta Italia. I Biagio
celebri? Lo scrittore e filosofo francese Blaise Pascal, matematico
che inventò il calcolo probabilistico e le prime calcolatrici,
lo scrittore contemporaneo Blaise Cendrars ed un altro Santo
meno famoso San Biagio di Veroli. La festa è celebrata
dagli orientali l’11 febbraio, dagli occidentali, invece,
il 3 o anche il 15 dello stesso mese.
Numerose le chiese e
gli oratorî a lui dedicati in ogni parte del mondo cristiano:
a Roma se ne contano diverse tra cui la Cappella sulla via
Giulia. Nella nostra Regione (Puglia), San Biagio è
protettore di Ruvo di Puglia (BA), dal momento che nel 1857
in occasione di una grave epidemia che colpì la gola
di molti bambini, fu esposta la reliquia del Santo che compì
il prodigio di far scomparire il morbo e da quel momento fu
eletto protettore della città.
Nel corso delle celebrazioni
la tradizione prescrive la benedizione dei nastrini (re mesiure),
che vengono messi al collo dei bambini e tarallini di varia
forma (frecedduzze), raffiguranti la mano benedicente, il
bastone e la mitra del Santo. Il vescovo guaritore è
patrono anche di Avetrana (TA) ove si conservano sue reliquie,
Ascoli Satriano (FG), Carosino (TA), Ostuni (BR), ove è
presente una chiesa rupestre, e Corsano (LE).
Le raffigurazioni
relative al Santo, alla sua vita e al suo martirio sono numerose,
probabilmente perché alcune leggende ne avvicinarono
il culto al gusto ed alla sensibilità popolari. Suo
attributo comune è, oltre alle costanti insegne episcopali,
il pettine di ferro da cardatore.
Ma l’attributo iconografico
che appare più frequentemente sono due ceri incrociati,
in ricordo del miracolo della lisca di pesce. In occasione
della sua festa, che in Italia ricorre il 3 febbraio, vengono
celebrate messe e festeggiamenti nei reparti di otorinolaringoiatria
che considerano San Biagio protettore della gola e degli otorinolaringoiatri. |
I SANTI UNISCONO TUTTO IL MONDO
Un appuntamento importante per la Chiesa Cattolica è
rappresentata dalla festività di Ognissanti, detta
anche di “Tutti i Santi”, in occasione della quale
si onorano non soltanto i Santi iscritti nel martirologio
romano, ma tutti i giusti di ogni lingua, di ogni razza e
di ogni nazione, i cui nomi sono scritti nel libro della vita
e che godono la gloria del Paradiso. Una ricorrenza di notevole
rilevanza per la Chiesa che celebra tanti uomini e donne che
hanno dato tutto per la fede e sono diventati per noi «modelli
di vita e insieme potenti intercessori».
Resta da dire brevemente come e quando fu istituita la festa
proveniente dalla Chiesa Orientale ed accolta a Roma, quando
Papa Bonifacio IV trasformò il Pantheon, dedicato a
tutti gli dei dell’antico Olimpo, in una Chiesa in onore
della Beata Vergine Maria e di tutti i Martiri. Ciò
avveniva il 13 maggio del 609 e Alcuino, un inglese di York,
maestro di Carlomagno, fu uno dei propagatori della festa,
anche perché segnava l’inizio della stagione
invernale. Gregorio III, poi, consacrò nella Basilica
di San Pietro un oratorio al Salvatore, a sua Madre Santissima,
agli Apostoli, ai Confessori e a tutti i giusti. Con ciò
veniva istituita la Festa di tutti i Santi, indistintamente,
che Papa Gregorio IV stabilì nella data del 1°
novembre.
L’occasione consente di ricordare alcuni Santi, molto
conosciuti, che si sono particolarmente distinti prima nella
vita terrena e poi in quella celeste.
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Iniziamo da San Nicola di Mira, anzi di Bari, vescovo, patrono
dei bambini, Santo per tutte le latitudini, che presenta un
grosso catalogo di miracoli: calma una furiosa tempesta, scongiura
una carestia, resuscita tre bambini che un oste cattivo aveva
messo in salamoia, salva tre ragazze dalla prostituzione,
facendo trovare loro tre borse di monete che diventarono la
loro dote matrimoniale e tanti altri ancora. Di questo Santo
i baresi sanno quasi tutto.
Sant’Antonio da Padova, vissuto oltre cento anni, ottanta
dei quali trascorsi nel deserto in prossimità del Mar
Rosso. La notizia della sua scelta si diffonde ugualmente
dappertutto, nonostante la scarsità dei mezzi di informazione
dell’epoca. Da ogni parte d’Oriente le folle accorrono
a lui per avere conforto, guarire dalle malattie e, perché
no, invocarlo per trovare marito.
San Giuseppe, patrono dei lavoratori e dei papà, che
nelle iconografie è rappresentato come un vecchio,
in realtà era un uomo giovane, fidanzato con Maria,
la madre di Gesù. Il fidanzamento a quei tempi durava
un anno e successivamente iniziava la vita coniugale, ma prima
delle nozze Maria rimase incinta e Giuseppe pensò di
sciogliere il matrimonio per non esporre la fidanzata alla
lapidazione. Ma, un Angelo lo avverte in sogno: «Non
temere di prendere con te Maria, perché quel che è
generato in lei viene dallo Spirito Santo», e così
Giuseppe divenne padre di Gesù.
Santa Rosa da Lima, al secolo Isabella Flores y de Oliva,
la prima Santa del Nuovo Mondo, nacque a Lima nel 1586 da
genitori spagnoli trapiantati in Perù e dal momento
che appariva di straordinaria bellezza, la madre un giorno
le disse “Sei bella come una rosa” e da quel giorno
non fu più Isabelita ma Rosa, come il più bel
fiore del Perù. Canonizzata nel 1671, è venerata
non solo come Patrona della sua patria, ma anche di tutta
l’America Latina e delle Isole Filippine. Ciò
che stupisce nella vicenda umana di questa Santa, morta a
soli 31 anni, è un inconcepibile desiderio di sofferenza.
A un esame superficiale potrebbe emergere dalla sua singolare
personalità una componente masochistica. Ma questo
mondo, apparentemente infelicitante, racchiude in sé,
come una botte colma di buon vino frizzante, il segreto della
gioia autentica. In Perù non vi erano conventi e Isabella
Flores impose a se stessa una regola di vita austera, secondo
le proprie vedute.
San Rocco di Montpellier, un Santo di casa nostra, sebbene
nato in Francia, viene infatti festeggiato in molte località
pugliesi, il cui culto risale alle pestilenze del XVII secolo,
durante le quali, alcuni paesi, soprattutto in provincia di
Bari, furono tra i pochi ad essere risparmiati dalla peste.
Le fonti su di lui sono poco precise e rese più oscure
dalla leggenda. In pellegrinaggio diretto a Roma, dopo aver
donato tutti sui beni ai poveri, si sarebbe fermato ad Acquapendente,
dedicandosi all’assistenza degli ammalati di peste e
facendo guarigioni miracolose che diffusero la sua fama. Invocato
nelle campagne contro le malattie del bestiame e le catastrofi
naturali, il suo culto si diffuse straordinariamente nell’Italia
del Nord, legato in particolare al suo ruolo di protettore
contro la peste.
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E, dal momento che il mio nome è Vittorio, consentitemi
di ricordarne il Santo. San Vittorio non ha lasciato notizie
di sé, si sa solo che ha subito il martirio a Cesarea
di Cappadocia e che era un romano. Dal “Martirologio
Geronimiano”, che lo cita al 21 maggio, insieme ad altri
due martiri, Polieuto e Donato, che si celebrano nello stesso
giorno, è passato nel “Martirologio Romano”.
Altro non si sa. Comunque il gruppo lo si ritrova sempre nei
martirologi storici occidentali.
La mancanza di notizie, contrariamente alle regole, non l’ha
messo nel dimenticatoio della storia, egli è certamente
più ricordato nei secoli successivi, di quanto non
fosse nominato e conosciuto in vita.
Vittorio è l’unico Santo con questo nome, proviene
dal latino Victorius variante di Victor (vincitore). In Inghilterra
fu portato dalla celebre regina Vittoria il cui nome segnò
anche un’epoca ed uno stile (vittoriani). È invocato
contro il fulmine, la grandine e gli spiriti maligni.
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EUSTACHIO MONTEMURRO, UNA VITA PER GLI ALTRI
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Don Eustachio Montemurro (1857-1923), nato a Gravina in Puglia,
ove riposano le sue spoglie, fin dai primi anni di vita, grazie
all’eccellente educazione ricevuta e alle prove che
la vita gli riservò per la perdita prematura della
mamma, della sorellina e del fratellino, a causa di una terribile
epidemia colerica, manifesta una forte personalità
aperta alla cultura e alle relazioni sociali armoniosamente
integrate da valori umani e religiosi. Laureatosi in medicina,
esercita a Gravina la professione di medico con grande senso
di responsabilità e carità cristiana. Oltre
a curare i malati con grande professionalità, si preoccupa
delle indigenze familiari, fornendo spesso personalmente,
oltre alle medicine, generi di prima necessità e somme
in denaro.
Fortemente impegnato in politica, si batte sempre per il sostegno
delle classi povere, avendo particolare cura della formazione
scolastica dei figli dei contadini. Nel 1903, chiamato da
Dio, abbandona l’attività di medico ed entra
in seminario per ricevere l’ordinazione sacerdotale.
Considerato “un modello di prete, “un apostolo
dell’istruzione religiosa e dell’educazione cristiana”,
“un testimone” coraggioso “dell’amore
dei fratelli verso i fratelli”, la Chiesa, riconoscendo
in lui le virtù teologali, lo ha reso Servo di Dio,
e quindi venerabile. Attualmente è in corso la causa
di canonizzazione.
Padre Eustachio Montemurro, nella sua profonda e sopravvenuta
sensibilità pastorale, invita superiori, confratelli
e religiosi ad un “fedele ritorno alle origini del proprio
istituto”. Dietro questi impulsi di carità, egli
fondò delle Congregazioni Religiose; i “Piccoli
Fratelli del SS. Sacramento” confluita in seguito in
quella dei “Rogazionisti del Cuore di Gesù”
e quelle femminili delle suore “Missionarie Catechiste
del Sacro Cuore” e le “Figlie del Sacro Costato
e di Maria SS. Addolorata”; dedite alla riparazione
al Sacro Cuore e all’educazione delle fanciulle del
popolo.
Questo fervore di opere gli procurò l’accusa
di ‘eccesso di zelo’ ed il mancato riconoscimento
della sua opera; ma le incomprensioni e le sofferenze non
lo scuoteranno nella sua sensibilità e continuò
per la sua strada.
Padre Eustachio Montemurro, unitamente a don Saverio Valerio,
chiese al papa il permesso di trasferirsi a Pompei, per adempiere
il loro desiderio di condurre vita in comune, al servizio
delle anime presso il Santuario della Vergine del Rosario,
fondato dal beato Bartolo Longo, allontanandosi così
anche dai parenti ed essere completamente dedicati al servizio
di Dio.
Da Pompei continuò a seguire l’attività
delle Congregazioni di suore da lui fondate, inserendole anche
nella realtà del Santuario. Oggi sono presenti in circa
70 Case sparse in Italia e nel mondo.
La Provvidenza volle che Montemurro e Bartolo Longo si incontrassero
come studenti preso l’Università di Napoli pur
scegliendo campi diversi, ma comunicanti rispetto a carità,
solidarietà ed educazione.
Recentemente Emanuele Battista, poeta e commediografo, soprattutto
in dialetto barese, presidente dell’Associazione laicale
“Sacro Costato” di Bari, più volte premiato
a concorsi di poesie, si è cimentato questa volta nel
proporre in versione teatrale la vita del Servo di Dio, Eustachio
Montemurro, cosa non facile dal momento che per pubblicare
questi testi sono necessari imprimatur ed autorizzazioni ecclesiastiche.
Ma Battista, che possiede una solida personalità artistica
ed una forte umanità sociale ha superato con successo
ogni ostacolo riuscendo benissimo nel suo lavoro con l’opera
“Eustachio Montemurro. Chicco profondo”.
Le Suore Missionarie del “Sacro Costato” hanno
presentato con successo, lo scorso 11 novembre in Bari, la
vita di Eustachio Montemurro di Battista, presso il Kursaal
Santalucia, per la regia di Annalisa Calabrese.
Non si può che complimentarsi con l’autore per
la sua caparbietà finalizzata a far conoscere al grande
pubblico la vita e le opere di un singolare uomo del Mezzogiorno,
medico e sacerdote, che docile al Signore ha speso la propria
vita per gli altri, facendo del teatro un luogo privilegiato
d’incontro tra arte e Vangelo.
La realizzazione è stata resa possibile grazie alla
collaborazione dell’Istituto “Santa Teresa del
Bambin Gesù” di Bari, del Comune di Gravina in
Puglia, della Banca Popolare di Puglia e Basilicata, della
Fondazione “E. Pomarici Santomasi” di Gravina
e della ditta “Ruggieri Arredi Sacri” di Bari. |
SANT’ANTONIO ABATE, PROTETTORE DEGLI
ANIMALI
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Il 17 gennaio, data fissa di inizio del Carnevale, si festeggia
Sant’Antonio Abate, che, a soli vent’anni, abbandonò
ogni cosa per seguire il consiglio di Gesù: «Se
vuoi essere perfetto, va’ vendi ciò che hai…»,
rifugiandosi in una zona deserta dell’Egitto tra antiche
tombe abbandonate e successivamente sulle rive del Mar Rosso,
dove visse per ottant’anni da eremita.
L’esperienza del “deserto” in senso reale
o figurato, è ormai un metodo di vita ascetica, fatto
di austerità, di sacrificio e di estrema solitudine:
S. Antonio ne fu l’esempio più insigne e stimolante.
Infatti, pur senza alcuna regola monastica, esercitò
un grande influsso dapprima tra i suoi conterranei e poi in
tutta la Chiesa.
A lui è associato il bastone a T, tau ,19ª lettera
dell’alfabeto greco, e un maiale. Cosa centra il maiale,
che per i cristiani era simbolo del male? Secondo gli studiosi
all’inizio si trattava di un cinghiale, attributo del
dio celtico Lug, dio del gioco e della divinazione, venerato
in Gallia a cui erano consacrati cinghiali e maiali. Gli stessi
sacerdoti venivano chiamati “Grandi Cinghiali Bianchi”,
mentre il dio Lug regnava anche sugli inferi. L’emblema
del cinghiale appariva anche sugli stendardi e sugli elmi
dei celti. In realtà il maiale rappresenta simbolicamente
il maligno e le seduzioni che i piaceri della carne provocano.
Vito Lozito, nel suo volume “Agiografia, Magia, Superstizione”
(Levante Editori), fa una esauriente descrizione del protettore
degli animali, nato intorno al 250 a Coman in Egitto e morto
ultracentenario nel 356.
Le leggende a carattere popolare vogliono S.Antonio Abate
in lotta con il demonio, ovvero con il male, con le passioni
umane, con il fuoco eterno. Il santo divenne così il
padrone del fuoco, custode dell’inferno, e per tali
prerogative, guaritore dell’herpes zoster, il cosiddetto
fuoco di S.Antonio, appunto. I monaci Antoniani, infatti,
consigliavano di «implorare il patrocinio del Santo
e di cospargere le parti malate con il vino nel quale erano
state immerse le sacre reliquie». In epoche successive
si adoperò il grasso di maiale che, posto sull’immaginetta
del Santo, veniva portato dai monaci all’ammalato e
usato per guarire le ferite del “fuoco sacro”.
In questo modo era completa la figura di S.Antonio Abate,
padrone del fuoco, vittorioso sulle tentazioni del demonio,
del male e protettore del maiale.
Per superare, invece, l’interpretazione negativa del
maiale, presente nel pensiero ebraico e cristiano e comprendere
l’abbinamento iconografico Santo-maiale immondo, è
utile conoscere alcuni avvenimenti storici e leggendari.
Nel secolo XI, dopo la creazione dell’Ordine ospedaliero
degli Antoniani, fu concesso ai monaci anche il diritto di
allevare maiali che circolavano liberamente nelle città
e nei luoghi ove sorgevano i loro conventi. Tale disposizione
risultava necessaria dal momento che i maiali girando in villaggi
e città provocavano numerosi danni. |
Foto 2 |
L’allevamento vero e proprio, tuttavia,
era svolto per conto dei monaci, gratuitamente e per
devozione dei contadini i quali, ad opera compiuta ricevevano
protezione per se stessi e per i lavori da effettuare
durante il ciclo annuale di produzione. Il maiale in
questo modo era “sacralizzato” e perdeva
la sua connotazione demoniaca, dal momento che diventava
il tramite più vicino perché le masse
contadine ottenessero rassicurazione e promesse di fecondità
e fertilità.
L’iconografia rappresenta il Santo con il bastone
tipico degli eremiti, un maiale ai piedi, a simboleggiare
il demonio, un campanello e la fiamma. E, proprio a
causa del simbolo del maiale, S. Antonio Abate divenne
in breve il protettore degli animali domestici, mentre
la fiamma ricorda la sua capacità di guaritore
della malattia detta “fuoco di S. Antonio”.
Fu così che S.Antonio Abate divenne il protettore
degli animali ed una testimonianza di festeggiamento
romano ce l’ha lasciata il poeta tedesco Goethe,
che in un suo diario parla del 17 gennaio 1787, giorno
sereno e tiepido dopo una notte che aveva gelato, nel
quale poté assistere alla consacrazione degli
animali domestici, con cavalli e muli infiocchettati
e benedetti con copiose aspersioni d’acqua santa. |
Le foto, che sono state riprese dal volume di Vito
Lozito “Agiografia, magia, superstizione”
(Levante Editori), rappresentano Le tentazioni di
S. Antonio Abate (Foto 1) e S. Antonio Abate (foto
2)
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SAN GIOVANNI CRISOSTOMO
VESCOVO E DOTTORE DELLA CHIESA
Giovanni, dall’ebraico Jôhânân, significa
“dono del Signore”. Anticamente veniva imposto
a un figlio lungamente atteso e nato quando ormai i genitori
avevano perso la speranza di essere rallegrati dalla nascita
di un bimbo.
Giovanni d’Antiochia detto Crisostomo (Crisostomo significa
Bocca d’Oro e rappresenta il soprannome attribuitogli
dai bizantini, per il fascino della sua arte oratoria), è
nato probabilmente nel 349. Negli anni giovanili condusse
vita monastica nella propria casa, poi, morta la madre si
recò nel deserto e vi rimase per sei anni, gli ultimi
due li trascorse in solitaria meditazione dentro una caverna
a scapito della salute fisica. Ordinato sacerdote dal Vescovo
Fabiano, collaborò attivamente al governo della chiesa
di Antiochia, specializzandosi nella predicazione.
Nel 398 fu chiamato a succedere al patriarca Nettario nella
prestigiosa sede di Costantinopoli, ove esplicò una
notevole attività pastorale, tanto da suscitare ammirazione
e perplessità. Infatti, creò ospedali, evangelizzò
nelle campagne, fece sermoni di fuoco fustigando vizi e tiepidezze,
severi richiami ai monaci indolenti e agli ecclesiastici troppo
sensibili alla ricchezza.
Era anche solito inveire contro
le pratiche superstiziose dei suoi fedeli, soprattutto donne,
invitandoli a non utilizzare talismani e scongiuri per superare
malattie, a non credere nel malocchio ma a servirsi dei medici
e ad avere fiducia nella potenza del segno della croce.Predicatore
insuperabile, fu deposto illegalmente da un gruppo di vescovi
capeggiati da Teofilo, quello di Alessandria,ed esiliato con
la complicità dell’Imperatrice Eudossia, ma venne
richiamato quasi subito dall’imperatore Arcadio. Solo
qualche mese dopo, però, Giovanni era di nuovo esiliato
sulle rive del Mar Nero e durante quest’ultimo trasferimento,
il 14 settembre 407, morì.
Trent'anni dopo, il figlio dell’Imperatore, Arcadio,
fece trasferire le sue spoglie in Costantinopoli, dove accolte
da una folla osannante, giunsero il 27 gennaio 438 e collocate
nella Cattedrale di Santa Sofia.
La vasta produzione letteraria di San Giovanni Crisostomo
è caratterizzata dalla grande comprensione delle vicende
umane, da uno stile armonioso e da finezze linguistiche, caratteristiche
che hanno fatto di lui il più grande oratore cristiano
dell’antichità. Il cristianesimo bizantino ne
ha onorato la memoria come teologo e come modello della vocazione
monastica, dedicandogli la liturgia più diffusa nella
chiesa orientale, detta appunto “la liturgia di san
Giovanni Crisostomo”.
Il Martirologio romano, come pure i sinassari orientali, hanno
iscritto la festa di Giovanni al 27 gennaio, anniversario
del ritorno del corpo a Costantinopoli. Nello stesso giorno
la festa è celebrata presso i siri. La Chiesa bizantina
lo festeggia anche il 30 gennaio, insieme a San Basilio e
a San Gregorio di Nazianzo e il 13 novembre, giorno del suo
ritorno dall’esilio. In Oriente si incontrano molti
monasteri a lui dedicati. Dottore della Chiesa, Giovanni circonda
con i Santi Atanasio, Ambrogio e Agostino, la Cattedra del
Bernini nell’abside della Basilica Vaticana. Papa Giovanni
XXIII pose il Concilio Vaticano II sotto la sua protezione.
La Chiesa lo ricorda il 13 Settembre, vigilia della sua morte,
poiché il giorno successivo viene celebrata l’Esaltazione
della Croce. Protettore degli esiliati e dei predicatori è
invocato contro l’epilessia. |
SANTA CESAREA E LE COLOMBE BIANCHE
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Santa Cesarea, patrona dell’omonima città delle
Terme in provincia di Lecce, ha una storia tra le più
affascinanti di quelle che riguardano i Santi salentini. Secondo
gli studiosi il culto risale al 1600, ma pare che le sue radici
risalgono addirittura all’età ellenistica, anche
se sul suo conto nulla è stato provato storicamente.
Essa però è fortemente esistita nella immaginazione
e nella fede del popolo al punto da operare innegabilmente
sul processo storico.
Secondo la leggenda della letteratura devota, ricordata da
Nicola De Donno, nel suo libro “Santa Cesarea Terme”,
(Congedo Editore), due ricchi signori Luigi e Lucrezia, coniugi,
da circa un decennio non avevano figli, pur avendone gran
desiderio.
Un eremita, Giuseppe Benigno che si recava spesso
a far visita nella loro casa, a conoscenza dell’ardente
preghiera di Lucrezia alla Vergine, le profetizza la nascita
di un figlio. Lucrezia fa così voto di consacrare alla
Madonna il nascituro.
La nascita di una bambina avviene l’8
dicembre e Lucrezia impone alla neonata il nome di Cesarea
e, dopo il solenne battesimo, secondo la condizione signorile
della famiglia, la bimba viene affidata ad una balia, certa
Caterina Felice, religiosissima, che molto influisce sull’avvio
di Cesaria alla fede e alla pietà. All’età
di dieci anni Cesaria è affidata per l’istruzione
ad un dotto sacerdote ed in virtù di tale educazione
lei si consacra segretamente a Dio ed alla Vergine.
Lucrezia, morta prematuramente, raccomandò al marito,
nell’eventualità della scelta di una nuova compagna,
di tener presente non la bellezza esterna, ma la probità
e la virtù dell’animo, proprio come la figlia
Cesarea. Luigi, invece, trascorsi due anni, sente sempre più
il bisogno di una nuova compagna e non trovandola, si infiammò
di libidine incestuosa verso la figlia, perciò con
l’assenso o con la violenza avrebbe costretto la figlia
a prendere il posto della madre.
Ma, al rifiuto di Cesaria,
egli minaccia di ucciderla ed allora Cesaria con uno stratagemma,
fingendosi disposta a ricoprire tale ruolo, invita il padre
ad andare a letto, mentre lei, col pretesto di andarsi a lavare
i piedi, si allontana e in una stanza accanto mette in una
bacinella con un po’ d’acqua due colombe bianche
legate, le quali, con il loro batter d’ali davano l’impressione
che qualcuno si stesse lavando e, mentre questo accadeva,
Cesaria fuggiva.
Il padre la cercò per tutta la casa e non trovandola
andò alla ricerca raggiungendola sul promontorio di
Castro ma, mentre un angelo dall’aspetto di un giovane
guerriero indica a Cesarea l’apertura di una rupe presso
la quale poteva salvarsi, il padre si ritrova in una densa
e nera nuvola, precipitando così dall’alta scogliera
nel mare e nell’inferno.
Cesaria, che entrò nella grotta indicata dall’Angelo,
non comparve mai più, seguitando a vivere all’interno,
grazie al sostentamento che proveniva dalla Divina Provvidenza.
Lì fu raggiunta dalle due colombe, ormai liberate dai
lacci.
Fin qui la leggenda, ma la realtà è che natura
e tranquillità sono i vantaggi che questa cittadina
offre a turisti e visitatori. Il paesaggio è uno tra
i più belli e suggestivi del Salento, la natura dipinge
scorci che incantano anche il visitatore più distratto.
Tra le attrattive di Santa Cesarea Terme c’è
anche la possibilità di incantevoli escursioni costiere
(Castro, grotta della Zinzulusa, Porto Badisco, Leuca, Ugento)
e di affascinanti immersioni subacquee in un mondo dalla incomparabile
bellezza.
Patrona di Santa Cesarea, in provincia di Lecce, la sua festa
liturgica è il 15 maggio, ma a metà settembre
una sua statua è portata in processione accompagnata
da numerosi fedeli e turisti che giungono nella cittadina
per assistere alla suggestiva processione a mare che con un
corteo di barche giunge alla grotta dove sarebbe vissuta e
morta.
Le Terme di Santa Cesarea, invece, in sintonia con le bellezze
naturali del mare e del paesaggio e per alleviare le sofferenze
dei pazienti assicurano terapie idropiniche (inalazioni, insufflazioni,
fanghi, bagni, idromassaggi,) e, in sinergia con l’effetto
delle proprie acque sorgive (solfuree), provenienti dalle
grotte Gattulla, Fetida, Solfurea e Solfatara, propongono
anche una linea di trattamenti estetici per consentire a chiunque
di essere in armonia con la sua complessità psicosomatica
e di godere quindi ottima salute, dal momento che il progresso,
attraverso i suoi ritmi frenetici, costringe continuamente
a disagi e malesseri. |
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SAN CATALDO TRA STORIE E LEGGENDE
È stato recentemente pubblicato il volume di Gaetano
Bucci, docente di Lettere presso l’Istituto Statale
d’Arte di Corato (Ba) “Alla San Cathal”
edito da Edizioni Tipolito Martinelli snc, Corato, (pag. 288,
euro 18,00).
L’autore descrive la storia leggendaria del Santo venuto
dall’Irlanda a Taranto e la sua “elezione”
a protettore della città di Corato col sostegno dei
Frati francescani. Viene anche presentato il fascino della
Grande Festa in suo onore in prosa, per immagini e in poesia.
Un unico filo unisce, le città di Corato, Taranto,
Lismore in Irlanda, Torino e Toronto, che festeggiano insieme
San Cataldo. |
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San Cataldo è, come pochi, un Santo che incanta e affascina,
sia per aver migrato ed essersi spostato tra terre lontane,
sia per aver rappresentato con la sua vita di monaco, di pellegrino
e di evangelizzatore un antesignano del cristiano che vive
alla ricerca della fede e della sua testimonianza
Nato in Irlanda all’inizio del secolo VII, dopo essere
stato monaco e poi abate del monastero di Lismore, fondato
dal vescovo Cartagine, Cataldo divenne vescovo di Rachau .
Durante un pellegrinaggio in Terra Santa, morì a Taranto,
nella cui Cattedrale fu sepolto e dimenticato.
Nel 1094, durante la ricostruzione del sacro edificio, che
era stato distrutto dai Saraceni, fu ritrovato il suo corpo,
come indicava chiaramente una crocetta d’oro su cui
era inciso il suo nome e quello della sede episcopale. Questo
reperto, che si conserva insieme col corpo ha permesso di
stabilire che il santo visse nel secolo VII e erroneamente,
quindi, i tarantini lo considerarono loro vescovo, anzi il
protovescovo.
Bucci passa in rassegna la storia e le leggende popolari,
il suo nome che rappresenta un “nodo” mai veramente
sciolto a causa della incertezza del nome originario “Cathal”
che pare derivare dal nome gaelico “Cathail” che
significava “forte in guerra”. Da quest’ultimo
nome, deriverebbe il cognome di “Cahill”, diffuso
sia in Irlanda che negli Stati Uniti d’America
Nella “vicenda agiografica” del Santo il nome
di riferimento diviene “Cathaldus o Cataldus”,
da cui è poi derivato il nome “volgare”
o “italianizzato” di Cataldo. |
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Nel volume vengono descritti il tempo, i luoghi, l’origine
irlandese del Santo, il viaggio in Terra Santa, l’arrivo
a Taranto, la predicazione e i miracoli. Viene ricordata l’origine
del culto di San Cataldo a Corato e la eredità del
Francescanesimo.
Inoltre, si parla della Festa Grande di San
Cataldo a Corato che è frutto di una lunga e complessa
gestazione nella quale vi sono tracce bizantine, spagnole
e barocche. Anche le feste dedicate a San Cataldo in Italia
e all’estero vengono ricordate, compresa quella dei
coratini a Torino che è stata la città che ha
registrato la maggior parte degli emigranti di Corato, i quali
sono riusciti non solo a darsi grande dignità e prospettiva,
ma anche a mantenere e rinsaldare i legami con la città
di origine.
L’autore ha anche inserito “Le senett”,
sessanta sonetti in dialetto perché i riti e la festa
(10 maggio), cui la città è rimasta legata per
diversi secoli sono stati vissuti e comunicati in questo idioma.
La trascrizione in italiano presente nel volume allarga la
fruizione dei sonetti, anche se la resa, sul piano linguistico-espressivo
e su quello ritmico-fonetico non è la stessa.
Una ricca iconografia, le immagini del Santo con la preziosa
statua in argento e la bibliografia completano l’interessante
volume finalizzato a soddisfare non solo le esigenze dei devoti
di San Cataldo ma anche a quelle degli studiosi e dei cultori
della materia.
Parte del ricavato dalla vendita del volume sarà devoluto
in beneficenza.
La copertina è del prof. Francesco Granito.
Le immagini riportate sono state riprese dallo stesso volume.
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ANCHE TRANI È PROTETTA DA SAN NICOLA,
MA PELLEGRINO
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Sono trascorsi novecentodieci anni dalla morte del giovane
pellegrino greco Nicola, morto a Trani in odore di santità
e riconosciuto suo Patrono.
Trani, una delle più belle città della Puglia,
ricordata soprattutto per la magnifica Cattedrale sul mare
fondata alla fine dell’XI secolo, accoglie le sue reliquie
e rappresenta anche la sua memoria vivente, una memoria di
straordinaria armonia.
Il giovane pellegrino Nicola, proveniente dalla Grecia, è
vissuto al tempo in cui Roberto il Guiscardo e il figlio Boemondo
realizzavano la loro spedizione in Grecia mirando a Costantinopoli.
Era anche il tempo in cui i baresi riuscivano nell’impresa
di portare a Bari le reliquie di San Nicola di Myra.
Un San Nicola diverso da quello di Bari, soprattutto per la
sua breve vita: nacque infatti nel 1075 e morì nel
1094 e padre Gerardo Cioffari o.p. ha voluto ricordarlo nel
volume “S. Nicola Pellegrino - Patrono di Trani”,
edito dal Centro Studi Nicolaiani, stampato per i tipi di
Levante Editori di Bari, in occasione del IX centenario della
morte narrando della sua vita in chiave critica, storica e
del messaggio spirituale che ha voluto lasciare ai posteri.
Dopo la sua morte fiorirono numerosi miracoli; quattro anni
dopo, nel 1098, in occasione nel Sinodo Romano, il vescovo
di Trani si alzò e chiese all’Assemblea che il
venerabile Nicola venisse iscritto nel catalogo dei Santi
per i meriti avuti in vita e per i miracoli avvenuti post-mortem.
Il papa Urbano II emanò un ‘Breve’ che
autorizzava il vescovo di Trani dopo opportuna riflessione
ad agire come riteneva più opportuno. Il vescovo tornato
a Trani lo canonizzò e dopo avere eretto una nuova
basilica vi depositò il corpo del Santo. Infiniti da
allora i miracoli sulla sua tomba.
Per il suo continuo gridare Kyrie eleison (Cristo abbi pietà
di noi) fu dapprima cacciato di casa dalla madre e durante
il suo peregrinare fu fatto fustigare dal vescovo di Lecce,
Teodoro Bonsecolo, e successivamente fu fatto frustare a sangue
dall’Arcivescovo di Taranto, Alberto. Insomma, una vita
breve e travagliata all’insegna del Kyrie eleison che
non si stanca mai di pronunciare per le strade della città
e lo stesso Arcivescovo di Trani, Bisanzio I, lo convoca per
conoscere le ragioni del suo comportamento.
Egli spiega i
motivi del suo modo di agire, richiamando le parole del vangelo,
fino a che il 2 giugno 1094 muore nella casa di un certo Sabino
di Trani e sepolto in un angolo della Cattedrale.
Per questi motivi e per il forte impulso alla provocazione
egli fu considerato moros termine greco usato nella Sacra
Scrittura per designare un pazzo, successivamente il termine
ha avuto un’accezione meno forte di moros e cioè
salòs (ingenuo, innocente) il quale indica più
dabbenaggine che pericolosità.
Monsignor Carmelo Cassati che presenta la pubblicazione dice
di lui: «San Nicola Pellegrino vuol ritornare a prendere
il suo posto di Patrono nella città che gelosamente
conserva le sue ossa, ma ritorna con la forza di chi, avendo
scoperto e sperimentato l’amore di Dio, trovò
necessario dare altrettanta risposta d’amore accettando
di passare pazzo per Cristo, nel continuo bisogno di misericordia».
Il patrono di Trani, infine, è considerato uno dei
Santi più solidi dal punto di vista della critica storica.
Sono pochi, infatti, i patroni “pugliesi” che
godono di un corpus documentario così ricco e interessante
e San Nicola Pellegrino è uno dei pochi grandi Santi
che possono vantarlo.
La foto della Cattedrale di Trani è stata ripresa
dal volume “Puglia – Turismo, Storia, Arte, Folklore”,
(Mario Adda Editore). |
SANTI DI STRADA
LE EDICOLE RELIGIOSE
DELLA CITTÀ VECCHIA DI BARI
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È stato pubblicato, a cura di
Nicola Cortone e Nino Lavermicocca, per i tipi di B.A.
Graphis e Pagina, il quinto volume dell’opera
i Santi di strada, ovvero le edicole religiose della
città vecchia di Bari.
L’edicola altro non è che un piccolo spazio
a forma di tempietto o nicchia, dove è sistemata
e custodita un’immagine sacra (affresco, bassorilievo,
scultura, dipinto, oleografia, ecc.). Normalmente è
collocata nei vicoli delle città vecchie, nei
cortili dei palazzi, sulle facciate delle case o sopra
le porte d’ingresso, come segno di protezione.
L’usanza di costruire edicole sacre è antichissima;
risale addirittura all’epoca preistorica e si
diffuse poi largamente in epoca romana, con una gran
varietà di tempietti, urbani e rurali, dedicati
alle divinità pagane e sembra che solo nell’XI-XII
secolo i cristiani abbiano utilizzato questa forma di
devozione, forse per rendere più vivo il loro
rapporto giornaliero con la Madonna, con Gesù
o con un Santo, che nell'edicola venivano raffigurati.
Particolarmente ricche sono molte città come
Roma e Napoli, ma anche la Puglia ha una buona raccolta
e Bari possiede un altrettanto ricco patrimonio presente
soprattutto nella città vecchia, gran parte del
quale è stato restaurato.
Recentemente è stata inaugurata una immagine
dell’Odegitria nell’omonima piazza di Bari
dove si affaccia la Cattedrale. A Costantinopoli, terra
dalla quale pare provenga, portata da monaci in fuga,
non c’è più traccia di quella Madonna,
che invece è presente con tutte le sue tradizioni
e devozioni nella nostra città.
Nella Bari vecchia si contano circa 250 edicole, la
maggior parte dedicate alla Madonna e, grazie all’iniziativa
di Nicola Cortone e Nino Lavermicocca, sono state riscoperte
e riportate nella collana Santi di Strada, dando la
possibilità a molti di venirne a conoscenza e
di valorizzarle. Le edicole religiose testimoniano storie
invisibili, difficili da scrivere ma semplici da raccontare.
Se queste testimonianze rivelano la storia di una collettività
ne consegue che esse costituiscono patrimonio culturale
del luogo e dell’umanità. Di qui l’impegno
morale di salvaguardia e di recupero. Citerò
solo alcuni dei cinque itinerari di cui si compone l’opera.
Il primo itinerario di questa bella collana, è
stato dedicato alla Strada Santa Maria, il secondo alla
Via delle Crociate, il terzo è dedicato alla
Via dei Mercanti, il quarto alla Rua Fragigena, il quinto
e ultimo alle Corti dei Miracoli.
Il terzo itinerario, si avvale dei contributi di Mariella
Basile Bonsante, che narra dei modelli e luoghi della
pittura religiosa; di Nino Lavermicocca su “Ouranoupolis”
la città di Dio e le case degli uomini; di Giorgio
Otranto sulle infinite vie di San Michele; di Nico Veneziani,
che racconta di taumaturghi, re, santi e «placebo»;
di Nellina Guarnieri che illustra il Santorale di Bari
tra Oriente e Occidente, di Vito Melchiorre che scrive
di edicole e di cappelle: da Sant’Antonio Abate
del Fortino a San Nicola Nero al Porto. Conclude l’itinerario
l’intervento di Monsignor Gaetano Barracane a
proposito di tradizione e storia della tavola dell’«Odegitria».
Merita un cenno particolare il capitolo di Nico Veneziani,
cardiologo, con la passione dell’arte e delle
tradizioni popolari, nel quale parla di Re, taumaturghi,
Santi e «placebo». Egli riferisce di credenze
popolari esistenti in varie regioni del mondo e che
pian piano sono emigrate in occidente. L’autore
parla non solo del potere taumaturgico dei Santi, ma
anche degli effetti di colori, metalli, musica e danza.
Nella religione cristiana, ad esempio, molti sono i
Santi a cui viene riconosciuto il potere taumaturgico,
da San Vito a San Biagio, ai Santi Medici, di essi l’iconografia
ce ne mostra due: Cosma e Damiano, in realtà
furono cinque con Antimo, Euprepio e Leonzio. Si narra,
infatti, che questi ultimi furono oscurati dalla fama
dei primi due. Anche San Nicola, capostipite dei taumaturghi,
diventa riferimento importante per la vicenda dei tre
bambini.
L’ultimo volume ripercorre l’itinerario
n. 5 dedicato alle Corte dei Miracoli. Alcuni capitoli
sono dedicati al Palazzo Simi, alla città vecchia,
alla Bari medievale, alle immagini sacre prodotte dalle
tipografie baresi, ai dolci dei santi. Inutile dire
che le edicole più numerose sono dedicate alla
Madonna Addolorata e a San Nicola. Nico Veneziani, ha
firmato un originale saggio dedicato all’arte
dei “nicolari”, i produttori di articoli
di vario genere dedicati al nostro San Nicola, che si
sono succeduti nel tempo, non solo a Bari ma anche in
alcuni paesi della provincia.
Gli autori, che si sono ripromessi di continuare l’opera,
dichiarano che la realizzazione è stata possibile
grazie soprattutto alla fattiva collaborazione e disponibilità
degli abitanti della città vecchia di Bari ai
quali sono grati.
Elegante la linea grafica che si avvale delle belle
immagini riprodotte dalle foto di Elio Sciacovelli. |
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SAN BIAGIO, UN VESCOVO GUARITORE
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San Biagio, martire e vescovo di Sebaste
(Armenia), viene indicato in alcuni atti, non si sa in base
a quale fondamento, come medico. Il suo martirio sarebbe
avvenuto sotto Diocleziano o Licinio, ma l’opinione
preferibile è per l’epoca di Licinio (307-323).
Scoppiata la persecuzione, Biagio si allontanò dalla
sua sede vescovile e andò a vivere in una caverna,
dove guariva con un segno di croce gli animali sofferenti.
Scoperto da alcuni cacciatori in mezzo ad un branco di bestie
e denunciato al magistrato, venne catturato e rinchiuso
in prigione, dove riceveva e sanava gli ammalati. Un giorno
si recò da lui una donna, il cui figlio era sul punto
di morire a causa di una lisca di pesce che si era conficcata
in gola. La benedizione del Santo con due ceri incrociati
lo risanò immediatamente. Fra tanti miracoli, operati
anche durante le torture, merita particolare ricordo quello
della vedova, alla quale un lupo aveva portato via un maialino.
La donna, riavuta la sua bestia per intercessione di Biagio,
in segno di riconoscenza portò cibi e candele al
Santo che, commosso, le disse: “Offri ogni anno una
candela alla chiesa che sarà innalzata al mio nome
ed avrai molto bene e nulla ti mancherà”.
San Biagio subì la decapitazione (probabilmente il
3 febbraio del 316). Il suo culto è tra i più
diffusi in Oriente e in Occidente, sebbene, sembra, non
si affermò immediatamente dopo la sua morte. La festa
è celebrata dagli orientali l’11 febbraio,
dagli occidentali, invece, il 3 o anche il 15 dello stesso
mese. Numerose le chiese e gli oratori a lui dedicati in
ogni parte del mondo cristiano: a Roma se ne contano diverse
tra cui la Cappella sulla via Giulia. Nella nostra Regione
San Biagio è protettore di Ruvo di Puglia (BA), dal
momento che nel 1857 in occasione di una grave epidemia
che colpì la gola di molti bambini, fu esposta la
reliquia del Santo che compì il prodigio di far scomparire
il morbo e da quel momento fu eletto San Biagio protettore
della città. Nel corso delle celebrazioni la tradizione
prescrive la benedizione dei nastrini (re mesiure), che
vengono messi al collo dei bambini e tarallini di varia
forma (frecedduzze), raffiguranti la mano benedicente, il
bastone e la mitra del Santo. Il vescovo guaritore è
patrono anche di Avetrana (TA) e di Corsano (LE).
Le raffigurazioni relative al Santo, alla sua vita e al
suo martirio sono numerose, probabilmente perché
alcune leggende ne avvicinarono il culto al gusto ed alla
sensibilità popolari. Suo attributo comune è,
oltre alle costanti insegne episcopali, il pettine di ferro
da cardatore - infatti è assunto come patrono dei
cardatori – strumento della tortura subita. Ma l’attributo
iconografico che appare più frequentemente sono due
ceri incrociati, in ricordo del miracolo della lisca di
pesce.
Numerose sono anche le opere in cui gli artisti vollero
mettere in luce soprattutto la grandezza della figura del
Santo, raffigurandolo seduto in trono, vestito di sontuosi
paramenti sacri, le mani levate in alto con gesto benedicente,
la croce episcopale e le insegne del martirio. Nel giorno
della sua festa, in Spagna, Francia e Germania, vengono
distribuiti speciali piccoli pani, che nella forma ricordano
le parti malate. Anche a Roma, nella Chiesa di San Biagio
della Pagnotta, tale pia tradizione sopravvive, mentre a
Milano, e pian piano anche nel resto d’Italia, si
mangia una fetta di “Panettone di San Biagio”
che sarebbe poi quello avanzato durante le festività
natalizie.
Il potere taumaturgico del Santo si estese, oltre alle malattie
della gola anche a numerose altre patologie: in particolare,
in Germania, è invocato anche contro i mali della
vescica, per l’affinità fra il suo nome e il
termine tedesco “blase” che indica appunto quell’organo.
In occasione della sua festa, che in Italia ricorre il 3
febbraio, vengono celebrate messe e festeggiamenti nei reparti
ospedalieri di otorinolaringoiatria che considerano San
Biagio protettore della gola e degli otorinolaringoiatri.
La foto di San Biagio è stata ripresa
dal volume di Vito Lozito:
"Agiografia, Magia, Superstizione" (Levante
Editore, Bari) |
SAN ROCCO TRA STORIA E LEGGENDA
In occasione dei solenni festeggiamenti in onore di San Rocco,
il Comitato delle Feste Patronali di Valenzano (BA), ha organizzato
qualche anno fa nel Castello Baronale, la mostra documentaria
“La peste del 1656 a Valenzano ed il voto a San Rocco”.
Per l’occasione lo stesso Comitato ha fatto pubblicare
un interessante volume, firmato da Salvatore Camposeo, che
nei ritagli della sua professione di agronomo e ricercatore
presso l’Università di Bari, ha curato e offerto
una testimonianza dell’amore che egli, da vero valenzanese,
nutre per il Santo di Montpellier.
La pubblicazione, che si divide in cinque capitoli, riporta
una ricostruzione storica, frutto di pazienti ricerche di
Camposeo effettuate su materiale autentico dell’epoca,
in parte esposto alla mostra, che costituisce solo un campionario
del vasto ed inesplorato patrimonio documentario riguardante
la storia civile e religiosa di Valenzano. I documenti riportati
ed esposti alla mostra sono datati tra il 1656 ed il 1679,
periodo in cui nei valenzanesi si radicò il culto per
il loro Patrono San Rocco.
Due sono i dati certi relativi a San Rocco: l’Italia
e la peste. Infatti, il Santo arriva in luoghi attaccati dal
contagio, che col nome di peste nera devasta l’intera
Europa, ma che già prima e anche dopo continua a manifestarsi
nel resto dello stivale. Egli si stabilì in un lazzaretto
presso Viterbo per curare i malati.
Il 27 ottobre 1656, mentre il contagio mieteva vittime sia
a Bari che in molte altre città vicine, Valenzano ne
rimase esente ed allora il sindaco e gli eletti di Valenzano
riuniti in consiglio, presente il governatore, votarono la
città a San Rocco. Dal documento si apprende anche
che il voto consistette nel far celebrare ogni settimana ed
in perpetuo una messa cantata nel suo Altare dai reverendi
sacerdoti del Capitolo ed in quello dello stesso giorno in
cui si festeggia il Santo. Da quel momento a San Rocco, già
Patrono di Valenzano, sono tributati solenni festeggiamenti.
Ma torniamo alla pubblicazione che, oltre a ben presentarsi
con la sua bella illustrazione in copertina del Santo col
cane, ci parla della peste nel Regno di Napoli, in terra di
Bari e di Valenzano in particolare, del voto e dell’affermazione
del culto a San Rocco. Infine un capitolo è dedicato
ai protagonisti principali dell’epoca con notizie biografiche
dei personaggi coinvolti nonché brevi note sulla moda
barocca, a cura della prof. Rita Faure, docente di Costume
per lo Spettacolo presso l’Accademia di Belle Arti di
Bari, che ha voluto anche documentare i vari notabili con
alcuni disegni dei costumi dell’epoca che saranno realizzati
in futuro.
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TUTTI I SANTI DEL CALENDARIO
Ogni anno ricorre un appuntamento importante per la Chiesa
Cattolica, la festività di Ognissanti, detta anche
di “Tutti i Santi”, con la quale si onorano non
soltanto i Santi iscritti nel martirologio romano, ma tutti
i giusti di ogni lingua, di ogni razza e di ogni nazione,
i cui nomi sono scritti nel libro della vita e che godono
la gloria del Paradiso. Una ricorrenza importante per la Chiesa
che celebra tanti uomini e donne che hanno dato tutto per
la fede e sono diventati per noi “modelli di vita e
insieme potenti intercessori”.
Rocco Panzarino, che vive e opera a Fasano (BR), che tra l’altro
si occupa di pastorale postconciliare, appassionato di collezionismo
con particolare interessamento ai “santini”, ha
pensato bene di scrivere un bel libro “I Santi del Calendario”
secondo il Martirologio Romano (Schena Editore, Euro 45,00).
Si tratta di un bel volume di grande formato (22x30) e molto
ben illustrato che accompagna il lettore quotidianamente,
come in una passeggiata, a conoscere i Santi del giorno, ovvero
i principali Santi che la Chiesa ricorda, riportando per ognuno
una scheda con brevi note biografiche ed anche qualche curiosità.
L’opera si divide in 12 mesi e per ogni giorno è
riportata l’immagine del Santo che la Chiesa ricorda
ed una breve scheda biografica. In molti casi sono riportate
immagini d’autore. Inoltre è presente un appendice
che riporta mestieri, professioni e rispettivi Santi protettori.
Monsignor Domenico Padovano, Vescovo di Conversano-Monopoli
sostiene nella presentazione che «È bello avere
sottomano tutti i Santi del calendario con i tratti salienti
della loro vita e l’immagine che l’iconografia
ci ha tramandato nei secoli». E grazie a Rocco Panzarino
questa possibilità oggi è realtà. Il
prof. Giovanni Dotoli, docente nell’Università
di Bari, è sicuro invece che non si può fare
a meno di questo libro per trovare sicurezza nel Santo del
giorno e, soprattutto, nel nostro Santo Protettore.
Anna Maria Tripputi, anch’essa docente universitaria
a Bari, nella lunga e interessante introduzione “Un
Santo al giorno e un giorno per ogni Santo”, afferma
che «Stampe e Santini, fonti per la devozione privata,
puntavano su quello che è stato definito “primo
piano drammatico”, sull’attimo significante della
vicenda terrena del Santo, sull’attributo del suo martirio,
sul particolare che poteva connotarlo e al tempo stesso distinguerlo
da un altro Santo, su alcune caratteristiche fisiche. San
Pietro viene raffigurato forte e robusto; San Paolo piccolo,
calvo e con naso aquilino; San Francesco ieratico ed emaciato».
«L’opera - secondo l’autore - è rivolta
a tutti ed in particolare alle istituzioni religiose, che
potranno utilizzarlo come testo di lettura; a quanti festeggiano
l’onomastico e vogliono soffermarsi sul senso religioso
della festa; ai collezionisti, che troveranno in un’unica
raccolta la riproduzione di oltre cinquecento santini; alle
scuole, che potranno utilizzarla come testo didattico; alle
famiglie cristiane, che vogliono arricchire la conoscenza
della vita dei Santi».
Non si può che condividere l’iniziativa dell’autore
e dell’editore che attraverso quest’opera faranno
felici, tra gli altri, molti collezionisti i quali potranno
avere sottomano un’opera di grande consultazione che
diverrà sicuramente una rarità nel tempo. |
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