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TERESA ORSINI DORIA PAMPHILJ LANDI: UNA VITA FATTA D'AMORE E MISERICORDIA
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Ancora una biografia della fondatrice delle Suore Ospedaliere della Misericordia, pubblicata nel corso delle celebrazioni bicentenarie della nascita della Congregazione, 16 maggio 1821.
A scriverla è stato padre Massimiliano Taroni, dell’Ordine Francescano dei Frati Minori; un figlio di San Francesco, che scopre nella principessa Orsini gli stessi sentimenti francescani di povertà, semplicità e umiltà: “Serva di Dio Principessa Teresa Orsini Doria Pamphilj Landi. Una straordinaria storia d’amore e misericordia”, Edizioni Velar, Gorle 2021.
In questo volumetto di padre Massimiliano Taroni viene fatto particolare riferimento a due concetti che denotano soprattutto due sentimenti di cui l'umanità intera ha estremamente bisogno nel contesto attuale della nostra quotidianità: amore e misericordia e che furono sposati in pieno sin dai tempi in cui la protagonista visse.
Il testo, prefatto da Vito Cutro, Direttore responsabile della rivista Accoglienza che Cresce, trimestrale delle Suore Ospedaliere della Misericordia, suddiviso in 14 capitoletti, coglie l’essenza e l’impegno di una donna che fu figlia, sposa, madre, benefattrice, volontaria della carità e fondatrice. Teresa Orsini nacque a Gravina in Puglia il 23 marzo 1788, nel palazzo ducale del suo nobile casato. A 14 anni si trasferisce nella capitale e va a vivere nel palazzo costruito sulle mura del teatro Marcello, che dal 1735 era di proprietà della famiglia Orsini di Gravina.
E’ qui che comincia la sua vera e nuova vita di apostolato, di testimonianza della fede che aveva abbracciato, grazie all’educazione ricevuta in casa. Il 2 ottobre 1808 convola a nozze con Luigi Doria Pamphilj, dal quale, tra il 1810 e 1815, ebbe quattro figli: Andrea, Leopolda, Filippo e Domenico, tutti educati dalla madre premurosa che seppe essere. In questo focolare domestico fece esercizio ed esperienza di carità e misericordia, di amore assoluto secondo i dettami del Vangelo.
Perciò, relazionandosi con l’esterno, con le realtà quotidiane di miserie e povertà, indigenze e malattie seppe coniugare e distribuire equamente amore e misericordia. Una donna che visse il suo tempo senza risparmiare le necessarie energie spirituali e materiali, evidenziando generosità, abnegazione, coerenza di fede, il tutto in chiave ascetica ed eroica, considerato il difficile contesto storico e di quello altrettanto particolare per la vita della Chiesa. Erano gli anni in cui imperversava il cosiddetto spirito anticristiano della Repubblica romana con l’ascesa di Napoleone.
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Nonostante ciò, Teresa Orsini esercitò la sua missione, più esattamente la sua vocazione, senza trascurare quelli che erano i suoi primari doveri famigliari, accostandosi però, con il suo tempo e la sua paziente carità presso i letti degli ultimi, dei sofferenti, dei poveri, degli ammalati. L’opera di questa donna non fu solamente materiale, ma spirituale, nel senso che divenne calamita per molte altre donne che ebbero la forza e la volontà di seguirla.
Da qui nasce il seme della futura Congregazione. Grazie a questa mirabile e silenziosa opera, frutto di un talento innato, che lei stessa fu capace di irradiare e trasmettere e cresciuto all’ombra di una educazione religiosa, cristiana, cattolica, ella seppe costruire la casa dell’amore, dell’accoglienza. Rimasta vedova seppe impreziosire il suo tempo, il suo stato, caricandosi sempre più dei suoi impegni fino a quando le forze non le vennero meno. Purtroppo, morì giovanissima, il 3 luglio 1829, a soli 41 anni, nel fiore di quegli anni in cui avrebbe potuto profondere di più quell’amore che le era sgorgato e che sgorgava dal suo cuore. La sua morte, seppur inattesa, prematura arrivò, secondo i piani imperscrutabili di Dio. Dopo che ella aveva affidato il messaggio e il testamento spirituale della sua opera, della sua missione a chi ne avrebbe continuato l’opera.
Quell’opera che, oggi, grazie a Dio è diffusa in molte parti del mondo, a sostegno delle persone anziane, disabili; al capezzale di quanti soffrono e e stanno per esalare l’ultimo respiro. Concludendo queste brevi note di recensione, è bene evidenziare che il lavoro di padre Taroni, sia pure succinto, è stato esaustivo nel tracciare la figura di una semplice e domestica Principessa; nel trattare i temi che le furono cari, ma soprattutto potrà servire quale ausilio, quale ulteriore supporto per velocizzare il Processo di Canonizzazione a cui la nobildonna è stata candidata.
Almeno questo è l’auspicio che le sue figlie suore nutrono, invocando la loro Protettrice, Maria Madre della Misericordia e il buon Dio, Padre d’amore e di misericordia.
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“LA VITA E LE SFIDE DI BENEDETTO XVI” IN UN LIBRO BIOGRAFICO DI LUCA CARUSO
Nella ricorrenza dei Santi Pietro e Paolo, il 29 giugno sorso, sono stati celebrati 70 anni dall’ordinazione sacerdotale del Papa emerito Benedetto.
Per l’occasione, è uscito per le Edizioni Sanpino il volume Benedetto XVI. La vita e le sfide di Luca Caruso, responsabile della comunicazione istituzionale e dell’ufficio stampa della Fondazione Vaticana Joseph Ratzinger – Benedetto XVI. Attraverso dieci capitoli, il libro ripercorre tutta la vita di Ratzinger, a iniziare dall’attuale condizione di Papa emerito e dal suo rapporto con Papa Francesco. Racconta poi il suo intero percorso esistenziale.
La nascita in un paesino della Baviera il 16 aprile del 1927, l’infanzia, il trauma della seconda Guerra mondiale. Poi, la vocazione e l’ordinazione sacerdotale, la carriera accademica, la nomina ad arcivescovo di Monaco e Frisinga da parte di Paolo VI nel 1977, la chiamata a Roma per volere di Giovanni Paolo II nel 1981.
Il libro contiene inoltre un inserto fotografico con una selezione di scatti dagli anni Trenta del Novecento a oggi, alcune realizzate dal fotoreporter Grzegorz Galazka, autore anche della foto di copertina, altre tratte dagli archivi dell’Institut PapstBenedikt XVI, di Ratisbona e della Fondazione Ratzinger.
Completano l’opera una raccolta di testimonianze di amici e collaboratori di Benedetto XVI, tra i quali i cardinali Re, Bertone, Müller, Herranz, Saraiva Martins, Giordano, Ruini, Arinze, Lajolo e De Giorgi. Il testo, tra l’altro, è arricchito dalla prefazione di mons. Georg Gänswein, segretario personale del Papa, nonché Prefetto della Casa Pontificia e da una postfazione di padre Federtico Lombardi, per anni Direttore responsabile della Sala Stampa della Santa Sede.
Alla luce di questi due contributi qualificati, ho ritenuto riprendere e riportare il testo integrale della prefazione, redatta da colui che è sempre vissuto all’ombra e continua a farlo, nella veste di angelo custode, di Ratzinger. “Fresco e originale: sono le due parole che mi sono subito venute in mente dopo aver letto quest’opera di Luca Caruso, per la quale mi ha chiesto di scrivere una breve prefazione. È un testo non molto lungo, ma significativo riguardo al contenuto.
L’autore non ha intenzione di fare concorrenza al già vasto elenco di pubblicazioni su Benedetto XVI e anzitutto alle due ampie biografie di Elio Guerriero (Servitore di Dio e dell’umanità. La biografia di Benedetto XVI, Mondadori, Milano 2016) e di Peter Seewald (Benedetto XVI. Una vita, Garzanti, Milano 2020).
L’intenzione è un’altra, cioè guidare e accompagnare il lettore con sincerità e competenza lungo le vie percorse da Joseph Ratzinger nella sua lunga vita. L’autore offre così un raffinato dipinto della persona e delle sfide che ha affrontato da sacerdote, professore, arcivescovo, cardinale prefetto, Sommo Pontefice e infine da Papa emerito.
Lo scritto aiuta a svelare “l’enigma” su chi sia veramente quest’uomo, che proviene da un villaggio bavarese al confine con le Alpi e che è stato molto influente con il suo lavoro teologico-scientifico, ma anche con il suo operato all’interno della Chiesa.
Giovane peritus al Concilio Vaticano II, innovatore della teologia, arcivescovo di una grande diocesi tedesca, cardinale prefetto di un Dicastero decisivo durante il lungo pontificato di Giovanni Paolo II e alla fine Pastore Universale che ha guidato la Chiesa per otto anni in una fase storica tumultuosa.
È innegabile che la profondità del suo pensiero teologico, vissuto sempre al servizio della Chiesa fino alle responsabilità più alte, è un dono che ha rilasciato alla Sposa di Cristo. E sono anche conosciuti il coraggio e la chiarezza con cui ha affrontato situazioni difficili, indicando con verità e determinazione la direzione per rispondervi.
Tuttavia, ogni volta che si cerca di comprendere e inquadrare Benedetto XVI, sorgono immediatamente divisioni e liti.
È considerato uno dei pensatori più intelligenti dei nostri tempi e al tempo stesso una figura affascinante. Ma anche un personaggio scomodo per i suoi avversari, che non mancano.
Al riguardo, un intellettuale francese una volta ha notato che non appena si menzionava il nome di Ratzinger «pregiudizi, falsità e persino disinformazione regolare dominavano ogni discussione».
In tal modo, non raramente, è stata costruita un’immagine che non è in grado di mostrare la realtà né della persona né dell’operato, ma solo una rappresentazione fittizia che doveva servire a uno scopo specifico. Allora, chi è veramente quest’uomo? Qual è il suo messaggio?
Luca Caruso offre una risposta tanto convincente e mi permetto di dire simpatica, quanto non di meno veritiera, raccontando le sue origini e le caratteristiche personali, le sfide epocali e anche i momenti drammatici e le vicissitudini delicate e complicate che hanno segnato l’esistenza di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI.
Va sottolineato che l’autore non perde mai la distanza necessaria, sana e obiettiva nell’esporre le sue osservazioni e riflessioni, senza la quale non è possibile alcuna vera comprensione”.
Giuseppe Massari |
IL CRISTO GIUSTINIANI DI MICHELANGELO BUONARROTI SOTTO LA LENTE DI INGRANDIMENTO DI NICOLETTA GIUSTINIANI
Partiamo da un dato inconfutabile, materia di discussione, oggetto di convegni, di mostre; materia di discussione da parte di molti critici d’arte e di molti studiosi, il Cristo Giustiniani di Michelangelo Buonarroti tiene ancora banco, se è vero, come è vero che, un ultimo saggio di Nicoletta Giustiniani lo pone al centro di nuovi studi, di nuovi approfondimenti da espletare, perché non tutto, forse, è stato chiarito nella dinamica di un’opera maestosa, copiata e ricopiata da molti altri artisti. Sia italiani che stranieri.
“Discorso sopra il Cristo Giustiniani di Michelangelo Buonarroti”, Phasar Edizioni, maggio 2021, è un testo che si collega bene alla nostra storia cittadina, se è vero, come è vero, che una copia simile di quell’opera, purtroppo, non ancora o mai attribuita, fa bella mostra sul portale della nostra Basilica Cattedrale, quello che si affaccia su piazza Benedetto XIII.
Di questo manufatto ci siamo occupati nel corso di una puntata della rubrica Passeggiando con la storia del 19 dicembre 2019, in cui asserivamo: fonti storiche più o meno accreditate asseriscono, senza aver mai, purtroppo, fornito elementi certi sulla sua datazione, sulle maestranze che la realizzarono, che quella statua fu collocata dove, ancora, attualmente la si può ammirare, dopo il crollo della torre campanaria avvenuto nel 1558.
Cosa abbia di tanto particolare o di tanto fulgido retaggio storico quel manufatto in pietra è presto detto. Replica, modestamente, senza forzature di sorta, senza esagerazione campanilistica e retorica, l'opera che, Metello Vari, nel 1514, commissionò a Michelangelo Buonarroti, per la Basilica di Santa Maria Sopra Minerva, a Roma, retta dai figli di San Domenico, dell'Ordine dei Predicatori, e dove sono custodite le spoglie mortali del nostro concittadino, Papa Benedetto XIII.
Ritornando al testo da cui siamo partiti, dopo la necessaria digressione di contestualizzazione, esso ripercorre la sorprendente storia della "prima versione" dell’opera. Il mistero sull'artista che ha rifinito il Cristo Giustiniani non è risolto, anche se è affascinante pensare che, per la prima volta nella storia dell'arte, la stessa opera potrebbe portare la firma di due geni assoluti di tutti i tempi: Michelangelo e Bernini. Tutto inizia nel 1514 quando Michelangelo si impegna con Metello Vari a consegnare “una figura di marmo d'un Christo, grande quanto el naturale, ingnudo, ritto, chor una chroce in braccio, in quell'attitudine che parrà al detto Michelagniolo”. Un lavoro che si rivelò alquanto tormentato, che vide la creazione non di una ma di due statue.
La più nota è esposta nella chiesa romana di S. Maria sopra Minerva, la "seconda versione" di una prima, creduta ormai perduta, abbandonata dal maestro che, mentre la scolpiva, si accorse di una vena nera nel marmo proprio all'altezza del volto: «...reuscendo nel viso un pelo nero hover linea...».
Venduta al marchese Vincenzo Giustiniani un secolo dopo, rifinita probabilmente da Gian Lorenzo Bernini, se ne persero le tracce fino alla fine degli anni Novanta, quando fu "ritrovata" nella chiesa di S. Vincenzo Martire a Bassano Romano. Questo saggio ripercorre la sorprendente storia della "prima versione". Il mistero sull'artista che ha rifinito il Cristo Giustiniani non è risolto, anche se è affascinante pensare che, per la prima volta nella storia dell'arte, la stessa opera potrebbe portare la firma di due geni assoluti di tutti i tempi: Michelangelo e Bernini.
Dell’autrice del presente saggio, ci piace riportare ciò che ha scritto di lei e sulla sua ultima fatica editoriale, nella prefazione, don Cleto Tuderti, già Priore conventuale del Monastero di San Vincenzo Martire di Bassano Romano. “Fra le più numerose recensioni che hanno reso il soggetto affascinante ed avvincente si incastona il testo di Nicoletta Giustiniani.
E’ un lavoro storico-artistico di ampio respiro, da cui scaturisce una dovizie di intuizioni di esperti, che spaziano dalla committenza, alla dismissione del lavoro, dal trasferimento in Bassano di Sutri, fino alla gloria odierna e delle esposizioni in mostre internazionali. Inoltre, il prefatore, così conclude: “Nicoletta Giustiniani ha avuto un bel da fare nel passare in rassegna e vagliare la pletora di giusidi e prese di posizione di esperti e critici, compito da lei svolto in modo esauriente e lodevole.
Pregio distinto è quello dell’imparzialità che saputo mantenere nei suoi rilievi critici, senza propendere da una parte o dall’altra, né della professoressa Squarzina che vede la statua prevalentemente michelangiolesca né del professor Cristoph Luitpold Frommel, valente storico dell’arte, già direttore della Biblioteca Herziana di Roma, che vi scorge tracce qualificanti, specie sul volto del Cristo che “par che spirasse”, di inconfondibile stile beniniano. A chi l’ardua sentenza? Tocca ai valenti estimatori dell’opera cimentarsi nella grande impresa, districandosi nel foto di una selva, per uscirne illuminati".
Conclude don Tuderti: “Condivido il parere della Nicoletta, che qualora venisse alla luce l’ultimo tassello mancante che confermi l’eminente presenza del delicato e dolce scalpello beniniano, visibile specie sul volto del Redentore, ci troveremmo di fronte al valore aggiunto di un’alta opera d’arte, cui hanno posto mano i due più grandi luminari dell’arte italiana e del mondo”.
Giuseppe Massari
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IL MONDO SALVERA' LA BELLEZZA'? PREVENZIONE E SICUREZZA PER LA TUTELA DEI BENI CULTURALI .
Non è e non vuole essere una domanda retorica. E’ e può essere l’interrogativo, forse, angosciante, esagerato del bello racchiuso nell’arte e destinato a perdersi?
Del bello che si fa arte nel mondo in cui vige la iconoclastia? Il selvaggio asservimento alle leggi di un mondo e di un mercato delinquenziale, di trafficanti d’arte. Senza scrupoli, con l’intento di trarre solo vantaggi e benefici economici?
Qui, invece, è il titolo insieme del Catalogo, Gangemi Editore Internazionale, Arte e della mostra (Roma, 13 luglio-4 novembre 2021, allestita presso il Museo Nazionale di Castel Sant'Angelo.
E’ un campionario di pregevoli opere d’arte, esposte a Castel Sant’Angelo, che arricchiscono il testo di cui ci stiamo occupando, e che, nella maggior parte dei casi sono state salvate, recuperate, restaurate, o perché illecitamente trafugate o perché finite sotto le furie dei movimenti tellurici, che hanno colpito l’Italia. La pubblicazione, introdotta dal Generale di Brigata, Roberto Riccardi, Comandante Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale è stata curata da Vincenzo Lemmo.
E’ corredata di saggi firmati da: Beatrice Bentivoglio-Ravasio, Andreina Draghi, Paolo Iannelli, Mariastella Margozzi, Marica Mercalli, Danilo Ottaviani, Salvatore Rapicavoli, Roberto Riccardi, Caterina Rubino, Luigi Spadari. Le schede, invece, portano le firme di: Alessandra Acconci, Leonardo Bochiccio, Francesca Boldrighini, Giuseppe Cassio, Alessandro Cavagna, Alessandro Chiantaretto, Emanuele M. Ciampini, Vincenzo D’Ercole, Gilda Guerisoli, Vincenzo Lemmo, Daniele Federico Maras, Elena Marchionni, Sonia Martone, Sonia Melideo, Pierluigi Moriconi, Carlotta Schwarz, Gabriella Serio.
L’illustrazione di questo nuovo prodotto editoriale l’affidiamo a Giuseppe Lepore, Presidente Centro Europeo per il Turismo, Cultura e Spettacolo, nonché ideatore ed organizzatore dell’evento espositivo. “La conservazione del nostro immenso patrimonio culturale è una priorità riconosciuta da tutti. Ancora oggi, nonostante l'instancabile lavoro delle Istituzioni, troppo viene perduto, depredato e sottratto alla fruizione della collettività. Quando si parla di conservazione, nell'immaginario collettivo, inevitabilmente si pensa alle grandi opere di restauro, conservazione e salvaguardia dei grandi monumenti.
Ma anche il più piccolo oggetto può essere considerato un “Colosseo” per l'importanza storico artistica che esso racchiude. Ogni oggetto è unico, inimitabile e come tale va salvaguardato. Decontestualizzare un'opera, privandola dell'universo storico che la circonda, è una violenza che lo spoglia delle molteplici informazioni che esso racchiude, relegandola ad oggetto collezionistico e lucrativo.
Per questo motivo è necessario tenere viva l'attenzione sul lavoro svolto dalle Forze dell'Ordine e in particolare il Comando Patrimonio Culturale dell'Arma dei Carabinieri che, ogni giorno protegge, indaga e salva un patrimonio collettivo che ci identifica e rappresenta soprattutto in un momento storico e culturale cosí delicato per il nostro Paese coinvolto in un'emergenza planetaria senza precedenti.
Allo stesso modo non bisogna dimenticare il lavoro svolto dal Ministero della Cultura che, con una costante ed intensa opera di prevenzione dei reati legati al furto e alla commercializzazione illecita dei Beni Culturali, protegge e assicura la fruizione totale del Patrimonio italiano. Da questa necessità nasce l'idea di una esposizione che, presentando una serie di opere, conservate nei Musei, nelle Istituzioni e nelle Chiese, nonché nei caveau dell'Arma, possano accompagnare il visitatore, in un percorso narrativo attraverso le storie di prevenzione del crimine e di recupero del Patrimonio ripercorrendone lo sviluppo delle indagini degli investigatori. Ciò con l'intento, non solo di mettere in luce il valore delle opere protette e restituite, ma anche per far conoscere i processi investigativi ed il lavoro che c'è dietro questa difesa.
Per rendere completa una mostra dedicata alla tutela non si può oggi trascurare il concetto di prevenzione e messa in sicurezza. Ciò appare difficile in un Paese come l'Italia che si presenta, per la straordinaria concentrazione di Beni archeologici, storici e artistici, come un “Museo Diffuso”. La mostra sarà quindi l'occasione per presentare, forse per la prima volta al pubblico, i sistemi di protezione attiva costituiti dagli impianti antintrusione, antifurto, antiaggressione e antieffrazione e della vigilanza: in altri termini dall'integrazione tecnologia-uomo”.
Abbiamo iniziato con alcuni in interrogativi. Terminiamo con alcuni auspici ed alcune speranze. Il mondo salverà la bellezza. Dovrà salvarla, sarà suo dovere, perché la bellezza è del mondo, è nel mondo. La bellezza del mondo sarà salvata dall’uomo, nella sua interezza di responsabilità personali ed istituzionali.
Giuseppe Massari |
IL SIMBOLISMO SACRO E LITURGICO NELLE CHIESE MODERNE DI BARI
“Le Chiese di Bari tra 800 e 900”, è un testo fresco di stampa, per i tipi della LB edizioni, uscito dalla penna, dall’intelligenza e dalla formazione culturale di Simone De Bartolo. Una pubblicazione che ha fatto una specie di censimento, di ricostruzione storica, passando dai luoghi di culto più importanti, ai più piccoli, a quelli scomparsi, alle cappelle cimiteriali e gentilizie.
E’ un libro che non c’era finora, almeno per come l’argomento è stato trattato, e che bisognava scrivere, pubblicare, perchè l’essenza del lavoro sta tutto nella verità riscoperta e denunciata. Un richiamo alla sacralità dei luoghi di culto. Un grido di dolore, di rabbia.
Quella di chiese diventate capannoni, spelonche, abusive sotto l’aspetto architettonico, poco rispettoso sotto l’aspetto teologico, liturgico. Adattate ad esigenze post conciliari, “rivoluzionarie”, solo perché affidate alla progettazione di architetti stravaganti, vuoti, effimeri, depotenziati ed incoraggiati da un clero omissivo, compiacente, ignorante, inclusivo di forme aberranti. Simone De Bartolo, architetto anch’egli, ha saputo cogliere le deformazioni, le derustrurizazioni, le aberrazioni costruttive di luoghi non costruiti con il sacro della progettualità o non realizzati con il senso della fede da non disperdere, offendere o dileggiare. Il viaggio editoriale dell’autore si ferma ad analizzare i contesti storici di quanto è avvenuto a Bari, ma si potrebbe dire, pensare e scrivere anche altrove.
In Italia e all’estero. De Bartolo, con il suo studio, con la sua ricerca, con la sua sensibilità professionale pone l’accento, l’attenzione sulla sconsacrazione della cristianità pura ed autentica. Sul vilipendio commesso nei confronti dei luoghi più sacri, dove il Mistero di Cristo Incarnato e Risorto ha sempre trovato un posto d’onore, privilegiato, di rispetto. De Bartolo non si preoccupa di apparire tradizionalista, ma fa i conti con l’arte genuina che ha caratterizzato le chiese sin dalle loro fondamenta, fino ai corredi artistici, che ne hanno fatto capolavori immortali, musei viventi, dinamici. Non con lo spirito del selvaggio, retrivo e cieco conservatore, ma con l’acume di chi si è sentito offeso nei sentimenti, nei valori della sua fede e di quella altrui.
Forse il vero giudizio sull’opera in questione l’ha offerto Salvatore Schirone, nella sua presentazione, di cui pubblichiamo uno stralcio. “A differenza dei musei, che a volte appaiono “sarcofagi” di reperti decontestualizzati, le chiese sono scrigni viventi di opere d’arte, e “costituiscono veri e propri palinsesti della nostra storia artistica”. Questa affermazione apre e guida la lettura dell’ultimo lavoro dell’arch. Simone de Bartolo dedicato alle chiese di Bari. In sedici tappe, spaziando dalla prima e più antica chiesa ai confini della cinta cittadina, Sant’Antonio, a quella più periferica di Santa Fara, passando per la Chiesa Russa nel cuore del quartiere Carrassi, de Bartolo guida i lettori in un intero secolo di storia e arte cristiana di Bari.
Molto è stato già scritto sulle chiese di Bari e l’Autore lo sa e ne è debitore, come testimoniano le accurate note e la copiosa bibliografia che accompagnano il libro. Ma questa sua fatica, pur ponendosi sulla loro scia, è assolutamente originale e viene a colmare una grossa lacuna in questo ambito di ricerca. Eccellente studioso di architettura e profondo conoscitore di storia locale, De Bartolo ha applicato questa sua specifica competenza per focalizzare finalmente l’attenzione su quegli edifici ecclesiastici realizzati a cavallo tra Ottocento e Novecento, un periodo trattato troppo superficialmente o del tutto trascurato, fino ad oggi, dagli storici, concentrati piuttosto, se non esclusivamente, sull’epoca delle grandi basiliche e del “mitico” romanico pugliese”.
Chiese non più monumenti, non più gioielli di bellezze artistiche, pittoriche, ma sciatti stanzoni, chiamate progressisticamente, conciliarmente, “aule liturgiche”, con tanto di mense e non più altari, dove poter convogliare gente senza più misticismo. Chiese spoglie, disadorne, prive della centralità eucaristica, relegata in parti marginali del luogo. Senza più rigore da privilegiare alla riservatezza intima del credente, del fedele.
Le chiese di Bari, comprese le cappelle cimiteriali, passate al setaccio e affidate al giudizio di una storia senza appello. Qui mi piace riportare, anche, il giudizio di Antonio Calisi, Diacono della Chiesa cattolica di rito bizantino dell’Eparchia di Lungro (CS) degli Italo-albanesi dell’Italia continentale, vive a Bari, dove insegna Religione Cattolica al Liceo Classico Statale “Socrate”, che in una recensione sul testo, tra l’altro, ha evidenziato che: “Purtroppo la natura tipologica e morfologica dell’architettura sacra è divenuta, dal Concilio Vaticano II, subordinata all’opinione dell’architetto o del parroco senza tener conto dei bisogni legati alla liturgia. Gli architetti moderni considereranno la chiesa solamente come un recipiente di persone.
Non a caso le chiese saranno chiamate “aule liturgiche” e l’attenzione si sposterà verso la “comodità di fruizione”, tralasciando del tutto l’aspetto mistico simbolico, segno della lode a Dio e del mistero della Salvezza di Cristo che vi si celebra”.
Per concludere, il testo da il giusto rilievo a tutti e ai molti personaggi, ognuno per la propria parte professionale, come progettisti ingegneri, architetti, imprese costruttrici, sacerdoti, vescovi, in una sorta di elenco minuzioso e dettagliato. E’ una novità, una originale trovata aver dato il giusto peso a chi, a vario titolo ha contribuito a scrivere la storia sacra di Bari.
Giuseppe Massari |
I ROSONI DI CATTEDRALI E CHIESE PUGLIESI CANDIDATI A PATRIMONIO DELL'UMANITA'
E’ vero, il progetto può sembrare ambizioso, ma non lo è, considerata la valenza artistica , storica ed architettonica di quelli che vengono definiti i merletti per eccellenza delle decorazioni strutturali e monumentali del vasto patrimonio di chiese e cattedrali pugliesi, nel periodo compreso tra gotico, romanico e barocco. Trentatré rosoni potrebbero diventare Patrimonio mondiale dell'Umanità.
Ad avanzare la candidatura di uno dei simboli dell'arte italiana, famosi in tutto il mondo, la Compagnia degli Exsultanti, che ha avviato, nei giorni scorsi, il percorso, le procedure e i dossier utili alla richiesta per il riconoscimento de "I Rosoni di Puglia" come patrimonio Unesco. In lista, ancora provvisoria e in vista di quella definitiva, perché altri centri potranno entrare a farne parte, si annoverano il rosone della Cattedrale di Troia, comune in provincia di Foggia.
La Cattedrale di Troia con i suoi novecento anni di storia: qui lo splendido rosone realizzato con una deliziosa tecnica scultorea a traforo ricorda la mashrabiyya usata nell’architettura islamica per permettere la ventilazione degli ambienti.
Questo capolavoro un tempo campeggiava anche sulla cartamoneta italiana della Banca D’Italia, la vecchia 5mila lire con Antonello da Messina sul fronte (stampata tra il 1979 e il 1983) ed è noto in tutto il mondo.
Poi c’è quello della Cattedrale di Ostuni, nel Brindisino, tra i più grandi mai realizzati, è la summa dell’allegoria cristologia tradotta in scultura.
Al centro domina la figura del Cristo Salvator Mundi con il globo terreste nella sinistra. Questa costruzione è il simbolo della centralità del divino da cui si dirama la luce cristiana che salverà il mondo raffigurato dei cerchi concentrici successivi. Il primo cerchio è formato dai 7 cherubini, il secondo da 12 archetti trilobati, simboli degli apostoli, che poi si moltiplicano è diventano 24.
Qui tra gli archetti delle esili colonnine si trovano numerosi simboli solari.
Infine, il rosone della Cattedrale di Otranto, in provincia di Lecce.
La storia del rosone incrocia inevitabilmente quella delle invasioni turche: la facciata medievale a doppio spiovente della cattedrale fu infatti rimaneggiata all’indomani delle devastazioni inflitte nel corso dell’occupazione ottomana del 1480, e proprio allora venne edificato il grande rosone a 16 raggi con fini trafori gotici di forma circolare convergenti al centro, secondo i canoni dell’arte gotico-araba.
Tra gli altri che completeranno il dossier, figurano quelli della Cattedrale di Bari, della Basilica di Santa Croce di Lecce, della Cattedrale di Ruvo, della Cattedrale e della Chiesa Madonna delle Grazie di Gravina in Puglia.
FACCIATA CON ROSONE DELLA CHIESA MADONNA DELLE GRAZIE DI GRAVINA DI PUGLIA |
Certo il percorso è ancora lungo, laborioso, ma presentato a dovere, puntando sulla originalità dell’argomento, può essere giocato bene nelle sedi che contano. Per fare ciò è stato predisposto un Comitato scientifico, composto dai Rettori delle Università Pugliesi.
"Vorremmo che la meraviglia torni ad accendere lo stupore, attraverso un canto qunato più possibile "corale" - ha esordito Antonio Gelormini, presidente della Compagnia degli Exsultanti - consapevoli che il progetto è bello e coinvolgente.
Sarà un lavoro dai tempi lunghi e dai contributi plurali, che vedrà protagonista un ventaglio largo di soggetti istituzionali, e sarà arricchito - nonché animato - dai contributi di associazioni culturali e singole persone, e che partirà con la costituzione di un Comitato Scientifico: motore propulsore per l’articolata e qualificata produzione di materiale di studio, necessaria e propedeutica alla richiesta che interesserà ben 33 rosoni pugliesi".
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Al completamento della formazione del Comitato Scientifico - ha proseguito Gelormini - seguirà l’individuazione della lista dei Rosoni componenti il progetto e la definizione formale delle linee guida di questa prima fase, con la conferma dei soggetti coinvolti ai massimi livelli (ANCI per i Comuni, CEI per le Diocesi, Rettori per le Università, MIC etc.)”.
“Sono state fondamentalmente due le ragioni che mi hanno convinto sin dal primo “caffè lungo”, preso durante il lockdown con Antonio Gelormini - della forza e della carica innovativa del progetto “I Rosoni di Puglia”, ha detto il Magnifico Rettore Corrado Petrocelli che sarà il Presidente del Comitato Scientifico, l’eleganza della proposta nella sua pluralità di obiettivi, ben sintetizzata nel logo che la caratterizza, e la ferma volontà di riportare al centro dell’attenzione pubblica il fatto culturale, la storia dei luoghi, l’Amor loci e tutto quello che si cela dietro e dentro ognuno dei Rosoni, facendo tornare corollario - certo importante, ma corollario - gli aperitivi, le focacce e le degustazioni in genere”.
“E’ questa la nuova luce, carica di speranza e di voglia di scoperta che si intravede attraverso questi occhi o questi “portali”, ha aggiunto Petrocelli, che guardano verso un futuro ancorato saldamente a radici antiche e fortemente autoctone”.
"Il progetto è ricco di suggestioni e ci sarà tempo per capire meglio quali e quante prospettive potranno pararsi all’orizzonte, ha dichiarato Annalisa Rossi, Soprintendente Archivistico e Bibliotecario di Puglia e Basilicata, oggi è tempo di ascolto e di presa d’atto d’ogni virtuosa ambizione, nonché di conferma di ogni nostra attenzione per favorire il successo dell’iniziativa”.
Al di là delle dichiarazioni, siamo all’inizio di un percorso che durerà, almeno cinque anni per presentare un dossier corposo, credibile e convincente, dove non si esclude l'inserimento di altre città, grandi o piccole, da coinvolgere attraverso la fase della conoscenza scientifica e quella operativa, affidata all'animazione culturale.
Non ci resta che sperare, coltivare la legittima speranza per raggiungere una meta, un traguardo, un riconoscimento in sintonia con il turismo tradizionale e con quello religioso in particolare. Tutto da implementare, coordinare, ristrutturare; da incrementare, da proporre e riproporre in maniera sempre crescente, nuova ed originale.
BASILICA SANTA CROCE - LECCE
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“LA GRANDE BELLEZZA”, SINTESI CREATRICE TRA ARTE CHE SI FA STORIA E ARTE CHE SI FA MOSTRA
Non interessa quanto tempo passa o sia passato dalla pubblicazione di un libro alla sua recensione o alla sua diffusione conoscitiva. Qui siamo dinanzi ad un testo, dalla cui pubblicazione è trascorso circa un anno e ad una mostra che si sarebbe dovuta svolgere sin dall’anno scorso, dal 25 giugno al 28 settembre, e che è stata programmata per l’anno prossimo, dal 30 giugno al 3 ottobre..
I due eventi coincidono nella loro contestualità, conservano la loro attualità, promettendo una convergenza di programmi e contenuti
“La Grande Bellezza”, se è il titolo della mostra programmata al musée Fesch des Beaux Arts di Ajaccio, in Corsica,”ricettacolo di una delle più grandi collezioni francesi della pittura italiana, quella del cardinale Fesch, è il luogo ideale per questa scoperta” è anche il titolo dato al catalogo, in lingua francese, curato da Andrea Bacchi, Liliana Barroero Philippe Costamagna, e Andrea Zanella, con la introduzione di Francesco Moschini, Segretario generale dell’Accademia di San Luca di Roma, che, a nome del predetto sodalizio, ha inteso accogliere positivamente di collaborare per la buona riuscita della mostra di Ajaccio.
“La Grande Bellezza. L’Art à Rome au XVIIIe siècle, 1700-1758”, Silvana Editoriale, pp. 300, euro 29,00, 2020. Né barocca né neoclassica, la produzione artistica italiana della prima metà del Settecento fu in parte oscurata dai movimenti artistici che la inquadrano; quando si parla di questo periodo, è quasi esclusivamente per mettere in mostra le realizzazioni artistiche di Venezia e Firenze. Quest’opera si propone di sostituire i contributi di opere disegnate in quel momento a Roma ai movimenti artistici che gli succederanno e si affida per farlo a una delle più grandi collezioni francesi di pittura italiana, presente al Palais Fesch di Ajaccio – che dedicherà , inoltre, una mostra nell’estate del 2022.
“Questo libro è quindi inteso come il riferimento di questo periodo ancora troppo poco rappresentato. Periodo in cui Roma, dopo essere stata il centro di formazione dei grandi pittori del XVII, viene gradualmente eclissata da Parigi durante il XVIII per una serie di motivi, fra i quali l'impoverimento del mecenatismo papale, ma anche della clientela borghese, le cui commissioni rispecchiano gusti più semplici. Del resto, per quanto riguarda la pittura, è piuttosto Venezia a essere apprezzata. Tuttavia, in questa epoca, Roma diventa anche la culla di una nuova corrente: il neoclassicismo. Il volume cerca di evidenziare il contesto che ha portato da un lato alla perdita d'influenza di Roma rispetto al contesto italiano ed europeo, ma dall'altro all'emergere di nuovi elementi, la cui maturazione si sarebbe completata nel secolo successivo”.
Vengono presentate tra le altre le opere di Giovanni Paolo Panini, il Canaletto, i Piranesi, Maria Felice Tibaldi, Francesco Fernandi (alias gli Imperiali), Giuseppe Bottani, Pierre Subleyras, Benedetto Lutti. Il volume vede la partecipazione di alcuni dei maggiori studiosi di questi temi da Maria Teresa Caracciolo a Arnauld Brejon de Lavergnée, compreso un nutrito gruppo di giovani studiosi italiani e francesi: Vittoria Brunetti, Annick Le Marrec, Davide Lipari e Vincenzo Mancuso, per citare solo alcuni. Scendiamo nei dettagli e leggiamo i vari titoli, i vari argomenti e i relativi autori. Introduzione Andrea Bacchi, Liliana Barroero, Philippe Costamagna. Andrea Zanella Il tempo di Clemente XI (1700-1721); Andrea Bacchi Innocenzo XIII, Benedetto XIII, Clemente XII. Un tempo di transizione Andrea Zanella; L'età di Benedetto XIV (1740-1758) Liliana Barroero.
Dipinti romani del XVIII secolo dalla collezione Fesch Annick Le Marrec. Presenze romane. Tavoli del Settecento nelle collezioni pubbliche francesi Nathalie Volle; Charles-Nicolas Cochin e la pittura italiana contemporanea Arnauld Brejon de Lavergnée. Roma Maria Teresa Caracciolo. Accademia. Le accademie di Roma Andrea Zanella; La festa e lo spettacolo a Roma, 1700-1758 Luciano Arcangeli. Palazzo Liliana Barroero; Chiesa Andrea Bacchi.
Nel catalogo come nell’esposizione se sarà la pittura l’arte dominante, non mancheranno pezzi riferiti ad arredi ed oreficerie. In questa sede preme sottolineare, anche i vari prestiti provenienti da gallerie, musei italiani e collezioni private. A conferma di ciò si ha menzione di ognuno nella parte iniziale della pubblicazione.
Da Roma ad Ariccia, da Matelica a Firenze, passando per Bologna, Napoli, Perugia e Montefortino. Pagine di storia, d’arte, di storia dell’arte nel connubio e nel contesto di una riscoperta sempre costante di quanto l’arte italiana e romana, in particolare del XVIII, ha tenuto desti artisti, studiosi, critici d’arte
Pagine vigorose di una Storia della Chiesa universale, attraverso il mecenatismo di alcuni pontefici, che hanno saputo mostrarsi all’altezza dei tempi per la costruzione di tempi nuovi. I tempi della memoria, del ricordo, della bellezza, dello splendore o meglio ancora della grande bellezza che resiste, permane, illuminata da quei riflettori puntati sul sacro, sul divino, consacrato come un fenomeno crescente di produzioni artistiche, andato, giustamente, oltre ogni territorialità geografica, per proiettarsi in quella cosmica; oltre i confini circoscritti di un mondo che ha saputo imporsi nella sua autenticità e splendore internazionalizzandosi.
Forse, un fenomeno sottovalutato in passato, ma che da questo prossimo evento espositivo saprà riemergere dalle ceneri e rifulgere di luce vera e non più riflessa.
La lettura attenta del catalogo porterà il lettore a viaggiare virtualmente e idealmente in quegli spazi in cui le opere parleranno ancora. In quelle stanze di Ajaccio in cui scuole di pensiero e pensatori si potranno confrontare, “scontrare” per il supremo interesse di quell’arte rivalutata, posta sul giusto piedistallo della storia e di quella critica che non mancherà di suscitare dibatti, interessi. La pubblicazione del catalogo non è un evento a se o conclusivo.
E’ sempre la spinta a continuare, a ricercare nuove suggestioni, nuove emozioni, nuove menti, nuove intelligenze creative, perché l’arte è ciò che continua, cammina con l’anima e con il corpo, con le mani e con il cuore. Una mostra, alla pari del conseguente catalogo, non è un mai fenomeno avulso se riesce a sintonizzarsi, a sincronizzarsi sulle stesse lunghezze d’onda dei sentimenti e dei valori. In questo caso, credo di poter concludere: il connubio ha funzionato e credo continuerà a funzionare. Funzionerà sempre.
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L’ATTENTATO A WOJITILA NEL LBRO DI PREZIOSI: "IL PAPA DOVEVA MORIRE", EDIZIONI SAN PAOLO
Il 13 maggio 1981, in piazza San Pietro, si consuma uno degli attentati più gravi della storia recente. Un sicario, Ali Ağca, spara a Giovanni Paolo II per ucciderlo.
Nel suo nuovo libro dal titolo “Il Papa doveva morire” (edizioni San Paolo), il giornalista Antonio Preziosi, a 40 anni di distanza analizza quel fatto, con la cronaca minuziosa di quel pomeriggio concitato, in cui tutto divenne, realmente ed umanamente inspiegabile, ma tutto logicamente inserito in un contesto di fede, di quel divino misterioso, tanto e ancora più importante del mistero che avvolse l’attentatore e i suoi mandanti. Da quel momento, infatti, il Pontefice resterà convinto, per tutta la vita, di essere stato salvato dalla misericordia di Dio, per intercessione di Maria che avrebbe materialmente deviato il proiettile.“Una mano ha sparato, un’altra ha guidato la pallottola” Giovanni Paolo II.
Infatti, Preziosi, su questo punto racconta che fu lo stesso chirurgo Francesco Crucitti, primario del Policlinico Gemelli che operò Wojtyla d’urgenza per salvargli la vita, a non riuscire a spiegarsi la “strana traiettoria” del proiettile: un percorso a zig-zag, entrato dall’addome, uscito dal bacino, che evitò tutti gli organi vitali e l’arteria principale, di pochi millimetri. In quelle ore l’angoscia saliva per le sorti del Papa e il mondo si mise a pregare; ritrovò la forza, il conforto, la fiducia nella preghiera.
Fu un grande momento di rinascita spirituale. A tal proposito vale la pena riprendere una parte della prefazione del Presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, mons. Rino Fisichella, che, nella prefazione, sottolinea “Questo libro ha il merito di porre l’attentato come una chiave di lettura dell’intero pontificato, per evidenziare quanto Giovanni Paolo II abbia visto in quel fatto una ‘rinascita spirituale’.
Miracolosamente, anche le fasi più critiche del delicato intervento chirurgico furono superate. Il mondo intero, senza barriere e confini ideologici, tirò un sospiro di sollievo.
La missione pastorale di Giovanni Paolo II poteva e doveva continuare fino al compimento di quel gesto supremo che la visita in carcere al suo attentatore, concedendogli il perdone, facendogli intravedere la misericordia di Dio. Preziosi, con dovizia di particolari, con l’acume del giornalista e del professionista dell’informazione, accendo i suoi riflettori sulla fede profonda di Karol Wojtyla, che si affida alla Madonna con il suo motto “Totus tuus”, che un anno dopo l’attentato si reca a Fatima e fa incastonare il proiettile che lo ha colpito nella corona della statua di Maria. Fatima, da dove tutto ha inizio, con il “Terzo Segreto” che, il Papa ne era convinto, parlasse del suo assassinio.
Tra le questioni rimaste aperte l’improbabile errore di Agca, killer professionista, che, sparando da meno di quattro metri, non riesce a uccidere il Pontefice. E, poi, il mistero della seconda suora (oltre a quella che materialmente bloccò con energia la fuga del killer) che avrebbe trattenuto il braccio di Agca, facendolo sbagliare. Non si seppe mai chi fosse. Tutti segni che – ne era convinto il Papa santo – hanno a che fare con la misericordia di Dio.
Che ha voluto risparmiarlo, perché da quel momento, per lui, aveva un disegno particolare.
Tra ipotesi descrizioni, indiscrezioni, ipotesi e ricostruzioni, l’autore racconta alcune testimonianze dirette, come quelle di suor Letizia Giudici che fermò il terrorista Ali Agca e del professor Renato Buzzonetti, il medico del Papa.
Tantissimi, poi, i dettagli ricordati dal card. Stanislao Dziwisz, già segretario personale del Papa, e da diversi altri testimoni.
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FILIPPO JUVARA REGISTA DI CORTI E CAPITALI. DALLA SICILIA AL PIEMONTE ALL'EUROPA. EDIZ. ILLUSTRATA DI F. PORTICELLI, C. ROGGERO, C. DEVOTI (A CURA DI...)
Una mostra, inaugurata nei giorni scorsi e che sarà visitabile fino al 31 maggio di quest’anno, e un catalogo. Una ricerca attenta e minuziosa su un personaggio non, ancora, sufficientemente scoperto, studiato e compreso. L’esposizione sarà anche l’occasione per tre eventi simbolici. Il primo è l’emissione di un Annullo Postale Speciale dedicato a Filippo Juvarra nel mese più accreditato per la sua nascita.
L’annullo e varie cartoline commemorative saranno disponibili nel bookshop della mostra per tutto il periodo dell’esposizione. Il secondo sarà l’intitolazione a Filippo Juvarra della sala mostre che, realizzata e migliorata nel tempo, si affianca all’auditorium Vivaldi, dando così legittimo risalto alle due personalità di cui la Biblioteca Nazionale custodisce importanti documenti autografi. Il terzo è la possibilità di visitare, a fianco della mostra, l’antico laboratorio di restauro del libro della Biblioteca Nazionale, il primo in Italia in una biblioteca pubblica statale, allestito a seguito dell’incendio del 1904. Dalla mostra al catalogo. Il volume porta all'attenzione del pubblico, da quello più vasto agli specialisti, l'eccezionalità del Corpus Juvarrianum, presentandolo nella sua compiutezza offerto con aggiornamenti critici.
Il volume dedicato al grande architetto messinese illustra gli album di disegni del Corpus Juvarrianum conservati dalla Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, uno studio che ha richiesto un lungo e laborioso lavoro di revisione delle schede cartacee che lo accompagnavano, tutte aggiornate e riverificate sui disegni originali da docenti della Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino. Il grande architetto Filippo Juvarra (Messina 1678 – Madrid 1736) era una personalità poliedrica, non a caso negli anni in cui operò a Roma come architetto e scenografo furono determinanti per lo sviluppo del gusto operistico italiano ed europeo.
Tra il 1709 e il 1714 nel Teatro Ottoboni alla Cancelleria (da lui stesso progettato), nel
teatrino di Maria Casimira di Polonia e nel Teatro Capranica il messinese allestì undici drammi
per musica di cui sopravvivono molti materiali (libretti, partiture, documenti manoscritti), oltre a
numerosi disegni e “pensieri” abbozzati dall’artista per mutazioni sceniche che evidenziano la ricerca di precise relazioni con la musica e le situazioni drammatiche.
Nei successivi anni torinesi la creatività di Juvarra si riversò sui progetti di trasformazione architettonica della neocapitale del regno. Ciò non gli impedì, specie per le nozze del futuro Carlo Emanuele III con Anna Cristina di Sulzbach(1722), di rinnovare il proprio impegno sul versante scenografico, con esiti che alcune
preziose testimonianze permettono ancora ogg di apprezzare. Un uomo profondamente europeo, vissuto due secoli prima che nascesse l’Europa come entità politica ed economica.
Torino, città nella quale ebbe un ruolo di primo piano per quasi 20 anni e che fu profondamente segnata dalla matita del genio messinese, conserva la più grande collezione al mondo di opere juvarriane, una sterminata raccolta di disegni, bozzetti, note, ad opera del maestro e dei suoi collaboratori.
Il legame tra la Torino dei Savoia e Filippo Juvarra è evidente non solo per i tanti capolavori che il grande architetto ha firmato in città, dalla Basilica di Superga alla Palazzina di Stupinigi, alla facciata di Palazzo Madama, ma, anche, perché la più grande raccolta al mondo di carte di Juvarra sia conservata in città non è casuale e per Torino costituisce un patrimonio inestimabile. Il Corpus juvarrianum è costituito da 18 album rilegati, 17 dei quali organizzati dopo la morte dell’artista riunendo in modo organico le sue carte.
Si trovano schizzi, disegni, bozzetti, in gran parte realizzati a china su carta, qualche acquerello, uno scritto autografo di Juvarra che contiene istruzioni dettagliate su come dovessero essere organizzati i lavori, su quali materiali usare e come. Tra le carte c’è anche materiale realizzato dai collaboratori, a testimonianza di come l’architetto avesse costruito attorno a sé un atelier molto attivo. I primi 17 album giunsero in città già tra il 1762 e il 1763, meno di 30 anni dopo la morte dell’architetto, avvenuta a Madrid il 31 gennaio del 1736. A preservarli nell’area piemontese furono due dei principali collaboratori di Juvarra, Giambattista Sacchetti e Ignazio Agliaudi Baroni di Tavigliano, mentre vennero acquistati sul mercato antiquario da Giuseppe Pasini, al tempo bibliotecario presso la biblioteca universitaria, segno che già al tempo era chiaro ai più il valore della raccolta.
L’ultimo volume, donato alla biblioteca nel 1857 dalla damigella Chiara Fea, che lo aveva ricevuto come eredità, è conosciuto come «Pensieri diversi» ed è l’unico ad essere stato organizzato personalmente dallo stesso Juvarra. Il corposo volume illustrativo, già disponibile presso il Centro Studi Piemontesi, sarà anche acquistabile nel bookshop insieme ai principali cataloghi delle passate mostre: il ricavato concorrerà, in occasione dei 700 anni trascorsi dalla morte di Dante, al restauro del manoscritto cartaceo, Dante Alighieri, Inferno, sec. XVI (Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, segnatura ms. L.III.17) così da unire insieme due grandi protagonisti dell’arte e della cultura italiana nel mondo.
Per concludere, forse, è necessario darci una ragione per comprendere il titolo sia della mostra che della pubblicazione. Sinteticamente. Nel Medioevo i Savoia, europei per eccellenza, avevano domini ampi nelle attuali Italia, Francia, Svizzera e autorità in diversi altri paesi. In Inghilterra erano potenti già nel Duecento, quando, dichiara lo storico britannico David Carpenter, i loro “tentacoli si estendevano su tutti i troni d’Europa”.
La dinastia, resa forte sin dall’XI sec. pure dalle alleanze matrimoniali con i maggiori sovrani e con gli imperatori d’Occidente e d’Oriente, ebbe legami, ben prima del Risorgimento, con l’Italia intera.
L’unione politica settecentesca col Regno di Sicilia fu, secondo alcuni, un preavviso della futura unità della penisola. Filippo Juvarra è particolarmente celebre tra quanti in quel tempo unirono i propri destini al Piemonte, ma anche numerosi altri Siciliani vi ebbero allora ruoli importanti, generando quei durevoli legami che nel 1848 contribuirono all’appassionata offerta a Ferdinando di Savoia di divenire Re di Sicilia.
L’unità d’Italia, esito di un processo più lungo e coerente di quanto in genere si ammetta, era alle porte.
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SCRITTI SU CESARE BRANDI - 1946 – 2017. UN INCANTEVOLE COMPAGNO DI STRADA - SILVANA EDITORIALE, MILANO 2021
Appena uscito dalle rotative è un omaggio che il figlio del protagonista, Vittorio Brandi Buriu, ha voluto rendere, con la “complicità” di Giuseppe Appella, che ne ha curato l’introduzione, a colui che fu uomo di cultura, che amò molto viaggiare, che fu critico d’arte e primo direttore dell’Istituto Centrale del Restauro di Roma.
Cesare Brandi, Pellegrino di Puglia, titolo di un suo racconto di viaggio in quella terra che lo vide pioniere, alfiere, artefice e protagonista per aver posto in sicurezza, cioè salvandoli e salvaguardandoli, quegli affreschi di arte bizantina, di rara bellezza e fattura, che sarebbero andati persi se non avessero trovato in lui il convinto missionario della loro salvezza.
Se non avessero trovato in lui il “visionario”, il rivoluzionario, che ebbe la capacità di essere lungimirante, originale nel suo modo di approcciarsi a quell’arte mistica, ma sconosciuta, vissuta all’ombra del degrado e dell’abbandono per molti anni. Gli stacchi, sotto la sua direzione, avvenuti a Poggiardo, in provincia di Lecce e a Gravina in Puglia, in provincia di Bari, fanno di lui il cittadino onorario della Puglia, il figlio adottivo di quella terra generosa ed ospitale.
Non a caso, qui, nella nostra regione, c’è chi coltiva il ricordo, la testimonianza diretta di Brandi. E’ Aldo Perrone, di Taranto, tra l’altro, uno dei tanti autori che ha contribuito a far vedere la luce a quegli scritti racchiusi nella raccolta di cui ci stiamo occupando. Perrone fu legato da profonda e sincera amicizia con colui che segnò il passo, la linea di demarcazione tra secoli passati e lontani e i secoli futuri, prossimi, quelli ancora da compiersi. Il toscano sceso al Sud si trovò dinanzi ad un dilemma.
Si interrogò sulla necessità e possibilità di salvezza del patrimonio attraverso lo strappo e il trasferimento delle pitture dai siti rurali in cui giacevano a luoghi più sicuri e più protetti. Si pose il problema della ferita che lo strappo produceva al sito originario, ma intuì che gli affreschi, di fronte ai nuovi veleni e alla violenza odierna, nel giro di pochi decenni sarebbero spariti per sempre. Cesare Brandi non fu solo questo, ma principalmente questo per essere ricordato, valorizzato, apprezzato, riconosciuto per i grandi meriti acquisiti sul campo. Quello che lui è stato ce lo raccontano meglio gli scritti e gli autori che lo hanno conosciuto e consacrato in queste memorie, non come icona, non come reliquia, ma come personaggio vivo, dinamico, eclettico.
Un uomo che ha saputo conquistare la scena internazionale ed europea. Benedetto Croce, Geno Pampaloni, Nicola Abbagnano, Quirino Principe, Enzo Siciliano, Giulio Carlo Argan, Leone Piccioni, Vittorio Sgarbi, Alberto Arbasino, Carlo Bo. Senza far torto a tutti gli altri. Personaggi di prestigio, di rilievo nel panorama intellettuale e culturale d’Italia.
Uomini che hanno spaziato nei campi più disparati dello scibile umano: dalla filosofia, alla storia, all’arte per omaggiare un monumento di civiltà e di creatività. Per ricordare il poeta, lo scrittore, il viaggiatore e il narratore. Il critico e lo storico dell’arte, il teorico del restauro. La lettura dei testi sembra scorrere breve, pur in un arco di tempo che va dagli anni più difficili, ricordando e partendo dal dopoguerra, per passare a quelli del progresso, della riconquistata civiltà, fino ai nostri giorni, forse bui, ma non tali da poter oscurare la bellezza racchiusa in quell’arte che Brandi seppe far diventare coinvolgente, senza stravolgerla. Nel rispetto di quella sua innata sensibilità umana ed artistica.
Nel rispetto di quell’impegno artistico e professionale che lo ha portato sulle vette più alte della storia recente e contemporanea. Nel rispetto di quella che è l’arte, vissuta ed incarnata da un figlio nato in quella culla regionale, la Toscana, in cui ben altri maestri e ben altri allievi hanno saputo dare lustro all’Italia rinascimentale e non solo.
Giuseppe Massari |
CASA SAVOIA E LA CHIESA, UNA GRANDE, MILLENARIA, STORIA EUROPEA
E’ il titolo dell’ultimo libro, frutto di trent’anni di ricerche storiografiche dell’autrice, scritto da Cristina Siccardi, pubblicato dalla Sugarco Edizioni nel mese di novembre scorso.
Prima di inoltrarci nella breve presentazione del testo, peraltro, corredato da documenti inediti e da un intervento di re Simeone II di Bulgaria, appartenente alle famiglie Sassonia-Coburgo-Gotha e Savoia insieme, ci sembra opportuno e doveroso presentare l’autrice sotto l’aspetto biografico.
Nata a Torino, laureata in lettere con indirizzo storico (con la tesi dal titolo Gli scritti della Marchesa Giulia Falletti di Barolo nella cultura subalpina del primo Ottocento), è specializzata in biografie, soprattutto di santi, beati, papi, cardinali, vescovi, di fondatori e fondatrici di ordini monastici e religiosi.
Ha scritto per «La Stampa», «La Gazzetta del Piemonte», «Il nostro tempo», «L’Osservatore Romano» e collabora con diversi periodici culturali, fra cui «Europacristiana.com» e «Radici Cristiane»; inoltre scrive per l’Agenzia di informazione settimanale «Corrispondenza Romana».
Partecipa, in qualità di esperta, a trasmissioni radiotelevisive, come «Radioromalibera.org» e «Radio Buon Consiglio.it». È membro delle Accademie Paestum, Costantiniana, Ferdinandea, Archeologica italiana, Bonifaciana.
Il 26 novembre 2010 ha ricevuto il Premio «Bonifacio VIII» della città di Anagni.
Molte delle sue oltre 60 opere pubblicate sono state tradotte all’estero e dal suo studio dedicato alla principessa Mafalda è stata tratta la fiction per Canale 5 Mafalda di Savoia. Il coraggio di una principessa, prodotta da Angelo Rizzoli e diretta dal regista Maurizio Zaccaro.
Per tornare al più recente lavoro, bisogna aggiungere che esso è stato preceduto, negli anni, da pubblicazioni editoriali, che hanno riguardato alcuni appartenenti e discendenti del casato sabaudo, tanto da poter affermare con sicurezza, senza esagerazione retorica, che è la storica di Casa Savoia.
Fanno testo: Maria Josè Umberto di Savoia. Gli ultimi sovrani d’Italia; Giovanna di Savoia. Dagli splendori della reggia alle amarezza dell’esilio; Mafalda di Savoia. Dalla reggia al lager di Buchenwald; Elena la regina mai dimenticata.
Dalla quarta di copertina, la presentazione al testo è racchiusa nei seguenti motivi e nelle ragioni di fondo che hanno animato l’autrice nella stesura di questa fatica editoriale. “Se la Famiglia Medici è un punto di riferimento umanistico e rinascimentale, Casa Savoia, con la sua millenaria storia, è di imprescindibile importanza per conoscere culturalmente l’Europa.
Tuttavia, i suoi stretti legami con la Chiesa, fino alla breccia di Porta Pia, e le scelte prese da Vittorio Emanuele III durante la Seconda guerra mondiale, l’hanno resa perlopiù sconosciuta, anche in ambito scolastico.
Fatto veramente incredibile, se consideriamo la molteplicità, in Italia e all’estero, di residenze, cappelle, chiese, cattedrali, abbazie, biblioteche, gallerie, archivi… legati ai Savoia e visitati da milioni di turisti e studiosi ogni anno”.
Lo scenario visivo di questi luoghi, è rappresentato, tra le pagine e le immagini a colori, da uno schema e mappe geografiche, curate da Elena Manetti. “Questo libro, per la prima volta, raccoglie e racconta, in maniera organica e documentale, il profondo rapporto che ha legato Casa Savoia alla Chiesa, mettendo in luce come la dinastia sabauda abbia unito ad essa i suoi destini da un punto di vista sia politico che spirituale.
Passano così davanti ai nostri occhi personalità maschili e femminili dal calibro internazionale che, attraverso una precisa documentazione archivistica e bibliografica, anche inedita, spiccano per il loro valore e la loro attività governativa, amministrativa e di grande civiltà cristiana.
Da queste pagine emergono, in tutto il loro vigore, volti e nomi che fuoriescono dall’anonimato e continuano a sigillare, con l’arte e la toponomastica, i borghi e le città della nostra Europa. Ancor di più valgono e ci piace riportare le parole scritte, nella premessa, da re Simeone II di Bulgaria. “Non esiste realtà senza storia e l’Europa non può fare i conti con il suo presente e il suo futuro senza il suo passato politico, religioso, sociale e culturale.
Casa Savoia rappresenta un immenso patrimonio da trasmettere, in virtù della storia e della magnifica arte che ci ha lasciato, fra i migliori fiori all’occhiello di nazioni che puntano, economicamente parlando, sul turismo e sulla bellezza senza tempo.
Uno storico francese un giorno mi disse che ero una “contraddizione ambulante”, poiché discendo, per via di mia nonna paterna, anche dai Borbone-Parma, ossia da re Carlo X di Francia e, allo stesso tempo, da Luigi-Filippo dei Francesi, gli Orléans, per linea di mio nonno paterno.
Verrebbe da dire: “Quanta Europa”!
Casa Savoia è una Famiglia che incarna magnificamente, nella sua grande e lunga storia di mille anni, lo spirito europeo fondato sui valori cristiani. Quei valori che hanno donato grande civiltà, immensa cultura, sublime arte, ardente progresso.
Non vorrei sembrare sacrilego, conclude il monarca, essendo credente, ma oltre ad essere “valori cristiani”, secondo me, essi sono un codice civile che garantisce la convivenza, un’etica di rispetto per ciascuno, in nome di una società davvero giusta.
Spesso non ci rendiamo conto di quanto noi europei, cittadini dell’Unione Europea, siamo fortunati, vivendo in un ambiente ricchissimo di cultura, ovunque si guardi! E questa cultura ha un passato preciso, che non può essere trascurato, ma deve essere conosciuto e studiato, è un dovere di tutti, nel rispetto di sé, nel rispetto degli altri, nel rispetto dell’Europa”. Il testo della Siccardi si può ben definire un libro di storia per la storia.
Per sfatare falsità, pregiudizi e preconcetti su di una famiglia che, per aver dato alla Chiesa sei beati, fece dire a papa Gregorio XVII: “Ma questa è una famiglia di santi”. La real casa, rinomata per essere, dal 1453 al 1983, cioè dall’anno in cui la possedette, fino alla morte di re Umberto II, che per volontà testamentaria passò dalla famiglia a Santa Romana Chiesa, della Sacra Sindone, il sudario che avvolse il Cristo torturato e morto.
Non me ne abbia l’autrice. Il suo lavoro può ben dirsi o può benissimo essere destinato ad essere o definirsi testo scolastico.
Non in senso riduttivo del termine, ma nel senso di dover fare scuola. Di dover essere una scuola di insegnamenti da trarre da quella che non è stata una carrellata di eventi e di personaggi, ma di un preciso contesto storico a più facce, a più dimensioni.
Tutte colte con rigore, con passione, con competenza, con scrupolosità, con eleganza e maestria, nel solco di quella che è stata la storia luminosa ed ultramillenaria della Chiesa e di tutta la cultura occidentale, che ha creato e costruito l’Europa, soprattutto nella diffusione di un cristianesimo vero.
Non annacquato, né disordinato, né disorientante; non confusamente razionalistico ma sul sangue dei redenti.
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È GIUBILEO E ANNO SANTO PER I FIGLI DI SAN PAOLO DELLA CROCE
È stato scelto come momento fondativo, cioè come data di fondazione della Congregazione, il giorno in cui il Fondatore, san Paolo della Croce, si fece rivestire dell’abito di eremita da parte del Vescovo di Alessandria, Gattinara.
La vestizione doveva aver luogo il 21 novembre 1720, festa della Presentazione di Maria al tempio, e invece fu rinviato al giorno seguente, 22 novembre a motivo degli impegni del vescovo.
Ritornato a Castellazzo, dove abitava, ll 23 novembre, Paolo, si ritirò nella celletta della chiesa di san Carlo, un ripostiglio dove ancora si trovava una cassa con la calce viva che era servita per i restauri della chiesa che divenne il letto di Paolo.
Qui Paolo rimase, tra momenti di alta contemplazione e consolazione e altri di desolazione e aridità, per 40 giorni fino al primo gennaio del 1722. In questo periodo, tra il 2 e 7 dicembre scrisse le regole per i “Poveri di Gesù”, il primo nome che pensava di dare alla Congregazione che intendeva fondare e che poi divenne la congregazione dei Passionisti.
Nel Diario scrisse che “scrivevo tanto presto come vi fosse stato uno in cattedra a dettarmi”. Paolo mise fine al suo ritiro il 1° gennaio del 1722.
Per questo le date del Giubileo sono: 22 novembre 2020 - 1° gennaio 2022. Il tema del Giubileo è "Rinnovare la nostra missione: gratitudine, profezia, speranza". È stato il tema del 47° Capitolo Generale del 2018 e lo sarà anche del prossimo sinodo della Congregazione nel 2021. Il Giubileo perciò è verifica e catalizzatore del cammino di rinnovamento della congregazione. In effetti, come ha precisato il superiore generale, Joachim Rego: "Il "chi siamo" e il "che cosa facciamo" sono interconnessi e interrelazionati. La nostra attività apostolica è una espressione della vita comunitaria. Perciò quando parliamo di «rinnovare la nostra missione» si tratta principalmente di «rinnovare noi stessi».ù
Il Giubileo in sintesi è un “anno di grazia” speciale, un’occasione e un impulso straordinario per la conversione. In preparazione all'evento è stata preparata un'Icona che sta visitando tutti i conventi della Congregazione nei 5 continenti.
L’icona, al cui centro ci sono il Cristo Crocifisso, la Vergine Addolorata (patrona della congregazione) e san Paolo della Croce, ha due tavole laterali sulle quali sono rappresentati alcuni dei santi più rappresentativi della congregazione: santa Gemma Galgani (laica), il beato Isidoro di San Giuseppe (religioso fratello), San Gabriele (chierico, studente di teologia) e il beato Domenico della Madre di Dio (sacerdote e missionario tra gli anglicani).
Il Giubileo, storicamente, è collegato all’indulgenza plenaria concessa a chi, confessato e comunicato, compie l’atto giubilare (il pellegrinaggio e la recita di una preghiera per il Papa. Dove si può lucrare l’indulgenza plenaria:
1. Ogni giorno dell’anno giubilare in queste località legate alla presenza di san Paolo della Croce:
Ovada (AL), visitando la casa natale del Fondatore;
Convento della Presentazione della B.M.V, sul Monte Argentario, primo ritiro fondato da Paolo della Croce, dove egli visse da 1727 al 1744;
Convento di S. Angelo di Vetralla (VT), fondato da san Paolo, dove visse dal 1744 al 1772;
Convento dei Ss. Giovanni e Paolo, Roma, dove il Fondatore visse gli ultimi due anni della sua vita e vi morì (18 ottobre 1775) e dove sono conservate le sue spoglie.
2. Un giorno in 4 circostanze a scelta durante l’anno giubilare in tutti i conventi e monasteri passionisti. 3. Un giorno durante Capitoli, Assemblee, Congressi della Congregazione, Incontri formativi passionisti, Esercizi spirituali predicati nelle nostre case o predicati da Passionisti, come anche in occasione dei nostri incontri di formazione spirituale, teologica o pastorale.
Non sono previste grandi manifestazioni esteriori perché è stato scelto di celebrare il Giubileo soprattutto a livello spirituale e culturale.
A Roma s'incontreranno i formatori, i giovani passionisti, i vescovi passionisti e si terrà il Sinodo della Congregazione.
L'unico grande evento esteriore sarà il Congresso internazionale "La sapienza della croce in un mondo plurale" che si svolgerà all'Università Lateranense dal 21 al 24 novembre 2021.
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AL MUSEO DI CAPODIMONTE DI NAPOLI LA MOSTRA DEDICATA A LUCA GIORDANO
Il pittore simbolo del barocco napoletano torna a casa a 20 anni dall'ultima esposizione a Napoli con dieci sezioni e oltre novanta tele.
Al Museo e Real Bosco di Capodimonte dall’8 ottobre 2020 al 10 gennaio 2021 una mostra su: Luca Giordano. Dalla Natura alla Pittura, a cura di Stefano Causa e Patrizia Piscitello, da un’idea del direttore della sede museale napoletana Sylvain Bellenger e del direttore del Petit Palais di Parigi, Christophe Leribault.
La sede museale parigina ha ospitato l’esposizione dedicata a Luca Giordano, dal titolo Le triomphe de la peinture napolitaine. Dopo l’esposizione dello scorso anno al Petit Palais di Parigi, Luca Giordano torna a casa a 20 anni dall’ultima mostra partenopea. “In questa seconda tappa, a Napoli, ha dichiarato il direttore Bellenger, Giordano ci viene raccontato come non lo è mai stato prima, diversamente da Parigi.
Sebbene Giordano abbia contato molto per i francesi, non lo si poteva presentare allo stesso modo ai napoletani, che sono abituati a incontrarlo frequentemente, a volte senza riconoscerlo, nel loro museo o nelle loro chiese.
I curatori hanno saputo ricollocare la particolarità del grande pittore e anche pensarlo nel contesto delle chiese napoletane, poiché in fondo è a Napoli e soprattutto nello spazio delle architetture barocche, più ancora che nei musei, che Giordano si mostra in tutta la sua dimensione e dà prova del mestiere e della visione che porterà fino in Spagna, con i rapimenti trionfanti e gioiosi che rendono il monastero dell’Escorial un luogo un po’ meno austero”.
L’esposizione sarà suddivisa in dieci sezioni che presenteranno oltre novanta opere, molte provenienti da importanti musei e istituzioni estere, tra cui il Louvre, il Museo del Prado, il Patrimonio Nacional, la Fondazione Santamarca, e italiane, tra cui il Complesso dei Girolamini, la Curia di Napoli, il Museo e Certosa di San Martino, il Museo Duca di Martina, il Museo del Tesoro di San Gennaro, il Pio Monte della Misericordia, la Società italiana di Storia Patr
Le sezioni tratteranno diversi temi, dal disegno ai rapporti con il caravaggismo e con Ribera, dai suoi maestri alle opere custodite nelle chiese di Napoli, alle metamorfosi del Barocco. A concludere la mostra, l’installazione multimediale interattiva progettata e realizzata da Stefano Gargiulo (Kaos Produzioni) per presentare alcuni dei luoghi e delle opere affrescate dall’artista a Napoli, ovvero nella chiesa di San Gregorio Armeno, di Santa Brigida, alla Certosa di San Martino e nei Girolamini.
L’installazione site-specific propone una piccola cappella dove le immagini e i suoni del mondo napoletano e degli affreschi di Luca Giordano appaiono negli archi e nelle volte. Il visitatore è inoltre invitato ad interagire con le candele votive collocate al centro dell’ambiente, fulcro simbolico da cui attivare gli scenari che trasformano lo spazio.
Tutto ciò intende essere un invito rivolto al visitatore a proseguire la visita a Napoli, alla ricerca delle opere di Luca Giordano nelle principali chiese e luoghi di cultura della città.
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UN NUOVO MANTELLO PER LA STATUA DELLA VERGINE DI PICCIANO
Effige della Madonna con il nuovo vestito
La storica e tradizionale statua di Maria SS.ma Annunziata, presso il Santuario di Picciano, in provincia di Matera, costruita nel XVIII secolo, probabilmente da pastori abruzzesi, è stata, di recente, sottoposta ad un ricambio “generazionale”.
L'icona sacra ancora con il vecchio mantello
E’ stato sostituito il mantello, ormai vecchio e logoro, che copriva la testa e le spalle del prodigioso simulacro, da tempo. Promotore dell’iniziativa è stato Domenico Zullo, di Santeramo in Colle, in provincia di Bari, devotissimo della Vergine di Picciano.
Il nuovo arredo, per la cui realizzazione sono stati impiegati circa cinque mesi, è in raso di seta duchesse, color azzurro cielo, trapuntato da 96 stelle a rilievo in oro argento di 5 diverse grandezze, montate tutte a mano con un filo argento metallico lamè molto pregiato.
Gli astri riprodotti sono a simboleggiare le costellazioni dell’ universo di cui la Madonna è la Signora, oltre a significare la potenza protettiva verso l’umanità.
Il manufatto è stato realizzato da due artigiani di professione, concittadini del proponente. Lo stilista Paolo Fumarulo e l'orafo Marcelo Di Gesù. Ora qualche breve cenno storico sull’importante santuario.
Il Santuario della Madonna di Picciano sorge su una delle numerose colline che fanno da passaggio tra l'ambiente semi-montuoso della Lucania nord-orientale e l'altopiano delle Murge pugliesi. La contrada si trova in posizione privilegiata, per quanto riguarda la viabilità, attraversata da un importante tratturo preistorico, divenuto successivamente un prolungamento dell'asse viario che, lungo la valle del Bradano, collegava la costa ionica e le città dell'entroterra dell'area Appulo-Lucana.
Gli antichi cronisti locali affermano che la chiesa e il primitivo insediamento monastico di Picciano era sito lungo la gravina, nel luogo di basso detto il "grottolino" e che, successivamente, si trasferì sul colle.
In effetti, fin dall'Alto Medioevo, i "grottolini" di Picciano furono riutilizzati da qualche eremita o piccola comunità religiosa di tipo lauriotico, anche se difficilmente è ipotizzabile che si trattasse di una comunità benedettina. Segno superstite di questa antica presenza religiosa, alle falde del colle, è la cosiddetta "cappella dei Grottini", sulla sponda destra del torrente.
La notizia documentaria più antica sulla presenza di una comunità monastica a Picciano si trova in un documento del 1219 in cui, tra i sottoscrittori, figura un tale "Gulielmus Abbas Monasterii S.Mariae de Picciano, sex milliaribus ab eadem urbe dissiti".
Altri documenti, anche se frammentari, mostrano la crescita e l'importanza del monastero: in una bolla di Gregorio IX, nel 1238, l'abate di Picciano è tra i visitatori designati dal papa per verificare la burrascosa situazione del monastero di Ognissanti di Cuti; nel 1252, papa Innocenzo IV incarica l'arcivescovo di Trani di verificare le modalità canoniche dell'elezione e l'idoneità della persona di fra Andrea, eletto abate del monastero di S. Maria di Picciano.
La zona presbiterale con sullo sfondo il dipinto della Vergine
Nel sec. XIV ai monaci successero i cavalieri. Ancora oggi non sono del tutto chiare le modalità del passaggio del luogo dalla comunità monastica all'ordine Templare prima e ai Cavalieri di Malta poi.
Gli autori locali hanno formulato varie ipotesi, tutte però prive di un'attendibile documentazione storica. Di certo è che alla fine del '300 i Cavalieri di Malta possedevano il colle e un tal "frater Ludovicus" è detto "Praeceptor Picciani".
Nei circa quattro secoli di esistenza, la Commenda di S. Maria di Picciano estese notevolmente i suoi beni in numerosi centri della Puglia e della Basilicata. La presenza dei cavalieri determinò una profonda trasformazione del colle.
La costituzione di un feudo comportò la presenza di ambienti adatti ad un tipo di economia curtense, con palazzo commendatale, magazzini per attrezzi agricoli, depositi per derrate, fosse frumentarie, stalle, officine etc; inoltre, il colle venne fortificato con una cinta muraria ed una torre campanile con postazione di balestriere.
Lavori di ampliamento e ristrutturazioni furono effettuati anche nell'oratorio, con la probabile modifica del soffitto e la realizzazione di un grande affresco absidale raffigurante la scena evangelica dell'Annunciazione.
La Commenda di S. Maria di Picciano ebbe vita fino al 18 giugno 1807, data di abolizione di tutte le prelature, commende, legati, cappellanie e benefici ecclesiastici, e di incameramento dei loro beni da parte dello Stato.
Un'appendice si ebbe allorché, con decreto regio n.331 del 16 aprile 1816, il re di Napoli restituì la Commenda di Picciano al balì Giuseppe Caracciolo di Santeramo in cambio di quella di Casal Trinità, che restò indemaniata.
Passo dopo passo, generazione dopo generazione, la storia è andata avanti ed è quella dei nostri giorni; quelli in cui, dal 1966 del secolo scorso, opera una comunità di Monaci della Congregazione Benedettina di Santa Maria di Monte Oliveto, grazie alla quale viene garantito, quotidianamente, ogni forma di servizio liturgico.
Inoltre, sul sacro colle, è stato incrementato il culto mariano, rivalutando e consolidando le antiche forme devozionali, soprattutto durante il mese di maggio, con pellegrinaggi che giungono da diverse regioni italiane.
Opera, all’interno della comunità, un centro vocazionale.
Per l’amenità del luogo, in cui è facile conciliare silenzio, contemplazione e preghiera, si celebrano ritiri spirituali, soprattutto, per gruppi, associazioni ecclesiali, per comunità parrocchiali e per il clero, guidati dai custodi del santuario. Un centro fiorente anche sotto l’aspetto culturale. |
LA CITTA' NATALE DI BENEDETTO XIII CUSTODISCE I CORPI DI DUE SANTI
SANTA CIRIACA
A Gravina in Puglia, comune pugliese in provincia di Bari, che ha dato i natali a papa Benedetto XIII, della famiglia Orsini, esiste una chiesa, purtroppo, oggi, chiusa al culto, denominata san Celestino.
Le ragioni di tale denominazione sono racchiuse nelle pagine di storia che racconteremo in seguito.
"La chiesa privata della famiglia Michele Pepe, denominata San Celestino, fu realizzata dalla fondamenta tra il 1770 e 1775 su commissione dei fratelli Passamonte: Michele teologo e Filippo primicerio entrambi canonici della regia cattedrale gravinese. Essa è ubicata nel corso Aldo Moro di Gravina tra le costruzioni di casa Passamonte - Pepe e Trotta Bruno.
La famiglia Passamonte nel XVII secolo ebbe lo juspatronato della chiesa rupestre di S. Maria di Costantinopoli, che nel 1572 era tenuto dalla famiglia De Maestro Pacifico Vasay e Antonella de Scelzi. Questa chiesa il 1705 fu sconsacrata e chiusa al culto da Monsignor Marcello Cavalieri, perché definita angusta ed oltretutto impraticabile e semisepolta da terra e detriti portati dagli acquazzoni.
Per questo i fratelli Passamonte, per non perdere lo giuspatronato della perduta chiesa, fecero realizzare una cappella ex novo fuori le mura della "porta Aquila", dedicandola allo Spirito Santo e alla Madonna di Costantinopoli.
Nel 1775 Papa Pio VI donò alla nuova chiesa dei Passamonte il corpo intero di San Celestino martire, con il privilegio delle indulgenze plenarie. Da questo momento la chiesa ed il quartiere che si era costituito intorno ad essa presero il nome di San Celestino.
Più dettagliate e circostanziate sono le notizie storiche sulla presenza dei resti mortali della santa martire Ciriaca a Gravina. “Il 27 febbraio 1805 nella vigna della nobile famiglia D’Amici, antico cimitero di Priscilla, sulla via Salaria a Roma, fu trovato un sarcofago di pietra con le ossa e il sangue in un’ampolla di S. Ciriaca con una lapide, conservata nei Musei Vaticani, la cui iscrizione greca, tradotta in latino recita: Faustinus memoriam posuit Cyriacae filiae… anno rum novem mensium duorum”.
Traduzione di Antonio Bronzini: “Faustino pose (questa lapide) in memoria di sua figlia Ciriaca di nove anni e due mesi”.
La sacra reliquia fu donata da Papa Pio VII al Sig. Cav. Capitano delle sue guardie D. Raffaele Pepe, di origini napoletane, vissuto sin dall’infanzia a Roma, il quale la offrì in segno di amicizia al Vicario Capitolare di Gravina, suo comprovinciale, il Canonico teologo Giuseppe Laragione, per arricchire e adornare la propria cappella privata.
Affinchè potesse goderne l’intero popolo della sua diocesi, egli dispose che il prezioso dono fosse custodito nella chiesa del Monastero di S. Teresa.
Racchiusa in una cassa sigillata, la Sacra Urna, in cui furono ricomposte le ossa e modellate le sembianze umane in cera, su disegno o ad opera dello scultore neoclassico Antono Canova, accolta nel tripudio del popolo festante e commosso, giunse a Gravina il 29 giugno 1815.
Fu posta temporaneamente nell’Oratorio Domestico del Palazzo Ducale, dove rimase fino al 10 luglio, quando alla presenza del Clero, dei devoti, del Regio Notaio Don Gerardo Tomacci, del General Sindaco Don Vincenzo Guida e di molti notabili del tempo furono controllati i sigilli con quelli originali, posseduti dal Vicario, e, non riscontrandosi alcuna infrazione e non essendoci, pertanto, dubbio alcuno sull’autenticità della cassa e, quindi, della Reliquia, si estrasse l’Urna, nella festosa cornice sonora di campane e mortaretti.
La domenica seguente, 16 luglio, si procedette alla traslazione del Sacro Corpo di S. Ciriaca Vergine e Martire nella chiesa di S. Teresa.
Dopo una breve sosta al Monastero delle Clarisse di Santa Sofia, le quali vollero venerare la sacra reliquia, la processione per strada Capuana giunse al Monastero, dove alla presenza del Capitolo Cattedrale, del Vicario e delle Suore, inginocchiate e col volto velato, il notaio lesse l’atto di donazione.
Portata in chiesa l’Urna e posta sull’altare di S. Giuseppe, il Vicario tessè un panegirico alla fanciulla Martire e Santa. La domenica successiva, dopo una solenne Messa cantata, la sacra Urna fu riposta sotto l’altare maggiore.
Purtroppo non fu quella la sistemazione definitiva, dal momento che la comunità fu costretta a trasferirsi prima presso il Palazzo Meninni di via Abbrazzo D’Ales e poi nel monastero costruito a ridosso della chiesa della Madonna delle Grazie, dove si trova ancora conservata, nonostante la comunità religiosa è stata da circa dieci anni soppressa.
SAN CELESTINO |
IL BICENTENARIO DELLA FONDAZIONE DELLE SUORE OSPEDALIERE DELLA MISERICORDIA
TERESA ORSINI
Il 16 maggio prossimo, alle ore 10.00, con una celebrazione eucaristica presieduta dal Vicario per la città di Roma, il Cardinale Angelo De Donatis, presso il piazzale antistante l’Ospedale di San Giovanni della capitale, dove la comunità religiosa opera sin dalla sua fondazione, avranno solennemente inizio le celebrazioni per ricordare il secondo centenario della benemerita fondazione.
Per tale ricorrenza, le figlie di Teresa Orsini, hanno predisposto una preghiera, che è un atto di gratitudine verso Dio per “aver acceso la fiamma della carità nel grande cuore della nostra madre Fondatrice Teresa Orsini due secoli or sono”. Un cammino che è durato solidamente e saldamente per duecento anni. Espandendosi in Italia e nel mondo.
Nei luoghi della sofferenza, del dolore, della malattia. Negli ospedali e nelle case di cura gestite dalle stesse suore.
A contatto con i “privilegiati” del Signore. Una comunità religiosa che vive il suo apostolato, la sua missione seguendo il carisma della nobile fondatrice. Sulla nascita, sulla costituzione e l’evolversi di questa famiglia religiosa è giusto passare la parola alla storia.
La Congregazione delle Suore Ospedaliere della Misericordia, Istituto di diritto Pontificio, è nato nel 1821 dal grande cuore della Serva di Dio la Principessa Teresa Orsini Doria Pamphili Landi, sotto gli auspici del Papa Pio VII. Teresa nacque nella città di Gravina in Puglia, il 23 Marzo 1788, da Domenico Orsini, principe di Solofra e da Faustina Caracciolo dei principi della Torella.
Era ancora fanciulla quando rimase orfana di padre mentre la mamma era in attesa del secondo figlio. Il nonno paterno Filippo conosciuto e noto per la sua fede e buona condotta, si occupò della sua educazione. Così Teresa condusse l'infanzia e l'adolescenza presso i vari Monasteri educativi: prima dalle Suore Domenicane della Sapienza in Napoli, poi presso le Orsoline e le Benedettine di via Tor degli Specchi a Roma.
La sofferenza causata dalla morte del padre e la lontananza dalla madre, non fece irrigidire il suo cuore, al contrario, fece maturare ancor più la sua comprensione per la sofferenza altrui. Avendo terminato l’iter formativo, a1l'età di vent'anni, scelse la vita matrimoniale, sposando il principe Luigi Andrea Doria Pamphili Landi di Roma.
Dal felice matrimonio nacquero quattro figli, che Teresa desiderò educare personalmente, rompendo cosi, l'usanza dell'epoca di affidare la prole a balie di campagna.
La vita di Teresa, è un esempio dell'amare e del servire cristianamente, è una dimostrazione di come deve essere il vero amore cristiano, gratuito e disinteressato. Dio le aveva donato tutte le virtù fisiche e morali: era una vera nobildonna romana, sposa felice, madre affettuosa, educando il figli al santo timor di Dio, al servizio della Chiesa e dell'umanità sofferente, donna impegnata nel sociale al servizio dei malati, diseredati ed emarginati della società del suo tempo.
Nel suo umile servizio agli altri, spesso dimenticava se stessa, sia nel dormire che nel mangiare; per lei non esistevano difficoltà ed ostacoli quando si trattava di stare vicino a coloro che ne avessero bisogno: famigliari, parenti; amici, persone sconosciute, tutti quelli che in quel momento particolare rappresentavano il Cristo sofferente, in altre parole, sapeva essere vicina a chi piangeva, a chi soffriva, a chi moriva, ma non solo; sapeva condividere anche le gioie e le felicità umane.
Nel 1820, cominciò a pensare, ispirandosi dell'esempio di vita dei Fondatori ospedalieri come San Francesco di Sales e San Vincenzo Dé Paoli, alla fondazione di un opera femminile che si dedicasse senza scopo di lucro all'assistenza dei malati negli ospedali. Teresa affrontava le situazioni con la assidua preghiera e Lume dall'alto.
La prima fondazione avvenne nel 1820 presso la Parrocchia dalla Madonna dei Monte a Roma. Teresa con alcune consorelle si dedicavano con speciale servizio a domicilio per le malate che non trovando posto negli ospedali esse rimanevano abbandonate nelle proprie case; quest’associazione di volontarie era chiamata Suore della carità.
Un Deputato Ospedaliero di San Giovanni responsabile dell'andamento assistenziale dello stesso ospedale, vedendo il proficuo lavoro che queste suore cosi chiamate facevano tanto del bene nella Parrocchia della Madonna dei Monti; invitò la Principessa Teresa Orsini Doria a trasportare tale istituzione nell'ospedale di San Giovanni (detto allora "Sancta Sanctorum”). Teresa pensò, perché defraudare l'assistenza a domicilio alle povere inferme?
Quindi, pensò ed attuò di fondare un altro gruppo di volontarie che si dedicassero a tempo pieno e senza scopo di lucro al servizio delle inferma ricoverate nella struttura di Sancta Sanctorum.
Teresa, tra le sua amiche trovò quattro giovani che il giorno 16 Maggio dal 1821, le suddette, dopo aver partecipato alla Santa Messa nella Chiesa di San Marcello al Corso , furono dalla stessa principessa Teresa accompagnate all'ospedale di San Giovanni con previo avviso ai responsabili presentandole agli Amministratori e Sanitari.
Questa vita di Teresa, senza tregua, questo sacrificarsi senza limiti per il prossimo, questo rifiutare gli agi dalla vita, non potevano non turbare la sua salute. Infatti all'età di quarantun’anni morì, lasciando nel profondo dolore la famiglia, le sue istituzioni benefiche e tutti i poveri della città di Roma che piangendo la acclamavano con il titolo di Santa.
Era il 3 Luglio 1829.
Il 13 novembre 1997, la Congregazione l’ha candidata alla santità, avviando la fase diocesana del Processo, a Roma, per la sua beatificazione e canonizzazione.
Oggi, la famiglia religiosa delle Suore Ospedaliere della Misericordia come il buon Samaritano del Terzo millennio forte dell' eredità spirituale della loro Madre Fondatrice, continua la sua opera di carità attraverso l'opera di Misericordia professata con uno speciale voto di Ospitalità. Le suore sono presenti non solo in Italia ma anche nei diversi paesi del mondo: Svizzera, Stati Uniti, Polonia, India, Filippine, Madagascar e Nigeria, per testimoniare la Misericordia negli Ospedali, nelle Case di cura, nei dispensari, nelle Case di Riposo per gli anziani, nelle scuole, nei lebbrosari, nei centri sociali, nelle parrocchie e nelle missioni.
La Congregazione è sotto la speciale protezione di Maria Santissima Madre della Misericordia.
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I RUSPOLI, UNA FAMIGLIA AL MICROSCOPIO
“I Ruspoli l’ascesa di una famiglia a Roma e la creazione artistica tra Barocco e Neoclassico”, De Luca Editori D’Arte, Roma febbraio 2019 è l’ultima fatica editoriale di Maria Celeste Cola, dottore di ricerca in storia dell’arte presso l’Università di Roma “La Sapienza” dove ha insegnato e insegna Storia dell’Arte moderna, si occupa di storia del collezionismo e di committenza artistica con particolare riferimento a Roma tra Sei e Settecento.
E’ membro del comitato scientifico della rivista “Studi sul Settecento Romano” diretta da Elisa Debenedetti e incaricato di ricerca del Centro di Studi sulla cultura e l’immagine di Roma.I suoi lavori sono apparsi nelle riviste “Studi sul Settecento Romano”, “Bollettino d’Arte”, “The Burligton Magazine” e nella “Rivista dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte”. Tra l’altro, non nuova ad un contatto di studio con i Ruspoli.
A lei vanno ascritti precedenti studi e pubblicazioni: La Committenza Ruspoli a Vignanello. Passeri, Cerruti, Rosa, Nicolosi ed altri al servizio del Principe Francesco Maria nella chiesa colleggiata, Bollettino d’arte, Gennaio – Marzo 2008, Anno XCIII, Serie VI. Gli Inventari della collezione Ruspoli: la nascita della quadreria settecentesca e l'allestimento nel palazzo all'Aracoeli.
Un altro contributo scientifico è quello contenuto all’interno di Collezionisti, disegnatori e teorici dal Barocco al Neoclassico, a cura diElisa Debenedetti, nella collana Studi sul Settecento Romano, 25, 2009. Il testo in questione amplifica e completa gli studi monografici precedentemente avviati.
Il volume ricostruisce, nell’arco di quattro secoli, la storia di una illustre famiglia italiana evidenziandone il ruolo di primo piano svolto a Roma tra il Cinquecento e l'Ottocento, a partire dal 1527, anno del famoso sacco di Roma.
Di un ceto famigliare che non aveva origini romane, se è vero, come è vero, e come documenta l’autrice, che esso era di origini fiorentine. Infatti, nella primavera del 1523 una “bravata” tra giovani fiorentini cambiò di colpo le sorti dei Ruspoli.
Accusato dell’uccisione di Lorenzo Frescobaldi, Bartolomeo Ruspoli (1496-1590) fu costretto a lasciare Firenze. Su consiglio di suo padre e degli zii Francesco e Zanobi, egli riparò nella città eterna. Quindi il primo della serie, il capostipite del ceppo romano fu Bartolomeo Ruspoli dando avvio alle grandi fortune del casato.
Accolto a Roma dal potente banchiere fiorentino Bindo Altoviti, amico di suo padre, Bartolomeo apriva la succursale romana dell’antico Banco Ruspoli di Firenze. Sulla base di una capillare ricerca documentaria condotta nell'archivio Ruspoli-Marescotti e negli archivi e biblioteche di Firenze, Siena e Londra, il libro percorre, in un cosmo in cui il nucleo nobiliare e famigliare si è mosso ed ha agito, l'affascinante storia della famiglia attraverso l'osservatorio privilegiato dell'eccezionale committenza artistica rivolta dai Ruspoli alle arti decorative e ornamentali, al teatro e alla musica.
A tal riguardo mi permetto aprire una parentesi tutta personale che, credo, dia valore all’opera di Maria Celeste Cola. La pubblicazione è corredata da una corposa bibliografia.
Modestamente, dal mio angolo visuale, ho sempre ritenuto e ritengo che, spesso e il più delle volte, la bibliografia è o può essere più importante del testo di ricerca pubblicato. Mai come in questo caso è arrivato, indirettamente, il conforto da parte dell’autrice. Infatti, la monumentale mole di testi e fonti consultati, danno la misura e lo spessore del lavoro che ne è derivato.
L’impegno profuso, il tempo, la elaborazione, il discernimento di tutto il materiale per ricostruire, per argomentare, per scrivere sono la conferma di un lavoro immane condotto con pazienza, scrupolo e coscienza.
Per tornare ai Ruspoli, è stato bene evidenziato il nesso tra committenza e mecenatismo che contraddistinsero la vorticosa ascesa sociale e politica dell'Eccellentissima Casa e determinarono la fioritura della cultura barocca e la diffusione del gusto romano in Europa. Un casato che seppe vivere tra mari tranquilli e acque tempestose; tra fiumi d’acqua dolce e torrenti burrascosi.
I destini della storia incrociati e intrecciati con altre famiglie dello stesso rango sono la ragione o la causa principale di tanti successi e di tante sconfitte sul piano morale, affettivo, culturale e storico
Le sorprendenti biografie e le storie personali emerse dai carteggi e dai documenti hanno consentito d'intessere la storia politica e sociale della famiglia, come quella della città e degli artisti, architetti, pittori, scultori e musicisti scelti, privilegiati e beneficiati dai Ruspoli tra Rinascimento e Neoclassico. I Ruspoli, al pari di altre famiglie di rango, si rivelano collezionisti, mecenati, cultori d’arte.
Non sono da meno. Gareggiano, competono nell’arricchire la quadreria di famiglia. Nell’essere al centro di interessi culturali e, anche musicali.
Nel testo ci sono riferimenti, desunti da una pubblicazione di Ursula Kirkendale:” Georg Friedrich Händel , Francesco Maria Ruspoli e Roma, Lucca 2017, Libreria Musicale Italiana, puntualmente citata all’interno del lavoro di Maria Celeste Cola, circa il rapporto che ci fu tra il musicista sassone, durante il suo soggiorno in Italia, e la famiglia Ruspoli. Siamo nella Roma papalina in cui il potere religioso sconfina in quello temporale.
E, viceversa, quello politico che avanza pretese sul potere religioso. Le due anime si fondono, si confondono e si scontrano in quella che ognuno chiama ragione di Stato.
Sorgono conflitti tra gli opposti mondi, ma c’è sempre la soluzione a portata di mano. Per una questione di mera pax? Certo è che ognuno cerca di trarre vantaggi e benefici.
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E’ questo lo scenario storico in cui si svolgono le vicende narrate, e non da protagonisti di secondo piano, ma da artefici, da costruttori di una storia perenne e duratura Sullo sfondo dei cantieri pittorici e della creazione delle raccolte d'arte destinate all'allestimento dei palazzi e delle loro residenze trapelano i rapporti politici ed economici con i rappresentanti dell'antica aristocrazia capitolina e con i vertici della Chiesa.
Il lungo racconto si snoda nei diversi momenti cruciali della storia familiare, dall'ascesa durante il regno di Paolo V Borghese, (reg. 1605-1621), alle varie e numerose attività finanziarie di Bartolomeo II sino alle relazioni favorite con Clemente XI Albani, (reg. 1700-1721) l'amicizia con i papi parenti Innocenzo XIII Conti (reg. 1721 – 1724) , coronata nel 1721 dal titolo di principe romano concesso a Francesco Maria Ruspoli e Benedetto XIII Orsini, (1724 – 1730), culminata con la visita del pontefice al castello di Vignanello, durante i primi giorni del mese di novembre dell’Anno Santo del 1725, in cui fu consacrata la chiesa colleggiata. I rapporti privilegiati con la corte di Vienna e l'affermazione sulla scena internazionale alla fine del Settecento.
In tutto questo succedersi di eventi si inserisce la bellissima storia di una santa di famiglia. Sarebbe il caso di dire, che i Ruspoli –Marescotti, non si fecero mancare nulla. Infatti, da questa progenie nasce Clarice, figlia del principe Marcantonio Marescotti e di Ottavia Orsini.
Dopo una delusione d’amore, il padre la fece entrare nel monastero di San Bernardino a Viterbo, dalle Clarisse, dove già si trovava sua sorella Ginevra. Qui Clarice prende il nome di Giacinta. Colei che scelse la via e la vita mistica della consacrazione monastica, trasformando la vanità di una vita in santità, fu proclamata beata da papa Benedetto XIII il 7 agosto 1726.
Sarà Pio VII a canonizzarla il 24 maggio 1807. Percorsi fulgidi che danno al casato una dimensione di notorietà se mai ce ne fosse stato bisogno.
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Prima di concludere questa breve nota di presentazione, che non aveva la pretesa di essere esaustiva e né essere scientificamente o tecnicamente predisposta per addetti ai lavori, ma frutto di considerazioni, anche personali, così come è giusto che sia una recensione libraria, è doverosa un’ultima annotazione.
Il ramo dei Ruspoli, oggi è ancora attivo nella capitale. Non si è estinto. Uno è Don Sforza Marescotto Ruspoli, che ha curato la presentazione dell’interessante volume. A seguire, poi, c’è Don Francesco Maria Ruspoli, X Principe di Cerveteri, appassionato studioso della storia di Casa Ruspoli.
Non vanno dimenticate le principesse Donna Giada Ruspoli e a Donna Claudia Ruspoli, infaticabili e sensibili Signore del castello di Vignanello, così come Ilaria Bichi Ruspoli e suo padre il marchese Tommaso.
Una dinastia, che è una storia scritta e da scrivere sotto le ali protettive di un blasone. Di un atto di identità forte, riconosciuto da Maria Celeste Cola, che, con la sua bravura, la sua maestria e la sua pazienza di ricercatrice, ha saputo far splendere in tempi bui, difficili e pericolosi come i nostri. Con il lavoro portato alla luce dall’autrice, una verità assoluta è venuta fuori. La “Nobiltà” non muore mai.
Giuseppe Massari |
ILPRINCIPE CARDINALE DOMENICO ORSINI RIPORTATO IN LUCE DA ALESSANDRO AGRESTI
“Domenico Orsini e le arti a Roma alle soglie della Rivoluzione” di Alessandro Agresti, Collana di Studi in Storia delle Arti, De Luca Editore, Settembre 2019.
Il volume monografico, prefatto da Adriano Amendola e da Liliana Barroero, è’ quanto di meglio ci si potesse aspettare alla luce di quella che è diventata una vera “campagna” di rivalutazione del nobile ed importante casato degli Orsini, ma soprattutto di colui che si può ben dire che non ha smentito il suo sangue di famiglia.
Non a caso, ultimamente, sono aumentati gli interessi sulla vita, lo sviluppo artistico, mecenatistico, archivistico e storiografico attorno agli Orsini duchi con le loro diramazioni geografiche dal Lazio alla Puglia fino a raggiungere la Basilicata.
Esempio di queste recenti pubblicazioni sono quelle prodotte da: Elisabetta Mori nel 2016: L’Archivio Orsini. La famiglia, la storia, l’inventario, “Carte scoperte. Archivio Storico Capitolino, Roma.
Adriano Amendola con una serie di volumi: Ritratti di Bronzo. Il Medagliere Orsini dei Musei capitolini, Roma l 2017. Nel 2018: L’eredità della famiglia Orsini: il principe Filippo alla prova dell’Unità d’Italia, in Camillo d’Errico (1821 – 1897) e le rotte mediterranee del collezionismo ottocentesco, a cura di Elisa Acanfora, Mauro Vincenzo Fontana, Foggia 2017
. Ultimo in ordine di tempo, 2019: Gli Orsini e le arti in età moderna. Collezionare opere, collezionare idee, Milano. Inoltre, lo stesso Amendola è stato il curatore di una mostra, che ha avuto luogo a Gravina, patria degli Orsini, a partire dal settembre dello scorso anno per concludersi agli inizi del corrente: Papa Benedetto XIII.
Gli Orsini e le arti a Gravina. In questo contesto “riabilitativo “ degli Orsini si è inserito anche Alessandro Agresti, laureato in Lettere con indirizzo Storia dell’Arte (2003) presso l’Università degli Studi di Roma Tre, ha conseguito presso la medesima facoltà il Dottorato di Ricerca in Storia e Conservazione dell’Oggetto d’Arte e d’Architettura (2008) con la tesi sugli affreschi di Marco Benefial a Città di Castello. Nel 2010, all’interno del n. 729, anno LXI, Terza Serie 94 di Paragone Arte, compare un suo articolo, nella rubrica Ricerche d’archivio: Pietro Bracci e la protezione degli Orsini. Dal monumento a Benedetto XIII al monumento a Benedetto XIV. Nel 2016 ha collaborato al progetto FIRB Gli Orsini e i Savelli nella Roma dei Papi. Arte e mecenatismo di antichi casati dal feudo alle corti Barocche.
Due schede critiche, a firma sua, le troviamo nel catalogo Papa Benedetto XIII. Gli Orsini e le arti a Gravina a corredo dell’omonima mostra curata, da Adriano Amendola a cui si è fatto cenno precedentemente.
La prima riguarda il ritratto di Benedetto XIII Orsini di Gravina, di anonimo pittore romano, in dotazione alla Fondazione Ettore Pomarici Santomasi di Gravina.
L’altro suo contributo riguarda l’opera pittorica su tela di Agostino Masucci di Benedetto XIII, posseduto da un collezionista privato gravinese.
Nel settembre dell’anno scorso ha dato alle stampe il volume sul principe cardinale Domenico Orsini oggetto della presente recensione. Ma chi fu costui.?
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Lo scopriamo scorrendo i dati biografici ripresi da Agresti.
Il cardinale Domenico Orsini, originario del ramo di Gravina in Puglia della casata, pronipote di Benedetto XIII (1649 - 1730), nacque a Napoli nel 1719 da Filippo Bernualdo Orsini d’Aragona (1652 - 1734) e Giacinta Ruspoli Marescotti (1689 - 1757). Si sposò, nel 1738, con la principessa Anna Paola Flaminia Odescalchi (1722 - 1742) dalla quale ebbe tre figli.
L’anno dopo la morte dell’amata consorte, nel 1743, Domenico fu nominato cardinale in pectore dal pontefice Benedetto XIV (1675 - 1758), che decise tale nomina per la riconoscenza verso Benedetto XIII che a sua volta lo aveva elevato alla porpora.
Fu l’inizio di una carriera folgorante che portò il neo eletto cardinale a ricoprire alcune delle cariche più prestigiose della Curia nonché a ottenere privilegi da re Carlo di Borbone.
Dopo questa brillante, rapida ed esaltante carriera ecclesiastica, il porporato divenne un punto di riferimento per studiosi, storici, critici d’arte perché la sua vita ebbe un coronamento di prestigio sapendosi imporre agli occhi di pittori, scultori, orafi, che lui stesso seppe valorizzare, portare al successo.
Il gusto per il collezionismo possiamo dire che fu un “vizio” di famiglia, perché lo stesso casato non aveva mai disdegnato di circondarsi e di abbellire i propri appartamenti, scoprendo artisti e farli assurgere a notorietà. Un esempio per tutti valga quello del prozio, Benedetto XIII, che ebbe il fiuto per i talenti dell’arte o per quelli che si dimostrarono tali. Quindi, Domenico, sulla scia di questa tradizione di famiglia, divenne fine collezionista, cultore, mecenate e committente.
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Ecco che vediamo aggirarsi personaggi del calibro di Giovanni Paolo Panini; specialisti di paesaggi, vedute, marine come Adrien Maglard, Jan Frans van Bloemen, Gaspar van Wittel e Andrea Locatelli.
La sua vera passione, come scrive Adriano Amendola nel presentazione del citato volume, furono le opere nate all’interno del’ambiente marattesco, specificatamente quelle riconducibili da Giuseppe Bartolomeo Chiari ed Agostino Masucci.
Scrive ancora Amendola che il porporato Domenico protesse il pittore Marco Benefial. Non a caso Benefial è l’artista più rappresentato nella quadreria, che vantava appesi ai muri ben nove dipinti.
Dal novero dei grandi dell’arte non vanno esclusi ed entrarono a pieno titolo Placido Costanzi, Pompeo Batoni, Domenico Corvi, Tommaso Maria Conca e Giuseppe Cades.
Discorso a parte meritano scultori ed argentieri come Vincenzo Belli, Pietro Bracci e Luigi Valadier. A proposito di quest’ultimo va ricordata la committenza dello straordinario Servizio liturgico donato, poi alla Chiesa di Muro Lucano, vecchio feudo degli Orsini. Questi pregevoli pezzi d’arte orafa sono stati esposti nel corso della mostra Valadier, Splendore della Roma del Settecento, tenutasi a Roma, dal 28 ottobre 2019 al 2 febbraio scorso, presso la Galleria Borghese.
Un capitolo dedicato anche al collezionismo completa il quadro d’insieme di un uomo che seppe affidarsi agli artefici più insigni a lui contemporanei fino a quel fatidico 1789, quando la Rivoluzione Francese chiudeva un’epoca aprendone una nuova. Dinanzi a questi scenari termina il racconto interessante e gustoso di Alessandro Agresti, che, se da un lato ha potuto concludere i suoi studi e le sue ricerche iniziate all’epoca del dottorato, dall’altro restituisce alla storia la levatura intellettuale di Domenico Orsini, venuto fuori, e non poteva ess
Il lavoro di Agresti, come ha scritto Liliana Barroero, è partito da molto lontano, dalla sua tesi di laurea. E’ stato completato attraverso un ciclo di ricerche, approfondimenti, acquisizione di documenti, passando inevitabilmente da una fonte ineludibile ed inesauribile: l’Archivo Storico Capitolino. Da questo scrigno è stato possibile ricostruire e portare alla luce l’appendice documentaria inserita nel testo, il quale, tra l’altro, è arricchito da una ricca galleria fotografica, tavole che riproducono la quadreria di proprietà di Domenico Orsini.
Concludendo. Non si è voluto scrivere bene a tutti costi su questo lavoro, ma se un merito va dato, e deve essere certamente dato, è quello di aver saputo ricostruire un patrimonio, comunque oggi disperso, nella quasi totalità, e che se non fosse stato per Alessandro Agresti mai avremmo saputo della sua esistenza. Del godere non ne parliamo, se non per alcuni esemplari ancora superstiti ed esistenti in alcune collezioni private o in negozi d’antiquariato.
Giuseppe Massari
Giuseppe Massari
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“SERVIRE L'AMICIZIA CON CRISTO
Studi in onore del Vescovo di Ivrea mons. Edoardo Aldo Cerrato in occasione del suo 70° compleanno”. If Press Editore, 2020.
E’ una raccolta di scritti, introdotta dall’attuale Procuratore Generale della Congregazione dell’Oratorio, padre Michele Nicolis, curata da Daniele Premoli e redatta, ognuno per la sua parte di specificità, di approfondimento e competenza da un gruppo di Amici dell’Oratorio, appassionati non solo al carisma del S. Padre Filippo, ma alla storia che da esso ha avuto origine e si è sviluppata lungo i secoli. Possiamo azzardare che è stato un modo originale, inusuale, ma molto frequente in questi ultimi tempi, da parte di chi ha pensato a questo omaggio a Padre Edoardo Aldo Cerrato, Procuratore Generale della Confederazione per diciotto anni, fino alla sua ordinazione a Vescovo di Ivrea, avvenuta nella chiesa di S. Maria in Vallicella l’8 settembre 2012, per mano del cardinale Tarcisio Bertone, e alla presenza dei Padri partecipanti al Congresso Generale Oratoriano che si celebrava in quei giorni. La sintesi che giustifica anche il titolo di questa fatica editoriale è racchiusa nelle parole scritte da mons. Cerrato e riportate in quarta di copertina: “Ciò in cui desidero crescere, anche come Vescovo è la mia amicizia con Gesù Cristo: “l’intima amicizia con Gesù da cui tutto dipende”. Ciò a cui tengo maggiormente e che desidero servire è la vostra amicizia con Cristo.
Il motivo per cui la Provvidenza ha disposto che ci incontriamo per fare insieme un tratto di cammino è che Gesù Cristo diventi sempre più il centro della nostra vita; che la nostra esistenza sia trasformata dalla Sua gloria che è la Sua presenza amata ed accolta”. Il personaggio, destinatario degli auguri, merita di essere conosciuto più approfonditamente, attraverso alcuni cenni biografici riportati all’interno delle prime pagine della pubblicazione.
Edoardo Aldo Cerrato è piemontese di nascita, essendo nato ad Asti il 13 ottobre 1949. Ordinato sacerdote da S. E. mons. Vittorio Piola il 28 giugno 1975 nella Messa vigiliare dei Ss. Apostoli Pietro e Paolo, con incardinazione in Diocesi, secondo l’antico costume dei Padri Oratoriani, che sono sacerdoti secolari appartenenti ad una Società di vita apostolica di diritto pontificio. Laureato in Lettere classiche presso l’Università di Torino con una tesi sulle Omelie pasquali di san Massimo e vincitore di Concorso Ordinario a Cattedre, ha insegnato Letteratura italiana e latina per venti anni nei Licei ed è stato per dieci anni docente di Patrologia nel Seminario Vescovile di Biella.
Con successivi mandati triennali dal 1984 al 2005 è stato eletto Preposito della Comunità. Perciò, uomo di vastissima cultura. Fondatore e direttore, per dieci anni, della rivista Annales Oratorii, oltre a contare al suo attivo le seguenti pubblicazioni: S. Filippo Neri. La sua opera e la sua eredità, 2002, tradotta in polacco ed ora – di prossima edizione – anche in inglese, negli Stati Uniti.; Chi vuol altro che non sia Cristo. Massime e Ricordi di S. Filippo Neri, 2006; Sulla via dell’Oratorio, 2007; Il venerabile card. Cesare Baronio, 2010; Il beato José Vaz dell’Oratorio, 2010; Il venerabile Giovanni Battista Arista dell’Oratorio, 2011; John Henry Newman, 2012.
Durante i tre mandati esercitati da P. Edoardo Cerrato sono cresciute in misura notevole, anche per la attenta cura che egli vi ha dedicato, le Congregazioni dell’Oratorio. Venti sono state le nuove fondazioni tra il 1995 e il 2012. Questa, in sintesi la vita di un uomo, diventato pastore di una diocesi a cui fu destinato da Papa Benedetto XVI. Un uomo che ha saputo tessere amicizie, dialogare con i giovani, all’insegna di quel carisma bonario ma incisivo che è stato alla base della Congregazione sorta per volere di San Filippo Neri.
E’ quanto si evince, tra l’altro, leggendo alcune espressioni e concetti utilizzati all’interno della presentazione. E’ scritto, infatti: “i saggi qui raccolti, di giovani ricercatori, professori universitari, rinomati studiosi: Daniele Bolognini, Daniele D’Alessandro, Markus Dusek, Luis Martínez Ferrer, Antonella Pampalone, Daniele Premoli, Simone Raponi, Roberto Regoli, Andrea Risi, Paolo Vian, Paul Bernhard Wodrazka, altro scopo non hanno avuto che testimoniare, con il loro impegno, la propria riconoscenza al festeggiato e accrescere la conoscenza delle comuni radici.
I temi dei singoli contributi, scelti autonomamente dagli autori in base ai propri interessi personali, hanno così rivelato un sorprendente filo di collegamento: San Filippo e la sua congregazione, cui padre Edoardo appartiene”. Questo gruppo di giovani, ha spaziato, su basi storiche e documentarie, tra arte, cultura, riprendendo le fila di quella che l’incidenza oratoriana sui programmi artistici di una delle famiglie nobili di Roma, i Caetani.
Oppure i racconti riportati in luce sui dialoghi teatrali dell’arciprete Lodovico Gnudi e il rapporto che ci fu tra questi e Filippo Neri Le pagine, tra fede, servizio, insegnamenti, ammaestramenti, dedizione scorrono con naturalezza quando si legge, ad esempio che, addirittura, a Milano, dopo la morte dal cardinale Federico Borromeo, si poteva dire che fosse “la città più filippina d’Italia”, grazie al costante proposito, da parte dell’arcivescovo, di rendere popolare la figura di Filippo.
Del resto, il giovane Borromeo già durante i suoi soggiorni romani aveva conosciuto Filippo Neri e gli altri sodali della Vallicella, diventandone uno dei più assidui frequentatori. Con i padri dell’Oratorio, Federico strinse vere e durevoli amicizie. Questo rapporto intenso, sfociato, molto probabilmente anche in una biografia scritta dal porporato sul santo fiorentino, è uno dei tasselli importanti nella ricostruzione storica sia della Congregazione che del suo fondatore.
Uno spaccato di identità che passa, inevitabilmente, da un’altra pagina di storia, ripresa fugacemente ed è quella che riguarda il rapporto strettissimo che vi fu tra il cardinale frà Vincenzo Maria Orsini e l santo della Vallicella, la cui devozione e culto ebbe inizio sin da quel famoso e triste giorno del terremoto del 6 giugno 1688, che colpì Benevento, diocesi in cui il cui sedeva il cardinale Orsini, lo stesso, come lui racconta, fu salvato grazie alla protezione di San Filippo Neri, tanto che divenuto papa col nome di Benedetto XIII, nel 1725, stabilì che la festa di san Filippo Neri, fondatore della Congregazione dell'Oratorio, celebrata il 26 maggio, fosse di precetto per Roma e per il suo distretto.
Una sintesi rapida come può essere una recensione non può non portarci ad evidenziare, dopo la lettura dell’intero testo, il ruolo che ebbe l’illustre convertito inglese John Henry Newman, dal 2010 nella gloria dei beati, che diventò cardinale e che introdusse l’Oratorio in Inghilterra. Per concludere. Un lavoro pregevole.
Scaturito dalle fonti dell’amore, della riconoscenza e della gratitudine. Un lavoro paziente, certosino, intelligente, portato a conclusione con il plauso, credo, del destinatario, il quale ha raccolto, parzialmente, il frutto del suo apostolato, perché la restante parte gli sarà riservata dal Signore il giorno che verrà a giudicare i vivi e i defunti.
Giuseppe Massari |
A ROMA LA MOSTRA "L'ARTE DI SALVARE L'ARTE" PER I 50 ANNI DEL COMANDO TUTELA PATRIMONIO CULTURALE
Dal 5 maggio al 14 luglio 2019 il Palazzo del Quirinale ospiterà nelle sale della Palazzina Gregoriana la mostra “L’arte di salvare l’arte. Frammenti di storia d’Italia”, curata dal Prof. Francesco Buranelli.
La mostra, nel cinquantesimo anniversario (1969 – 2019) del Comando Tutela Patrimonio Culturale, un reparto specializzato dell’Arma dei Carabinieri istituito il 3 maggio del 1969 per contrastare i crimini in danno al nostro patrimonio storico artistico, si pone l’obiettivo di presentare agli studiosi e al grande pubblico i più rilevanti risultati conseguiti in questi anni dall’incisiva azione investigativa dei Carabinieri al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti di una vera e propria emergenza nazionale: la tutela del patrimonio culturale nazionale.
Un centinaio di opere, ordinate in quattro sezioni espositive, consentirà al pubblico di rivivere storie di recuperi – alcuni avventurosi, altri frutto di minuzioso, lungo e paziente lavoro investigativo – di opere disperse in ogni angolo del mondo dalla Giamaica all’Ucraina, dall’America al lontano Oriente.
Opere recuperate alla comunità e alla ricerca scientifica, riportate in Italia, ricontestualizzate nel territorio o nel tessuto connettivo che le aveva generate, restituendo loro la dignità culturale più vera e profonda di ogni opera d’arte, quella del contesto di appartenenza.
Poiché, se è vero che ogni opera d’arte appartiene all’umanità intera, è tanto più vero che essa acquisisce valore di civiltà solo dalla conoscenza e dalla relazione profonda, direi geografica e fisica, con i luoghi che l’hanno prodotta, con la cultura che l’ha generata, con il paesaggio che l’ha suggerita.
MADONNA DI SENIGALLIA DI PIERO DELLA FRANCESCA
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SACRA FAMIGLIA DI ANDREA MANTEGNA |
Con l’opera artistica di Euphronios, uno dei più celebrati pittori greci di V sec. a. C., le mirabili Madonne con Bambino, dipinte da Piero della Francesca, Andrea Mantegna, Giovanni Bellini, Antoniazzo Romano e ai capolavori del Tiepolo sarà esposta anche il Vaso di Assteas del IV secolo a. C..
Il prezioso reperto raffigurante il Ratto di Europa, presenta sul lato anteriore il mito del ratto di Europa, mentre sul retro Dioniso seguito da alcune menadi, un sileno e il dio Pan.
Personale specializzato guiderà i visitatori lungo il percorso espositivo e nella consultazione della banca dati disponibile on line. L’ideazione e la progettazione dell’allestimento è di Michelangelo Lupo, il catalogo della mostra è edito da De Luca Editori d'Arte.
Giorni di apertura: martedì - mercoledì - venerdì - sabato - domenica
Giorni di chiusura: lunedì e giovedì. La mostra sarà chiusa anche dal 31.5.2019 al 2.6.2019.
Orario: dalle ore 10.00 alle 16.00 (ultimo ingresso ore 15.00)
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CRATERE DI EUPHRONIOS |
TRIADE CAPITOLINA |
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RECENSIONE VOLUME "GLI ORSINI E I SAVELLI NELLA ROMA DEI PAPI"
li Orsini e i Savelli: due nobili famiglie romane, rivali tra loro, in una pubblicazione della Silvana Editoriale
Non certo freschissima o recentissima di stampa, la pubblicazione: “Gli Orsini e i Savelli nella Roma dei Papi.
Arte e mecenatismo di antichi casati dal feudo alle corti barocche europee”, della Silvana Editoriale, a cura di Cecilia Mazzetti di Pietralata, Adriano Amendola, con premesse di Maria Giulia Aurigemma e Mario Alberto Pavone, continua a conservare il suo interesse e il suo fascino su due tra le famiglie più nobili dell’antica Roma.
La maestosa opera si avvale di saggi e contributi di: Elisa Acanfora, Alessandro Agresti, Adriano Amendola, Maria Giulia Aurigemma, Fernando Bilancia, Simona Carotenuto, Rossana Castrovinci, Marco Cavietti, Tiziana Checchi, Francesca Curti, Gaetano Curzi, Giulia Daniele, Maria Concetta Di Natale, Lorenzo Finocchi Ghersi, Irene Fosi, Lisa Goldenberg Stoppato, Belinda Granata, Riccardo Lattuada, Loredana Lorizzo, Daniele Manacorda, Rosalia Francesca Margiotta, Cecilia Mazzetti di Pietralata, Antal Molnár, Elisabetta Mori, Sibilla Panerai, Francesca Parrilla, Florence Patrizi, Mario Alberto Pavone, Giovanna Perini Folesani, Francesco Petrucci, Paulus Rainer, Donato Salvatore, Lothar Sickel, Laura Stagno, Costanza Stefanori, Alessandro Tomei. Docenti suddivisi tra il Dipartimento di Lettere, Arti e Scienze Sociali dell’ Università degli Studi Gabriele D’Annunzio di Chieti-Pescara e il Dipartimento di Scienze del patrimonio Culturale dell’Università degli Studi di Salerno.
Il volume raccoglie i frutti di un progetto triennale di ricerca ad ampio raggio sulle due famiglie, in dialogo con studi limitrofi sull’argomento e a confronto con altre realtà italiane.
Partendo dalla nota esplicativa, pubblicata all’interno del poderoso volume, è facile comprendere che si incontreranno, soprattutto, personaggi abituati ad essere “severi uomini d’arme, instancabili viaggiatori, accorti diplomatici, mecenati alla ricerca di visibilità, appassionati collezionisti in instabile equilibrio tra matura consapevolezza intellettuale, antica protervia e progressivo indebolimento politico e finanziario: nel passaggio di alcune generazioni gli Orsini e i Savelli, due delle famiglie baronali romane tra le più antiche, si trovano a dover mutare da feudatari a uomini di corte, da signori arbitri del destino delle proprie terre ad attori, a tratti protagonisti, nel gioco delle corti sul più vasto scacchiere europeo”. Committenze laiche ed ecclesiastiche, collezioni d’arte, pubblicistica e storiografia trovano spiegazione nella ricostruzione del contesto storico e familiare in un lungo arco cronologico, grazie ai risultati di un’accurata indagine sulle fonti d’archivio e sulle opere.
Nel volume si tratta di architettura, di dipinti ed affreschi, di arazzi e argenterie, di libri, stampe, reliquie e curiosità, secondo una lettura che tiene saldo il filo delle vicende familiari nello specchio del tempo come chiave per comprenderne le ragioni e le dinamiche, procedendo per cerchi concentrici, da Roma ai feudi, dall’Italia alle grandi corti europee. Un volume valido, interessante, non solo da conservare nelle proprie biblioteche, ma da leggere per arricchirsi culturalmente, storicamente ed artisticamente, vista la grande mole di immagini e di una sezione di tavole a colori.
Uno sforzo editoriale in cui sono concentrate le migliori e maggiori firme di studiosi e di esperti che si sono avvalsi e si sono confrontati e cimentati, mettendole in luce ed in evidenza, con una quantità enorme e vistosa di fonti bibliografiche ed archivistiche. Un’opera completa, che spazia tra mondi lontani, ma vicini. Tra mondi, ormai, distanti e distinti nell’armonia e nell’economia di un unicum che si è fatto storia. Che è storia vivente, visto che i casati di che trattasi sono ancora in auge e assicurano una loro presenza ereditaria e di discendenza nella contemporaneità dei nostri giorni, nell’attualità del mondo presente.
Gli Orsini e i Savelli, così come è facile evincere da alcuni capitoli del testo, sono due famiglie, spesso anche in rivalità tra di loro, che si espandono e si ramificano fino ad arrivare, i primi, partendo da Roma, ma spingendosi oltre il Lazio, fino a raggiungere l’Abruzzo, la Puglia, la Campania e la Basilicata, passando, attraverso ducati, principati e contee a Vicovaro, Bracciano, Tagliacozzo, Gravina in Puglia, Taranto, Napoli, Solofra e Muro Lucano; i secondi, oltre Roma, nei Colli Albani, toccando le terre di Ariccia, Albano Laziale, Rignano, Palombara e Celano.
Il quadro completo sul Casato Orsini, sulla sua forte influenza che ebbe, anche, all’interno della Chiesa, è quello che si ricava dalla presenza di numerosi cardinali e ben tre papi provenienti o discendenti dal complesso albero genealogico: Celestino III, al secolo Giacinto di Pietro di Bobone (Roma, 1106 circa – Roma, 8 gennaio 1198), facente parte di un ramo di una nobile famiglia romana dalla quale discesero gli Orsini; fu il 175º papa della Chiesa cattolica dal 1191 alla morte.
Governò la Chiesa per sei anni, nove mesi e nove giorni e morì l'8 gennaio 1198; Niccolò III, ovvero Giovanni Gaetano Orsini (Roma, 1216 circa – Soriano nel Cimino, 22 agosto 1280), è stato il 188º papa della Chiesa cattolica dal 1277 alla morte; Benedetto XIII, nato Pietro Francesco Orsini, a Gravina in Puglia, in provincia di Bari il 2 febbraio 1650, papa dal 1724 al 21 febbraio del 1730.
La famiglia Savelli, dal canto suo, non fu da meno nell’ambito della storia della Chiesa. Vanta, infatti due sommi pontefici, Onorio III, nato Cencio Savelli (Albano, 1150 circa – Roma, 18 marzo 1227), è stato il 177º papa della Chiesa cattolica dal 1216 alla sua morte e Onorio IV, il 190º papa della Chiesa cattolica dal 1285 alla sua morte, avvenuta il 3 aprile 1287, (altri tre papi, San Benedetto II, San Gregorio II ed Eugenio II, vissuti tra il VII e il IX secolo.
Giuseppe Massari
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VATICANO, NUOVA ILLUMINAZIONE PER LA "PIETA'" DI MICHELANGELO
Un'illuminazione mai vista prima e che consegnerà agli occhi del mondo la piena bellezza della "fede di Michelangelo": la Pietà. L'opera scultorea conservata nella Basilica di San Pietro e realizzata tra il 1497 e 1499 da un giovanissimo Buonarroti, all'epoca ventenne.
Il Cardinale Angelo Comastri, presidente della Fabbrica di San Pietro, arciprete della stessa Basilica e vicario generale di Sua Santità per la Città del Vaticano e per le Ville Pontificie di Castel Gandolfo, così commenta l’evento:
“La nuova illuminazione, curata anche da un punto di vista scientifico, permette di ammirare e meglio comprendere il valore universale dell'opera di Michelangelo. La ‘Pietà’ infatti è la fede di Michelangelo scolpita sul marmo.
L'Artista ha voluto evidenziare nel volto giovane di Maria un messaggio sempre attuale: evitare il peccato è l'unica vera cura di bellezza e di perenne giovinezza. L’opera, adesso, si può godere di più”.
Pietro Zander, dirigente dell’Ufficio di conservazione e restauro della Fabbrica di San Pietro, sottolinea l'importanza del “fattore luce”. “Michelangelo l'aveva pensato attentamente, con valori di illuminazioni molto bassi, levigando accuratamente le superfici marmoree in modo che poche candele potessero far risplendere il gruppo marmoreo. È la prima volta che la Fabbrica di San Pietro la illumina con un’attenzione così alta”.
Oltre alla sostituzione dei precedenti apparecchi con altri che utilizzano sorgenti LED di ultima generazione, il nuovo intervento illuminotecnico utilizza soluzioni compatte dal minimo ingombro visivo con tonalità bianco calda (pari a 3000 K) ad altissima resa cromatica.
L’azienda iGuzzini Illuminazione ha messo a disposizione un sistema di corpi illuminanti, suddivisi in gruppi di accensione, che possono essere regolati in intensità luminosa per consentire di declinare il progetto illuminotecnico nei diversi scenari luminosi.
Nello “scenario nord” (scultoreo) la luce si concentra sulla scultura, mentre pavimento, soffitto e sfondo sono illuminati al minimo. Non si percepisce una direzionalità prevalente; vi è invece un equilibrio di chiaroscuri che restituisce la plasticità dell’opera e consente soffermarsi sia sul singolo dettaglio sia l’armonia dell’insieme. Nello “scenario est” (taglio di luce), un fascio di luce illumina di taglio la Pietà. La direzione di incidenza è evidente, le ombre marcate. La pacata illuminazione delle volte e dello sfondo incorniciano l’intero gruppo marmoreo. Fasci luminosi dei proiettori frontali, con diversi gradi di dimmerazione; volte e pavimento quasi oscurati.
Nello “scenario sud” (piena luce) tutti gli apparecchi sono accesi. La scultura è assolutamente folgorante e diventa essa stessa fonte di luce, le volte e il pavimento hanno un illuminamento leggermente minore poiché tutto è concentrato nella fascia in cui c’è la scultura.
La luce della volta centrale, delle arcate e delle volte laterali è più sostenuta. Infine nello “scenario ovest” (quotidiano) l’illuminazione è pensata per il pellegrino o visitatore della Basilica che fruisce dell’opera attraverso la vetrata di protezione. Per questo motivo essa è frontale: i fasci di luce si incrociano così con angolazioni simmetriche per restituire allo spettatore la plasticità dell’opera.
La volta centrale è illuminata uniformemente, mentre le arcate e le volte a botte laterali ricevono una luce di intensità inferiore. |
Giuseppe Massari
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PIERO DORIA, UN NUOVO- VECCHIO LIBRO SUL CARDINALE VINCENZO MARIA ORSINI OP
Uscito di di stampa nel luglio 2018, per i tipi della TAU editrice di Todi, è in distribuzione, questi giorni, un libro di Piero Doria, Officiale dell’Archivio Segreto Vaticano, storico della Chiesa dell’età moderna e contemporanea: “Il governo spirituale del card. Vincenzo Maria Orsini OP Vescovo di Cesena (1680 – 1686)”.
All’interno del testo, nella parte relativa alla presentazione, è possibile apprendere che l’autore è, tra l’altro, “perito della Commissione storica nella causa diocesana per il processo di beatificazione e canonizzazione del servo di Dio Vincenzo Maria Orsini- papa Benedetto XIII”.
Al di là del titolo del volume, che aveva suscitato in me molte aspettative, soprattutto sulla scorta di nuovi e più aggiornati documenti, che pensavo fossero emersi sulla figura del porporato e papa gravinese, ho dovuto prendere atto che tutte le mie attese sono andate puntualmente e completamente deluse, perché nello scorrere le pagine ho scoperto che non si trattava di un inedito, ma la copia fedele di quanto già pubblicato precedentemente all’interno della collettanea : “Benedetto XIII. Studi e testi, Adda Editore, Bari 2017”. sotto un altro titolo: “Il card. Vincenzo Maria Orsini OP Vescovo di Cesena (1680-1686), con l’aggravante, però di incorrere in una mancanza di deontologia professionale e in presenza di una disonestà intellettuale; cioè il di non aver scritto o precisato, per esempio: che tale pubblicazione ha già visto la luce, come contributo all’interno della collettanea..”.
Ovviamente, ogni autore è libero di comportarsi come crede, anche, a volte, di essere incurante e scorretto nei confronti del pubblico di lettori a cui la pubblicazione è rivolta.
Sorvolando su questo aspetto, ritenuto da me non marginale all’interno di una recensione, e ritornando al già pubblicato testo, mi pare doveroso sottolineare il fatto che, “la nuova edizione” poteva essere l’occasione per pubblicare nuovamente il testo della “Relazione ad limina presentata dal card. Vincenzo Maria Orsini, arcivescovo-vescovo di Cesena Roma, 31 maggio 1684 (Documento manoscritto). Archivio Segreto Vaticano Congr. Concilio, Relat. Dioc.,Caesenaten. 163/A, ff. 145r-158v [145r] DUPLICATUM”, ma non nuovamente e solo in latino, ma che, almeno si fosse proceduto alla traduzione in italiano.
Se la gente non legge, legge poco e non si fa nulla per invogliarla, per incoraggiarla ma, anzi, indisporla, mi si vuole dire e mi si vuole spiegare, perché si pubblicano libri? Per inserirli, oltreché nelle proprie credenze, chiamate biblioteche domestiche, anche e soprattutto nelle proprie credenziali, nei propri curriculum?
Se il latino, oggi, non lo parlano e non lo comprendono neanche i preti, gli ecclesiastici in genere, come si può pretendere che lo mastichino i comuni mortali chiamati lettori?
Mi viene da pensare che neanche l’autore abbia dimestichezza con la lingua dei romani, se ha lasciato il testo inalterato e non ha pensato neanche di affidare la traduzione a qualche esperto o a qualcuno che ne sapesse più di lui.
Purtroppo, i limiti di quest’opera, sia in versione originale, che in quella di più fresca circolazione sono molti. Sono evidenti e si riscontrano, ancora di più quando l’autore fa riferimento alle fonti di cui si è servito.
Scrive Doria nella introduzione: “Nel presente volume… ho cercato di ricostruire, attraverso la documentazione presente nell’Archivio Segreto Vaticano, la sua azione di governo durante il periodo in cui fu vescovo di Cesena”.
In realtà, mentre gli occhi si addentravano sempre di più nella lettura, era difficile che essi non scorgessero la mole di testi a stampa, inseriti in appendice, e conservati presso la Biblioteca Vallicelliana di Roma.
Sicchè non solo l’Archivio Segreto Vaticano, luogo presso il quale l’autore lavora e del quale ha voluto esaltarne l’importanza, ma anche una Biblioteca, una delle più prestigiose della capitale, ha contribuito alla ricostruzione del periodo orsiniano nella Chiesa particolare di Cesena.
Perché, dunque, essere stato così fazioso?
Non riesco a rispondere e non è neanche necessario farlo.
Al termine, una sola ed amara considerazione e constatazione al tempo stesso.
Poteva venire fuori un bel lavoro, sia in prima che in seconda stesura. Invece, no. Nulla di nuovo, nulla di originale se non mettere, maldestramente, in risalto la parentesi arcivescovile e cardinalizia dell’Orsini sulla cattedra episcopale di Cesena, facendola passare per positiva, al pari di quella di Manfredonia prima e di Benevento dopo, e che, invece, non fu certamente brillante ed esaltante.
Non solo per le lunghe assenze, a causa di ricorrenti malattie legate al cattivo clima, che colpivano il porporato, quanto per le incomprensioni, i cattivi rapporti intercorsi e intercorrenti con parte del clero, amministratori locali, presidenti di confraternite, sodalizi ed associazioni laicali locali, perché l’Orsini, accortosi di essere giunto in una diocesi in cui il disordine regnava sovrana, sotto tutti punti di vista, cercò di essere, come era nel suo carattere, fermo, deciso, risoluto, duro, intransigente e severo, al solo fine di rispettare e mettere in atto quelli che erano stati i canoni scaturiti dal Concilio di Trento, di cui fu esemplare esecutore e modello pastorale secondo l’ortodossia teologica ed evangelica.
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Giuseppe Massari
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Il Miracolo della Santa Casa di Loreto è un agile volumetto, ricco di un interessante e poderoso materiale iconografico,scritto da Federico Catani, edito dall’Associazione Luci dell’Est, che merita di essere segnalato per la completezza della trattazione, per gli interrogativi che pone e si pone l’autore e per le interessanti conclusioni.
L’autore, nella quarta di copertina, sintetizza il suo lavoro ritenendo che “Loreto ha l’immenso privilegio di ospitare una delle più importanti reliquie della Cristianità: La Santa Casa della Beata Vergine Maria”, quella che Benedetto XIV, papa Lambertini, chiamò “Aula, dove il Verbo Divino prese l’umana carne, trasportata per ministero degli Angeli; così attestano sia gli antichi documenti, e la perpetua tradizione, sia le testimonianze dei Sommi Pontefici, come il comune sentimento dei fedeli e i miracoli che si verificano di continuo”
A proposito dei Sommi Pontefici, più recentemente, scrive Federico Catani, “Pio IX, Papa marchigiano e molto devoto alla Vergine Lauretana che in gioventù, dopo un voto, lo aveva miracolosamente guarito dall’epilessia permettendogli così di abbracciare la vita ecclesiastica, nella Bolla Inter omnia del 1852, scrisse, tra l’altro, che “fra tutti i Santuari consacrati alla madre di Dio, l’Immacolata Vergine, uno si trova al primo posto e brilla di incomparabile fulgore: la veneranda e augustissima Casa di Loreto.
Consacrata dai divini misteri, illustrata dai miracoli senza numero, onorata dal concorso e dall’affluenza dei popoli, stende ampiamente per la Chiesa Universale la gloria del suo nome, e forma ben giustamente l’oggetto di culto per tutte le nazioni e per tutte le stirpi umane”.
Leone XIII, grande devoto del santuario lauretano, nel IV centenario della Traslazione Miracolosa pubblicò il Breve Felix nazaretana, nel quale si trovano scritte le seguenti parole: “Questa Casa, come narrano i fasti della Chiesa, non appena fu prodigiosamente trasportata in Italia, nel Piceno, per un atto di suprema benevolenza divina, e fu aperta al culto sui colli di Loreto, attirò immediatamente su di sé le pie aspirazioni e la fervida devozione di tutti”.
Ancora, la carrellata, scorgendo le pagine del libro, continua con altri papi.
- Pio XI “benedisse una statua della Madonna di Loreto che accompagnò la missione al Polo Nord di Umberto Nobile”.
- Pio XII, “concesse il privilegio di poter celebrare il Santo sacrificio della Messa sull’altare della Santa casa per 24 ore consecutive in occasione del 25 marzo, festa dell’Annunciazione”.
- Giovanni XXIII si recò pellegrino a Loreto il 4 ottobre del 1962.
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Giovanni Paolo II fu per ben cinque volte ai piedi della Madonna. Il 15 agosto del 1993, nella Lettera inviata a in occasione del VII centenario del santuario della Santa casa di Loreto, il Papa polacco lo definì: “il primo Santuario di portata internazionale dedicato alla Vergine e, per diversi secoli, vero cuore mariano della Cristianità”.
Leggendo per intero le pagine del volumetto si ha la conferma che Loreto è un miracolo vivente.
Il libro risponde agli interrogativi di molti, di tanti:
“Come si può dimostrare che le tre pareti sono proprio quelle della casa della santa Famiglia?
Come sono venute da Nazareth in Italia?
E’ stata opera degli angeli o dei crociati?
E la Casa è giunta subito a Loreto oppure ha toccato altri luoghi?
Le risposta sono state fornite da chi, Federico Catani, ha scritto una dedica molto significativa e molto particolare all’inizio delle sue pagine: “Il presente lavoro è offerto in segno di gratitudine alla Madonna e soprattutto in riparazione per i peccati commessi contro i suoi privilegi, nello spirito di quanto raccomandato da lei stessa a Fatima.
Alcune note biografiche sull’autore. Federico Catani è nato a Jesi nel 1986, e, dopo essersi laureato in Scienze Politiche presso la LUISS “G. Carli” di Roma, ha conseguito anche la laurea in Scienze Religiose presso la Pontificia Università della Santa Croce.
Giornalista pubblicista, ha insegnato religione cattolica nelle scuole statali; attualmente, è direttore responsabile di Spunti, dell’Associazione Luci sull’Est, e collabora con diverse riviste e blog del mondo cattolico.
Con p. Florian Kolfhaus ha scritto Il cuore che non ha mai smesso di battere. Perché la Madonna non è morta (Cantagalli, 2016). Vive a Roma. |
Giuseppe Massari
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LORETO, IL "MIRACOLO VIVENTE" DELLA SANTA CASA
IN UN LIBRO DI FEDERICO CATANI
Federico Catani, direttore responsabile di Spunti, dell’Associazione Luci sull’Est”, ha pubblicato “Il Miracolo della Santa Casa di Loreto”, inserendovi una dedica particolare alla “Padrona della Casa”, a Colei che, secondo tradizione, l’ha abitata: “Il presente lavoro è offerto in segno di gratitudine alla Madonna e soprattutto in riparazione per i peccati commessi contro i suoi privilegi, nello spirito di quanto raccomandato da Lei stessa a Fatima”.
È un’opera estremamente completa, un agile volumetto che merita di essere segnalato per la completezza della trattazione, per la ricchezza del materiale iconografico e le interessanti conclusioni. Sulla Casa di Loreto, sulla sua traslazione, sui molti misteri irrisolti, sulle numerose domande e curiosità suscitate, si sono cimentati molti studiosi, molti scienziati senza riuscire a dare risposte convincenti, come ad esempio: è stata opera degli angeli oppure dei crociati? La Casa è giunta subito a Loreto oppure ha toccato altri luoghi?”. Le tre pareti sono proprio quelle della Casa della Santa Famiglia? Come sono venute da Nazareth in Italia?
L’autore, invece, ci è riuscito nel momento in cui ha stabilito e fissato il collegamento diretto fra Loreto e due avvenimenti che hanno profondamente segnato la storia del nostro continente: la battaglia di Lepanto, e l’assedio di Vienna. Sono i due episodi che hanno fermato l’espansionismo turco-musulmano verso occidente, e hanno fatto sì che oggi non preghiamo su un tappetino rivolti alla Mecca. La Madonna di Loreto è stata una protagonista di entrambi questi episodi di grande fede e coraggio cristiani.
In realtà, ci dice l’autore, la teoria del trasporto naturale delle pietre della Santa Casa è frutto del pregiudiziale ed ideologico rifiuto del soprannaturale che caratterizza la cultura moderna e che ha sedotto, ahinoi, anche una parte di quella cattolica: essa, però, è smentita dalle caratteristiche della Casa di Loreto, dalla sua collocazione, dalla circostanza che, a quanto risulta dal loro studio, i muri dell’edificio sono sempre rimasti intatti: elementi che rendono improbabile uno smembramento del manufatto mattone per mattone a Nazareth, e il successivo riassemblaggio nelle Marche.
Catani, inoltre, ricorda che in quella dimora la Madonna è stata concepita, è nata e ha ricevuto l’annuncio dell’arcangelo Gabriele.In quella abitazione è poi vissuta, secondo una antica tradizione, insieme a Gesù e al suo sposo San Giuseppe. E ricordando che nella Santa Casa è probabilmente spirato, tra le braccia della Beata Vergine e di Nostro Signore, San Giuseppe, Catani si augura che essa possa diventare “il punto di riferimento spirituale per la lotta contro ogni legislazione che miri a introdurre l’eutanasia”. |
Giuseppe Massari
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COMUNICANDO LA GIOIA DEL VANGELO - L'ULTIMO LIBRO DEL PASSIONISTA PADRE SALVATORE SEMERARO
Salvatore Semeraro, salentino di origine, per essere nato a Campi Salentina, in provincia di Lecce, si appresta, l’anno prossimo, il 29 giugno, a festeggiare la sue nozze d’oro con il sacerdozio ministeriale come missionario passionista.
Nel corso del suo lungo e fecondo ministero è stato impegnato nella predicazione di Missioni al popolo e nel dettare Esercizi spirituali a sacerdoti, a religiosi, religiose e consacrati secondo lo spirito di S. Paolo della Croce, Fondatore dei Passionisti, nell’ambito della Provincia religiosa pugliese, comprendente anche la Calabria e la Basilicata e fuori di essa. In altri ambiti, per esempio Roma, e ruoli istituzionali che lo hanno visto superiore di comunità, educatore di giovani dediti alla formazione vocazionale passionista.
La sua testimonianza, che si inserisce come piccolo tassello nel grande mosaico della rievangelizzazione compiuto dai Passionisti, è stata racchiusa e raccolta in un volume dal significativo titolo: “Comunicando la gioia del Vangelo”.
Un cammino a ritroso nel tempo, con la gioia di raccontare, di rivivere l’esperienza esaltante di figlio di S. Paolo della Croce, attraverso incontri, rapporti personali con i propri confratelli e con gran parte di popolo di Dio che il Signore gli ha dato la gioia di incontrare.
Il volume, di recente presentato alla presenza dell’Arcivescovo metropolita di Lecce, Mons. Michele Seccia, non è un semplice racconto, ma un voler ancora comunicare, nel senso di voler trasmettere, qualcosa a molti, a tanti, ai figli di Dio incamminati sulle vie della conversione.
Una parentesi di vita, quella raccontata da Padre Salvatore, che diventa parabola esistenziale attraverso, anche, il racconto di aneddoti, di episodi curiosi, di fatti dal sapore umoristico, magari con il tocco di qualche espressione in vernacolo salentino, accaduti o percepiti durante il suo continuo peregrinare.
Uno scritto che si lascia leggere e che non risente dalla pesantezza degli argomenti pure in esso contenuti. L’autore, non nuovo a questo tipo di esperienze editoriali, per aver dato alle stampe, tra l’altro,: “Passionisti di Puglia, Calabria e Lucania 1905 – 2000”; “Un paese un convento”, 2001, riguardo al convento di Novoli, dove attualmente risiede; dai Registri dei Ministeri delle case raccolse notizie e note, pubblicate tra il 2004 e il 2005, sulle Missioni popolari nel Salento e nelle province di Brindisi e Taranto; in preparazione al centenario della consacrazione della chiesa di Novoli, pubblicò, nel 2006, il volumetto “Una casa per Dio”, a conclusione della presentazione del nuovo volume, scrive:
”Quale l’utilità di questo racconto? Solo offrire un piccolo spaccato di un protagonista di portata minore di quella grande storia della evangelizzazione scritta in cento anni di presenza apostolica dei Passionisti nel nostro territorio”.
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Giuseppe Massari
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A MONTEVERGINE LA M0STRA "FEDE E DEVOZIONE NELL'ARTE MINORE DIMENTICATA" CON TESORI DI CULTO RECUPERATI DAI CARABINIERI
Tesori di culto, oggetti liturgici espressione dell’arte minore dimenticata, che sono state trafugate e nel corso degli anni, dopo minuziose ricerche, a volte anche senza riscontro di relative denunce, recuperate. Sono 130 le opere di natura liturgica: reliquiari, ostensori, calici, crocifissi…, in mostra nel salone del Capitolo dell’abbazia di Montevergine (Avellino). Sono beni recuperati nel corso dell’operazione denominata “Start-Up”, condotta dai Carabinieri TPC di Napoli, coordinata dalla Procura di Isernia, finalizzata allo smantellamento di un sodalizio criminale, operante in varie regioni italiane, dedito al furto ed al traffico illecito di beni culturali di natura ecclesiastica.
L’esposizione, dal titolo “Fede e devozione nell’arte minore dimenticata”, inaugurata alla presenza dell’abate di Montevergine Riccardo Luca Guariglia, del Procuratore della Repubblica di Isernia, Dottor Paolo Albano, del Comandante dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale (Tpc), Generale di Brigata Fabrizio Parrulli, del Prefetto di Avellino, Maria Tirone e del direttore dell’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici della CEI, don Valerio Pennasso, è la prima nel suo genere e raccoglie, tutto ciò che i Carabinieri sono riusciti a recuperare.
La mostra, non sarà solo occasione per far conoscere questi pregevoli tesori artistici, ma darà anche la possibilità di scoprire da dove sono stati trafugati, così da restituirli ai legittimi proprietari. Si tratta infatti di manufatti di cui ancora oggi non si conosce la provenienza. Per questi motivi, è una mostra di cui non si conoscono i termini legati alla loro conclusione. Anzi, lo scopo importante, principale essenziale, soprattutto per gli investigatori, che continueranno le loro operazioni di indagini, è “smantellare” la mostra quando ci saranno tutte le condizioni per far rientrare ai legittimi proprietari il maltolto. “Uno scrigno all’interno di un altro scrigno”., ha definito la mostra il padre Abate di Montevergine.
Il Procuratore della Repubblica di Isernia si è detto “emozionato per come è iniziata e proseguita l’operazione, nata proprio da un piccolo furto di oggetti di culto in una chiesa di un paesino vicino Isernia. L’indagine si è allargata poi sul tutto il territorio nazionale e le perquisizioni effettuate in ben due anni hanno permesso ai Carabinieri di recuperare un vero e proprio tesoro dal valore immenso. Da ricordare una pala d’altare rubata in Belgio 30 anni fa”. L’importanza e il valore di tali opere è stato sottolineato anche dal Generale Fabrizio Parrulli: “Oggetti dell’arte minore, ma molto belli ed importanti e con un grande valore dal punto di vista religioso. Verranno custoditi nel Santuario di Montevergine e mostrati al pubblico, tra questi ci sono ostensori risalenti anche al XV secolo e calici di grande valore storico. Questa mostra è stata allestita anche per dare possibilità di individuare i proprietari legittimi di queste opere che devono continuare a vivere e non solo essere esposte”
Il Prefetto di Avellino ha ringraziato i Carabinieri per “l’elevatissima qualificazione che hanno raggiunto recuperando opere d’arte in tutto il mondo. La conservazione del patrimonio artistico, ha poi aggiunto, non ha solo valore economico, ma soprattutto storico e culturale e bisogna investire sempre più nella cultura di un territorio. Questa iniziativa avvicina il cittadino alla bellezza delle opere d’arte, anche quelle di minore importanza ma comunque di grande fascino. Creando, così, ulteriore conoscenza”
La mostra temporanea, sarà aperta al pubblico dalle 9.30 alle 12.30 e dalle 15 alle 17 (dal lunedì al venerdì), mentre sabato e domenica l’apertura sarà fino alle 18.
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Giuseppe Massari
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L’ ULTIMA FATICA EDITORIALE DI MARINO MENGOZZI "VINCENZO MARIA ORSINI, FUTURO BENEDETTO XIII, VESCOVO DI CESENA (1680-1686)
- IL DIARIO E LA RELATIO AD LIMINA (1684)
Una città piccola che però annovera negli annali della sua storia ben quattro papi, o che comunque è stata trampolino di lancio per quattro pontefici della chiesa cattolica di cui due nati da famiglie cittadine e gli altri che ne ressero la diocesi prima di accedere al soglio papale.
È questo il caso di Benedetto XIII (1650-1730), che al secolo rispondeva al nome di Pietro Francesco Orsini e da frate domenicano prese il nome di Vincenzo Maria.
Nato a Gravina in Puglia, dopo aver guidato la diocesi di Manfredonia, la vecchia Siponto, dal 1675 al 1680, successivamente quella di Cesena per circa sei anni, dal 1680 al 1686, divenne il 245° successore di Pietro nel 1724, dopo essere stato per ben 38 anni arcivescovo di Benevento: dal 1686 al 1724.
Di lui in città resta ben poco. La storia ha difeso tre sue epigrafi. “In tutti i lavori che si sono succeduti nel tempo molte lapidi sono andate perse.
Una, seppur indiretta perché voluta dal suo successore, è stata ritrovata dagli archeologi dietro la cattedrale in piazza della Libertà, utilizzata per tappare un buco. Restano anche l’affresco collocato nella cappella privata oggi nello studio del vescovo, il fonte battesimale e lo stemma in noce intagliato e intarsiato al centro del Coro andato distrutto”.
A dichiararlo è stato il professore Marino Mengozzi, direttore dell’Ufficio di Arte sacra e Beni culturali della diocesi, nonchè vicepresidente del Comitato scientifico della Malatestiana, che, nei locali della Curia, assieme al vescovo Douglas, ha presentato la sua ultima fatica editoriale: “Vincenzo Maria Orsini, futuro Benedetto XIII, vescovo a Cesena (1680-1686). Il Diario e la Relatio ad Limina (1684) (Società di Studi Romagnoli 2018, pp. 252).
Il 24 febbraio 2017 si è chiusa l’inchiesta diocesana sulla vita, le virtù eroiche e la fama di santità del Servo di Dio Benedetto XIII (1724-1730), il cosiddetto “quarto papa” per la città malatestiana. Dopo Pio VI (Giovanni Battista Braschi, 1775-1779) e Pio VII (Barnaba Chiaramonti, Gregorio nella religione benedettina, 1800-1824, entrambi nativi di Cesena, e Pio VIII (Francesco Saverio Castiglioni, 1829-1830), nato a Cingoli nelle Marche il 20 novembre 1761, vescovo di Cesena dal 1816 al 1822.
Supportato dalla nuova documentazione e alla luce di due importanti testi pubblicati integralmente: il Diario delle funzioni pontificali fatte nel Vescovado di Cesena e la Relatio ad limina Apostolorum del 1684, e con il sostegno di un ricco apparato di note esplicative, Mengozzi, mette a fuoco l’operosa e intensa attività pastorale e le vicende del suo governo episcopale in terra cesenate, le peculiarità, le premure pastorali e umane di questo vescovo.
Circa i documenti pubblicati integralmente, bisogna evidenziare che, il Diario è stato trascritto, per essere più leggibile e più accessibile, a differenza della prima, che fu stampata anastaticamente, avvenuta nel 1990, a cura di don Giovanni Giordano, bibliotecario, archivista e direttore dell’Ufficio beni culturali della Diocesi di Benevento.
La Relatio, invece, che, per la prima volta ha visto la luce tipografica, è stata riportata nella sua versione originale, cioè solo in latino, senza l’accompagnamento di una traduzione. Forse, da questo punto di vista, il lavoro è lacunoso e incompleto; forse, anche inutile, considerato che le nuove generazioni, tra laici e preti, non conoscono il latino. Comunque sia, da queste due importanti testimonianze si evince che l’Orsini si prodigò con grande zelo in molteplici opere: indisse missioni cittadine, restaurò la cattedrale, programmò una visita pastorale (non portata a compimento per il sopraggiunto trasferimento beneventano), distinguendosi per abnegazione e carità, cura spirituale del suo popolo, amministrazione personale dei Sacramenti, predicazione assidua, fervida devozione mariana, visita di tutte le realtà ecclesiali, stile di vita austero, semplicità e povertà nel vestire, parsimonia nei cibi, rigorosa regola di vita, straordinaria generosità e assidua nonché concreta attenzione ai poveri e agli ammalati. Ed è quanto basta per contribuire alla proclamazione ufficiale della santità del nostro.
Benedetto XII a Cesena
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Giuseppe Massari
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UN PROGETTO PER VALORIZZARE I LUOGHI DI SANTA GIACINTA MARESCOTTI
Si chiama Luoghi Giacintiani – Un percorso di fede, storia, arte ed è il progetto che vuole riproporre la figura di Santa Giacinta Marescotti attraverso un itinerario che consenta di andare fisicamente sui suoi passi nei luoghi da lei vissuti e abitati.
L’ideatore è l’architetto Giovanni Cesarini. Prima che l’architetto Cesarini illustri il progetto, attraverso alcune sue dichiarazioni, forse è bene presentare la santa in questione, attraverso la sua biografia.
Giacinta Marescotti (Vignanello, 16 marzo 1585 – Viterbo, 30 gennaio 1640), al secolo Clarice Marescotti, è stata una religiosa italiana appartenente al Terzo Ordine francescano. È stata proclamata santa da papa Pio VII nel 1807.
Figlia del conte Marcantonio Marescotti e di Ottavia Orsini, contessa di Vignanello (il cui padre aveva realizzato il Parco dei Mostri di Bomarzo), studiò, assieme alle sue due sorelle Ginevra e Ortensia, al monastero di San Bernardino a Viterbo.
Al termine degli studi Ginevra rimase in convento e prese il nome di Suor Immacolata.
Membri di una famiglia assai potente illustre (che amava far risalire la propria origine ad un certo Mario Scoto, leggendario scozzese alleato di Carlo Magno nella guerra contro i Saraceni, Clarice e Ortensia furono introdotte nelle migliori case. Clarice era molto attratta dal giovane Paolo Capizucchi ma egli chiese la mano della sorella minore Ortensia. Clarice ne rimase sconvolta e dopo qualche settimana decise di raggiungere la sorella Suor Immacolata a San Bernardino.
Lì prese i voti adottando il nome di Suor Giacinta. Fu una conversione soltanto esteriore: in convento suor Giacinta tenne atteggiamenti contrari alla disciplina della devozione. Anziché vivere in una cella, si fece arredare un intero appartamento nello stile delle sue stanze a Vignanello, ed era servita da due giovani novizie
Condusse vita mondana e licenziosa fino al 1615, quando, in seguito ad una malattia, entrò in una crisi spirituale: si ritrovò sola e gridò forte “O Dio ti supplico, dai un senso alla mia vita, dammi la speranza, dammi la salvezza!“. Era profondamente sincera e Dio la ascoltò.
Il giorno dopo venne a trovarla il Padre confessore, che però le negò l’assoluzione, la notte seguente Suor Giacinta trascorse l’intera notte pregando, e provò una serenità ultraterrena. Si convertì e si diede ad esercizi di penitenza e di perfezione cristiana. Dedicò il resto della sua vita ad aiutare il prossimo.
Dall’interno della clausura, moveva le fila di una fitta rete di aiuti ai poveri di Viterbo, e aiutata dal cittadino Francesco Pacini fece nascere una confraternita laicale, detta dei Sacconi, col fine di elemosine e di soccorsi ai poveri.
Il corpo è esposto nella chiesa del Monastero di San Bernardino, a Viterbo, comunemente nota come Chiesa di Santa Giacinta.
Fu beatificata dal Papa Benedetto XIII nel 1726 e proclamata santa dal Papa Pio VII nel 1807. La sua festa cade il 30 gennaio ed è compatrona di Vignanello insieme a San Biagio.
Per ritornare al progetto, giusto dare la parola all’architetto Giovanni Cesarini. “Il 30 gennaio 2018 ricorreva la celebrazione del 210 anniversario della canonizzazione di Santa Giacinta Marescotti. Una figura attuale non solo per la sua forza spirituale quanto per la sua dedizione nell’aiuto dei deboli. Soprattutto si impegnava per il bene delle persone e per il bene della sua città in modo disinteressato in un periodo storico dove erano oggettive le difficoltà che si dovevano affrontare.
Una storia particolare che il progetto dei Luoghi Giacintiani vuole raccontare con la forte testimonianza che ancora oggi trasmettono i luoghi dove ha vissuto la Santa, grazie alla collaborazione delle Clarisse del Monastero di San Bernardino e della Famiglia Ruspoli”.
Il progetto si sviluppa in un duplice aspetto: quello spirituale, dei luoghi interni al Monastero di San Bernardino di Viterbo, in Piazza della Morte, e quello culturale, legato al recupero degli spazi vissuti dalla Santa e delle opere d’arte che ne hanno testimoniato la presenza e le gesta. In particolar modo si integra nella promozione territoriale che fa parte del “turismo evangelizzato”, come è solito definirlo il vescovo di Viterbo Lino Fumagalli.
L’intervento, nel suo complesso, prevede: le seguenti ipotesi di lavoro: Aromateria: è il luogo all’interno del Monastero di S.Bernardino, dove è morta Santa Giacinta e in cui è stato innalzato l’altare consacrato da papa Benedetto XIII nel 1726 in occasione della sua Beatificazione. L’Aromateria non era altro che una parte della spezieria del monastero da cui derivano tutte quelle ceramiche da farmacia che da diversi anni ogni tanto spuntano sul mercato antiquario italiano. La spezieria si trovava al piano terra in contatto con l’esterno, poiché era aperta a tutti che vi ricorrevano per medicamenti e preparati di erbe. La spezieria era anche utilizzata quale infermeria per le suore malate ed è per questo che Giacinta in fin di vita vi fu trasferita dalla sua cella e vi trascorse le ultime sue ore terrene.
L’Aromateria si compone di due stanze, una l’infermeria vera e propria, decorata con pitture alle pareti, l’altare, la pala dipinta da Labruzzi, l’altra più scarna, senza decorazioni, ma con un accesso su un cortile esterno. Il progetto prevede di rendere queste due stanze accessibili dall’esterno del monastero passando dal cortile posto su via Pietra del Pesce, creando così un ingresso distinto dagli spazi della clausura. Le due stanze debbono essere oggetto di restauro, con lievi interventi sulle pitture e sui soffitti lignei, sostituzione degli infissi, creazione dell’impianto elettrico dotato di un sistema di allarme, antintrusione e di adeguati corpi illuminanti.
Il dipinto del Labruzzi, ora conservato in altre stanze del monastero, va ricollocato sull’altare mentre sulle pareti dell’altra stanza prive di pitture, possono essere disposti i quattro medaglioni in cartone dipinto, che ornavano la chiesa del monastero nel 1727 in occasione della festa della Beatificazione di Giacinta. Completano l’allestimento due teche in cui conservare alcuni oggetti appartenuti a Giacinta, assieme ad una delle sue lettere autografe. Un sistema informativo con pannelli didattici e sistemi audiovisivi digitali, fornirà notizie sulla vita e le opere della santa.
Con questo recupero i luoghi Giacintiani offrirebbero al fedele, ma anche al turista o allo studioso, la visita all’Aromateria, un ambiente permeato di spiritualità e quiete, in cui iniziare a rivivere i luoghi di Giacinta, integrando così la visita alla chiesa dove è conservata l’urna con il corpo della Santa. Cella della penitenza: nella parte più alta del complesso del monastero che si affaccia su via Pietra del Pesce, si trova nel sottotetto questa cella.
E’ composta da due stanze, di cui una con soffitto a volte, ed è conosciuta come la cella della penitenza poiché Giacinta vi si ritirava in preghiere e penitenza. Su una parete si vedono ancora le tracce di sangue derivate dalla flagellazione che la santa si procurava durante le sue penitenze. La divisione con l’amministrazione comunale di Viterbo, negli anni ottanta del novecento, del complesso del monastero in due parti ha fatto si che la susseguente ristrutturazione dei locali di proprietà comunale, nel cui volume si trova la cella, chiudesse l’ultima (e unica) scalinata di accesso alla stessa. Difatti oggi la cella rimane completamente inaccessibile, se non mediante una scala dei vigili del fuoco.
Il progetto prevede che utilizzando l’ingresso posto nel cortile della piazza di San Carluccio, si possa riaprire l’ultima rampa di scale e consentire di rendere visitabile tale luogo. I locali non necessitano di particolari lavori, se non di un miglioramento dei corpi illuminati e il posizionamento di discreti sistemi audiovisivi digitali e didattici che non inquinino visivamente questo luogo così carico di raccoglimento e spiritualità. Rendere accessibile la cella della pnitenza rappresenterebbe il completamento del percorso dei luoghi Giacintiani nel monastero, ma sopratutto consentirebbe una immersione totale nella vita di Giacinta in un ambiente rimasto inalterato dalla sua morte.
Orto-giardino e Via Crucis: sin dalla fondazione il monastero ha avuto tra le sue mura l’hortus conclusus, cioè uno spazio di terra dove coltivare le erbe aromatiche utili alla spezieria, le verdure ed i frutti per l’alimentazione della comunità monastica nonché varie specie di fiori. L’orto è rimasto pressoché integro nei suoi spazi ed oggi rappresenta un orto-giardino rinascimentale in pieno centro storico, giunto fino a noi con tipologie di piante già presenti al tempo di Giacinta, quale per esempio il ruscus ipoglossum, meglio conosciuto come la pianta di Santa Giacinta.
Addosso al muro di confine dell’orto si trovano due piccole cappelle che facevano parte del complesso di sette, che insieme ad un tavolo in peperino costituivano il percorso della Via Crucis che Giacinta e le suore compivano nell’orto, probabilmente a partire dalla fine del cinquecento.
Ce lo testimonia un dipinto settecentesco di Francesco Nicolosi, che ci mostra appunto Giacinta con la croce sulle spalle mentre compie la Via Crucis e dove sullo sfondo sono rappresentate le cappelle sopradette.
Le cappelle erano tutte affrescate con figure di santi francescani e scene bibliche, come ben descritte da un prezioso resoconto di Francesco Ventimiglia contenuto nella sua storia di Santa Giacinta edita nel 1695.
Queste semplici cappelle in muratura con tetto a due spioventi non hanno alcuna chiusura frontale per cui le pitture ad affresco ancora presenti sono molto deteriorate ed hanno bisogno di un urgente restauro per evitare la loro definitiva perdita. Analogamente anche le murature hanno bisogno di opere di restauro. Il progetto prevede il restauro delle pitture e delle murature, per consolidare quanto ora esistente.
Tale restauro, persegue l’idea di studiare queste cappelle in modo analitico per poter arrivare alla pubblicazione di uno studio specifico che rappresenti un modo di conservare e valorizzare un bene culturale insieme storico e religioso.
Compiuto il restauro si potrebbe immaginare di consentire, una volta all’anno in un giorno particolare, la visita a gruppi ridotti di persone, di questo orto-giardino e della sua Via Crucis. Ciò significherebbe aprire ai visitatori un importantissimo Luogo Giacintiano, facendogli vivere un momento di grande intensità spirituale che li porti a riscoprire quel delicato rapporto suore / natura nato diversi secoli fa nel monastero di San Bernardino.
A corollario del progetto il fortuito ritrovamento nel monastero di un volume del seicento inerente il processo di Beatificazione di Giacinta, permette una riflessione legata all’ipotesi di una sua pubblicazione. Il volume contiene uno spaccato della vita di Giacinta, con particolari poco conosciuti se non propriamente inediti e notizie sul monastero e sulle suore che lo abitavano. La pubblicazione di parti del volume seicentesco consentirebbe di conoscere lo sfondo in cui si è sviluppata la vicenda terrena di Giacinta e mostrerebbe la vita del monastero e di riflesso di Viterbo, all’inizio del seicento.
Giuseppe Massari
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IL PERCORSO FRANCESCANO DELL'ORSINI CARDINALE E PAPA DOMENICANO
Una contenente il corpo del Beato Giacomo da Bitetto
(Intervento svolto presso il santuario del Beato Giacomo di Bitetto, il 27 settembre scorso, in occasione della presentazione del bassorilievo recentemente restaurato di papa Benedetto XIII)
Pierfrancesco Orsini, in religione frà Vincenzo Maria, dell’Ordine dei Predicatori, sul Soglio di Pietro col nome di Benedetto XIII, fu uomo di intensa e vastissima povertà.
Fu domenicano ma pensarlo francescano non si fa nessuna forzatura, come dimostrerò in seguito; anche perché scorrendo le pagine della storia della Chiesa, si scopre, tra l’altro, che i due ordini già avevano qualcosa in comune: l’essere definiti mendicanti, cioè chiamati a professare il voto di povertà.
C’è di più, ovvero, il forte legame che ha unito Domenico a Francesco, quando erano in vita, consolidatosi nei secoli, anche, tra le due famiglie religiose da essi fondate, e rintracciabile, soprattutto, nella iconografia pittorica ed artistica.
Famosa è la scultura lignea conservata a Santa Sabina, sede dalla Curia generalizia dei domenicani, a Roma; l’affresco custodito nel convento di Santa Maria Sopra Minerva, a Roma, dove i due santi sono stati immortalati in un gesto di abbraccio fraterno. Un’altra testimonianza artistica e pittorica è l’affresco che si trova nel chiostro del convento di Toro, in provincia di Campobasso, dove i due santi fondatori sono raffigurati mentre si abbracciano e stringono nel loro abbraccio anche la Croce .
Su questa stessa scia, su questa consapevolezza si è mosso il cardinale Orsini nel suo intrattenere, con i francescani, rapporti di sana e convinta cordialità, di affetto e di amore verso il poverello d’Assisi e i suoi figli.
Per suggellare questa intima unione tra i due ordini e i loro fondatori, non si può fare a meno di considerare ciò che è storia e tradizione
Infatti, scrive Giovanni Mascia nel suo libro: “Affreschi per il Papa. Arte, fede e storia nel chiostro e nel convento di Toro”, Palladino Editore, 2008”, “A ricordo di tale venerazione, ancora oggi , a Roma, a Santa Maria della Minerva, casa generalizia dei domenicani, (in realtà la Curia generalizia dei domenicani è a Roma, presso il convento di Santa Sabina, all’Aventino), dove, comunque è sepolto papa Orsini, nel giorno della festa di San Domenico, è il Generale dei frati Minori a celebrare la messa solenne in onore di San Domenico”.
Fatta questa necessaria e doverosa premessa, è giusto inoltrarsi nella conoscenza di quello che è stato il percorso francescano del cardinale e papa domenicano.
Durante la sua lunga esistenza, frà Vincenzo Maria Orsini, morì, infatti, il 21 febbraio del 1730, all’età di circa 81 anni, essendo nato a Gravina in Puglia il 2 febbraio 1650, condusse una vita morigerata e spartana; nel più assoluto nascondimento tra digiuni, penitenze, preghiere.
Da papa volle portare con se i mobili della sua cella di monaco. Letto con materasso di paglia, lenzuola di lana, una sedia di paglia, un inginocchiatoio e alle pareti attaccate immagini di santi riprodotti su carta. Non smise mai l’abito di san Domenico, che aveva indossato, per la prima volta, all’età di 17 anni, presso il convento di san Domenico di Venezia.
Nel suo peregrinare, come arcivescovo, per le diocesi di Manfredonia, Cesena e Benevento fu servo umile verso gli ultimi; dedito al culto divino dei santi e della Vergine, per la quale scrisse i cento Sermoni sopra la Vita della Beata Vergine Maria, predicati, ogni sabato, nella Chiesa metropolitana di Benevento.
Fu proprio durante questo episcopato, durato 44anni, se si considera che conservò quella cattedra vescovile anche da papa, che esercitò al meglio la sua devozione per Maria ed ebbe una particolare predilezione per i francescani, recandosi puntualmente, sistematicamente, ogni volta che si allontanava o faceva ritorno nella città sannita, al Santuario di Santa Maria delle Grazie, retto dai Francescani Minori.
In questa chiesa, scriverà nel suo diario, il 2 aprile 1707, di voler: “essere, dopo morte, collocato per pavimento dell’ultimo scalino dell’Augusto trono della Sovrana”, non immaginando che la Provvidenza disporrà diversamente, cioè collocandolo al vertice della Chiesa universale.
Qui, a proposito dei diari orsiniani è giusto aprire una parentesi d’approfondimento. Il francescano minore padre Davide Panella ha pubblicato, nel giugno 2000, attingendo dai questi preziosi e personali scritti, un testo: “Visite del cardinale e papa Orsini alla Madonna delle Grazie di Benevento”.
Un itinerario nel tempo, che ripercorre, dal 1686 al 1729, tutte le tappe “mariane” e “francescane”, potremmo definirle così, dell’ Orsini arcivescovo prima e papa dopo. A questi diari è giusto riservare, anche, una curiosità riportata da don Giovanni Giordano, sacerdote colto di Benevento, archivista e bibliotecario, amante, studioso e cultore dell’episcopato beneventano di frà Vincenzo Maria Orsini, nel testo:
I primi diari beneventani del cardinale Vincenzo Maria Orsini, don Giovanni scrive, tra l’altro,: “I diari originali sipontini e cesenati, dei quali da sempre non si ha alcuna notizia, e il gruppo dei diari andati distrutti in una con l’Archivio Arcivescovile di Benevento, a seguito dei dolorosi fatti bellici del settembre 1943.
Di questi ebbero a salvarsi, per un provvidenziale prestito a un religioso francescano, il rev. P. Lodovico Ventura o.f.m. i soli Tomi III (1702 – 1709), IV (1710 – 1716), V ( 1717 – 1720). Dopo questo lungo inciso, è giusto fare ritorno alla casa mariana dell’Orsini.
Fu, infatti, alla Madonna delle Grazie e al suo Divin Figlio che impose, il 1723, le corone d’oro donate dal Capitolo vaticano. In quella stessa circostanza donò la penna d’oro con la quale aveva scritto i Sermoni Mariani.
Durante gli anni della sua permanenza a Benevento, il cardinale domenicano conobbe frà Antonio Da Olivadi, dell’Ordine dei Minori Cappuccini, uno dei tanti predicatori intervenuti nel corso delle numerose missioni indetta dal futuro Benedetto XIII.
Racconta Lodovico Da Olivadi, biografo di frà Antonio che: “il rapporto tra l’arcivescovo e frà Antonio divenne affettuoso e personale al punto che l’Orsini, come atto di stima e di fiducia, ebbe a destinare, con suo editto del 17 luglio 1692 “il Molto Reverendo Padre frà Antonio dell’Olivadi dell’Ordine dei Minori Cappuccini, Missionario Apostolico, per la raccolta delle limosine per tutta la Diocesi, à fine di poter compiere la fabbrica della nuova Chiesa di S. Bartolomeo (l’antica basilica era stata gravemente danneggiata dal sisma del 5 giugno 1688), la cui prima pietra era già stata solennemente benedetta il 13 marzo dello stesso anno (Editto per la colletta delle lemosine da impiegarsi nella fabbrica della Nuova Chiesa di S. Bartolomeo in Benevento, copia coeva manoscritta in Liber edictorum ecc…,o.c., ff. 76 r – 76 v).
E ancora con “lettera Patentale”, datata Vitulano, ove trovavasi in santa visita, 15 ottobre 1692, l’illustre arcivescovo nominava, accordandogli anche facoltà vicarie, l’umile cappuccino calabrese missionario apostolico per la sua diocesi e lo premurava, con attestati di sincerera deferenza, a tornare a ripetere il bene già operato “in principio correnti Anni… ad omnes nostrae Pastorali curae subiectos”.
Frà Antonio accoglieva l’invito e tornava a Benevento, ospite ovviamente dei suoi confratelli della Pace, a riprendere la predicazione e a rivedere il suo amico cardinale, il quale aveva concepito per lui “tale stima e divozione, che non solo ammettevalo suo quasi continuo Commensale, quando dovendo celebrare il Concilio Provinciale, il volle uno degli Assistenti, affinchè, colla sua prudenza e santità, e decorasse l’Augusta adunanza, e desse il suo parere nelle cose da decretarsi”.
Scorrendo le pagine della biografia, redatta dal citato biografo, si coglie un aneddoto di carattere profetico: “In tal tempo raccontasi da costantissima fama, che trovandosi il servo di Dio, frà Antonio, (nel 1758 fu introdotta la Causa di Beatificazione), a famigliare discorso col cardinale Orsini, gli augurò, e prenunziò il Sommo Pontificato: a cui il santo Arcivescovo, (levatosi dal petto, ove tener solevalo il Berrettino) disse: “Sarete voi Cardinale, se io sarò Papa”, e glielo porse: a cui Antonio: “Voi sarete Papa, io non sarò Cardinale”. La profezia si avverò in pieno. Il cardinale fu eletto papa, frà Antonio, non potette vedere l’onore della porpora, perché vide la gloria del cielo il 1720, quattro anni prima dell’ascesa dell’Orsini al vertice della Chiesa Universale.
Giovanni Battista da Borgogna, dei Frati Minori, il 26 maggio 1725, in San Giovanni in Laterano, fu ordinato sacerdote dal pontefice Benedetto XIII il quale confidenzialmente gli disse: “Figliuolo, sbrigatevi a farvi Santo!”
Presumibilmente, tra il 1680 e il 1682, l’Orsini, si recò a Bitetto, come è documentato dagli atti del Processo di Beatificazione, per pregare sulla tomba del futuro beato Giacomo.
Nel convento di Toro, in provincia di Campobasso, definita stanza prediletta dell’Orsini, per il suo continuo recarsi, custodito dai Francescani Minori, un tempo compreso nella vastissima diocesi beneventana, sono conservati gli affreschi, fatti realizzare nel chiostro, in onore di Benedetto XIII, per una visita che il pontefice avrebbe dovuto compiere, ma che non ebbe più luogo.
Tra i tanti personaggi affrescati all’interno di questo chiostro, non a caso vi sono i santi francescani canonizzati da Benedetto XIII: Giacomo della Marca e Francesco Solano.
Era il 17 settembre 1724, una data non casuale nella vita e nella storia dell’Ordine francescano. E’ il giorno in cui i figli di san Francesco, per volere di un altro papa domenicano, Benedetto XI, da cui l’Orsini prese il nome quando fu eletto capo della Chiesa universale, celebrano e ricordano l’impressione delle sacre stimmate al loro fondatore.
La cosa insolita e rivoluzionaria, che, invece, avvenne in quella famosa domenica del 17 settembre del 1724 fu che il nuovo papa, sul Soglio di Pietro dal 29 maggio dello stesso anno, non avendo ancora preso possesso della basilica di San Giovanni in Laterano, cioè della sua cattedra episcopale come vescovo di Roma, cosa che avvenne la domenica successiva, si recava presso la basilica dei Santi Dodici Apostoli, affidata alla cura dei Francescani Minori Conventuali, per consacrarla solennemente.
Durante l’Anno Santo del 1725, da lui indetto, confermò tutti i decreti dei suoi predecessori relativi al Terz’ordine francescano. Nel corso di questo Anno giubilare, Benedetto XIII, come riportano le cronache del tempo, “il secondo giorno di agosto andò ad acquistare l’Indulgenza della Porziuncola in Roma nella basilica dei Dodici Apostoli”. Padre Antonio Lucci, Minore Conventuale, beatificato da Giovanni Paolo II nel 1989, che l’Orsini, già da arcivescovo di Benevento aveva conosciuto e stimato, da papa, lo nominò qualificatore e consultore del S. Ufficio, esaminatore del clero dell’Urbe e teologo del Concilio Romano del 1725, indetto in coincidenza con l’Anno Santo, e nel 1729 vescovo di Bovino, consacrandolo personalmente il 7 febbraio di quell’anno. In questa solenne circostanza, ai cardinali intervenuti per l’ordinazione, Benedetto XIII, disse di aver scelto per Bovino un profondo teologo e un grande santo.
Al barone di Bovino, don Inigo Guevara, che alla fine del 1728 pregava il papa di inviare a Bovino un degno successore di Angelo Cerasi, morto all’età di 94 anni anni, Benedetto XIII prometteva un vescovo santo e dotto.
Una parentesi a parte merita il rapporto che il cardinale Orsini ebbe, da arcivescovo di Benevento prima e da pontefice dopo, con i Padri Alcantarini.
Leggendo le pagine del volume di Michele Mariella: “Il Santuario di Capurso nella storia e nella tradizione”, II edizione, Edizione MP Capurso, Tipografia Mezzina Molfetta, marzo 1997, è facile trovare quanto serve al complemento di questa ricerca.
Nella diocesi sannita, il domenicano presule, aveva tessuto e intrattenuto, con la sua incessante azione pastorale, un rapporto continuo e costante con i figli di san Pietro d’Alcantara, visitando i loro conventi, ricostruendo e consacrando le loro chiese e i relativi altari. Da Pontefice fu chiamato a dirimere una annosa vertenza, che riguardava gli stessi frati, sulla mancata costruzione del convento presso il santuario della Madonna del Pozzo a Capurso.
Un lungo contenzioso che fu risolto dopo “che il principe Nicola Pappacoda, con una supplica rivolta a papa Orsini, affinchè la causa per l’erezione del convento degli Alcantarini, ormai accantonata da anni, fosse ripresa in esame. Il Papa la trasmise alla Congregazione del Concilio la quale, come era naturale, chiese le debite informazioni all’Arcivescovo di Bari.
Con certosina pazienza mons. Gaeta compilò una nuova relazione, inviando anche una copia delle altre quattro precedenti che giacevano a Roma. Quando questa Congregazione si rese conto che la causa era stata già esaminata dalla Congregazione dei Vescovi e Regolari, pensò bene di trasmettergliela.
Siamo al 2 luglio 1728. Provvidenzialmente il Papa, che aveva voluto essere informato di tutto, esaminò personalmente i documenti e, osservando le cinque favorevoli relazioni dell’Arcivescovo di Bari, i voti comuni dell’Università, Clero e popolo di Capurso, il consenso di molti altri Comuni dell’Archidiocesi e della maggior parte dei Religiosi residenti entro le quattro miglia, il consumo e di tempo e di denaro in una causa durata quasi tredici anni, con la pienezza della sua Autorità Apostolica, il 31 gennaio del 1729 emanò finalmente il Breve di Fondazione.
In questo Breve, che inizia con le parole “Iniuncti Nobis”, il Sommo Pontefice accenna minutamente ai fatti precedenti e, riconosciuto irragionevole il dissenso degli altri rekigiosi, concede all’Arcivescovo di Bari piena facoltà di procedere alla erezione ed istituzione del nuovo convento in Capurso”.
Tutto questo e non solo questo fu motivo di maggiore stima e simpatia che questa famiglia religiosa seppe riconoscergli. Infatti, frà Casimiro di S. Maria Maddalena, Lettor Teologo, già Provinciale, e Custode attuale della stessa Provincia, autore della “Cronica della Provincia de’ Minori Osservanti Scalzi di S. Pietro D’Alcantara nel Regno di Napoli, Tomo Primo, dedicato alla Santità di Nostro Signore Benedetto XIII, in Napoli per Stefano Abbate, MDCCXXIX”,
Concludendo. Nel corso del suo breve ma intenso pontificato, desideroso di annunciare il Vangelo alle terre lontane, promosse, tra l’altro, le missioni dei francescani in Messico, Perù, Cocincina e Cambogia e dei cappuccini nei Llamos, nel Bengala, nell’Indostan e nel Nepal.
Papa Benedetto XIII, il 1° settembre del 1726 beatificò Giacinta Marescotti, religiosa del Terz’Ordine Francescano.
Canonizzò, tra gli altri, il 10 e il 27 dicembre 1726, rispettivamente Giacomo della Marca e Francesco Solano, dei Frati Francescani Minori.
Il 16 maggio del 1728 canonizzò Margherita da Cortona, del Terz’Ordine Francescano secolare.
Il 24 Maggio, invece, iscrisse nell’elenco dei beati Juan de Prado Díez, dell’Ordine dei Frati Minori. Fedele da Sigmaringa, missionario cappuccino, fu beatificato il 12 marzo 1729.
Questo fu l’uomo di Dio, della Provvidenza; che non agì secondo convenienza ed opportunismo; la cui vita non fu mai coincidenza, ma consolidata certezza di amore per le virtù cristiane.
Giuseppe Massari
Bassorilievo marmoreo di Papa Benedetto XIII |
SULLE TRACCE DEL CARDINAL ORSINI CON GIOVANNI MASCIA
"Sulle tracce del cardinale Orsini, arcivescovo di Benevento, abate di Santa Sofia e papa Benedetto XIII”, Palladino editore, Campobasso, maggio 2017, euro 10, 66 pagine, stampato con il patrocinio dell’Associazione “Amici del Morrutto, è l’ultima fatica di Giovanni Mascia.
Figlio molisano, autentico ricercatore e studioso di storia locale, non nuovo a questo tipo di esperienza editoriale. Nel 2008 dava alle stampe: “Affreschi per il papa. Arte, fede e storia nel chiostro e nel convento di Toro, Palladino editore.
Due testi, che si incontrano, sia pure a breve distanza l’uno dall’altro, nella sfera della continuità, per riportare in luce testimonianze di fede, arte, cultura nel nome e nel segno del domenicano frà Vincenzo Maria Orsini, arcivescovo di Benevento dal 1686 al 1730, abate di Santa Sofia e papa col nome di Benedetto XIII.
Questo ultimo volume, corredato di foto interessantissime, relative alle opere d’arte, la maggior parte del pittore Giuseppe Castellano, donate e fatte realizzare dall’arcivescovo che ebbe la cura pastorale di questi due paesi, perché ricadevano, allora, sotto la sua giurisdizione episcopale, ha avuto il pregio, come il precedente, di aver riportato in vita la memoria offuscata, lasciata marcire sotto la polvere dell’indifferenza, dell’oblio, dell’abbandono.
Per questa fatica, l’autore si è valso della collaborazione di fotografi: Antonio Baratè, Dante Gentile Lorusso, Valentina Marino, che ha curato l’impaginazione e la grafica; Vincenzo Mascia, Pino Ramacciato, Antonio Rossodivita, Franco Valente, e Stefano Vannozzi, che ha curato anche i disegni.
Complessivamente, il testo si snoda lungo gli spazi materiali, fisici, religiosi e temporali del piccolo paese molisano. A San Giovanni in Galdo le tappe storiche descritte passano dal Palazzo Abbaziale alla vecchia chiesa madre, alla chiesa di San Germano, dell’Annunziata e di Santa Maria del Carmine con l’annesso convento.
Toro e San Giovanni in Galdo, in provincia di Campobasso, distano pochi chilometri di distanza l’uno dall’altro. Ognuno con una propria storia, a volte comune, come nel caso della presenza continua e costante, nei due centri, del cardinale Orsini. Una storia, però, fatta anche, di campanilismi, di orgogliose e legittime identità, di invidie e piccole gelosie, come è normale che sia accaduto e accada nei piccoli centri urbani.
Partendo da questa nuda realtà, un merito va ascritto a Giovanni Mascia. Con questo libro ha cercato di mettere insieme le due anime attraverso una proposta lanciata nelle ultime pagine del testo e ripresa la sera della presentazione, mentre erano presenti i due primi cittadini:
“Sarebbe auspicabile che le amministrazioni civili e religiose dei due centri limitrofi di Toro e San Giovanni in Galdo, accomunati da secoli di storia e vicende parallele e dalla figura prestigiosa del cardinale Orsini, individuassero iniziative condivise per rivendicare le peculiarità dei due abitati da identificare come mete complementari di un unico e assai caratteristico percorso di storia e di arte. E di santità, visto che il 24 febbraio 2017 si è conclusa la fase istruttoria del processo che con ogni probabilità porterà finalmente alla beatificazione di papa Benedetto XIII, a quasi trecento anni dalla morte”.
Un’altra proposta, l’autore ha voluto affidare alla sensibilità dei due sindaci convenuti. Intitolare una piazza o una via all’Orsini, che di queste terre è stato benefattore, mecenate. Anche padrone, ma non nel senso possessivo o deteriore del termine, ma di padre attento, diligente, premuroso alle istanze della povertà, della miseria e dei poveri indigenti, vecchi, ammalati, bambini.
Giuseppe Massari |
UNA DUBBIA E DISCUTIBILE COLLETTANEA PER LA SANTIFICAZIONE DI BENEDETTO XIII
“Benedetto XIII Studi e testi”, Adda Editore Bari, 2017, pagine 656, euro 50.00. Una miscellanea sul papa pugliese, gravinese di nascita (Gravina in Puglia – BA -, 2 febbraio 1650 – Roma, 21 febbraio 1730), a cura del Centro Studi Benedetto XIII. Non una nuova biografia, viene precisato nella presentazione, ma una raccolta di relazioni, testi, studi.
Tutto questo, però, a mio sommesso parere, senza un approccio metodologico al personaggio, del quale viene fuori, ancora una volta, una visione molto parziale della sua vita di religioso, di pastore, di mecenate, di benefattore, di presule, di vescovo, cardinale e pontefice, salito sul Soglio di Pietro il 29 maggio 1724.
Tanto è vero e per cominciare, riferito a questi ultimi aspetti dell’arcivescovo e cardinale Orsini viene messo in luce il periodo dell’episcopato sipontino e cesenate e non quello lunghissimo, durato 44 anni, beneventano.
D’accordo che non è voluto essere un volume biografico, ma come si può prescindere da un periodo che è stato significativo, esemplare, emblematico di governo pastorale nella più grande diocesi del Mezzogiorno d’Italia, la Diocesi di Benevento appunto?
Come si è potuto prescindere dal governo pastorale alla guida, sia pur breve, ma intensa, della Chiesa Universale?
Ci si è persi, invece, nei meandri racchiusi nei documenti tratti dall’Archivio della famiglia Orsini, conservati presso l’Archivio Capitolino di Roma, e altri conservati presso l’Università della California di Los Angeles.
Da questi ricchissimi e vastissimi contenitori di storia, sono stati estrapolati i carteggi riferiti al personaggio oggetto della pubblicazione.
Tra il lavoro egregio della ricerca, condotto principalmente solo tra quelle carte d’archivio, della relativa e meticolosa trascrizione di esse, non avendo fatto riscontro una selezione di quelli più importanti, per essere sottoposti a studi mirati ad analisi critiche e ricerche storiche contestualizzate, culturali, anche religiose, antropologiche e sociologiche, mi sembra del tutto inutile e riduttivo lo stesso sforzo compiuto da chi, di mestiere, ha eseguito quello che i committenti curatori hanno voluto o hanno creduto che fosse utile all’economia della intera pubblicazione.
Di contro, a questo errore compiuto dai curatori, cioè quello di fermarsi solo ad alcune stazioni o a stadi particolari della ricerca, se ne è aggiunto un altro Non mettere in luce, in evidenza, non far risaltare e approfondire, l’altro ricco materiale conservato in altri archivi, come ad esempio degli Oratoriani, dei verginiani di Montevergine, dei benedettini di Montecassino, dei Gesuiti, dei Passionisti, dei fratelli delle Scuole Cristiane, dei Premostratensi, dei Carmelitani. Questa stessa carenza la si è potuta notare in altra parte del voluminoso libro.
A proposito dei testi su e di Benedetto XIII trovati in alcune biblioteche di Gravina in Puglia. E’sembrato un lavoro da pantofolai, da chi non si è voluto scomodare più di tanto; un lavoro a tavolino a dimostrazione che non c’è stata una volontà metodologica, razionale convincente nel portare avanti una ricerca di più alto spessore, più completa, più convincente, magari con un minor numero di pagine, ma tutte incentrate su una originalità che ha segnato, invece, la deficienza, la povertà e la miseria, di alcune menti e di alcune persone, sia pure racchiuse, purtroppo, in un quello che è risultato solo un mattone bibliografico. In più.
Questa pubblicazione esce a distanza di quasi 5 anni e mezzo dall’inizio del fase diocesana del Processo di Beatificazione e Canonizzazione del servo di Dio Benedetto XIII, avviata, presso il Vicariato di Roma, il 24 febbraio 2012, a quattro mesi dalla chiusura del Processo diocesano e non viene fatto nessun riferimento alla documentazione prodotta per avviare la Causa di santità dell’Orsini? Quanto è stato fatto nel corso di questi cinque anni e mezzo dal cosiddetto Centro Studi Benedetto XIII?
Si deve ritenere che non sia stato del tutto inattivo e inoperoso, ma perdere cinque anni per mettere fuori un prodotto che non aggiunge e non toglie nulla ad altre ricerche qualificatissime, può suonare solo una offesa alla vita, alla memoria, alla personalità di papa Orsini. Un gigante di santità con o senza aureola. |
Giuseppe Massari |
IL PAPA E LE SUE VESTI
UN NUOVO VOLUME DI MARZIA CATALDI GALLO
“Il Papa e le sue vesti. Da Paolo V a Giovanni Paolo II (1600-2000)” di Marzia Cataldi Gallo, Prefazione di Mons. Guido Marini;
Presentazione di Antonio Paolucci, Edizioni Musei Vaticani
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Città del Vaticano 2016
L’autrice, storica dell’arte, esperta e studiosa di tessuti e, soprattutto di quelli liturgico-religiosi, non è nuova a questo tipo di esperienze editoriali, per aver pubblicato, in passato
“Le vesti dei papi. I parati della sacrestia pontificia. Seicento e Settecento”, Editore De Ferrari, 2011 e “Vestire il pontefice.
Dall'Antico Testamento a Papa Francesco”, Editore Sagep, 2013
Il pregiato e più recente volume, composto da 464 pagine, e 364 illustrazioni a colori, è dedicato ai paramenti liturgici del papa, conservati presso la Sacrestia Pontificia
L’autrice analizza l’importanza dell’abbigliamento e la solenne ritualità delle investiture e illustra dettagliatamente le vesti di tutti i 32 papi che si sono succeduti nell’arco di quattro secoli, dal 1600 al 2000, ponendo particolare attenzione all’evoluzione dello stile.
Ai primi due capitoli, che spiegano l’abbigliamento quotidiano e quello usato nelle celebrazioni liturgiche, il significato dei colori, il rapporto dei papi con gli artigiani, in particolare con i tessitori e i ricamatori, segue il catalogo dei paramenti, diviso per pontificati.
Ogni sezione si apre con la biografia del papa e propone puntuali descrizioni storico-artistiche delle diverse tipologie di vesti da lui indossate – zimarre, mozzette, stole, zucchetti, camauri, mantelle e scarpe –, nonché approfondite schede tecniche con informazioni relative a ubicazione, inventario, misure, stato di conservazione e soprattutto un’esaustiva analisi dei ricami.
Pregevole l’apparato fotografico, che si compone di numerose fotografie a colori, con splendidi dettagli che permettono una visione ravvicinata dei tessuti e soprattutto dei ricami, mettendone in risalto la preziosità e la bellezza.
Giuseppe Massari |
MUSEI INTERROTTI
UN LIBRO DI UGO GELLI
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“Musei interrotti Brandi (e Minissi) in Puglia” è l’ultima fatica editoriale di Ugo Gelli, per i tipi della Manni editore.
Un lavoro a ritroso nel tempo, per offrire il suo contributo di gratitudine a Cesare Brandi lo studioso, il ricercatore, l’archeologo che intuì, precocemente, l’idea di salvare gli affreschi conservati e custoditi nelle chiese rupestri ed ipogee basiliane e bizantine di Puglia, di Basilicata. Possibilmente del mondo intero, per sottrarli alle incurie del tempo, alle manomissioni e trafugamenti selvaggi e clandestini.
Cesare Brandi, sia pure tra critiche feroci, portò avanti il suo progetto e proprio in Puglia mise al riparo gli affreschi della cripta di Santa Maria degli Angeli di Poggiardo e quelli di San Vito Vecchio di Gravina in Puglia, attraverso la tecnica dello stacco.
Certo, il progetto di Brandi era più ambizioso. Staccare, smontare, restaurare e rimontare le stesse opere d’arti in siti istituzionalmente più sicuri.
Infatti, egli, si battè perché fosse costruito o adattata qualche vecchia struttura di interesse storico, un museo nazionale della pittura bizantina, magari a Lecce. Sopraggiunsero, giustamente i campanilismi che inibirono il progetto di Brandi. |
Le opere tornarono ai loro paesi d’origine: qualcuna, come gli affreschi bizantineggianti di Gravina, dopo aver viaggiato in lungo e in largo per l’Europa: a Bruxelles, Atene e Roma, furono posizionati, dove attualmente ancora si trovano, presso la Fondazione Pomarici Santomasi.
Con lo scorrere del tempo e degli anni, se i campanilismi vinsero quella battaglia contro Brandi, altrettanto non si può dire che l’abbiano vinta contro il tempo, contro il degrado. A favore della tutela e della salvaguardia, se è vero, come è vero, che molte di queste opere, sia pure protette, non sono tutelate a sufficienza in termini di conservazione, di ambienti diventati inidonei, perché maltenuti, non curati, non assoggettati alle nuove tecniche ambientali, architettoniche e adeguate norme di sicurezza.
Cripta di Santa Maria degli Angeli, Poggiardo
Come nel caso degli affreschi gravinesi, a detta di esperti e competenti, a seguito di diagnostiche scientifiche effettuate sul finire del 2012, galleggiano sull’acqua, per via delle infiltrazioni di umidità, causate dalla naturalità del manufatto abitativo e per via dell’acqua piovana entrata dalle finestre all’interno della struttura che li conserva.
Nonostante i numerosi gridi d’allarme motivati e giustificati, sulla necessità di interventi conservativi e restaurativi, è sceso il più cupo, il più insensato e il più ingiustificato dei silenzi. Brandi voleva preservare. Qualcuno, oggi, sa solo distruggere, sa solo mandare a monte il lavoro di una persona sensibile, capace, attenta e generosa verso un patrimonio immenso, ricco di bellezza e di storia: sia artistica che paesaggistica.
Madonna, affresco in S. Maria degli Angeli, Poggiardo
Sono i corsi e i ricorsi storici? Non credo. Non direi. Non vorrei pensarlo.
Raffaele Nigro, nel recensire il pregevole lavoro di Ugo Gelli, dalle pagine de La gazzetta del Mezzogiorno del 16 marzo scorso, ha lanciato, giustamente, strali contro le istituzioni, purtroppo, assenti e latitanti, quando si tratta di fare cultura seria. “La politica dorme e non difende questo patrimonio, il denaro degli Assessorati alla cultura e delle emittenti private e pubbliche va ormai alle manifestazioni canore e alla superficialità di un tempo in cui ogni storia deve fungere da richiamo immediato, tra due stili inessenziali, l’edonismo fatuo di Sanremo e di miss Italia e le narrazioni esemplate di Elisa di Rivombrosa e da Montalbano & soci. Conta distrarre e fare audience per i governatori di una stagione.
Cristo Pantocratore di S. Vito vecchio, Gravina
Questo spiega la ragione di un titolo, Musei interrotti, lo scopo civile di un volume che va rimeditato pagina pagina e che non può mancare in casa di chi ama le radici e l’immensa cultura sparsa dai secoli nel nostro territorio”. Sento di condividere appieno e sottoscrivere questo giudizio di Nigro, perchè, attraverso un linguaggio sincero e schietto, rivaluta l’opera preziosa e certosina di Brandi.
Cripta di San Vito vecchio, Gravina
Rivaluta l’opera di Gelli e di quanti hanno ripreso quel cammino per non dimenticare, per non consentire che una nuova storia, più crudele, più selvaggia e più farabutta, cancellasse quella vera, quella dei nostri padri, quella sacra da preservare e privilegiare. Va dato atto e merito a Ugo Gelli per aver ripreso e riportato il dibattito alle sue fonti e radici iniziali.
Conservare, confrontarsi, dialogare, capire, inserire e inserirsi sulla scia di un passato e di un presente che si deve fondere e non confondere con il più inglorioso e incivile passato sull’onta di quelle che possono essere e sono state le manomissioni e alterazioni culturali di un tempo, frutto, certamente, di ignoranza o peggio ancora, unirle alle incurie di quanti oggi, sotto altre forme, sono predatori, vandali , distruttori di testimonianze, peggiori degli iconoclasti di professione.
Giuseppe Massari |
IN TERRA D'ARNEO, APRE IL CENTRO DOCUMENTAZIONE SAN GIUSEPPE DA COPERTINO
Sabato 19 dicembre è stato aperto ed inaugurato il Centro di Documentazione “San Giuseppe da Copertino”.
Uno spazio che racconta la storia di un Santo nato e cresciuto nel Salento, diventato patrimonio comune. Sia a livello regionale che nazionale.
Il Centro, allestito presso il Santuario Santa Maria della Grottella, rientra tra le attività svolte dal GAL Terra d’Arneo nell’ambito del Progetto di cooperazione “Cammini d’Europa: rete europea di storia, cultura e turismo” ed è stato realizzato grazie alla collaborazione tra lo stesso GAL, i Frati Minori Conventuali di Copertino e l’Associazione Amici della Grottella.
Una storia affascinante, quella di San Giuseppe da Copertino, riconosciuto come patrono speciale degli studenti e degli aviatori, che inizia dalla visita ai luoghi della Sua vita confluendo all’interno di questa nuova struttura di studi e ricerche a Lui dedicata. |
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Numerosi gli studiosi e gli artisti che hanno in modi diversi letto ed interpretato la sua figura: un’iconografia vastissima e opere che vanno dalla letteratura al teatro, fino al piccolo e grande schermo.
“È per noi una grande soddisfazione accogliere in Terra d’Arneo questo centro di studio dedicato alla figura di un Santo conosciuto in tutto il mondo e che, grazie al progetto Cammini d’Europa viene inserito di diritto all’interno degli itinerari culturali-religiosi tracciati a livello nazionale, spiega Cosimo Durante, presidente del GAL Terra d’Arneo. “
A supporto del Centro il nostro impegno si è inoltre concretizzato nella pubblicazione di alcuni testi destinati ai ragazzi, oltre che alla realizzazione di un archivio nato per agevolare la raccolta di tutte le testimonianze legate alla vita del Santo e consultabile dal Centro”.
A presentare l’iniziativa insieme al Presidente del GAL Terra d’Arneo Padre Vincenzo Giannelli, rettore dei Convento di Copertino, Fra Michele Pellegrini, ministro Provinciale Frati Minori Conventuali di Puglia, Sebastiano Leo, assessore Regione Puglia e Mons. Fernando Filograna, vescovo della Diocesi di Nardò – Gallipoli. |
LE CHIESE DI SAN NICOLA NELLE CAPITALI EUROPEE
Bari, Basilica di San Nicola
Nelle 36 capitali dell’Europa orientale e in quella occidentale si contano 162 chiese dedicate alla devozione di San Nicola, Santo originario di Myra, antica città situata nell’attuale Turchia meridionale. Il culto e la devozione, nei confronti di San Nicola, santo originario di Myra, un’antica città ellenica, nella Licia in Asia minore, oggi situata nei pressi di Demre, nell’attuale Turchia meridionale è in continuo crescendo dopo che è avvenuta la traslazione del suo corpo dall’Estremo Oriente a Bari, dove viene venerato come santo protettore del capoluogo pugliese.
Nelle 36 capitali dell’Europa orientale e in quella occidentale si contano 162 chiese dedicate a San Nicola. In cinque di queste capitali non c’è alcuna chiesa dedicata al santo; in 17 capoluoghi, invece, quella dedicata a san Nicola è o la chiesa più antica della città o una delle più antiche.
In questo breve e sintetico racconto non va dimenticato ed escluso un particolare molto sorprendente. Non vi sono chiese di San Nicola né nello Stato della Città del Vaticano e né nella Repubblica di San Marino.
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Chiesa di San Nicola, Helsinki
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Ripercorrendo, geograficamente e ipoteticamente, le tappe delle testimonianze della presenza di San Nicola nelle città europee, troviamo Chiese dedicate al Santo ad Inzersdorf, in Austria, a Bruxelles, nel cattolicissimo Belgio, nella Bielorussia, nella città di Minsk.
E ancora nell’Europa orientale, a Sofia, cuore della Bulgaria. Dal canto loro, i ciprioti, a Nicosia, la loro capitale, hanno innalzato, già nel XII secolo, un tempio dedicato a san Nicola.
Troviamo chiese devote al santo anche nel quartiere di Stenjevec di Zagabria nel neonato stato di Croazia.
Anche nella nordica Danimarca, a Copenaghen, vi è traccia di culto nicolaiano. In Estonia, a Tallinn, come pure ad Helsinki, capitale della Finlandia.
Per quanto riguarda le città più prossime ai nostri confini geografici, Parigi, Berlino annoverano tempi dedicati ed innalzati sotto la protezione del santo taumaturgo Nicola.
Tracce storiche, riferimenti documentali fanno riferimento alla capitale ellenica, Atene. Persino nella protestante Dublino, in Irlanda, non mancano riferimenti a luoghi in cui viene esercitato il culto al santo dei baresi.
Per ora fermiamo la tappa del nostro viaggio qui, sicuri di riprenderlo non appena la ricerca continuerà per scoprire e portare alla luce il mistero e il fascino di un culto che travalica terra, confini e cuori, attirando cattolici, cristiani, ortodossi e protestanti. |
Chiesa di San Nicola ad Atene
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AL VIA L'ANNO INNOCENZIANO A SPINAZZOLA E AD ANZIO, IN PROVINCIA DI ROMA
Dal 12 Marzo scorso, su iniziativa del Comune di Spinazzola, uno dei 10 della neonata Provincia Barletta-Andria-Trani, hanno avuto inizio le celebrazioni legate al quarto centenario della nascita del suo figlio più illustre, Antonio Pignatelli (13 marzo 1615-2015), salito al soglio pontificio con il nome di Innocenzo XII, nella foto tratta dal monumento, dello scultore Tavolini, situato nel palazzo romano di famiglia.
Per queste celebrazioni sono state coinvolte le altre città italiane ed europee dove Innocenzo XII ha svolto il suo ministero di vescovo e di diplomatico. Il nome di Innocenzo XII, insieme a quello di Bonifacio IX, nativo di Casaranello, in provincia di Lecce, e a Benedetto XIII, nato a Gravina in Puglia, del nobile casato degli Orsini, fa corona e onore alla Puglia che, alla Chiesa Universale ha dato tre pontefici. Inoltre, sia Innocenzo XIII che Benedetto XIII, attualmente, sono vanto e gloria della medesima diocesi: Altamura- Gravina-Acquaviva delle Fonti. Al di là dell’evento, della ricorrenza e dei festeggiamenti di carattere storico, culturale e religioso, l’anno sarà caratterizzato da un beneficio spirituale concesso dalla Santa Sede.
La cattedrale è stata indicata quale sede per lucrare l’Indulgenza Plenaria, concessa nella memoria grata del degno Pastore della Chiesa, per quanti vi giungeranno dall’Italia e dall’estero. Il suo pontificato, conclusosi con la morte avvenuta il 27 settembre 1700, viene ancora oggi ricordato dagli storici per le riforme promosse nella Chiesa e nella Curia Romana, soprattutto per la lotta contro il nepotismo e la simonia, oltre che per opere di carattere civile, realizzate in favore della città di Roma (una su tutte, la costruzione del palazzo di Montecitorio) e dello Stato Pontificio.
Fu un Papa amato dal popolo, poiché seppe unire alla sua indiscussa abilità e fermezza politica, frutti di lunga e proficua esperienza diplomatica, uno stile di vita semplice e parsimonioso, nonché un autentico e profondo amore per i poveri, verso i quali si prodigò, soprattutto nel portare soccorsi durante la peste, il terremoto e l’inondazione del Tevere, che afflissero Roma nel corso del suo Pontificato. Indisse il Giubileo del 1700; purtroppo, a causa della malattia che lo affliggeva, non poté aprire di persona la Porta Santa, né concludere le celebrazioni.
Intanto, anche la città di Anzio, che vide restaurato il suo porto, grazie all’interessamento di questo pontefice, in sintonia con la città di nascita di papa Pignatelli, ha deciso di celebrare lo stesso evento, indicendo l’Anno Innocenziano, che ha preso il suo avvio il 13 dello scorso mese di marzo, con un immediato prosieguo, il giorno successivo in cui si è svolto il convegno “Innocenzo XII e il suo tempo”, organizzato dal Liceo Scientifico Innocenzo XII. Tra i relatori, il prof. Andrea Marcellino, il prof. Clemente Marigliani e l’arch. Cesare Puccillo. Nel corso del 2015 sono previsti convegni, appuntamenti culturali, rievocazioni e lo sviluppo di un rapporto di gemellaggio con Spinazzola, città natale di Papa Innocenzo XII.
Domenica 12 luglio, giorno dell’elezione al Soglio Pontificio del Cardinale Antonio Pignatelli, sarà la giornata più espressiva del programma delle celebrazioni: Ore 10: Benedizione dei Naviganti al Porto; Ore 12: S. Messa presso la Chiesa Madre Santi Pio e Antonio presieduta dal Card. Gianfranco Ravasi; Ore 18:30: Palazzo Comunale. Commemorazione ufficiale di Innocenzo XII con presentazione di un quadro raffigurante Papa Pignatelli; Ore 19:30: Piazza Pia – Scopertura Monumento bronzeo dedicato a Papa Innocenzo XII. Il monumento, realizzato dallo scultore Massimo Manzo e fuso in un’antica Fonderia di Firenze, sarà posizionato al centro storico, su un basamento in travertino romano, davanti all’entrata del Porto Innocenziano ed ai piedi di una stampa in travertino del bacino portuale fatto realizzare da Papa Innocenzo XII per lo sviluppo di Anzio e per creare una vita migliore ai pescatori ed ai naviganti. Domenica 27 settembre, giorno della morte di Papa Innocenzo XII, sono previste altre iniziative culturali e religiose per mantenere vivo il ricordo del “Padre della Città di Anzio”.
Giuseppe Massari |
FRANCESCO GUARINI, UN PITTORE CHE SIGLA LA CONTINUITA' DEI RAPPORTI TRA SOLOFRA E GRAVINA
Francesco Guarini, pittore solofrano, protagonista di spicco del seicento napoletano, quello in cui non mancarono le importanti committenze, grazie alla ricchezza generata dai commerci e dagli influssi dei grandi maestri dell’arte da Caravaggio a Ribera, da Angelo e Francesco Solimena (l’abate Ciccio), padre e figlio, allievi del maestro solofrano, di cui, la nostra città, conserva alcune opere, per giungere a Guido Reni fino allo stesso Guarini, artista tra i più rinomati e apprezzati dalla famiglia Orsini, al cui casato fu legato, e per il quale lavorò, come dimostrano le opere presenti nella nostra città, dove, purtroppo, trovò, misteriosamente, all’età di appena 40 anni, la sua morte, il 23 novembre 1651, data, poi, rivelatasi tragicamente simbolo per l’Irpinia, non solo perché legata a questo evento luttuoso, ma perché fu il giorno in cui, nel 1980, questa storica e pregiata terra d’arte subì uno dei più violenti terremoti del secolo scorso che distrusse e annientò tutto il bello che la storia e la cultura aveva costruito nei secoli, compresi, purtroppo, alcuni capolavori guariniani.
Nella sua carriera, infatti, segna un’altra tappa importante l’arrivo a Gravina con gli Orsini, dove lavorerà al servizio della famiglia e delle varie chiese del territorio, diventando una figura determinante per la pittura del Seicento a Gravina.
Le ragioni del successo del Guarini risiedono principalmente nella capacità del pittore di rispondere ad un preciso indirizzo di gusto, severo ed austero dei duchi Orsini. Nessuna concessione nelle tele gravinesi, all’elemento spettacolare, e meno che mai alle inclinazioni anche vagamente profane.
Quello che colpisce nelle tele del Guarini è l’umanità dei soggetti, la dolcezza e l’ingenuità degli atteggiamenti, la semplicità dei gesti. Il segno di questa fattiva presenza e collaborazione è rappresentato dalla maestosa pala d’altare la Madonna del Suffragio, che troneggia alle spalle dell’altare maggiore della chiesa di Santa Maria del Suffragio, cappella funeraria degli Orsini.
La sua ricca ed interessante produzione pittorica barocca, è ancora, oggi, oggetto di studio da parte di molti critici d’arte contemporanei, che a Solofra, Napoli, Salerno Gravina, non si stancano di organizzare giornate di studio, pubblicazioni, convegni, recensioni e scoperte di inediti.
C’è chi sostiene, tra gli addetti ai lavori, che questo pittore ha lasciato un testamento artistico ancora da scoprire e da valorizzare nei confronti della critica internazionale. Ed è vero.
Ricerche che continuano, confermano o smentiscono certe attribuzioni finora riconosciute al maestro. Risale a oltre due anni la pubblicazione del primo volume: Francesco Guarini. Nuovi Contributi 1, edito dalla Paparo edizioni. Erano gli atti del convegno, coordinato dal professore Mario Alberto Pavone, e svoltosi presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università degli Studi di Salerno, il 16 dicembre 2011, in collaborazione con il Comitato per il IV centenario della nascita del pittore, il Comune di Solofra, città in provincia di Avellino in cui vide la luce il 19 gennaio 1611, il Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale dell’Università di Salerno, la Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici per le Province di Salerno e Avellino.
Dopo quella pubblicazione, ecco arrivare il seguito: "Francesco Guarini. Nuovi contributi 2", curato da Mario Alberto Pavone e Mimma Pasculli Ferrara e pubblicato dalla casa editrice napoletana Artstudiopaparo, grazie all’apporto finanziario del Centro Studi Benedetto XIII, la Fondazione Ettore Pomarici-Santomasi, il Museo della Civiltà Contadina di Gravina, la cui presentazione, non a caso, per le ragioni evidenziate innanzi, si è tenuta, quasi in coincidenza con il 363 anno dalla morte, presso l’Auditorium Giovanni Paolo II dell’Episcopio di Gravina.
Dalla presentazione del professore Pavone, inserita nel contesto di questo nuovo prodotto editoriale, estrapoliamo quella parte di considerazioni che giustificano la recente pubblicazione e le ragioni che hanno portato la discussione nella città di Gravina.
“ La novità del contributo risiede in primo luogo nel recupero dei rapporti tra due nuclei interdipendenti nell’età degli Orsini, Solofra e Gravina, dove la presenza del pittore determinò uno sviluppo parallelo nell’ambito delle scelte pittoriche, che avrebbe consentito di dare continuità ad una linea di tendenza, nata dal precoce assorbimento delle componenti più innovative della pittura napoletana nel primo Seicento e sviluppatasi con una originale capacità di conciliazione del naturalismo con le spinte classicistiche di matrice non accademica. L’acquisita consapevolezza dell’analisi di un tessuto culturale profondamente affine ha consentito una rilettura della produzione artistica maturata in tali aree territoriali, che ha portato a stringenti confronti con gli artisti coevi, che sebbene avessero sviluppato modalità autonome, manifestavano pur sempre un imprescindibile riferimento alla matrice guariniana. La riscoperta delle radici comuni tra le aree di Solofra e Gravina, dal punto di vista della dinamica delle esperienze pittoriche, ha consentito di sviluppare un processo di approfondimento, seguito con attenzione dalle rispettive comunità e dalle istituzioni locali, che hanno inteso integrare i loro rapporti anche attraverso il comune obiettivo di una attiva partecipazione alle recenti manifestazioni rivolte al recupero della memoria guariniana”.
Giuseppe Massari |
I LUOGHI DELLA MUSICA - BARI
L'Autore
Angelo Pascual De Marzo, maestro concertista, attuale organista presso la cattedrale di Bari, nato in Venezuela e residente a Bari. Hanno contribuito al progetto anche Ciro Di Maio, fotografo e Jessica Japino, con il suo progetto filmico “All I wish for you is Me”, allegato in esclusiva al volume, con cartoline.
Genio, estro, fantasia, sregolatezza, originalità. Tutto questo è l’arte. Tutto questo è arte.
Quando questa diventa storia, letteratura, geografia, biografia, architettura e toponomastica per mano di un musicista che pensa anche a stendere testi e non solo a riempire di note e pentagrammi i quaderni musicali o a leggerne i segni che si tramutano in suoni, possiamo ben dire che il risultato sarà unico.
“I Luoghi della Musica Bari” può essere definita una guida nei tempi e luoghi sacri della musica nel contesto della Bari antica e moderna, tra i suoi figli migliori, tra le sue ricchezze storiche ed architettoniche, quali i monumenti e le residenze che hanno dato vita alla musica e che continuano a produrla.
I teatri Petruzzelli, Piccinni, Margherita, Casa Piccinni, il Conservatorio, dedicato al musicista barese, l’auditorium Nino Rota, ma anche i luoghi eterni dove la musica è sacra ed è capace di vibrare e far vibrare organi e cuori con le sue melodie ancestrali, angeliche, classiche e barocche, in quelle chiese incantate e scolpite nelle pietre vive della memoria: la cattedrale, la basilica di san Nicola, la chiesa di san Martino e di san Michele, l’auditorium diocesano Vallisa.
In questa cornice di luoghi e di racconti, anche anedottici, non mancano le biografie degli esecutori, dei protagonisti, di coloro che hanno fatto cantare e suonare gli strumenti musicali di ogni genere e portato la musica in tutti gli ambienti cittadini per far scoprire il fascino, la melodia dei suoni, la delicatezza o la corposità delle voci, dei cori. Come scrive Stefano Magnanensi nella sua presentazione siamo di fronte a una “vera e propria Mappa del Tesoro Musicale che porterà a scoprire i gioielli e le gemme più preziose di questa parte d’Italia così meravigliosa”.
Giuseppe Massari |
IL PAPA BENEVENTANO VINCENZO MARIA ORSINI - BENEDETTO XIII
“Il papa beneventano: Vincenzo Maria Orsini – Benedetto XIII” è un libro fresco di stampa, scritto dal giornalista Giacomo De Antonellis e pubblicato dalle Edizioni Scientifiche Italiane di Napoli, quale primo quaderno dell’Archivio storico del Sannio.
Una nuova biografia su colui che, l’autore non ha difficoltà a definire: “personaggio-chiave per il territorio, un uomo tutto da scoprire, e da apprezzare stante la sua estrema attualità di buon pastore e di animatore sociale”.
De Antonellis, nella sua breve presentazione, scrive ancora: “Questo saggio copre un vuoto storiografico nel senso che gli studi apparsi su fra’ Vincenzo Maria Orsini trattano aspetti settoriali oppure sono limitati a determinati periodi senza mai affrontare – in termini divulgativi – la complessa figura del religioso con una visione panoramica della sua vita e delle sue opere.
(Su questo dissentiamo dall’autore, perché i testi, i libri, le ricerche, finora prodotti, hanno avuto il pregio e il privilegio di approfondire aspetti nuovi ed inediti, ed era quello che bisognava fare per rivalutare e conoscere al meglio il personaggio, che, se pure trattato distintamente e settorialmente, è stato sempre inserito nel più ampio contesto biografico, personale, storico, ecclesiastico e politico in cui è vissuto).
Ne consegue che l’arcivescovo di Benevento venga onorato nella memoria popolare per quanto resti poco conosciuto nelle specifiche azioni concrete.
L’immensa dedizione alla Chiesa e ai suoi istituti, tra l’altro, lo mise nella scia di quel grande Santo che fu Carlo Borromeo promotore senza pari della Riforma tridentina: in tal modo egli dette un volto nuovo e un’autentica rivoluzione nei costumi rilassati del clero e dei credenti offrendo a tutti l’esempio e il vigore di una vita fondata sulla preghiera e sulla promozione sociale.
Così, grazie alla pietà che alimentava ogni momento dello spirito e dell’azione, in quanto responsabile di varie cattedre vescovili egli seppe indirizzare il proprio gregge verso una pratica di fede non formale ma autenticamente religiosa”.
Il testo, complessivamente, comprensivo di 232 pagine, è stato suddiviso in quattro parti, o in quattro capitoli, compresa la parte introduttiva:
Discorsetto a mo’ di prefazione - Quel terremoto, introduzione per una biografia –
Parte I – Cardinale (Gravina e Casa Orsini: il ruolo della madre - Nell’Ordine dei predicatori - La porpora contrattata - Uffici di Curia e apostolato).
Parte II – Arcivescovo (Pastore in Manfredonia-Siponto - Cesena: vescovo a intermittenza - Benevento: la vita quotidiana - Revisione ecclesiastica, Sinodi e Visite pastorali - Frumento, pegni e ospedali - Le opere religiose. Chiese e conventi ) -
Parte III – Pontefice (1724: Orsini diventa Papa - Vivere a Roma nel mondo pontificio - La «politica» di Benedetto XIII - Il nodo del Giansenismo - Ritorno a Benevento - Nicolò Coscia, ombra del papa - La «cricca beneventana», un caso sconcertante - Sulla beatificazione dilazionata) -
Per chiudere, una storia forse vera o forse sognata - Bibliografia - Indice degli artisti - Indice degli autori - Indice dei nomi.
Giuseppe Massari |
VENUTE ALLA LUCE DUE ORIGINALI E RARE RELIQUIE DI PAPA BENEDETTO XIII
“Viaggio nella storia tra le pietre vive della memoria”, la ricerca storico-iconografica sul cardinale, arcivescovo e papa Orsini, intrapresa oltre 15 anni fa, la cui prima parte aggiornata è stata pubblicata su questo stesso sito, e in attesa di pubblicare, quanto prima, anche la seconda integrata e corretta, non finisce di stupire, perché si arricchisce sempre di nuovi elementi, di nuovi spunti e di nuove scoperte. Infatti, mi è capitato di scoprire, quasi per caso, due reliquie.
Foto 1
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La prima, è un osso del cranio, (foto 1), con ogni probabilità, conservata, da qualche mese, presso il neonato museo dei papi di Padova, diretto e curato da Ivan Marsura, il quale dichiara d’averla ricevuta in dono da un prete di Venezia, città in cui non sono mancate e non mancano testimonianze riferite all'Orsini. Egli, tra l’altro, apparteneva alla nobiltà veneta.
Oltre questo dato biografico, c’è quello più interessante che lega il giovane Pierfrancesco Orsini a Venezia, soprattutto, riferito all’episodio che lo vide direttamente coinvolto, quando, all'età di 17 anni, volle compiere, nascondendo alla madre le sue reali intenzioni, un viaggio d'istruzione, per l'Italia, facendo sosta e tappa, soprattutto a Venezia, recandosi presso il convento San Domenico di Castello, dove chiese e venne accolto come frate domenicano, vestendo le bianche lane di san Domenico.
Venezia,successivamente, torna nella vita di colui che, nel frattempo, era diventato pontefice e si rivela, ancora una volta, città orsiniana, perchè, presso la Chiesa Santa Maria dei Gesuati si conserva nella volta un dipinto del Tiepolo che riproduce il papa di origini pugliesi.
Inoltre, sempre presso la stessa chiesa è conservata una copia della medaglia coniata per la costruzione dell'edificio sacro, avvenuta durante il pontificato del papa domenicano. Medaglia che fu incastonata all'interno della prima pietra, benedetta dal patriarca di Venezia, Marco Gradenigo, il 17 maggio 1726.
"Nel recto, la medaglia conteneva le chiavi papali con scudo al di sotto, entro il quale una corona, con stelle, era sovrapposta a due palme. Sul lato inferiore a destra, stava una torre ed a sinistra, una spada con la scritta in onore del papa domenicano Benedetto XIII, allora regnante. Sul lato sinistro della medaglia c'era lo stemma del doge Alvise Mocenigo, allora ducante, ed a destra quello del patriarca Marco Gradenigo. Al di sotto, veniva effigiato lo stemma del convento dei Gesuati. Nel verso, la scritta in latino, ricordava l'avvenimento e la dedica del nuovo tempio alla Vergine del Rosario".
Fin qui i legami tra la città lagunare, l’Orsini personalmente e direttamente e il suo casato. Per queste valide e supportate ragioni storiche, magari con qualche interpretazione, non si può, quindi, escludere che la reliquia di papa Benedetto XIII possa essere stata portata a Venezia, in occasione del primo processo per la Beatificazione del pontefice, celebrato a Tortona il 1755, per il quale fu, certamente fatta una ricognizione dei resti mortali nella sua tomba custodita e conservata nella basilica romana di santa Maria Sopra Minerva, e, quindi, non è da escludere che in quella occasione sia stato trafugato un pezzo di corpo, una testimonianza, consistente in un osso del cranio, da conservare nel luogo dove egli aveva fatto ingresso per seguire la sua vocazione di religioso.
Per correttezza ed onestà intellettuale, c’è da dire che la reliquia ritrovata, come la maggior parte di quelle esistenti, è priva del certificato di autenticità, perché o è andato distrutto o perché si è perso. In compenso, però, della nostra, si conserva il cartiglio originale allegato al sacro reperto.
Comunque, per gli indizi a cui ho fatto riferimento, la reliquia è da ritenere veritiera e verosimile, perchè al di là della scomparsa, nel frattempo, del convento di san Domenico a Castello, pur resta la testimonianza della presenza domenicana costituita dalla chiesa dei Gesuati, dedicata alla Vergine del Rosario, icona molto cara e legata alla storia dei padri domenicani.
L’altro reperto orsiniano rinvenuto è il polsino di una camicia usata da papa Benedetto XIII (foto 2 e 3). Di seguito, la descrizione:
Frammento di reliquia di Benedetto XIII
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Antica reliquia di papa Benedetto XIII consistente in un polsino staccato da una camicia. Il polsino ha un sigillo di ceralacca, che se anche un poco rovinato, corrisponde a quello apposto sulla lettera accompagnotoria, inviata da un prelato romano ad una famiglia genovese.
“Gradisca il qui accluso polsino della camicia portata da Sua Santità staccatosi sudicio tale e quale è sigillato con mio piccolo sigillo acciò non fosse mai dubbio che sia cambiato”. La reliquia si trova a Messina.
Polsino di camicia di Papa Benedetto XIII
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SAN DOMENICO MAGGIORE, DOPO 800 ANNI CHIUDERA'
IL CONVENTO DI SAN TOMMASO A NAPOLI
La chiesa di San Domenico Maggiore, nell'omonima piazza del centro storico di Napoli, che ha ospitato una comunità dei frati predicatori, fin dai tempi del loro padre fondatore, San Domenico Guzman, intorno ai primi anni del '200, sta per essere abbandonata. Il sacro tempio fu consacrata nel 1255 e il convento annesso divenne ben presto un presidio religioso e culturale di straordinaria importanza.
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In San Domenico Maggiore, tra il 1272 e 1274, San Tommaso d'Aquino insegnò teologia nello Studium voluto da Carlo I d'Angiò e, secondo la tradizione, qui il Crocifisso gli parlò (la cella di San Tommaso, del Doctor Angelicus, è tuttora visitabile).
Sotto le volte maestose del complesso partenopeo l'Aquinate intraprese la stesura della terza parte della Summa, completata dopo la sua morte dal suo fedele assistente, fra Reginaldo da Piperno.
Il 16 giugno 1566, quasi diciassettenne, varcò per la prima volta l'ingresso del convento, nei panni di novizio, Giordano Bruno, rimanendovi per ben undici anni e avvicinando la propria inquieta curiosità alle prime scandalose pubblicazioni di Erasmo.
Così Tommaso Campanella, che fu un altro degli illustri allievi dei frati predicatori.
In questo complesso fu ospitato il cardinale domenicano frà Vincenzo Maria Orsini, futuro papa Benedetto XIII, mentre era arcivescovo di Cesena. |
Ora, a distanza di otto secoli, i Domenicani lasceranno il convento napoletano: si attende soltanto il placet definitivo del Maestro generale dell'ordine dei predicatori dopo la decisione del Capitolo provinciale.
«La scelta sarà assunta ufficialmente solo tra qualche settimana, spiega frate Francesco Lavecchia, priore della Provincia di San Tommaso d'Aquino in Italia, vale a dire il governatore dell'area amministrativa meridionale . Anche se sarà stabilito di chiudere il convento ciò non significa che le attività a San Domenico Maggiore saranno interrotte: le celebrazioni proseguiranno. Ecco, potremmo dire che cambierà la gestione. Il compito di noi Domenicani è quello di continuare la nostra missione di predicatori e di studio per prepararci all'apostolato, non di fare i custodi museali, per quanto il convento appartenga alla nostra Storia per le numerose testimonianze di fede che ha ospitato. Purtroppo, c'è sempre un inizio e una fine in ogni cosa. E al netto della presenza turistica, quella dei fedeli resta purtroppo scarsa. Mentre l'edificio, cosa da non trascurare, è di proprietà comunale».
Dei sei confratelli che ancora vivono all'interno della antichissima struttura, tre sono ultraottuagenari.
Il Capitolo provinciale, l'organismo che raduna i frati della Provincia meridionale, in occasione della rielezione del priore si è a lungo interrogato sulla opportunità di lasciare il convento, dopo ottocento anni di quasi ininterrotta permanenza. Ma alla fine si è deciso di andar via.
Mentre è assicurato che rimarrà attiva, anzi ne sarà addirittura potenziata la fruizione attraverso l'implementazione di aggiornati sistemi multimediali, la prestigiosa Biblioteca domenicana, ricca dei suoi oltre 49 mila volumi, 9 incunaboli, 520 cinquecentine e manoscritti: l'antica Libraria di San Domenico che già nel '500 possedeva alcuni manoscritti di Giovanni Pontano, il De Arte amandi di Ovidio, le Epistole di Seneca e tanti capolavori della filosofia aristotelica.
L'ordine dei frati predicatori a Napoli è poi presente nel santuario di Sant'Antonio a Posillipo, nel convento di Santa Maria della Sanità a Barra e nel convento di Santa Maria dell'Arco, dove ha sede anche la curia provinciale: vale a dire il governatorato meridionale.
«Purtroppo — spiegano con una punta di amarezza alcuni frati — ciò che avviene a San Domenico Maggiore segue la stessa sorte di altri storici insediamenti religiosi, come quello di Santa Lucia al Monte a Napoli, nucleo originario della predicazione alcantarina nell'Italia meridionale e poi francescana, o della Casa domenicana di Genova. E dinanzi alle necessità delle missioni religiose, la Storia dei luoghi sembra destinata a soccombere». |
L’ORSINI CARDINALE
CANTATO DAL GRAVINESE
FEDERICO MENINNI,
POETA MEDICO DI FAMIGLIA
Prima di presentare i componimenti poetici, scritti dal dottor Federico Meninni, e dedicati al giovane cardinale Frà Vincenzo Maria Orsini, ci piace riprendere alcuni dati biografici del poeta, ricavati dalla pubblicazione di Michele Sforza: “Federico Meninni un medico alle fonti di Ippocrate”, Stampa
Grafica 2P, Noicattaro, ottobre 2010.
“Domenico Federico Meninni nacque a Gravina in provincia di Bari il 14 giugno 1636 da nobili genitori: Angelo Meninni e Ruffina d’Errico. Dapprima avviato alla vita ecclesiastica sotto la disciplina di D. Domenico Morano, studiò grammatica e umanità nel Seminario della sua città, nel periodo in cui in seguito ad un’insurrezione popolare, capeggiata da Matteo Cristiano, la città era assediata dal popolo tumultuante.
Poi studiò Legge sotto la guida di Antonio Martoro, ma si dedicò successivamente allo studio della retorica e della filosofia sotto la guida del medico Giustiniano Majorani, giunto a Gravina da Napoli. Intanto alla morte del padre scoppiarono dei litigi nella sua famiglia, per sedare i quali si prodigarono il Duca Ferdinando Orsini e la duchessa Giovanna della Tolfa (genitori di Pierfrancesco, futuro frà Vincenzo Maria, successivamente Benedetto XIII).
Con la protezione dei duchi della sua città, nel 1654 Federico all’età di 18 anni si trasferì a Napoli, dove, dietro raccomandazione di Antonio Nicola Tura, poi vescovo di Sarno, fu accolto con simpatia in casa del medico Onofrio Ricci, che era anche insigne Poeta e professore universitario, accademico ozioso ed errante. |
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Abate Giacinto Gimma
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“Dopo i quattro anni dell’età sua invaghito di Religione Domenicana, simile a quel terren d’Ibernia, di cui scrivono alcuni geografi, che non solo animali velenosi non genera, né portati d’altronde gli nutrisce, ma colle foglie ancora di una sua pianta, partecipata ad altri paesi e data in bevanda, sana i morsicati dalle serpi, la forza del veleno estinguendo, volle non solo con piccioletti abiti vestirsi da frate di quell’ordine, e predicare in compagnia d’altri fanciulli, ma con Mitra di carta esercitar ufici pastorali, secondo che praticar vedea del vescovo della città”.
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Stemma originale della Famiglia Orsini:
bandato di rosso e d'argento,
col capo d'argento caricato da una rosa rossa
posta su una piccola fascia d'oro caricata da un'anguilla d'azzurro.
L’anguilla è in ricordo dell’antica Signoria di Anguillara
nei pressi del lago di Bracciano,
mentre la rosa ricorda la bolla di Papa Leone IX
con la quale si ordinava di benedire ogni anno una rosa d’oro da donare al primo barone di casa Orsini. |
Lode al Signor Duca di Gravina
D. Pierfrancesco Orsino
Questa prima poesia, composta e dedicata al futuro cardinale, quando al secolo era Pierfrancesco, allude alle rose, insegna riportata all’interno dello stemma di famiglia.
“Divorando col ciglio i fogli argivi
sciogli di sillogismi un groppo alato,
e d’assiduo sudor versando i rivi,
nutri quel fior, che in Campidoglio (1) è nato.
T’ingombra di pallor velo ostinato
le porpore del volto, allor che scrivi
e lo ‘ngegno t’infiamma il nume aurato,
mentre di puro inchiostro i carmi avvivi.
Quindi di doppio serto i crini adorno,
al tuo nome intrecciar glorie ingegnose
e la diva d’Atene e ‘l dio del giorno (2).
Grecia l’idalio fior (3) sull’are espose
Al ciprio nume e, d’Amatunta (4) a scorno,
tu più saggio a Minerva offrì le rose”.
1 Il riferimento è agli Orsini di Gravina del ramo di Roma.
2 Minerva ed Apollo.
3 Il fior di loto.
4 Amatunta: città sulla costa meridionale di Cipro, famosa per il tempio dedicato ad Afrodite e Adone.
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All’Eminentiss. Sig.r Cardinale di San Sisto
Frà Vincenzo Maria Orsino, de’ duchi di Gravina,
arcivescovo sipontino.
In questa poesia, il Meninni, mette in evidenza l’umiltà e la dottrina del giovane prelato gravinese, la sua rinunzia ai beni, onori e privilegi terreni, il suo attaccamento all’ordine domenicano e alla Vergine Maria. Alla sua prima esperienza episcopale sul Gargano, a Manfredonia, sotto la protezione dell’arcangelo Michele. Addirittura, il medico poeta lo paragona ad Ulisse, il quale, come seppe resistere alla tentazione delle sirene, perché il suo pensiero era solo quello di ritornare nella sua petrosa Itaca(U. Foscolo), così l’Orsini non si lascia allettare da altra ispirazione che non sia quella di raggiungere il Cielo.
“In talami festivi
sposa d’Esperia, al tuo natal conforme,
già t’apprestava il regnator de’ cori (1),
io sui castalli rivi (2)
anelante rivolto avea già l’orme,
di cantar di vostr’alme i casti ardori;
ma tu, Signor, che adori
non terrena beltà, l’arco e lo scettro
rendi infranto ad Amor, muto il mio plettro (3).
Pur di serbar t’ingegni
il gaudio a miglior uso e di mia lira
l’armonia riverente a più degn’opre.
Quindi, mentre fra i regni
tu dell’Adria (4) passeggi, e, dove aspira
tua saggia mente, il mio pensier non scopre,
veggio che te ricopre
di Domenico (5) il manto e che dal Cielo
già si comincia a pubblicar tuo zelo.
Or ecco a qual sublime
Sposa ti sacri in voto, ecco a qual face (6),
a qual stella propizia il core accendi.
La vergine, che opprime
Tartareo drago, e che sul crin vivace
serto ha di rose, ad isposar tu prendi:
son d’Imeneo gl’incendi,
onde avvampa d’amor l’anima bella,
or la face guzmana (7), or l’aurea stella.
Or quasi sospiri, quai prieghi
dal petto amante infervorati ei scioglie
a voi, Madre Celeste e Divo ispano (8).
Poi dice: Il pianto anneghi
ogni antico mio fallo e queste spoglie
mi sian piume a fuggir te mondo insano.
Scettri e diademi in vano
mi lusingano il cor, voi gli ostri (9) ardenti,
voi siete i miei tesor, lane innocenti.
Dunque noi, Muse, in Pindo
tessiam con nova idea musici carmi,
che d’ammanto è novel Vincenzo adorno.
Dal Mauritano all’Indo
corra il suo nome e agli ultimi Biarmi (10)
voli d’invidia il nostro plettro a scorno.
S’eterno in si bel giorno
non mi rendete, Aonie suore (11), il canto,
di più farmi immortal rifiuto il vanto.
Ma la Patria dolente
già lo sospira e lo richiama al soglio (12)
l’incerta madre, entro la reggia avita.
Ah, che ‘l suo cor non sente
sì dolci inviti, e qual costante è scoglio
al vento, al mar, che contra lui s’irrita,
stabile ei tal s’addita
al vento de’ sospiri, alle tempeste
di due pupille in lagrimar sol deste.
Son le natie ricchezze
remora spesso a chi desia dell’Etra (13)
varcar le vie con fortunati auspici.
Quand’è che tra l’asprezze
di povertà l’Orsino germe impetra
per acquisto del Ciel voli felici.
Con digiuni e cilici
Lacera Pluto, e ne’ licei, ne’ rostri
Ha strali ancor da fulminar più mostri.
Sa col saggio d’Aquino (14)
quanto in aria è prodotto, in mar si serra,
quanto abbraccia la terra, il ciel racchiude.
Con pettine latino
sfidò cetre maestre e or fa guerra
co’ sillogismi all’eresie più crude.
Chi da sua mente esclude
dogmi per lui d’infedeltà, s’avvede
quanto prevaglia all’empietà la Fede.
Così, così risuona
di te, Vincenzo, il mondo e ‘l Tebro amante
in Campidoglio a trionfar te chiama:
ostro già per corona
ti prepara sul crine, a cui festante
palme e lauri dircei sacrò la fama.
E, mentre eroe t’acclama
del Vatican il Gran Monarca Altiero (15)
pien di giubilo esulta il mondo intero.
Ma la comun letizia
tu sol non accompagni e dentro angusta
cella i tuoi pregi a lagrimar sei volto.
Ben di tanta mestizia
in dì sì lieto è la cagione ingiusta,
Signor, se applaude a’ tuoi trionfi il Cielo.
Il nubiloso velo
scaccia dalle pupille e, se di colpa
altri degno far vuoi, te stesso incolpa.
Non perché mille eroi
porporeggiar nella città latina
di tua stirpe real, ch’ebbe i camauri,
non perché vantar puoi
rimirarti nipote a chi destina
a cattolica gregge alti restauri,
ma perché di tesauri
t’orni celesti in solitario chiostro
in sì giovane età, degno sei d’ostro.
Vientene or sul Tapeo,
se dal suolo natio fuggir bramasti.
reggie, pompe e tesor posti in oblio.
Di povertà trofeo
ad innalzar t’insegnerà tra fasti
l’insubre eroe (16), che fu nipote a Pio.
Fia pago il tuo desio
d’aver spirito umil fra tirie grane
di portar gli ostri e non lasciar le lane.
E, o con quanti fochi,
che son lingue d’amor, parmi che avvampi
Roma, che in ciel fa balenar più rai.
In chiamarti son rochi
gli altrui sospiri et ogni core ha lampi
di letizia, o Signor. Vienne, Che fai?
Ma giungi appena e vai
Sacro Pastor sovra il Gargan, in cui
tu custodir sai la custodia altrui.
Quivi Michel s’adora,
che pria fugando esercito infedele,
le iapigie contrade ottenne in cura.
Con gli angeli dimora
far qui t’aggrada e al popolo fedele
tua divota pietà scorta è sicura.
Restine or dunque oscura
per te, benché la fama avesse amica,
del Dulichio (17) campion la gloria antica
In cenere conversa
poiché Troia restò dal fuoco argivo,
solcò l’itaco Ulisse i campi ondosi.
Di mar fortuna avversa
in Trinacria lo spinse, e in tanto arrivo
più sirene gli offrir canti amorosi;
ai suoni armoniosi
chiuse l’orecchio, e ne’ suoi patrii tetti
per gir veloce, ei non curò diletti.
Tu l’infide lusinghe,
Vincenzo, aborri, e in questo mare accorto,
a vento lusinghier non pieghi i lini.
Fra contrade solinghe
l’ozio molle in fuggir, non resti absorto,
che fra le calme han pur naufragio i pini.
L’orecchio non inchini
a bugiarde armonie, ma fuggi al volo,
poiché l’Itaca tua l’Olimpo è solo”.
1 Amore.
2 Della sorgente castalia, fonte e ispirazione di poesia.
3 Arnese usato per far vibrare le corde di un qualsiasi strumento a corda, nel caso, la lira.
4 Venezia.
5 San Domenico.
6 La fiaccola.
7 La fiaccola di san Domenico da Guzman che appare anche nel simbolo dei domenicani.
8 Sam Domenico, di origini spagnole.
9 Le porpore.
10 Popolazione della Russia.
11Muse.
12 Trono.
13 Cielo.
14 San Tommaso d’Aquino.
15 Papa Clemente X, Emilio Bonaventura Altieri, che lo creò cardinale il 22 febbraio del 1672.
16 Il vescovo lombardo san Carlo Borromeo, nipote di Pio IV.
17 Isola del mar Ionio, nei pressi di Itaca, la città di Ulisse. |
Dedico le meraviglie poetiche all’Eminentissimo Signor Cardinale F. Vincenzo Maria Orsini, Arcivescovo di Benevento, dopo la quiete universale di Europa.
“Or che al tempio di Giano i brandi appesi
lascia in ozio chi segue il Dio dell’armi,
cedan gli urli feroci al suon dei carmi,
d’ascra a gli ordigni, i Marziali arnesi.
Signor, dell’Arte e di natura io presi
i prodigi a narrar: se dunque in marmi
statue alzarti non posso; almen, per farmi
tributario di metri, in Pindo ascesi.
Or, se marte non stringe Aste esecrande,
ne sul terren di sanguinosi umori
da falangi trafitto un Rio si spande:
deggio a le glorie tue sacar gli Allori,
le Meraviglie a te stupor più grande,
del tespio Fonte a la tua Rosa i fiori”.
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La poesia seguente, l’autore, la dedica all’arcivescovo coinvolto, ma non perito durante il terribile terremoto di Benevento del 5 giugno 1688.
“Già da’ cardinali suoi, di colpe onusta,
un sol cenno di Dio scuote la Terra,
che l’ampie gole, ad assorbir, disserra
de’ novelli Tifei la soma ingiusta.
De gli edifici tuoi la mole augusta
ne la pubblica strage anco si atterra;
ma Te, de’ soffi al vacillar, non serra
la rovina innocente, in tomba angusta.
Cade a ferirti il piè marmo improvviso
dopo lunga stagione e pur non varchi
sentier, che porta a le delizie, al riso.
Or del Triregno a sostener gl’incarichi
pensa, o Signor; che, in Vaticano assiso,
daran mille al tuo piè baci i Monarchi”.
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L’ultimo componimento “per lo medesimo Signor Cardinale”, l’augurio del Pontificato, “dovendosi verificare nella sua Persona una Profezia di Malachia”. Profezia o no, il vero profeta è Federico Meninni, che, in tempi non sospetti, augura al rappresentante della famiglia a cui lui era personalmente ed affettivamente legato, il Soglio di Pietro. L’augurio, per volere dello Spirito Santo, il 29 maggio 1724, quando lo stesso poeta era già morto, diventa realtà.
“Giorni felici, accelerate il corso.
Perché trionfi il mio Signor sul Tebro;
e ponga incatenato il candel’Ebro
a le sue furie ubbidiente il morso.
Quando la Chiesa Ei sosterrà sul dorso,
che adoro io più, che con lo stil celebro,
di pianti asperso, e di follie non ebro,
farà la Scita a nostra Fe ricorso.
Non sian più, no, ne’ penetrali ascose
le profetiche cifre: al Mondo intero
su veridici fogli il Ciel l’espose.
Havrà sì, sì; ne mi tradisce il Vero,
se rigeneranno in Vatican le Rose,
la rosa Orsina in Vatican l’impero”. |
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Col Ricci il Meninni ebbe un rapporto molto affettuoso ed intenso, una profonda stima di discepolo nei confronti del maestro, a cui i contemporanei riconoscono un alto magistero universitario, una certa sensibilità ai fenomeni innovativi della cultura scientifica del suo tempo e soprattutto il merito di “aver offerto il proprio piccolo, ma efficace contributo alla formazione della nuova generazione di Medici”.
Meninni frequentava la facoltà di Medicina, quando scoppiò l’epidemia di peste a Napoli nel 1656; egli rimase chiuso in casa per alcuni giorni per sfuggire al contagio, ma poi, spinto dal desiderio di rivedere il suo maestro Ricci, lo andò a trovare, lo trovò ammalato e rimase pure lui contagiato.
Il suo maestro morì di peste e il Meninni “già si mirò vicino al sepolcro”, come dice il Gimma in: Elogi accademici degli Spensierati di Rossano, descritti dal dottor d. Giacinto Gimma, pubblicati da G. Tremigliozzi, in Napoli a spese di Carlo Troise, 1703.
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Scampò per miracolo alla morte e, cessata l’epidemia, potè laurearsi in Medicina, mostrando grandi attitudini per la professione medica e curando persone di alto rango (infatti, fu al capezzale della duchessa Giovanna Grangipane della Tolfa, accorrendo da Napoli, nei giorni immediatamente prima che questa esalasse l’ultimo respiro, riconoscendo la gravità della malattia, l’impossibilità e impotenza di poterla guarire n.d.a).
Si fece notare per la bravura e sicurezza nel diagnosticare e soprattutto nell’indicare la prognosi per le malattie”.
Giunto al suo ultimo e definitivo approdo professionale, Federico Meninni continuò a coltivare la sua vena poetica, quella che gli si era presentata sin da giovane, come dichiara egli stesso nella prefazione dell’edizione veneziana delle sue poesie:
“Ho anche io poetato, quando dal seno della Medicina, i primi alimenti poppava, se non vo dire che ho cantato a guisa di Giona, il quale al sentir di molti, nei maggiori travagli componeva versi nel seno della balena. Quando altri con le mani spenzolate andavano scioperatamente a sollazzo, mi diportava fra le delizie di Pindo, per tornar con istudio più fervente, alle solite fatiche. Protesto in faccia del Cielo aver esguito ciò che pronunciò Cicerone in favor d’Archia, cioè a dire, quando altri scialacquava l’ore tra giochi, fra gli ozi, e fra le crapule, io mi ritirava a coltivare le poetiche delicatezze”.
Esercizio della professione e diletto per la poesia non furono disgiunte da questo personaggio che osava ripetere: “Confesso ancor io che fra l’angustie della mia Professione ritrovo non poco sollevamento dalla Poesia”. |
Grazie a queste due passioni, fu annoverato anche lui nell’Accademia degli Spensierati di Rossano, rivestendo incarichi di Censore e di Consigliere promotoriale.
Con dedizione, acume, competenza e sensibilità compose versi e con altrettanto spirito, nel 1677 pubblicò “Il ritratto del sonetto e della canzone”, un manuale di poesia, può essere definito, dedicato al cardinale Frà Vincenzo Maria Orsini arcivescovo sipontino.
All’Orsini, giovane prelato cardinale, il Meninni, dedicò cinque componimenti, che qui, di seguito, riprodurremo, inseriti in quella gran parte della sua vastissima produzione poetica di carattere encomiastico.
In verità, il poeta gravinese, fu prodigo di attenzione, attraverso i versi, anche nei confronti di altri componenti dello stesso casato: della madre del cardinale e del fratello Domenico. Una sorta di gratitudine, potremmo dire, per i benefici ricevuti da quella nobile famiglia che lo sostenne e lo aiutò nella formazione culturale, nella scelta professionale.
Prima di concludere questo preambolo, ci preme ricordare che, Federico Meninni, morì a Napoli, all’età di 76 anni.
La prima poesia composta e dedicata al futuro cardinale, quando al secolo era Pierfrancesco, allude alle rose, insegna riportata all’interno dello stemma di famiglia.
Su Frà Vincenzo Maria Orsini, uno dei soci dell’Accademia degli Spensierati di Rossano, non è male riprendere quello che l’abate Gimma scrisse su di lui nella famosa opera Elogi Accademici
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FRA' VINCENZO MARIA ORSINI CARDINALE, PAPA BENEDETTO XIII:
L'AGRICOLTORE DI DIO
(Galerie Signatures, Valenciennes, Benedetto XIII, olio su tela del XVIII secolo)
Ai più quotati biografi del cardinale frà Vincenzo Maria Orsini, divenuto papa col nome di Benedetto XIII, è ben nota, e non è mai sfuggita agli occhi delle loro conoscenze, l’opera sociale svolta da costui, sia durante gli anni del suo governo pastorale, soprattutto, di Manfredonia e Benevento, e sia durante gli anni del suo breve, ma intenso pontificato.
Nel giugno del 1678 iniziò l'esperimento di un Monte frumentario, a Manfredonia, una forma di credito agrario che poi con maggior decisione e disponibilità di mezzi promosse e generalizzò nell'arcidiocesi di Benevento, e che fu largamente imitata dalle autorità civili nel Regno di Napoli. (1)
I problemi sociali furono sentiti e affrontati dal cardinale Orsini. Testimoniano questo suo zelo i Monti Frumentari, eretti nella diocesi di Manfredonia durante il suo arcivescovado. Nell’Appendix Synodi confermò le “Regole per lo monte frumentario” dettate da monsignor Cappelletti il 14 Settembre 1661 alla comunità di Monte Sant’Angelo.
Ispirandosi ai principi del moderno credito agrario, concedesse un prestito in grano per la semina, dietro un pegno e un interesse esiguo (l’8%). Il Monte frumentario fu istituito per aiutare i contadini nel momento della semina, ma soprattutto “per troncar la strada al detestabil peccato dell’usura”. Infatti, frequentemente i poveri, non potendo fronteggiare necessità impellenti, per un piccolo prestito erano costretti «a perder molto, ò far ubbligazioni con interessi gravissimi, e le donne non potendosi aiutare, ponevano in pericolo il proprio honore». (2)
A Manfredonia come a Benevento, il cardinale arcivescovo volle, per rispondere alle esigenze dei tempi e degli agricoltori più bisognosi, che i Monti Frumentari fossero Opere Pie. Il Cardinale si proponeva, con la istituzione dei Monti Frumentari, di non fondare Banche o Banchi di pegno, a scopi lucrativi e commerciali.
“Di questa necessità l'Orsini si preoccupava specialmente di due: l'alimentazione e i bisogni della semina. I poveri che erano costretti a ricorrere agli usurai perché in casa non c'era di che sfamare la famiglia o perché necessitava il grano per la semina erano i clienti-tipo dei Monti Frumentari. La provvida istituzione ebbe un fortissimo sviluppo in tutta la diocesi durante l'episcopato orsiniano.
Al 24 agosto 1723 i Monti Frumentari erano 171 con un movimento annuale di circa 30.000 tomoli di grano, pari 13/14 mila quintali. Il Monte Frumentario orsiniano fu eretto a Benevento nell'anno 1694.
Accenniamo brevemente alla sua storia e al suo funzionamento; tutti gli altri, in proporzioni minori, erano modellati su quello del capoluogo. Il Monte Frumentario urbano venne ad innestarsi in un'altra opera caritativa fondata dall'Arciv. Giuseppe Bologna nel 1675, e cioè il Monte di Pietà, con ducati 400 di dote, pagati da un uxoricida come pena pecuniaria.
Il Monte del Bologna non ebbe però successo e l'Orsini vedendo che né la pia volontà del fondatore aveva il suo intento, né i poveri avevano l'opportuno sussidio, lo trasformò in Monte Frumentario con istrumento del notaio Giuseppe Di Pompeo del 14 febbraio 1694. Il fondo Bologna con gli interessi assommava a ducati 632. Di essi 500 furono investiti e cominciarono a fruttare venticinque ducati annui e con i restanti si comprarono 146 tomoli di grano che pertanto costituirono il fondo originario del M. F. di Benevento.
L'Orsini destinò a locali del Monte alcuni vasti ambienti siti a pianterreno dello Episcopio. Il 24 agosto 1695 promulgò nell'appendice del Sinodo le «Regole per il buon Reggimento del Monte». (3)
Palmerino Savoia descrive ancora più dettagliatamente questa pagina storica scritta dall’Orsini.
“Il Monte veniva amministrato da due Governatori e da due Depositari che duravano in carica un anno ed erano nominati dall'Arcivescovo. I Governatori dovevano raccogliere il grano dato in elemosina e comprarne altro durante la raccolta, per soddisfare tutte le richieste di prestito, vendere le eventuali rimanenze a fine anno e investire il ricavato in modo da costituire una rendita a benefizio del Monte.
Dovevano inoltre firmare i mandati di consegna da esibirsi dagli interessati ai Depositari per ricevere il grano.
Dei due Depositari uno era addetto alla ricezione, alla valutazione e alla conservazione dei pegni che dovevano essere di valore doppio di quello del grano richiesto, e non deteriorabili, l'altro doveva aver cura dei magazzini dove veniva ammassato il grano, lo consegnava ai richiedenti e lo riceveva alla restituzione. Il prestito del grano si faceva quattro volte l'anno; nel mese di ottobre per aiuto della semina, nel mese di dicembre per sovvenire i bisognosi nelle feste del Santo Natale, nel mese di marzo per le feste pasquali, nel mese di maggio a gloria di S. Filippo Neri e per venire incontro a coloro che avevano finita la scorta del vecchio raccolto. (4)
Articoli II, III, IV del “Regolamento del Monte Frumentario” eretto a Siponto/Manfredonia l’11 giugno 1679 dal card. f. V.M.Orsini, Manfredonia in Archivio Arcivescovile: “Instrumentum erectionis Montis Frumentarij pro civitate, et Diocesi Sipontina…”, f. n.n |
E’ vero ed è innegabile il merito che questo solerte pastore ebbe nell’introdurre o nell’istituire questa forma di credito agrario, ma è pur vero che questo tipo di banca risale a tempi molto precedenti al suo operare ed operato. Infatti, i primi Monti frumentari sono nati alla fine del XV secolo per prestare ai contadini più poveri il grano e l'orzo per la semina, ed ebbero una notevole diffusione durante i secoli XVI e XVII.
Essi si rivolgevano in particolare ai tanti che vivevano in condizioni di pura sussistenza quando, per il bisogno, erano costretti a mangiare anche quanto doveva essere riservato alla semina. (5) Comunque sia, va dato atto e merito a colui che ebbe questa felice intuizione. Ripristinare, riproporre ciò che le esigenze economiche dei piccoli agricoltori e contadini imponevano.
La scelta orsiniana fu imitata da altre diocesi meridionali, si estese in altre zone depresse e povere del Mezzogiorno, ma ebbe, a distanza di quasi di due secoli il plauso del meridionalista e deputato Giustino Fortunato:
“A ragione, 150 anni dopo, Giustino Fortunato, in un intervento alla Camera dei deputati, notando che più di 200 monti, allora ancora esistenti dalle Romagne alla Puglia, dovevano la loro vita all’iniziativa di papa Orsini, ricordava costui come il loro più grande promotore”. (6)
Fortunato svolge un’ accorata difesa di questi strumenti economici, pur ravvisando che, nell’Italia meridionale, prima del 1860, non fosse stato un modello di retta amministrazione, alla Camera dei deputati, in occasione della tornata del 15 giugno 1880, nella discussione del bilancio di previsione del Ministero dell'Interno per l'anno 1880. (7)
Nello specifico, riferito all’Orsini, egli, scrive, tra l’altro, in un articolo apparso sulla “Rassegna Settimanale”, del 21 marzo 1880, I Monti Frumentari nelle Province Napoletane:
“A questa nuova istituzione dovè forse volger l'occhio il cardinale Orsini, arcivescovo di Benevento, quando, settant'anni dopo, fondando per i coloni bisognosi della sua città un'opera consimile all'intento «di svellere i contratti usurari», prescrisse ai parroci della diocesi, con editto del 14 febbraio 1694, di giovarsi degli avanzi dei luoghi pii laicali per creare novelli Monti frumentari.
Eletto papa nel 1724 col nome di Benedetto XIII, la medesima ingiunzione fu da lui fatta ai vescovi del Reame e dello Stato della Chiesa, prescrivendo a tutti le stesse norme statutarie: fine dell'opera, la somministrazione degli alimenti agli agricoltori poveri, con l'obbligo della restituzione nei giorni del raccolto, previo tenuissimo aumento della derrata; suo governo, nomina annuale da parte del parroco di uno o più amministratori, obbligati al termine dell'esercizio al rendiconto della gestione nelle mani dell'autorità vescovile.
Più che duecento Monti ancora esistenti, dalle Romagne fin giù alle Puglie, debbono la loro esistenza all' iniziativa di papa Benedetto XIII: fra essi, a mo' d'esempio, quello di Brindisi in Terra d'Otranto, che nel 1778 era giunto a tanta floridezza da somministrare al Comune poco meno che trentamila lire per il bonificamento delle paludi circostanti”. (8)
Il pensiero del grande meridionalista, nato a Rionero in Vulture, in Basilicata, rendono onore alla storia, alla vita e all’impegno sociale dell’Orsini, di quell’arcivescovo, ancora oggi, ricordato a Benevento e a Manfredonia, come benefattore delle classi umili.
Non di meno è il giudizio lusinghiero, espresso dall’avvocato Pasquale Calderoni Martini, storico gravinese, sull’operato sociale dell’Orsini, il quale attingendo da una biografia scritta da Alessandro Borgia: “Benedicti XIII vita commentario excepta ab Alessandro Borgia…”, Roma, 1741 e da uno scritto di Salvatore De Lucia: “Fra Vincenzo Maria Orsini e le sue opere sociali”, in Samnium, a. II, 1929, n. 4, Benevento, così si esprime:
“Benedetto XIII da Papa, coerentemente a quanto aveva praticato da Vescovo, proclamo il principio che il ministero del Sacerdote non deve limitarsi solo al campo spirituale ma deve estendersi al campo sociale. In applicazione di tale principio egli stesso da Vescovo aveva fondato ospedali, ospizi per pellegrini, carceri con norme di pietà cristiana e d’igiene e con una tendenza alla riabilitazione morale, monti per maritaggi, monti pegni, e, mirabili fra tutti, i monti frumentari per sottrarre i contadini all’usura, redimerli verso una vita indipendente. Tutte queste opere avevano carattere di redenzione sociale piuttosto che scopo elemosiniero, anzi i monti frumentari devono essere considerati come vere istituzioni di credito”. (9)
Proseguendo nella sua disamina, ed approfondendo questi aspetti della vita di Frà Vincenzo Maria Orsini, Calderoni Martini, nel aver sancito, sempre nell’ambito dello stesso scritto che “Fra Vincenzo Maria Orsini, che fu poi Benedetto XIII, forse fu primo ideatore, certamente primo esecutore di una forma modesta ma pratica di Credito Agrario (10), così continua: “quando ancora giovane era Arcivescovo di Manfredonia fondò colà il primo Monte Frumentario nel 1679, mentre fu a Benevento che, 15 anni dopo, egli potette esplicare un programma organico.
Fra la Fondazione del Monte di Manfredonia e quella del Monte di Benevento trascorse un lunghissimo lasso di tempo. Nell’intervallo ci erano stati l’episcopato di Cesena ed il terremoto di Benevento del 1688, che assorbì ogni attività del Prelato nei primi anni della sua nuova residenza. Al 14 febbraio 1694 fu fondato a Benevento, per mano di Notaio, e quindi in forma solenne, un Monte Frumentario, col modestissimo capitale di ducati 132, residuo delle attività di un abolito Monte di Pietà, liquidatosi qualche anno prima “nella speranza, dice il cardinale, che con questo si diroccherà e svellerà in mezzo ai nostri sudditi ogni contratto usuraio e si edificherà e pianterà una Casa di rifugio ai poveri bisognosi”. (11)
Lo storico gravinese prosegue l’excursus storico ed analitico di questa creatura orsiniana, ribadendo che : “comunque il risultato fu quanto mai incoraggiante giacchè nell’agosto del 1695, alla chiusura cioè del primo esercizio, il Monte aveva già una attività di circa mille tomola di grano, con cui potette affermare il suo funzionamento.
Alla istituzione centrale di Benevento se ne fecero seguire altre consimili in varie località dell’Archidiocesi, che nel 1717 erano salite a 157. Non erano queste delle filiali, perché tutte indipendenti l’una dall’altra, ma erano tutte istituzioni dipendenti dall’Arcivescovo, che, per quanto gli era possibile, cercava mantenere in tutte un unico criterio direttivo, nel nobile proposito di sottrarre il lavoratore della terra all’usura”. (12)
Qui il racconto o il giudizio si interrompe per fare spazio ad un episodio alquanto eloquente e significativo: la emissione di un Bolla di Papa Clemente XI.
Scrive l’avvocato Calderoni: “Nel 1718 il Papa Clemente XI con una sua Bolla del 14 ottobre lodava l’attività del Cardinale Orsini, e, poiché la Diocesi di Benevento anche politicamente dipendeva dallo Stato Pontificio, accordava la sanzione politica oltre che religiosa alle fondazioni impiantate dallo stesso, e le additava ad esempio ai governatori delle altre province. (13)
Per concludere la trasposizione o la trascrizione di queste note, è bene concludere attingendo ancora dallo storico gravinese: “Studiando le tavole dettate dal nostro Cardinale ne risulta chiaro che egli si era ispirato al principio sul quale è fondato l’odierno credito agrario. Fornire senza stancanti formalità e senza timore di personalità il credito all’agricoltore, ripartito però in più rate onde impedire distrazioni. Fissare il rimborso del debito in forma sicura per il creditore, agevole e non costosa per il debitore. S’iniziano le gestioni con capitale minimo, facendo assegnamento sugli accrescimenti per la capitalizzazione degli utili. Era speranza dell’Orsini, come è miraggio nostro, la creazione di una classe di piccoli agricoltori, sopprimendo il bracciantato, che è una piaga degradante dell’Italia Meridionale. Benedetto XIII fu un uomo d’idee superiore ai suoi tempi e perciò non fu sufficientemente apprezzato dai suoi contemporanei”. (14)
Durante l’episcopato beneventano, sempre nello stesso campo, è utile ricordare quello che avvenne nel 1707, quando fu emesso il divieto di commercio del Regno con la città di Benevento, già allora città pontificia.
“La grave situazione che paralizzò tutta la vita economica della sede metropolitana e la privò di non pochi generi di prima necessità era stata determinata da false informazioni di incetta di grani fermati ed acquistati in Benevento per essere rivenduti a più caro prezzo a Napoli. Di questa incetta era stato accusato lo stesso Orsini, minacciato di conseguenza, del sequestro dei suoi frumenti diocesani. Scrivendone al nipote, duca di Gravina, con l’incarico di riferire al vicerè, l’Orsini contrapponeva:
"
la calunnia di avere nel mio magazzino centomila tomoli di grano non può aver fronte di infamarmi come mercadante. E’ noto a Lippi e a Barbieri quanto grano raccolgo. Né merita alcuna considerazione l’atto compiuto dal rappresentante regio che con temerario ardire mandò per la Diocesi a prendere informazioni delle mie prediche e perfino a chiamare in corpo i magistrati delle terre da me visitate. Con tutti i vicerè, in Manfredonia e in Benevento, e in 27 anni di vescovado, ho goduto sempre la più alta stima sicchè il vicerè marchese di Santo Stefano, fu costretto a chiedermi perdono per aver voluto attentare al sequestro delle mie rendite ecclesiastiche. Non ho mai voluto comprare grano per accomodare i miei, dovendo dei grani fare la distribuzione ai poveri, dei quali sono il grassiere non già il mercadante. Concludo che se S.E. il Vicerè userà rigori contro Benevento, Napoli perderà il suo più prossimo magazzino. Ma se S.E. mi conoscesse, non avrebbe orecchio per i malevoli non della mia persona, ma della mia disciplina”.
La contesa si trascinò con pause più o meno lunghe per 12 anni, ma la dignitosa e fiera difesa, pur sempre nell’interesse del popolo che il divieto del commercio del grano condannava alla miseria, doveva concludersi con la vittoria dell’Orsini, il quale anche in campo non strettamente religioso, aveva finito, come si è potuto rilevare, per assorbire funzioni di stretta competenza civile, tanta autorità, e soprattutto tanto prestigio, aveva saputo conquistare nel suo lungo e fertile episcopato”. (15)
E’ bello riprendere, dalla capitale della Sannio, una immagine eloquente e significativa, racchiusa nell’iniziativa assunta dal futuro senatore ed onorevole Giambattista Bosco Lucarelli con la costruzione di un edificio: ”Unione agraria cooperativa Benedetto XIII – Casa del contadino”, quale “strumento efficace di potenziamento e difesa degli interessi della classe agricola”. (16)
Oggi, purtroppo, questa cooperativa e lo stesso edificio non esistono più. Ma l’aver fondato ed istituito un sodalizio ed intitolarlo all’Orsini, a quasi duecento anni dalla sua morte, è la conferma di quanto fosse stata, e lo è ancora, radicata la presenza di una testimonianza, di un impegno pastorale a beneficio delle popolazioni meno abbienti, dei cittadini più sfortunati.
A tal riguardo ci viene ancora incontro il De Caro: “I successi qui ottenuti dall'iniziativa dei Monti frumentari lo indussero a pensare che soltanto un diretto intervento del governo potesse stimolare, attraverso una forte diminuzione della pressione fiscale e una larghissima concessione di crediti, la diffusione di iniziative commerciali e industriali e, soprattutto, potesse valorizzare l'agricoltura.
B. XIII riteneva che il nuovo clima economico avrebbe creato, su basi meno opprimenti e limitatrici delle iniziative produttive, un gettito fiscale tale da compensare i sacrifici iniziali che l’erario si sarebbe assunto. Testimoniano l'impegno con cui egli cercò di realizzare questa coraggiosa impostazione ben trentotto costituzioni che sulla materia furono emanate durante sei anni di pontificato.
La preparazione e l'esecuzione dell'iniziativa furono affidate, il 15 ed il 17 Ott. 1725, a una speciale "Congregazione sull'agricoltura" e a una commissione di tecnici incaricata di studiare la questione della libertà dei grani” (17), costituite ed istituite nel cuore dell’Anno Santo. |
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Scrive ancora il De Caro, relativamente alle buone intenzioni del pontefice e ai risultati, purtroppo, poco incoraggianti che ne conseguirono:
“La Congregazione sulla agricoltura, alla quale il papa attribuì giurisdizione su tutto il territorio pontificio, al di sopra di ogni diversa magistratura, doveva provvedere alla revisione del bilancio dell'annona, alla concessione di crediti agrari e di esenzioni fiscali all'industria e al commercio, allo studio e realizzazione di provvedimenti "ad agricolturae perfectionem, statum et consistentiam", alla stipulazione dei trattati di commercio con altri Stati.
In esecuzione delle deliberazioni della Congregazione gli sgravi fiscali autorizzati da B. XIII a varie categorie di industriali e di commercianti ed i prestiti concessi agli agricoltori raggiunsero cifre senza precedenti e alla fine dei pontificato l'erario aveva raggiunto il fortissimo deficit di 120.000 scudi, laddove al principio dei governo di B. XIII aveva un margine attivo di più che 270.000 scudi.
Tuttavia l'economia dello Stato non si avvantaggiò minimamente del notevole sforzo imposto all'erario dal pontefice: il gruppo di profittatori che questi aveva intorno seppe sfruttare a proprio particolare vantaggio il programma del papa, inducendolo a finanziare iniziative economiche fittizie, sviando verso le tradizionali consorterie parassitarie di nobili e di speculatori le provvidenze di cui si faceva carico l'erario e travisando a tal punto le intenzioni del pontefice che Clemente XII, assumendo la successione nel 1730, dovette creare una "Congregazione particolare sulle estorsioni e sugli abusi a danno di Benedetto XIII". (18)
Benevento, Archivio Storico Diocesano: Raccolte edittali
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“La foto, tratta dal sito il vaglio.it , mette in evidenza un edificio con in alto la scritta ”Unione agraria cooperativa Benedetto XIII – Casa del contadino”’, fondata dal futuro senatore ed onorevole Giambattista Bosco Lucarelli quale “strumento efficace di potenziamento e difesa degli interessi della classe agricola”. Le ragioni della intitolazione possono risiedere nell’impegno che l’Orsini assunse nel riprendere ed istituire i Monti frumentari, ma anche, per quello che ci riferisce Gaspare De Caro, un biografo orsiniano:
“I successi qui ottenuti dall'iniziativa dei Monti frumentari lo indussero a pensare che soltanto un diretto intervento del governo potesse stimolare, attraverso una forte diminuzione della pressione fiscale e una larghissima concessione di crediti, la diffusione di iniziative commerciali e industriali e, soprattutto, potesse valorizzare l'agricoltura.
B. XIII riteneva che il nuovo clima economico avrebbe creato, su basi meno opprimenti e limitatrici delle iniziative produttive, un gettito fiscale tale da compensare i sacrifici iniziali che l’erario si sarebbe assunto. Testimoniano l'impegno con cui egli cercò di realizzare questa coraggiosa impostazione ben trentotto costituzioni che sulla materia furono emanate durante sei anni di pontificato.
La preparazione e l'esecuzione dell'iniziativa furono affidate, il 15 ed il 17 Ott. 1725, a una speciale "Congregazione sull'agricoltura" e a una commissione di tecnici incaricata di studiare la questione della libertà dei grani”.
Di fronte ad alcune vicende poco chiare, che caratterizzarono il pontificato di Benedetto XIII, ebbe gioco facile Montesquieu, nel suo famoso Viaggio in Italia, di scrivere, non da storico, ma da viaggiatore frettoloso, grossolano e superficiale, un giudizio fortemente negativo: “Nello Stato Pontificio non c'è né commercio, né industria; le terre sembrano molto mal tenute.
La malaria colpisce, secondo un Cardinale, perché “le acque non scorrono più tanto bene; ci sono fossati sulla riva del mare, che d'estate si asciugano producendo insetti ed esalazioni cattive; miniere di allume emanano esalazioni” (p. 149).
Intanto, i privilegi degli ecclesiastici sono rigorosamente mantenuti dalla “Congregazione dell'Immunità”, istituita già nel lontano 1626. Gli assassinii sono più frequenti nello Stato Pontificio che a Roma.
Il Papa Benedetto XIII è “molto odiato” dal popolo romano, perché “fa morire di fame”, preferendo investire denari per Napoli e per lo Stato della Chiesa rispetto alla Città Eterna”. (19)
Proseguendo sull’impegno dell’Orsini, non possiamo fare a meno di sottolineare la continuità pastorale nell’esercizio delle funzioni di capo di diocesi e di capo supremo della Chiesa Universale. Il senso, il nesso, il legame tra questi momenti diversi ci presenta una persona fortemente responsabile, attenta, coraggiosa, ma, soprattutto, coerente con la sua vocazione di servizio, anche durante gli anni in cui fu vicario di Cristo, a riprova, ma, anche per smentire i suoi innumerevoli detrattori e superare tutti quei giudizi e pregiudizi espressi, a piene mani, da coloro che non hanno mai bene conosciuto il personaggio o mai si sono cimentati in ricerche serie.
Uno di questi casi potrebbe essere lo stesso Pastor, il quale, neanche lui fu tenero verso questo Pontificato e il suo pontefice. Al contrario, invece, il momento e il periodo del suo pontificato, come è testimoniato da Cesare De Cupis (20), sotto l’aspetto sociale, non solo non è meno intenso di quello profuso durante gli anni degli episcopati sipontini e beneventani, ma, addirittura, consolida, conferma e arricchisce il suo zelo, il suo rispetto, la sua stima verso la categoria degli agricoltori...
Scrive il De Cupis: “Nel principio poi del pontificato di Benedetto XIII, successore a Innocenzo XIII,sorse una gravissima questione per parte di tutti i possessori di bestiame, i quali, a causa della straordinaria siccità dell'anno 1725, reclamarono al Pontefice, affinchè volesse riparare agli immensi danni da essi subiti, in quanto sebbene avessero antecedentemente preso in affitto i pascoli a prezzo altissimo ed eccessivo, tuttavia l'assoluta mancanza delle erbe aveva prodotto una incessante mortalità del bestiame stesso, per modo che non era stato possibile ritrarre alcun utile e alcun frutto dalle masserie.
Eglino quindi fecero istanza perchè fossero riconosciute tutte le tenute soggette ai pascoli delle masserie, al fine di potere ottenere una diminuzione del prezzo di affitto dei pascoli. Il Pontefice accolse il reclamo, e, con un suo rescritto, decise che i ricorrenti avessero usato del loro diritto”. (21)
Nella relazione sulle vicende dell’agricoltura e della pastorizia nell’agro romano, del succitato autore, e in riferimento al pontificato orsiniano, si legge ancora:
“In conseguenza di quanto ebbe così deciso Papa Benedetto XIII, il Cardinale Camerlengo, Annibale Albani, Carlo Collicola, Tesoriere generale, e NicoIa Negroni Presidente della Grascia, bandirono un Editto di citazione. con invito a chiunque avesse creduto di avervi interesse, di presentarsi alla Deputazione dei giudici, nominata dal Pontefice per esaminare il ricorso e le ragioni dei possidenti dei bestiami, e più specialmente con ingiunzione ai proprietari delle tenute, che avevano tenuto così alto il fitto delle erbe, di comparire avanti la stessa Commissione nel termine di giorni dieci, e di dedurre quivi le loro ragioni. La Commissione delegata dal Pontefice, che in seguito appellossi «dei defalchi», dopo maturo esame sentenziò che i proprietari diminuissero la corrisposta per affitto delle tenute, e dessero altresì una dilazione congrua, affinchè gli affittuari dei pascoli potessero corrispondere agli impegni assunti, tenendo conto della riduzione degli affitti.
Il Pontefice, nel desiderio di provvedere alla pubblica cosa, volse l'animo suo a ricercare un pronto rimedio per uno stato di cose, che ogni di più poteva cagionare la rovina dell’agricoltura. E, dopo maturo consiglio, chiesto in proposito ad uomini esperti della cosa pubblica, fu riconosciuto che la prima cagione dell'abbandono dell'agricoltura consisteva nel fatto che l'Annona restringeva il libero commercio del grano. A causa di ciò i mercanti e gli agricoltori, quando che avevano fatto trasportare il grano a Roma, si trovavano nella dura condizione di non poterlo vendere ai fornai, che si approvvigionavano soltanto dall’Amministrazione Annonaria, la quale, dall'anno 1718 al 1724, aveva lucrato l'ingente somma di scudi 305 49 (lire 2,125,000).
Per simili ragioni gli stessi fornai e gli agricoltori reclamarono energicamente contro l’Amministrazione dell’Annona, dichiarandosi aggravati oltre le proprie forze, ed oppressi da provvedimenti coercitivi per la loro industria. Aggiungasi, che i ministri della stessa Annonna, facevano illeciti negozi, dappoiché i mercanti di campagna, per esitare il loro grano, erano costretti a dar loro regalie in denaro, al fine di goderne la preferenza sopra altri venditori. Da ciò derivava ai mercanti stessi un sommo danno; infatti eglino dovevano vendere all'Annona il grano ad un prezzo determinato, mentre poi l’Annona stessa lo rivendeva ai fornai ad un prezzo maggiore, secondo le circostanze delle stagioni, e così i mercanti venivano privati del frutto delle loro fatiche e del rimborso delle grandi spese fatte tanto per la coltivazione, quanto per i trasporti, senza che da ciò il popolo risentisse alcun beneficio, ma tutto risultava a vantaggio e guadagno soltanto dell'Amministrazione dell'Annona.
Per tali ragioni, le campagne rimanevano incolte e quasi abbandonate con evidente pericolo dello Stato, per la mancanza delle derrate necessarie all'alimento dei popoli. E che, tale fosse il vero stato delle cose, lo dice chiaramente lo stesso Pontefice Benedetto XIII nel suo Chirografo del giorno 15 ottobre dell'anno 1725, col quale volle prescrivere le norme ed i regolamenti relativi alla provvista del grano, che doveva fare l'amministrazione dell'Annona ed anche ai prestiti che si dovevano concedere agli agricoltori.
Il Pontefice, dopo le considerazioni che abbiamo già premesse, lamentò che l'agricoltura oramai fosse caduta in deperimento, e che, quasi abbandonata generalmente, fosse per cessare del tutto; temeva che ciò potesse costituire un pericolo per la vita, dato che pochissimi si rinvenissero ancora disposti ad eseguire la semina sia nell'Agro Romano, sia nel distretto di Roma, e ad arrecare qualche utile ai proprietari delle tenute ed ai coltivatori delle terre, atteso le gravi spese necessarie all'uopo, e la difficoltà somma nel vendere o nel collocare il grano raccolto.
In conseguenza il Pontefice ordinò che nei granai dell'Annona si tenessero in serbo soltanto trentamila rubbia di grano, che si prevedeva potessero essere sufficienti alle urgenze di Roma. Che i ministri dell'Annona, non dovessero più comprare né vendere il grano, e che quella quantità di frumento, tenuta in serbo, dovesse essere provveduta dai fornai a condizione che, in caso di penuria l'approvvigionamento del grano, dovesse essere fatto a volontà del Prefetto dell’Annona”.(22)
Impegno risoluto e, forse, risolutore dell’anziano pontefice, che, come al solito, non risparmiava a se stesso tutte le migliori energie per portare a risoluzione vertenze delicate, soprattutto, in materia di sostegno alle categorie meno protette o più vessate. In questa particolare fase della trattativa, e più in generale, nell’arco dell’intero pontificato, come anche durante gli anni in cui fu alla guida delle Chiese di Manfredonia, Cesena e Benevento, emerge un aspetto insolito, meno conosciuto e mai approfondito, almeno finora, dell’Orsini: quello di essere un fine diplomatico, e non solo in campo agricolo e agrario, ma, anche in altri campi, soprattutto in materia ecclesiastica. Tipici sono i casi in cui veniva spesso chiamato per dirimere le vertenze che sorgevano all’ombra del santuario di Montevergine tra la comunità benedettina virginiana e le autorità locali o alcuni singoli cittadini di Mercogliano. (23)
O il caso in cui fu destinato a Gravina, sua città natale, per ricomporre dissidi sorti tra alcuni suoi familiari e le autorità ecclesiastiche. (24)
Il fine diplomatico che, però, per i problemi connessi all’agro romano, si avvale di giusti e quotati consulenti, così come leggiamo dallo scritto del De Cupis.
“Nel tempo normale per la provvista pel rinnovo delle 30 mila rubbia di riserva dovesse essere fatta dai fornai, la quarta parte ogni tre mesi, secondo le norme prescritte dal Chirografo di Papa Alessandro VIII. I Consoli dell'arte dei fornai, dovessero ispezionare ogni settimana i granai dell'Annona, e dovessero denunziare subito al Prefetto dell'Annona stessa, se il grano non si mantenesse in buona condizione o se deperisse, affinchè si potesse provvedere al rinnovo, acquistando altra quantità. Ogni qualvolta che si acquistasse il frumento, dovesse essere vagliato nei granai dei mercanti di campagna, a volontà del Prefetto, e giammai nei granai dell'Annona.
Volle poi il Pontefice che il marchese Girolamo Teodoli, riferisse sullo stato finanziario dell'Annona non solo, ma altresì esprimesse il suo parere circa i prestiti da farsi agli agricoltori, cioè se dovessero essere fatti in denaro, ovvero in grano, ed in quale misura, e se ai proprietari soltanto, e con quali cautele.
Lo stato finanziario dell'Annona aveva allora una consistenza di 562,457.09
scudi, dalla qual somma detratti scudi 168,254.85, rappresentanti il valore del grano conservato nei granai di Roma e di Civitavecchia, e che erano stati costruiti per l'Annona, tenendo conto anche del valore di un forno di proprietà dell'Annona, ne derivava un utile che ammontava a scudi 394,202.24, dalla qual somma detratti scudi 22,614.84, per frutti dovuti ai possessori delle azioni del Monte Annonario, la residua somma di scudi 371,587.49 — lire 1,997,802.27 — rimaneva a disposizione e volontà del Pontefice, che la destinò, ripartendola, come viene detto in seguito, in sussidio ed aumento dell'arte dell’agricoltura. Stabilì poi che i prestiti per gli agricoltori, fossero fatti col denaro e non già col grano, e che ne usufruissero tanto i coltivatori. quanto i proprietari
delle tenute e gli affittuari di quelle, poste nell'Agro Romano e nel distretto della città. Per i prestiti fatti alle persone del distretto, si dovesse pagare il due per cento d’interesse che doveva servire a saldare gli stipendi dei Commissari, i quali dovevano assumere le informazioni sulla solvibilità di coloro che domandavano i prestiti.
Decretò poi che fosse proibito ai Panettieri, Vermicellai e Ciambellai di poter acquistare il grano del Mercato a Campo di Fiori, per uso del loro mestiere,
disponendo che neppure potessero esercitare l'arte agraria, affinchè sotto tale
pretesto, in tempo della raccolta, non incettassero il grano con danno del pubblico.
E volle altresì che simili proibizioni fossero fatte ai misuratori — ad ponderatores — e agli altri ministri dell'Annona. Nello stesso tempo instituì una Commissione composta del Tesoriere generale
e del Prefetto dell'Annona, chiamando a farne parte per rappresentanza di Roma e suo Distretto, Alessandro degli Abbati, referendario in ambedue le Segnature, il marchese Girolamo Teodoli e Tiberio Cenci, per l'Umbria e le Marche l'Arcivescovo di Damiata Marco Antonio, per Bologna Alessandro Tanara, referendario in ambedue le Segnature, per Ferrara Carlo Calcagnini, giudice nelle cause de' Sacri Palazzi Apostolici, per la Romagna Anselmo Dandini, referendario
in ambedue le Segnature, ed insieme Ponziano Fargna, assessore del diritto pontificio, e consultore imperiale.
Tutti i sopradetti commissari dovevano riunirsi ogni quindici giorni per deliberare quanto fosse più atto a ripristinare, ristabilire ed aumentare l'agricoltura, occupandosene con zelo, conferendo insieme, consultandosi reciprocamente e riferendo poi tutto al Pontefice stesso, affinchè
questi potesse provvedere. Tuttavia doveva restare sempre in carica ed in funzione la Commissione dei Cardinali istituita secondo la Constituzione del Predecessore Papa Paolo V, sotto la data 19 ottobre dell'anno 1611.
Il Pontefice soggiungeva, nel suo atto, suggerimenti e disposizioni a tutela dell'agricoltura e del buon andamento di essa, affinchè fossero evitati tutti gli inconvenienti gravi che si erano verificati precedentemente. Volle che tutti i Governatori e Presidenti delle provincie dello Stato, prestassero somma obbedienza alle decisioni della Commissione particolare instituita per gli affari annonari, e che fosse data esecuzione con sollecitudine a tutte le deliberazioni che essa avrebbe adottato.
Circa le modalità e le cautele con le quali l'Annona avrebbe potuto fare i prestiti agli agricoltori ed ai proprietari dei fondi e mercanti di campagna nell'Agro romano o nel distretto di Roma. Il Pontefice volle che qualsiasi delibera in proposito, fosse riservata unicamente alla Commissione ed agli altri che erano stati chiamati a farne parte, come abbiamo superiormente indicato.
Per ciò poi che riguardava la misura o piuttosto la ragione dei mutui da farsi agli agricoltori, il Pontefice, considerando di avere disponibile una somma di scudi 371,587.40, ripartì tale somma, in quanto a scudi 2I0,00 per l'acquisto di rubbia, 310,00 di grano da tenersi in serbo nei granai dell'Annona, come aveva superiormente comandato; della residuale somma poi di 161,587,109 scudi, stabili che dovessero essere fatti in ogni anno dei prestiti: e cioè per
scudi 60,000 - lire 325,000 —agli agricoltori e padroni dei fondi e mercanti nell'Agro romano, senza che per detta somma il presidente dell'Annona non dovesse pretender alcun frutto o compenso, sotto qualsiasi forma.
Volle poi il Pontefice destinare anche la somma di scudi 50,000 in favore degli agricoltori possessori e mercanti del distretto di Roma, i quali, però, avrebbero dovuto corrispondere il due per cento, per le spese d'amministrazione. Il residuo della somma totale
di scudi 51 587.40, unendovi l'esazione, che doveva farsi presso tutti i debitori verso l'Annona, oltre il ricavato dalla vendita del grano eccedente le 30,000 rubbia, che dovevano tenersi sempre a disposizione dell’Annona, voile che fosse rinvestito in tanti Luoghi di Monte della Camera che però non fossero vacabili. I frutti e gli utili ritrattine, dovevano essere annualmente rinvestiti
nel modo sopradetto.
Tutto ciò avrebbe dovuto servire a formare una somma sempre disponibile, per provvedere a qualunque penuria o carestia, che avvenisse in futuro. Il Pontefice affidava la fedele esecuzione dei provvedimenti emessi alla Commissione soprannominata, osservando che fossero tutti osservati da qualsiasi persona di qualunque grado o stato.
Concludeva la Constituzione abrogando ogni altra disposizione in contrario, precedentemente vigente. La Constituzione fu emanala presso Sianta Maria Maggiore, ossia dal Quirinale”. (25)
Il De Cupis non fa altro, nel suo lavoro editoriale, che tradurre dal latino i chirografi papali. Attingendo dalla sua trascrizione dall’originale, con particolare riferimento agli esiti della vicenda, leggiamo, ancora: “Sembra però che i provvedimenti presi riuscissero del tutto inefficaci, poiché il grano rincariva sempre più, ed i fornai si lagnavano che rimanessero fisse le tasse del macinato, e così i prezzi obbligatori per la vendita del pane. Intanto, per ordine di Benedetto XIII, il Cardinale Albani Annibale, Camerlengo pubblicò, nel giorno 30 luglio 1726, un Bando, perchè nessun Principe, Duca, Marchese, Barone o Signore, né altri di qualsiasi grado o condizione sociale, impedisse a chiunque suddito o non suddito, di essi nominati, di poter liberamente condurre o mandare a Roma grano e qualsiasi specie di vettovaglie; e ciò conforme ai Bandi generali del 25 settembre 1677, 19 agosto 1693, 5 settembre 1701, 14 giugno 1702 e 13 settembre 1713, i quali tutti venivano rinnovati.
Coloro che avessero trasgredito, sarebbero incorsi nelle censure ecclesiastiche per ragione di lesa maestà — lesae maiestatis — oltre a subire la privazione dei loro feudi e la confisca dei loro beni, secondo quanto prescriveva la Bolla “ in Coena Domini” ed altre Constituzioni dei Pontefici. I ministri e rappresentanti dei sopradetti Signori, sarebbero incorsi nella pena di dieci anni di galera, mentre coloro che avessero rilevato o denunciato i trasgressori avrebbero avuto in premio la quarta parte delle pene pecuniarie e si sarebbe conservato segreto il nome dei delatori.
A facilitare l'approvvigionamento della pubblica Annona, il Cardinale Camerlengo sopradetto, nello stesso giorno del Bando sopraindicato, ne pubblicò altro consimile, nel quale esprimeva che, essendo a cognizione sua come i padroni del grano, degli orzi e dei legumi, raccolti nello stesso anno nei propri terreni, tenessero tutto riposto nei casali di campagna, nelle tenute, o nei luoghi a quelle vicine, nonostante i reiterati Bandi pubblicati, perciò ordinava che chiunque, fosse anche di condizione sociale elevata, ecclesiastica o secolare, avente domicilio o che abitasse entro Roma, e possedesse grani e legumi raccolti nella stagione attuale o nella precedente, e li conservasse nel raggio di 30 miglia da Roma, e chiunque li avesse anche alla distanza di 40 miglia, ordinava, ripetiamo, che i primi dovessero condurre tutto a Roma entro il mese di agosto e gli altri entro il successivo settembre, e quelli ancora più lontani che facevano il trasporto delle derrate sia per fiume, sia per mare, eseguissero l'ordine nella forma come sopra entro il mese di ottobre; e tutto ciò senza alcun pretesto per mancata esecuzione del Bando. In caso contrario incorrerebbero nella pena della perdita dei generi, oltre che una multa di scudi 10 per ciascun rubbia di grano o gramaglie che sarebbe stato rinvenuto nei luoghi tutti compresi nel Bandi.
Che se alcuno, per qualsiasi ragione, prorogasse il trasporto, sarebbe stato soggetto alle stesse pene “ed anco maggiori ed afflittive del corpo” (sic) ad arbitrio di Monsignor Prefetto dell’Annona.
Tuttavia le raccolte del grano e degli altri generi si succedevano sempre più scarse, come rileviamo da un Chirografo del menzionato Pontefice del giorno 14 settembre 1729, nel quale si deplora la penuria non solo di quell’anno, ma altresì dei due precedenti. In conseguenza di tale deficienza la Università dei fornai presentò una domanda perchè fosse diminuita la tassa del macinato, dichiarando che altrimenti sarebbe riuscito impossibile ad essi fornari di continuare la loro industria.
Il Pontefice annuendo alla giusta domanda e seguendo le disposizioni precedenti dell'antecessore Pontefice Clemente XI, ridusse la tassa della metà tanto ai fornai che vendevano il pane in quantità grande, quanto a quelli che lo spacciavano al minuto”. (26)
(Gravina in Puglia. Lo stemma cardinalizio dell’Orsini posto sul soffitto della basilica cattedrale.
Foto Saverio Paternoster)
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Note
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Gaspare De Caro, Benedetto XIII, in Enciclopedia dei Papi 2000, Treccani.
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Teresa Maria Rauzino, 1675. Ischitella negli appunti del futuro papa Benedetto XIII, due le visite pastorali del cardinale Orsini preparate con gran cura, in “L’Attacco” del 7 ottobre 2010.
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Palmerino Savoia, Una grande istituzione sociale (I Monti Frumentari), in l’Episcopato beneventano di papa Orsini, 1973, Tipografia Libraria “La Nuovissima”, Acerra.
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Palmerino Savoia, op.cit.
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Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.
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Angelomichele De Spirito, (a cura), Visite pastorali di Vincenzo Maria Orsini nella Diocesi di Benevento (1686 – 1730). Roma 2003, Edizioni di Storia e Letteratura.
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Giustino Fortunato, Trasformazione dei Monti Frumentari, 15 giugno 1880 in Camera de' deputati, tornata del 15 giugno 1880, nella discussione del bilancio di previsione del Ministero dell'Interno per l'anno 1880, in Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, discorsi politici (1880 – 1910), Volume Primo, Bari, Giuseppe Laterza & Figli, Tipografi – Editori – Librai, 1911.
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Giustino Fortunato, Il Mezzogiorno e lo Stato Italiano, op. cit.
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Pasquale Calderoni Martini, Fra Vincenzo Maria orsini ed il Credito Agrario nel secolo XVII. Lettera agli Azionisti della Banca Cooperativa Agraria, Arti Grafiche Torella, Napoli, 1933.
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Pasquale Calderoni Martini, op. cit.
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Pasquale Calderoni Martini, op. cit.
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Pasquale Calderoni Martini, op. cit.
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Pasquale Calderoni Martini, op. cit.
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Pasquale Calderoni Martini, op. cit.
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Alfredo Zazo in Nel III centenario della nascita di Benedetto XIII, conferenze tenute nella Sala della Traslazione in S. Domenico di Bologna, il 3-4-5 marzo 1951 da Alfredo Zazo, Alfonso D’Amato, Bartolomeo G. Vignato, Scuola Tip. Benedettina, 1951, Parma.
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Giuseppe Massari, Viaggio nella storia tra le pietre vive della memoria,edizione su supporto magnetico.
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Gaspare De Caro, op. cit.
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Gaspare De Caro, op. cit.
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Montesquieu Charles-Louis de Secondat: Viaggio in Italia. Laterza, Roma-Bari 2008. A cura di Giovanni Macchia e Massimo Colesanti. Prefazione di Macchia, Nota al testo di Colesanti.
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Cesare De Cupis, Vicende dell’Agricoltura e della Pastorizia nell’Agro romano, giusta memorie, consuetudini e leggi desunte da documenti anche inediti. Sommario Storico. Roma, Tipografia nazionale di G. Berterio, 1911.
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Cesare De Cupis, op. cit.
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Cesare De Cupis, op. cit.
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Giovanni Mongelli O.S. B. Storia di Montevergine e della Congregazione Verginiana Voll. V – VI, Amministrazione Provinciale di Avellino, MCMLXXI.
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Pro Loco e centro Studi Gravina (a cura) Visita Apostolica della città di Gravina del Cardinale Vincenzo Maria Orsini 1714. Gurrado, Gravina, 1975.
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Cesare De Cupis, op. cit.
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Cesare De Cupis, op. cit.
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LETTERA APERTA A PAPA FRANCESCO A PAPA FRANCESCO DI MAGDI CRISTIANO ALLAM: C'E' POSTO NELLA CHIESA PER UNO SPIRITO LIBERO?
Con questo titolo, il Giornale del 31 marzo 2013, giorno di Pasqua, pubblicava una lettera di Magdi Cristiano Allam, convertitosi cinque anni fa al cristianesimo, nonostante la sua provenienza e la sua fede islamica, ricevendo, contestualmente, durante quella storica veglia pasquale, nella basilica di san Pietro, dalle mani di Benedetto XVI, i sacramenti della iniziazione cristiana.
Evidentemente, alcuni eventi e alcuni fatti che si sono succeduti, non lo hanno convinto, sino al punto da fargli preannunciare e paventare le “dimissioni” da un certo cristianesimo nel quale, pare, non doversi o volersi riconoscere più.
Alla luce di questa maturazione ulteriore, ha deciso di inviare una lettera aperta all’attuale pontefice per contestagli alcuni atteggiamenti assunti subito dopo l’elezione al pontificato. Giudizi di merito e di sostanza che condividiamo in pieno, sottoscrivendoli con la consapevolezza piena di chi crede nello spirito di obbedienza al Papa, alle gerarchie ecclesiastiche, ma senza lasciarsi prendere o andare da quella papalatria o ecclesiolatria che molti hanno inaugurato sin dal momento successivo alla elezione al Soglio di Pietro di Papa Francesco.
Scrive Magdi Allam: “Vivevo già sotto scorta perché sin da musulmano condividevo i valori non negoziabili della sacralità della vita, della pari dignità tra uomo e donna, della libertà religiosa, che nel Cristianesimo hanno trovato la loro dimora naturale. Mentre la violenza è intrinseca al Corano e a Maometto e la conflittualità è intrinseca allo scontro sulla concezione e la gestione del potere spirituale e secolare tra i musulmani, ho sempre immaginato che all'opposto nel Cristianesimo prevalgano sia l'amore che è in Gesù e nei Vangeli, sia l'unità quantomeno tra i cattolici in virtù della presenza del Papa.
Sulla base della convinzione che i cattolici non possano non essere che un tutt'uno con il Papa quale vicario di Cristo in terra, ho sempre vissuto con sofferenza il contrasto tra ciò che in seno alla Chiesa si afferma come verità, ciò in cui si crede come fede e ciò che si compie come opere.
A cominciare dalle dimissioni terrene del Papa Benedetto XVI, nel pieno delle sue facoltà mentali e una salute invidiabile per i suoi 86 anni, che da un lato non potrebbero far venir meno l'investitura divina che l'ha consacrato a vicario di Cristo e, dall'altro svela la resa al potere secolare che governa lo Stato del Vaticano incappato in una serie di scandali finanziari e sessuali.
Subito dopo il suo esordio come Papa, sono rimasto perplesso dal suo messaggio centrale volto a promuovere una Chiesa povera vicina ai poveri. Pur comprendendo che la Chiesa ha un orizzonte universale e si fa carico della tragica realtà di tanti poveri nel mondo, l'esaltazione della povertà come valore intrinseco, alla stregua di San Francesco di cui lei è il primo Papa ad adottarne il nome, rischia di essere equivocata nel momento in cui in Italia, in Europa e altrove delle popolazioni benestanti vengono ridotte in povertà dalla dittatura finanziaria promossa dalla speculazione globalizzata, dallo strapotere delle banche e dall'Eurocrazia che condannano a morte le imprese, moltiplicano i disoccupati, mettono in sofferenza le famiglie e tolgono la speranza ai giovani.
Esaltare la povertà, almeno in questa parte del mondo e in questo momento storico, rischia di essere percepito come un invito alla rassegnazione ad una tirannia che sta trasformando dei paesi ricchi in popolazioni povere per assecondare l'ingordigia di chi ha eretto il denaro a proprio dio”.
Così conclude: “Per aver espresso queste considerazioni, mi sono ritrovato violentemente attaccato da coloro che si concepiscono come fedelissimi della Chiesa e del Papa, ridotto a oggetto di linciaggio mediatico paragonabile a una versione virtuale dei tribunali dell'Inquisizione, irrimediabilmente condannato come Satana, Giuda, apostata, traditore, indemoniato, perfido, finto-cattolico dopo essere stato un finto-musulmano.
Sentenze inappellabili accertate dalla citazione letterale della Bibbia e dei Vangeli.
Caro Papa Francesco, guardandola e ascoltandola mi verrebbe di darle del tu, la domanda che le pongo è la seguente: premesso che credo in Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo, che credo nel battesimo ricevuto da Benedetto XVI, c'è posto nella Chiesa per uno spirito libero che ama la verità e non rinuncia alla libertà? Io penso di sì e sono certo che il mio contributo, al di là delle reazioni impulsive, acritiche e fanatiche, servirà a fortificare la Chiesa e a salvare la civiltà cristiana. Buona Pasqua di Risurrezione di tutti gli spiriti liberi”!
Giuseppe Massari
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SCOPERTE A ROMA RELIQUIE UMANE DI BENEDETTO XIII, IL PAPA GRAVINESE E TERZO PONTEFICE PUGLIESE
Il vocabolario Treccani, della parola precordi fornisce, tra l’altro, la seguente definizione:
“per indicare complessivamente gli organi e le formazioni anatomiche della cavità toracica che circondano il cuore, ritenuti sede degli affetti, dei sentimenti, della sensibilità”.
Questa premessa per portare a conoscenza dei lettori, in generale, e dei gravinesi in particolare, che attraverso la mia ricerca storico-iconografica sulla figura dell’Orsini cardinale, arcivescovo e Papa col nome di Benedetto XIII: “Viaggio nella storia tra le pietre vive della memoria”, non ancora definitivamente chiusa o conclusa, ho scoperto una notizia interessante, forse una sorpresa pasquale.
Una sorpresa non godereccia, probabilmente e né passeggera o pronta ad usurarsi con il tempo.
Da il "Giornale" del 24 u.s. leggo una intervista ad una certa Lauretta Colonnelli, autrice di una recente pubblicazione: “Conosci Roma?”, una specie di guida sulle amenità curiosità nascoste e sconosciute della capitale d’Italia.
Nel corso della chiacchierata con il giornalista intervistatore, la Colonnelli racconta di una chiesa romana in cui sono custoditi i precordi dei papi dal 1590, cioè da Sisto V a Leone XIII, deceduto nel 1903.
“Nella chiesa dei santi Vincenzo e Anastasio, davanti alla Fontana di Trevi sono sepolti in appositi loculi i precordi, le frattaje - come dicono i romani - di 23 pontefici, da Sisto V, morto nel 1590, a Leone XIII, morto nel 1903. La pratica fu abolita da Pio X”.
Tra conferme e certezze, scopro perché la succitata chiesa, fu definita dal Belli, poeta dialettale romano, “un museo de corate e de ciorcelli”, perché nella chiesa si conservavano in appositi contenitori i precordi dei papi, ossia quelle parti interiori facilmente decomponibili che venivano asportati durante l’imbalsamazione cui erano sottoposti i pontefici.
A questo punto cerco di risalire, di rintracciare l’autrice per sapere e conoscere se fra quei 23 pontefici o tra i resti di quel pontefice ci fossero anche quelli relativi a Benedetto XIII.
La signora Colonnelli, così risponde, il 27 marzo, sia pure non direttamente a me, ma alla casa editrice, che ha pubblicato il lavoro sopracitato, e alla quale mi ero rivolto per soddisfare le mie curiosità e acquisire nuovi e probanti elementi:
“Benedetto XIII Orsini (Papa dal 1724 al 1730) è tra quelli che hanno i precordi conservati nella chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio essendo la pratica in auge dal 1590 al 1903".
Non fermandomi e non arrendendomi, come è nel mio stile, sono risalito anche al sacerdote rettore di questa chiesa, il quale mi ha dato conferma, anche se un po’ infastidito e stizzito per averlo disturbato, perché, come si sa, i preti, bontà loro, sono sempre indaffarati, tranne nel raccontare menzogne, come quelle che si è lasciate sfuggire il mio interlocutore: Benedetto XIII era e fu un Papa rimbambito perché nominò come suo segretario un delinquente; per carità, lui, un santo uomo, ma fu un uomo che non ebbe lucidità o ebbe i sensi appannati, della serie, chiedo se i carciofi sono buoni o se posso acquistare le mele e il fruttivendolo, di contro mi parla di altri frutti o del proprietario di frutti che lui non vende.
Purtroppo, anche questo ha fatto parte, come tanti altri episodi, della mia ricerca. Purtroppo, come dice e recita il proverbio: “nessuno è perfetto”. Pazienza.
Comunque sia, ho messo a segno un altro tassello importante nella economia della mia ricerca. Ho voluto farne dono ai miei concittadini, anche se la notizia, al momento, non è accompagnata dalla foto specifica, ma, da una che riproduce l’interno del luogo dove sono conservate alcune reliquie del nostro Papa Benedetto XIII.
Giuseppe Massari |
BENEDETTO COLUI CHE VIENE NEL NOME DI FRANCESCO
Potrebbe essere questa la sintesi meravigliosa per un saluto di congedo al Papa emerito, Benedetto XVI, e commentare l’arrivo del nuovo vicario di Cristo sulla cattedra di Pietro, Papa Francesco.
Un papa non previsto, non considerato, scartato alla vigilia dei tanti inutili totopapi, puntualmente smentiti in questo come in altri, in ogni e dopo tutti i conclave.
Il compianto cardinale arcivescovo di Genova, Giuseppe Siri, “Papabile” ad ogni conclave a cui partecipò, cioè colui che entrava sempre da Papa ed usciva sempre, puntualmente e ancora di più cardinale, ebbe a dire: “I papi si fanno in conclave”.
Purtroppo, nonostante le secche smentite, c’è stato chi si è esercitato e si diletterà, in futuro, a sfornare previsioni, possibilità e probabilità. E’ un esercizio, francamente, che non abbiamo mai coltivato, che non ci è mai piaciuto, perché, noi, per quello che valiamo e molto modestamente, crediamo, come Siri, che i papi li elegge lo Spirito Santo.
Fatta questa necessaria premessa e senza volerci unire al coro di coloro che hanno salutato il novello pastore della Chiesa universale come il novello rivoluzionario, dati le primizie e le primogeniture storiche a cui molti hanno fatto riferimento, vogliamo solo ribadire la verità e le altre verità secondo le quali è il primo gesuita a diventare Papa; il primo a chiamarsi Francesco, riferito al poverello d’Assisi e non ad altri, anche se c’è stato qualcuno che si è prestato alle solite sfortunate forzature, facendo riferimento al padre missionario gesuita san Francesco Saverio.
Ammesso che ciò fosse stato vero, comunque, non bisogna dimenticare che il primo ed originale Francesco è stato il santo del Cantico delle creature. Papa Francesco è il primo ad essere di origini latino-americane, ma, anche italo-argentino, anzi, nonostante tutto e proprio per la scelta del nome, potremmo non esagerare a definirlo italiano, giacchè ha scelto di prendere il nome di colui che è il patrono d’Italia.
Il primo ad essere eletto Papa dopo essere arrivato secondo nel conclave precedente.
Sempre il primo e ancora, che ha chiesto di pregare per lui, invocando su di lui la benedizione della preghiera al popolo intervenuto ed accorso in piazza san Pietro dopo la sua elezione;
il primo che si è definito vescovo di Roma, piuttosto che Papa o pontefice o successore del pescatore di Galilea;
il primo ad avere al suo fianco, nella loggia delle benedizioni, l’attuale vicario di Roma, il cardinale Agostino Vallini, a cui ha fatto più volte riferimento nel suo primo indirizzo di saluto e presentazione dopo l’habemus Papam del 13 marzo scorso:
il primo a dover usare il mezzo pubblico e collettivo, da Papa, per fare ritorno, insieme ai cardinali elettori, dalla Sistina alla casa Santa Marta.
Finito e terminato l’elenco dei primati, qualche parola sul nome scelto per segnare la continuità apostolica e pastorale degli apostoli.
Francesco, secondo la storia, il rivoluzionario che denunciò una certa Chiesa dei fasti per avvicinarla a quella dei poveri nell’insieme del creato, delle creature e del creatore; un contestatore sui generis ed ante litteram, che pratica e predica una Chiesa più vicina al gregge delle pecorelle smarrite.
Francesco che ha il sapore, dell’inedito, dell’originale, del nuovo, senza precedenti, pronunciato da chi si è presentato sotto le insegne di vicario di Cristo.
Francesco, anche un nome che evoca contraddizioni, perché, spesso, è stato evocato, polemicamente, rispetto al potere pontificale e delle gerarchie ecclesiastiche.
Per queste semplici ragioni, possiamo dire che la scelta del nome del nuovo Papa è tutt’altro riconducibile ad una semplicità francescana, perché ha scelto un nome difficile e, al tempo stesso, impegnativo. Secondo noi, nel nome programmatico scelto dal nuovo pontefice c’è il senso di una svolta, ma, anche quello di una rottura con un certo passato, con una certa storia negativa che ha contrassegnato la vita della Chiesa di questi ultimi tempi.
Giuseppe Massari
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IL GESTO INASPETTATO DI Papa BENEDETTO XVI -
CONSIDERAZIONI E RIFLESSIONI IN ATTESA DEL SUCCESSORE
L’abbandono inaspettato del timone della barca di Pietro da parte di Benedetto XVI induce ad una serie di riflessioni.
La prima. Per la via crucis al Colosseo del 2005 le meditazioni furono dettate dall’allora cardinale Joseph Ratzinger, nella sua veste di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede. Un commento per tutti fu quello riservato alla IX stazione: “Che cosa può dirci la terza caduta di Gesù sotto il peso della croce? Forse ci fa pensare alla caduta dell’uomo in generale, all’allontanamento di molti da Cristo, alla deriva verso un secolarismo senza Dio.
Ma non dobbiamo pensare anche a quanto Cristo debba soffrire nella sua stessa Chiesa? A quante volte si abusa del santo sacramento della sua presenza, in quale vuoto e cattiveria del cuore spesso egli entra! Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di lui! Quante volte la sua Parola viene distorta e abusata!
Quanta poca fede c’è in tante teorie, quante parole vuote! Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! Quanto poco rispettiamo il sacramento della riconciliazione, nel quale egli ci aspetta, per rialzarci dalle nostre cadute!
Tutto ciò è presente nella sua passione. Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del suo Corpo e del suo Sangue è certamente il più grande dolore del Redentore, quello che gli trafigge il cuore. Non ci rimane altro che rivolgergli, dal più profondo dell’animo, il grido: Kyrie, eleison – Signore, salvaci” (cfr. Mt 8, 25).
Di li a qualche giorno sarebbe diventato capo supremo della Chiesa Universale, dopo la lenta e penosa morte di Giovanni Paolo II.
Non abbiamo dubbi e riserve nel pensare alla onestà intellettuale e morale del futuro Papa quando pronunciava o scriveva quelle parole.
Era la Chiesa che avrebbe ereditato. Era la Chiesa dinanzi alla quale, forse, si è trovato nel momento della sua traumatica decisione di lasciare, di cedere il passo ad energie più fresche, più sane, più giovani, più disponibili a portare il pesantissimo peso di una realtà per la quale sarebbe stato meglio, per purificarla, usare la stessa forza usata da Cristo quando scacciò i mercanti dal tempio, se dobbiamo supporre che le parole della via crucis hanno trovato conferma anche in questi anni di ministero petrino.
Bisogna partire da quelle espressioni per capire il volto della Chiesa che ha indotto Papa Ratzinger a non aver più la forza fisica, mentale, morale per guidare la nave procellosa di Pietro.
Quelle parole sono state premonitrici di una realtà che non è cambiata, anzi, che è peggiorata con gli scandali, con le divisioni, le lacerazioni, le vecchie e le nuove sporcizie.
L’altra riflessione è quella che ci porta all’incontro di Cristo con le donne di Gerusalemme. Quell’incontro, non casuale, fu denso di significati, racchiusi in quel colloquio che si svolse tra il condannato e chi piangeva per le sue sorti. “Figlie di Gerusalemme, non piangete per me; piangete per voi e per i vostri figli; poiché un giorno triste sta per venire in cui la gente dirà: beate le donne sterili! beati i grembi che non hanno mai generato figli; beati i petti che non hanno mai allattato! Allora grideranno alle montagne: cadete su noi! e alle colline: ricopriteci !: poiché se si fa questo al legno verde, che sarà di quello secco?”
Queste parole di nostro Signore suonavano così: se in me, che sono il legno verde, il legno nuovo, l'innocente condannato, fanno soffrire i fatti che voi donne deplorate; che cosa avverrà fra quarantanni ai peccatori, ai cinici, ai crudeli, alla nazione peccatrice, al popolo aggravato d'iniquità, alla stirpe di malvagi, figli di perdizione che sono il legno secco?
Con queste parole Gesù Cristo alludeva alla distruzione di Gerusalemme, avvenuta poi sotto l'imperatore Vespasiano, il quale affidò l'opera “distruggitrice” al figlio Tito. I primi attacchi avvennero il 31 marzo dell'anno 70, esattamente come quest’anno, giorno di Pasqua.
Da queste parole, a prima vista, sembrerebbe che Gesù non avesse gradito l'omaggio pietoso delle pie donne. Eppure no ! Anzi quell'atto gentile gli toccò le intime fibre del cuore e volle darne loro un ricambio, una prova palpitante, un avviso salutare. Gesù scorgeva in ispirito lo scempio atroce che si sarebbe fatto della città santa; avrebbe voluto impedire tanta carneficina; e perciò disse: «Piangete!»... perché le lacrime, avvalorate dalla preghiera, valgono a placare la collera di Dio Padre.
In queste parole v'è tutto l'infinito amore di Gesù per la sua patria; v'è la consacrazione divina del santo amor patrio. «La Patria!» Questa parola fa palpitare il cuore. L'amor della patria è una di quelle affermazioni immortali, che, come quelle della famiglia, non sono insegnate dagli uomini, ma da madre-natura, ossia da Dio. Ecco perché l'amor di patria non può essere separato da quello della religione; ecco perché l'amor di patria diviene più forte e più efficace se è purificato e sublimato dalla fede.
Noi cattolici la patria dobbiamo amarla subito dopo Dio, per il medesimo amore con cui amiamo Dio; la dobbiamo amare con un amore riverente, che potremmo chiamare «culto»; noi cattolici la patria dobbiamo amarla con quello stesso amore con cui amiamo il padre e la madre. Noi cattolici, nella patria amiamo anzitutto il faro della religione e della civiltà cristiana; la luce del Vangelo, i fonti battesimali, l'altare benedetto; nella patria amiamo la croce dei sepolcri, le reliquie dei santi, i ricordi del passato, le speranze dell'avvenire.
Tutto noi troviamo nella patria, come nella patria troviamo la voce di Dio, che chiama i popoli ai loro doveri, all'amore fraterno. Oggi la nostra patria è sconvolta da agitazioni; è divisa in partiti; è pericolante per la cospirazione delle sette; è desolata dalla mania che gli uomini hanno di soppiantarsi l'un l'altro. Poi gli odi, le ansie, le lotte, le discussioni ingannatrici, le brighe nascoste... A tutto questo, aggiungete la lotta accanita contro la religione, contro l'insegnamento religioso, e quindi contro la base che sostiene, che alimenta il vero patriottismo; l'immoralità pubblica, che spegne ogni ideale patriottico...
Gesù Cristo, in quel momento, dinanzi alle pie donne, dimenticò se stesso per mettere sull'avviso le «figlie di Gerusalemme» e in esse tutta la nazione ebraica. Ma quel popolo non seppe trame profitto e il regno giudaico venne distrutto. Tolga Iddio dalla nostra «patria» tanta sventura ! Amiamola d'amore santo, che ha dinanzi a sé un destino così sublime. Questa bella Italia, che per tre volte è stata maestra di civiltà; questa Italia così prediletta da Dio, che vi ha collocato il suo Vicario in terra, difendiamola da tutti i suoi nemici non solo esterni, ma soprattutto interni, che sono i più pericolosi. Adoperiamoci, con ogni sforzo, perché spariscano da essa le divisioni intestine, che la lacerano.
Preghiamo Gesù Cristo perché faccia alitare su di essa il soffio divino, splendere la luce della fede, l'ardore della carità, l'amor patrio in tutti i suoi cittadini. Gesù alle pie donne
a) «Non piangete sopra di me»
Io vado alla morte perché lo voglio, spontaneamente.
La compassione va a chi è trascinato alla morte contro sua volontà. A me è dovuta l'ammirazione, perché, se morirò, risorgerò, trionferò della morte, distruggerò l'autore di essa, il peccato.
b) «Piangete sopra di voi e sopra i vostri figli».
Non piangete la mia passione, ma la causa di essa, il peccato; non piangete chi patisce, ma per chi patisce. Non doletevi delle mie sofferenze, ma doletevi di chi di esse non approfitta. La mia passione sarà a voi più di danno che non sia di dolore a me, se voi non vorrete fare penitenza dei vostri peccati. Non vergognatevi delle mie ignominie, perché io, in qualità di redentore, le sto soffrendo per la salute del mondo.
Tremate piuttosto al pensiero che io stesso un giorno verrò, quale giudice, a giudicare il mondo. Invece di piangere sulle mie pene, piangete sulla stoltezza e sull'empietà di coloro che periscono. Piangete sui vostri peccati, sulla vostra vita diametralmente opposta alla vera vita cristiana. Espiate anche i peccati dei vostri fratelli, dei vostri parenti, dei vostri dipendenti.
c) «Poiché, se tali cose si fanno nel legno verde, del secco che sarà?»
Sei io — legno verde, perché la stessa innocenza — vengo severamente punito dal mio divin Padre solo per aver preso sopra di me i peccati degli altri, come saranno puniti i veri colpevoli?
Terribili parole, che dovrebbero incutere spavento in tutti e che dovrebbero spingere tutti ad una severa penitenza per i peccati commessi! Anche nelle minacce, Gesù manifesta sempre la sua misericordia. Sotto il peso della croce; tra gli scherni dei sinedriti, gli insulti del popolo, gli urti della plebaglia; in mezzo al dolore del suo corpo, all'ignominia della sua persona, non dimentica, non abbandona il popolo deicida :
a) i suoi nemici lo bestemmiano, ed egli predica la compassione;
b) i suoi nemici lo disprezzano, ed egli li chiama alla riflessione;
c) i suoi nemici lo trascinano alla morte, ed egli li attira alla penitenza.
E per ottenere l'effetto desiderato, mette dinanzi ai loro occhi la severità dei giudizi divini, l'orrore dei divini castighi, le sciagure nel tempo, le pene nell'eternità. «Se tali cose si fanno al legno verde, del secco che sarà?» Queste parole Gesù le ripete a ciascun di noi non per spaventarci, ma per convertirci. Esse non sono parole di vendetta, ma inviti di pietà. Col quadro orribile dei suoi giudizi che ci mette dinanzi agli occhi, c'impegna ad evitarli.
Arrendiamoci a questi dolci inviti della misericordia divina; rimettiamoci veramente alla sequela di Gesù Cristo, affinchè, suoi seguaci in terra per grazia, siamo un giorno, gli eredi in cielo della sua gloria.
Altri spunti o tracce di riflessione possono essere esposti, e sono anche numerosi. Volutamente li sorvoliamo, ma non per evitarli, ma solo per non appesantire il lettore, senza risparmiargli o evitargli tutto quello che avrà modo di esprimere, sottolineare e meditare da solo, adducendo altre ragioni, forse le stesse o altre a cui, volutamente, abbiamo voluto sottrarci.
Sappiamo molto bene che, Ratzinger, da fine teologo, da mistico ed asceta ha considerato tutto. Nulla gli è sfuggito.
Ma come in ogni vicenda o faccenda, c’è sempre il rovescio che esiste e non si conosce; il verso della moneta mai uguale al recto e viceversa. Comunque siano andate le cose. Comunque stiano le cose e al di là di alcune considerazioni dottrinali che siamo andati esprimendo, vogliamo concludere con alcune non strettamente teologiche.
“Semel abbas, semper abbas”, dicevano gli antichi padri: una volta padre, sei padre per sempre. Non ci si può dimettere da padre, andare in pensione da un ruolo che è stato sancito dallo Spirito Santo o da una consacrazione sponsale nel caso di matrimonio sacramentale. Tutto quello che ha significato smarrimento, incredulità, sconforto, disorientamento potrà essere vissuto con la lucidità della fede e con meno astio o meno razionalità laicista, con meno catastrofismo di certi credenti deboli e labili nella loro fede?
Crediamo di si, citando una novella del fiorentino Franco Sacchetti, quella che narra di un ebreo spagnolo recatosi, nel 1300, a Roma, ma che di ritorno nella sua terra natia si ritrova convertito al cristianesimo. I suoi amici di religione lo accusano, lo insultano, lo interrogano stupiti ed increduli: “Che ti è successo a Roma che hai rinunciato alla tua fede?”
Una risposta cruda, fulminante: “Ho visto la corruzione dei preti, l’arbitrio, la discordia che affligge la Chiesa. E ho pensato che, se con questo carico di vizi e peccati la Chiesa sopravvive, significa che è toccata da una grazia particolare”.
E’ quello che aveva scritto e denunciato santa Caterina da Siena con la quale vogliamo concludere queste amare, vere, realistiche e profetiche riflessioni.
“La Chiesa, Caterina lamenta, “è rimasta sola” (L. 373). I suoi capi sono in preda a una specie di frenesia degli onori, dei piaceri, delle ricchezze. “La Chiesa di Cristo è impallidita e non ha più il suo calore, perché le è stato succhiato il sangue di dosso ...” (L. 16); “la vigna nostra è tutta inselvatichita” (L. 313).
I mali che Caterina denuncia con franchezza sono: l’amor proprio dominante; l’arroganza, l’insensibilità della coscienza; la lussuria, l’avarizia, l’invidia, la superbia, da cui nasce odio reciproco, la cura d’interessi materiali, l’usura: i cattivi pastori “assomigliano alle mosche che si posano indifferentemente in cose monde e immonde” (L. 272).
Ancora: amori, ozio, e anche, Caterina non esita a parlarne e a provarne ribrezzo, il “maledetto peccato contro natura” (Dial. 124). E, altresì, l’abuso dei sacramenti, anche dell’Eucarestia, per raggiungere scopi malvagi (Dial. 121-128). Questi vizi producono nei cattivi pastori uno stato di rovina spirituale, poiché non percepiscono più il senso profondo e illuminante della Sacra Scrittura.
Il risveglio spirituale degli Ordini religiosi è pure essenziale perché si abbia una reale riforma della
Chiesa: Caterina denuncia la vita scandalosa di molti religiosi che non sono più “fiori odoriferi nella
Chiesa, ma puzzolenti” (L. 67), per le loro mancanze contro i voti e la ricerca dei loro “diletti e
piaceri”.
Una delle cause della decadenza, secondo Caterina, è la corruzione e insipienza di molti
superiori, i quali non correggono “i più forti che sono maggiormente in difetto, ma i più piccoli e
deboli, per timore di trovare impedimento e conservare il loro stato e il loro modo di vivere” (Dial.
122).
Anzi fanno preferenze ai loro simili e alleati nella vita indegna. Chiudono gli occhi dinanzi al
lupo che rapisce le pecore, “non splende in loro la margarita della giustizia” (Dial. 125)
Auspica,
Caterina, il risveglio degli Ordini, e lo auspica soprattutto per il suo Ordine Domenicano, del quale
conosce molto bene le ragioni dell’origine e la missione nella Chiesa: “Non è tempo di dormire”, si augura la Senese, come leggiamo nelle pagine del Dialogo dedicate a San Domenico e al suo Ordine, e anche alle altre famiglie religiose (Dial. 158).
Giuseppe Massari
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24 FEBBRAIO 1671, DATA STORICA PER L'ORSINI "TU ES SACERDOS IN AETERNUM"
Il 24 febbraio 2013 è, certamente, una data importante per il popolo italiano.
Si decide la sorte di una nazione, con il nuovo governo che dovrebbe profilarsi, ad urne chiuse e a risultato elettorale ottenuto dalle varie fazioni in campo.
Questa data, però, ha per Gravina, Benevento, Manfredonia e Cesena, ma anche per tutta la Chiesa universale, una valenza diversa, più importante da un punto di vista storico. Intanto, perché è trascorso un anno dal 24 febbraio 2012, quando a Roma, presso il Vicariato, fu riavviato, ufficialmente, il Processo diocesano per la beatificazione e canonizzazione del servo di Dio, Benedetto XIII.
Una riapertura, visto che è il terzo tentativo per portare agli onori degli altari il gravinese Pierfrancesco Orsini, in religione frà Vincenzo Maria, beneventano arcivescovo.
Ma questa data è importante per un altro e più consistente motivo. In questo stesso giorno, nel lontano 1671, infatti, frà Vincenzo Maria Orsini, veniva consacrato sacerdote.
L’ordinazione sacerdotale, con dispensa, a soli ventun’anni, o meglio solo alcuni giorni dopo aver festeggiato il suo ventunesimo compleanno, essendo nato a Gravina in Puglia il 2 dello stesso mese del 1650.
I biografi accreditati e credibili, quali il Vignato, il Borgia, per citarne alcuni, riportano l’episodio riferito al giorno della prima messa solenne, celebrata nella sua città natale, tra la fine del mese e gli inizi di marzo, alla presenza della madre, donna Giovanna Frangipane della Tolfa.
Ferdinando Orsini, padre del Papa
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“Stava il neo sacerdote celebrando a Gravina la prima messa. Vi assisteva, fra gli altri, la madre sua. A un certo punto scoppia questa in un pianto dirotto. PoI, a messa finita, spiega.
Era un giorno, oh molto lontano, quando andò a trovarla un pio domenicano, un baccelliere. Vide che era occupata con alcune damigelle a ricamar una pianeta; e le predisse che quella si sarebbe indossata dal figliuolo, che teneva in seno, e sarebbe divenuto domenicano. “Se pur sarà un maschio – pensava lei intanto- sarà l’erede, e come tale, non potrà esser sacerdote”. E non fece di quelle parole un gran caso. Se non che, vedendo poco prima quella pianeta mai da alcuno usata, a un tratto si sovvenne: era precisamente quella stessa, di cui le parlava quel pio domenicano”.
Già in questo c’è la eccezionalità di un evento che segnò profondamente la vita del frate domenicano, proveniente da una delle famiglie più accreditate e rispettate del tempo. Frate e sacerdote per vocazione, per scelta personale, senza imposizioni, anzi, avversata dalla madre, respinta da alcuni suoi futuri confratelli, come ci ricorda padre Massimo Mancini, della stessa famiglia religiosa, in un articolo apparso sul numero 2, aprile-maggio 2012, della rivista “Dominicus”: Vita domenicana del futuro Papa Benedetto XIII.
Da quel 24 febbraio inizia una nuova vita per colui che accetterà, solo per obbedienza, pena scomunica, la berretta rossa cardinalizia, ad un anno di distanza dal suo essere diventato sacerdote. Si mostrò riottoso di fronte a questa nuova scelta di vita, ma dovette piegare il capo, pur essendosi nascosto presso il convento di Ronzano, per sfuggire alla dignità a cui la madre lo aveva destinato, grazie alle sue suppliche e preghiere rivolte al Papa Clemente X, prozio di quella che, nel frattempo era diventata la cognata del neo promosso porporato.
La storia si ripete, ci dicono gli storici, perché in questa sua forma di protesta fu seguito, qualche anno dopo, da un confratello della sua famiglia religiosa, padre Vincenzo Gotti, quando dallo stesso Orsini, divenuto, nel frattempo, suo malgrado, Papa col nome di Benedetto XIII, fu creato cardinale.
Anche questo sant’uomo dei figli di san Domenico, si nascose presso lo stesso convento di Ronzano, in provincia di Bologna, per sfuggire alla nomina di nuovo principe della Chiesa.
L’Orsini, sappiamo tutti che fu nobile per stirpe e discendenza, nato in quella famiglia dalla quale non rifuggì ma a cui fu sempre legato per quel vincolo di sangue che lo portò ad essere il secondo Papa del casato, dopo Niccolò III, al secolo Giovanni Gaetano Orsini. Questa, in sintesi la storia che conosciamo, che abbiamo cominciato ad apprezzare nel suo insieme, al di là di quei lati oscuri che la storiografia superficiale gli attribuisce, gli addossa, ma non gli riconosce come personali, e, quindi, di fatto scagionandolo da certe accuse tendenziose, mendaci, assurde ed esagerate.
Giovanna Frangipane della Tolfa
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Di quest’uomo ci piace fare riferimento ad alcune analogie e coincidenze che si ritrovano tutte nel mese di febbraio. Egli nacque di febbraio, il 2, e morì lo stesso mese, il 21 del 1730, in coincidenza con quello che gli storici si affrettano a definire o riconoscere come l’ultimo giorno di carnevale.
Questo riferimento, spogliato del suo senso religioso e cristiano, soprattutto, riferito alla morte di un pontefice, a noi, francamente, non è mai piaciuto. A noi piace, invece, pensare come alla vigilia del mercoledì delle ceneri, considerato che questo è il giorno in cui inizia la quaresima ed è la prima stazione, riferita a questo periodo, che, alla presenza del Papa, ogni anno, prende l’avvio e parte proprio dal convento e dalla chiesa di Santa Sabina, in Roma, dove l’Orsini completò il suo noviziato e, attualmente, sede della Curia generalizia dei padri domenicani, altrimenti detti, dell’Ordine dei Predicatori. |
Il mese di febbraio è indicativo per un’altra data. E’ il mese in cui, purtroppo, spirò la madre, nel frattempo, fattasi monaca dello stesso ordine domenicano, col nome di suor Maria Battista dello Spirito Santo, anzi, divenendone fondatrice emerita, a Gravina, del convento di Santa Maria delle domenicane, dopo la morte del marito, avendo allevato i figli, diventati, ormai, adulti ma, soprattutto, ognuno con un proprio avvenire sicuro.
Da ricordare il primogenito, Pierfrancesco, fattosi monaco domenicano; il fratello Domenico, sposato con la pronipote di Papa Clemente X, Ludovica Paluzzi Altieri, e le quattro sorelle consacratesi religiose:
Fulvia, che fu monaca nel monastero francescano di Santa Sofia, a Gravina, la quale emise la professione religiosa nelle mani del fratello cardinale, all’epoca arcivescovo di Manfredonia;
Aurelia, suora del monastero francescano, S. Maria del Carmine, di Muro Lucano, in provincia di Potenza, feudo della famiglia;
Scolastica Maria, la più longeva delle altre, perché vide il fratello eletto Papa. Fu monaca nel monastero della Sapienza di Napoli.
Infine, Dorotea, che in religione prese il nome di Maria Giacinta, anche lei monaca nello stesso monastero della sorella Scolastica Maria.
Con l’assistenza religiosa di suo figlio, nel frattempo, giunto da Benevento, che le aveva amministrato i religiosi conforti, la nobildonna rese l’anima a Dio “la notte del 21 febbraio 1700, alle 1.30 della notte, essendo entrato il 22.
Senza voler alimentare discorsi cabalistici o intrisi di superstizione, e senza nemmeno incoraggiarli, al termine di questo excursus storico, non si può fare a meno di notare la concomitanza di alcune date che diventano significative ed emblematiche: quella della morte della madre e quella sua, da Papa. Tra il 21 e il 22 febbraio, mese, comunque, costellato e coronato da altri più gioiosi fatti ed eventi.
Giuseppe Massari
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BENEDETTO XIII SEVERO CON IL CLERO IMPARRUCCATO,
CLEMENTE E TOLLERANTE CON ANTONIO VIVALDI
Scoperta, forse, un’altra pagina inedita che riguarda la vita di Papa Benedetto XIII, a dimostrazione che una ricerca vera, seria, non arrabattata, non superficiale, non è solo trovare e pubblicare, scopiazzando, ciò che già si conosce, ma è andare in profondità, alla radice di sempre nuovi documenti, per far emergere tutti quegli aspetti e quei lati poco conosciuti, poco apprezzati di un personaggio o di un preciso periodo storico.
Questo modesto tentativo è solo un altro tassello, un altro contributo, che va a sommarsi ai precedenti, nell’ambito dell’attuale Processo per la Beatificazione e Santificazione del Papa pugliese. Un tentativo non velleitario, senza grosse ambizioni. Semplice ed umile come fu colui che si vuole portare agli onori degli altari, senza trascinarlo, come stanno facendo alcuni, e come avvenne durante il conclave che lo vide eletto Papa.
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“Antonio Vivaldi, un prince à Venise” è il titolo di un film italo francese, del 2006, della Vivaldi Productions di Parigi, Dream Film di Torino, La Palma Mazzone Produzioni (Palermo – Roma), per la regia del francese Jean-Louis Guillermou, Nei panni settecenteschi del "Prete rosso", Stefano Dionisi, supportato da un cast internazionale composto da Michel Serrault, nella parte del Patriarca di Venezia, Christian Vadim, nel ruolo del commediografo Carlo Goldoni e Jean Rochefort in quello di Papa Benedetto XIII.
La trama, in sintesi, è la seguente: Venezia, XVIII° secolo. Antonio Vivaldi è preso di mira dal patriarca che vuole distruggere la sua carriera di musicista vietandogli di comporre opere. A nulla vale l'intercessione di Papa Benedetto XIII e il maestro viene posto sotto rigida sorveglianza.
Tuttavia, Vivaldi riesce ugualmente a comporre concerti, sinfonie, sonate, oratori, messe e cantate che costituiranno la sua vasta produzione musicale. |
Da questo breve racconto emerge il rapporto che il musicista sacerdote ebbe con Papa Benedetto XIII.
La conferma arriva da una biografia dell’artista veneziano, scritta da Gianfranco Formichetti: “Venezia e il prete col violino. Vita di Antonio Vivaldi”, uscito nell’aprile 2006, per le edizioni Bompiani.
Dalla presentazione si legge che: “Conosciuto ai più come compositore delle "Quattro Stagioni" e celebrato ovunque come esecutore inarrivabile, Antonio Vivaldi fu anche impresario teatrale e protagonista di primo piano di un mondo operistico, nel quale il successo si misura con gli incassi e con ogni spregiudicatezza.
In questa biografia vengono ripercorse vita, carriera e alterne fortune del prete rosso, manager indiscusso dello spettacolo e protagonista di un ambiente artistico in cui i testi si manipolano a uso e consumo dei potenti e dell'audience. Sullo sfondo, la quotidianità della vita lagunare e gli incontri con i potenti del tempo: da Papa Benedetto XIII a Ferdinando di Baviera, da Federico Cristiano di Sassonia a Carlo VI”.
“Vivaldi non era solo un compositore ma anche violinista di non comune bravura. Ottenne successi a Mantova, al servizio del principe Filippo, e a Roma, dove lo stesso pontefice Benedetto XIII gli aveva lesinato elogi”.
E’ quanto leggiamo da: ”Antonio Vivaldi, musico veneto dalle origini lucane”, pubblicato sul sito Orchestra d’Archi di Basilicata “Antonio Vivaldi”. Infatti da studi e ricerche è risultato che il bisnonno materno, Giuseppe Calicchio, si trasferì dal piccolo centro lucano di Pomarico, in provincia di Matera, a Venezia. Spulciando di qua e di là altre notizie biografiche su Vivaldi, apprendiamo che:
“Nel 1718 fu offerto a Vivaldi il prestigioso incarico di maestro di cappella da camera alla corte del principe Filippo di Assia-Darmstadt, governatore di Mantova e noto appassionato di musica.
Successivamente Vivaldi fu a Milano e a Roma, dove era stato invitato da Papa Benedetto XIII a suonare per lui.
Proprio in merito a questa notizia si inserisce l’ultimo libro dello psichiatra Vittorino Andreoli, “Preti di carta. Storie di santi ed eretici, asceti e libertini, esorcisti e guaritori”, Edizioni Piemme, 2011, in cui, tra l’altro, nel capitolo: “Il prete col violino nella Venezia tra Sei e Settecento”, leggiamo:
“Potrebbe essere questa una maniera per fare il prete. Certamente questo suo modo di vivere non colpisce le gerarchie ecclesiastiche. Prova ne è il fatto che quando la fama di Antonio Vivaldi raggiunge l’apogeo, viene invitato persino in Vaticano da Papa Benedetto XIII. D’altra parte, l’esercizio della funzione sacerdotale nella Venezia del Settecento doveva essere molto lontano da quello del nostro tempo”. L’autore, nell’attingere ad un documento riportato e ripreso dal libro di Gianfranco Formichetti, a cui, pure abbiamo fatto cenno innanzi, cioè ad una lettera che Vivaldi invia al marchese Bentivoglio:
“e V.E. lo sa, né mai ho detto messa, e ho suonato in teatro, e si sa che sino Sua Santità ha voluto sentirmi suonare e quante grazie ho ricevuto”.
Andreoli, poi, sempre attingendo dal lavoro di Formichetti, continua nel suo racconto biografico del violinista veneziano, facendo, ancora esplicito riferimento a Papa Orsini. “Benedetto XIII (al secolo Pietro Francesco, in religione Vincenzo Maria) amava molto le arti e certo desiderava ascoltare uno dei violinisti più noti di quel tempo. Ma era anche un Papa che non apprezzava i parruccamenti e gli orpelli.“
La guerra alle parrucche fu effettivamente condotta senza mezzi termini, specialmente nei confronti degli ecclesiastici, ma Vivaldi era un ecclesiastico che non ottemperava al primo dei doveri di ogni sacerdote: dire messa. A Venezia, d’altra parte, la parrucca furoreggiava e proprio il doge Corner ne era stato un sostenitore. Insomma, con ogni probabilità Papa Benedetto chiuse tutti e due gli occhi, seguendo ammaliato le straordinarie prestazioni violinistiche” di Vivaldi.
Quanto l’Orsini amasse la musica, e, soprattutto, quella prodotta dal violino, ce ne da conferma il direttore del Conservatorio Nicola Sala di Benevento, Achille Mottola nel corso della presentazione del concerto di musica classica tenutosi presso Palazzo Fusco-Rossi, a giugno del 2009, inserito nel programma della Festa Europea della Musica, organizzato dall’Associazione culturale-musicale Art Du Luthier, diretta dal liutaio Enrico Minicozzi.
“Mi piace ricordare, esordisce il maestro Mottola, che le botteghe di liutai rappresentano l’amore per la musica che diventa sensibilità estetica. Questa nobile arte nel Sannio aveva avuto il benestare da un importante futuro Papa. Il 25 giugno 1686, Vincenzo Maria Orsini, illuminato cardinale-arcivescovo della città, concedeva al più grande liutaio di tutti i tempi, Antonio Stradivari di Cremona, il titolo di nomina (una sorta di patente) per l’apertura, proprio a Benevento, di una bottega. Il futuro pontefice Benedetto XIII gli esprimeva, così, il suo apprezzamento dopo aver acquistato da Stradivari un violoncello e due violini che furono inviati in Spagna in dono al duca di Natalona”.
Giuseppe Massari |
PERCHE' CESENA NON AMO' L'ORSINI, ARCIVESCOVO DELLA CITTA'
E PAPA COL NOME DI BENEDETTO XIII
1680: Pietro Francesco Orsini nuovo vescovo; nel 1724 sarà Papa col nome di Benedetto XIII;
1724 (29/5): è eletto Papa col nome di Benedetto XIII il domenicano Pietro Francesco Orsini,
già vescovo di Cesena; la sua politica a Cesena sarà di favore verso l’autorità ecclesiastica, a
scapito delle istituzioni comunali;
1728: Benedetto XIII emette una serie di decreti atti a colpire duramente Consiglio comunale e
nobiltà; tra queste, l’abolizione della Giostra d’incontro;
1730 (21/2) Benedetto XIII muore;
1731 (15/7): il nuovo Papa Clemente XII restituisce a Cesena i privilegi che Benedetto XIII le
aveva tolto.
Sono alcune date e notizie tratte dalla Storia di Cesena e dai testi riportati in nota. Sono informazioni ricavate nell’ambito della ricerca sull’Orsini cardinale, arcivescovo e Papa col nome di Benedetto XIII, “Viaggio nella storia tra le pietre vive della memoria”, attraverso la consultazione di archivi ed emeroteche.
In una di queste, ci siamo imbattuti in un numero de “Il cittadino, giornale della Domenica”, del 9 agosto 1903, in cui l’autore, Nazzareno Trovanelli, offre un’anticipazione di quelli che saranno i giudizi negati sull’episcopato e sul papato di frà Vincenzo Maria Orsini e che saranno ripresi nei numeri successivi dello stesso giornale, ma non più sotto la identità di una persona, ma con l’ausilio di uno pseudonimo, lo spigolatore.
Intanto, cominciamo dalla lettura di questa prima sortita cesenate. “Uno dei nostri vescovi che lasciarono più esosa fama fu, come già dicemmo, il cardinale Vincenzo Maria Orsini, il quale, asceso, nel 1724, al pontificato col ricordato nome di Benedetto, e conservando fratescamente chiuso in cuor suo un gelido rancore contro Cesena, tentò privarla di molte antiche prerogative, ed umiliarla indegnamente. La bolla sua – apertamente condannata da un altro Papa, Pio VI – doveva periodicamente venir letta in Consiglio, perché ogni tanto si rinnovasse l’offesa e il dolore. Questo fatto basta a spiegare un particolare che altrimenti non si capirebbe.
Tra gli appellativi ond’è indicata Cesena è quello di “città dei tre papi”; i quali sono Pio VI e VII nostri concittadini, nonché l’VIII (Castiglioni) che fu nostro vescovo. Ora se soltanto per aver presieduto all’episcopio locale, può dirsi nostro, perché tale non fu considerato Benedetto XIII, e Cesena non fu chiamata la città dei quattro papi? Appunto perché il pontefice Orsini lasciò, tra noi, nome così abbominevole, che non vi fu alcun Cesenate che volesse averlo quale compatriota”.
Andando oltre nel tempo, al 12 aprile 1908, e leggendo questi fogli di cronaca locale, forse stilati da anticlericali, massoni, liberali, o, comunque, da gente imbevuta di fiele laicista, si ha la conferma di una iconoclastia pura del personaggio, ritenuto colpevole per la sua azione politica, a Cesena, che fu di favore verso l’autorità ecclesiastica a discapito delle istituzionali comunali.
Nel citato giornale leggiamo, infatti, “Papa Benedetto XIII, frate domenicano, pietista e testardo. Era stato, come già dicemmo, vescovo di Cesena (1680-1686), ed era quindi passato arcivescovo a Benevento. Durante il suo soggiorno tra noi, furono infinite le noie che procurò al Municipio. Sia sostenendo all’estremo le più esorbitanti pretese del clero in materia d’immunità od esenzione dai tributi, sia cercando di devolvere a favore del clero medesimo lasciti di beneficenza. Il Municipio, naturalmente, difese se stesso e la cosa pubblica, opponendo la più risoluta resistenza alle ingiuste pretese; dal che derivò nell’animo del vescovo una fratesca, tenace acrimonia contro Cesena, serbandola pure nel soglio pontificio”.
Questa è la prima parte di un racconto e di alcune considerazioni a firma, lo spigolatore, del quale non si conosce nulla di preciso e né gli interessi che egli intendeva difendere o il padrone o i padroni per i quali scriveva.
Sta di fatto che nella continua del racconto si può leggere ancora: “Appena infatti l’Orsini succedette ad Innocenzo XII, Conti (1724), apparvero manifesti i segni del suo malanimo verso di noi. Gli uffici di mons. Braschi, solleciti, amorevoli, accorti, a poco giovarono. Soffiava nel foco il turpe e concussionario cardinale Coscia, il favorito del Papa, il vero padrone dello Stato, sebbene non avesse ufficio di primo ministro (l’aveva invece il card. Lercari), il quale mentre il suo protettore andava a battersi il petto per le chiese di Roma, si di sfrenava ad ogni ladreria e prepotenza, tanto che sotto il pontificato successivo fu processato e gettato in prigione”.
Nel continuare la lettura, di quella che sembra essere una primizia, il tenore e la sostanza non cambiano, anzi, la dose di avversità aumenta e si riversa tutta intera sull’ex arcivescovo e Papa e sul suo protetto Coscia. “Costui, tra l’altro, si mise in capo di costringere il Consiglio Comunale di Cesena ad accogliere nel proprio seno un suo protetto (il potere elettorale era allora per legge nello stesso Consiglio, che era vitalizio e, di fatto, ereditario); e, non riuscendo a spuntarla, scriveva ai nostri Amministratori questa lettera burbanzosa, in cui il discorso della forma rivelala rabbia dell’uomo”.
Evito di riportare il testo della lettera, e ricorrendo sempre alla stessa fonte si legge: “Non abbiamo ritrovato notizie su ciò che seguì, né sappiamo se l’effetto tenne dietro alle minacce, o se il Municipio se ne schermisse con l’arrendersi ai voleri del prepotente cardinale. Fatto è che il 20 luglio 1726, il Palazzini fu ricevuto come nuovo Consigliere prestando i soliti giuramenti. Qui poi non intendiamo scusare gli Amministratori comunali se facevano prova qualche volta d’un po’ di spirito oligarchico; notiamo però che la maniera di condursi del dispotico porporato era peggiore del male. Finchè il Governo avesse voluto che ogni Consiglio Comunale avesse completo il numero de’ suoi componenti e non ricorresse a sotterfugi per non procedere a nuove nomine, poteva aver ragione; ma quando, in dispregio degli Statuti solennemente giurati, imponeva sue creature, offendeva quegli stessi diritti municipali che aveva promesso di rispettare. Ad ogni modo, non sembra che l’essersi arresi ai voleri del superbo Coscia bastasse a rendere più propizio il Papa alla città nostra. Nuovi danni e malanni dovevano minacciarla se gli Amministratori poterono indursi ad un atto d’umiliazione di cui non crediamo si trovino molti esempi consimili nelle cronache municipali. Sotto il giorno 14 novembre 1726, essi inviarono a Benedetto XIII la seguente “domanda di perdono” .
Dopo la lettura di quest’altro stralcio dell’articolo, costruito ed argomentato, almeno secondo le intenzioni dell’estensore, il quale non nasconde la sua malizia e, anche, presunzione, soprattutto riferita al passaggio “un atto di umiliazione di cui non crediamo si trovino molti esempi consimili ad un atto d’umiliazione”. Non sta a noi dover andare a cercare altri atti consimili, ma doveva essere l’autore, tanto spigliato, sagace, quanto anonimo spigolatore, a dover fornire, semmai spulciando nella storia e in altre parti d’Italia, del Regno e del Stati, elementi utili a capire se si trovassero, anche, altrove, tali atti ritenuti d’umiliazione. Superando il testo della lettera indirizzata al pontefice, ci piace riportare la restante parte dell’articolo, dalla quale traspare una certa rabbia, una certa insofferenza, considerazioni che non nascondono un malcelato livore ed acredine, giusto per contrapporsi, forse, a coloro che erano stati i suoi bersagli preferiti e che diventano, quasi alleati e sodali. La coerenza, anche allora, era un optional.
Continua a scrivere lo spigolatore: “O c’inganniamo, o quell’accenno alla necessità non è senza intenzione; par che voglia dire ai futuri lettori dell’umile documento: “Noi questo frataccio pontefice l’avremmo volentieri mandato a farsi benedire; ma fummo costretti a piegare il collo per tentare di farcene ribenedir noi”.
E’ di tutta evidenza che l’autore anonimo del racconto fa sue delle considerazioni che, probabilmente erano condivise dagli amministratori dell’epoca, a meno che , egli, si sostituisce nel giudizio che costoro non hanno voluto emettere, affidandolo alla pena di colui il quale non ha condiviso l’iniziativa epistolare e l’ha stroncata con l’ironia e le supposizioni. Questo racconto vogliamo portarlo a conclusione, riprendendo, dal numero successivo dello stesso giornale, 19 aprile 1908, uno stralcio ulteriore, di un altro articolo, sempre non firmato, ma dell’anonimo spigolatore. In quest’ultima parte c’è la definitiva conferma del giudizio negativo espresso dai cesenati nei confronti del pontefice Orsini, loro trascorso arcivescovo diocesano.
Un giudizio di condanna espresso non appena si era diffusa la morte del vicario di Cristo.
“Appena morto Benedetto XIII (21 febbraio 1730) i Cesenati, mandando un gran respiro di sollievo, si affrettarono a far pratiche per esser ristorati di tutti i danni patiti per parte di lui. Nella loro impazienza non sapevano nemmeno attendere la nomina del successore, e desideravano che i Cardinali capi d’ordine provvedessero subito. Ma questi non vollero, e l’attesa fu penosamente lunga, giacchè il Conclave durò quasi cinque mesi, chiudendosi solo il 12 luglio con la elezione di Clemente XII (Lorenzo Corsini). Col nuovo Papa tanto i Cesenati quanto il loro interprete e difensore mons. Braschi si trovarono subito a loro agio”.
Il nuovo pontefice provvide a rimuovere la famosa bolla del suo predecessore, “Inter multiplices”, con la quale si concedevano privilegi al clero a discapito della municipalità. I cittadini di Cesena e gli amministratori, grati al nuovo Papa, ancora vivente, gli innalzarono un busto marmoreo nella grande aula municipale. Fu la vendetta conclusiva. Fu l’epilogo che poteva essere evitato se solo il nuovo inquilino dei Sacri Palazzi lo avesse evitato, quanto meno per rispetto nei confronti del suo predecessore e per non peccare lui di superbia e di scarsa umiltà.
Fu un atto di liberazione, se così lo possiamo definire, perché nei confronti dell’Orsini si ebbero, sempre da parte degli stessi abitanti di Cesena, altri pregiudizi, altre riserve mentali e considerazioni disdicevoli, soprattutto se dobbiamo stare a quello che scrive Giacinto Gimma, nel suo Elogio dell’Accademia degli Spensierati di Rossano, a proposito di Pompeo Sarnelli, strettissimo ed ascoltato collaboratore del cardinale Orsini, nominato vicario di Cesena nel periodo in cui, il futuro Benedetto XIII, per motivi di salute, se ne dovette stare a Napoli per curarsi.
Naturalmente, questa scelta orsiniana, principalmente da parte del clero, non fu condivisa e fu in tutti i modi avversata, magari, attraverso lo stesso linguaggio scaturito da una penna non libera, ma servile, quanto meno in ossequio al campanilismo.
A tutto questo ci piace aggiungere un altro elemento che abbiamo scorto nella lettura dei poderosi volumi sulla Storia della Chiesa di Cesena, a cura di Marino Mengozzi. Tre volumi i cui diversi autori si soffermano, con rara superficialità, sull’episcopato orsiniano, nonostante questo fosse stato caratterizzato da ristrutturazioni di chiese, cattedrale ed episcopio e nonostante la visita pastorale indetta e promossa dal cardinale arcivescovo.
Un dubbio e un sospetto, riconducibili alle parole e ai giudizi negativi, riportati precedentemente, viene alimentato, a conferma che anche gli uomini di Chiesa, purtroppo, non sono stati da meno nel condannare. Nel non essere stati liberi, condizionati o condizionanti, insieme ad altri settori della vita pubblica cittadina.
Giuseppe Massari
Note
L'elenco degli eventi della storia di Cesena, sebbene in vari punti rielaborato ed integrato, si deve
principalmente a queste fonti:
- Augusto Vasina (in Storia di Cesena, I. L'Evo Antico, Bruno Ghigi Editori, Rimini 1982);
- Augusto Vasina (in Storia di Cesena, II. Il Medioevo, Bruno Ghigi Editori, Rimini);
- Pier Giovanni Fabbri e Piero Lucchi (in Storia di Cesena, III. La Dominazione Pontificia, Bruno Ghigi
Editori, Rimini);
- Roberto Balzani (in Storia di Cesena, IV. Ottocento e Novecento, Bruno Ghigi Editori, Rimini 1987);
- Pier Giorgio Pasini (in Malatesta Novello Magnifico Signore, Minerva Edizioni, Bologna 2002). |
UN NUOVO CAPOLAVORO EDITORIALE SUL Papa PUGLIESE BENEDETTO XIII,
DEGLI ORSINI DI GRAVINA
“Benedetto XIII (1724 -1730).
Un Papa del Settecento secondo il giudizio dei contemporanei”, di Orietta Filippini, (luglio 2012), entra a pieno titolo nella collana “Papste und Papsttum”, giunto al suo 40 volume, della casa editrice tedesca, Anton Hiersemann.
E’ l’ultima fatica editoriale dell’autrice, ma è l’ultimo più completo testo in circolazione su Papa Orsini, a dimostrazione come questo personaggio susciti, ancora, molto interesse da parte degli studiosi, dei ricercatori; di chi riesce a fare storia seriamente e alla storia vuole lasciare pezzi di verità sconosciute. Frammenti di uno spaccato culturale ecclesiastico fin’ora inesplorato. Genesi di documenti, esegesi di una vita, di un mondo riprodotti senza riflessi condizionati o condizionanti, senza giudizi, senza preconcetti.
Nella stesura libera di un racconto si leggono le testimonianze dei contemporanei di Benedetto XIII. Di coloro che, a diverso titolo fecero la loro storia e la sua storia. Di coloro che furono artefici e protagonisti di primo piano, di primo pelo, di prima concezione. Poco importa.
Il vero, il bello del racconto della Filippini sta nell’aver saputo cogliere tutto ciò che è stato poco considerato, poco studiato, poco analizzato nella cultura di un’epoca contrassegnata dall’Illuminismo imperante e dal concetto di vita religiosa, forse, anche politica, a volte, dell’umanesimo volto della Chiesa reduce, figlia ed erede del Tridentino. In questo spazio di tempo si colloca la vita del pontefice romano nobile per casato, frate per vocazione, cardinale e Papa suo malgrado, grazie alle sue resistenze a non accettare, a non condividere un passaggio da una vita claustrale ad una vita più aperta al mondo, alle esigenze del mondo.
Di questo snodo cruciale, l’autrice è ben conscia e coglie gli attimi spigolosi di una vicenda complessa ed intricata, perché intricata e difficile è la subalternità di coloro che si dovrebbero adeguare, che non si vogliono sottomettere, che dovrebbero adattarsi e non omologarsi. Il racconto, su basi documentali, la maggior parte attinti dall’Archivio Segreto vaticano e dall’Inventario della Famiglia Orsini, ormai rintracciabile negli Stati Uniti d’America, è la riprova di certe ritrosie, di certe riottosità sfociate nell’oscuro progetto di sopravanzare, di emergere, anche a costo di spericolate e spregiudicate azioni, conclusesi con la carcerazione, la condanna di tutto il marcio umanato ed impersonato o personificatosi nella genie plebaglia di chi non ha saputo fare a meno delle proprie vergogne, dei propri limiti. Il merito indiscusso dell’opera editoriale è quello di aver scomodato le carte dei processi. Di aver tolto dalla polvere i segni tangibili di accuse e condanne; di comportamenti giudicati offensivi verso la figura del pontefice Orsini. Forse, e fa bene la Filippini a lasciarlo intendere, in questo contesto editoriale non era il caso di parteggiare.
Ma la lettura scorrevole dell’opera induce, senza remore, a farsi una idea per capire da che parte stanno i fautori del male, da quale altra parte quelli della vendetta e da quale altra parte ancora quelli della misericordia e del perdono. Il testo è scevro di sentenze, purtuttavia lascia scolpito e indelebile un messaggio: senza l’acquisizione di atti veri, concreti, reali, cartacei, processuali non si va da nessuna parte per ristabilire la verità, per riabilitare o per condannare definitivamente i fautori, gli attori, gli imputati di certe infamie e di certe accuse provate e circostanziate.
Le testimonianze raccolte sono, forse, il frutto di una emotività contingente, ma non nascondono il senso dei fatti o misfatti. Racchiudono l’essenza di un mondo rimasto avvolto nei misteri di corte, ma non tanto. Il pregio di questo testo è quello di essere libero. Non dettato da rigurgiti partigiani. Inutili, dannosi, improduttivi, insignificanti.
E’ un testo solare che non risponde a nessuna di quelle logiche infantili, puerili messe in atto, in questi anni, da chi ha pensato, con il senno della propria ignoranza, di riabilitare l’impossibile e l’assurdo, cioè il cardinale Niccolò Coscia.
Dalle pagine della Filippini, la figura di Benedetto XIII esce ancora di più adamantina; immune da colpe, responsabilità dirette o complicità. I criteri della sentenza contro il segretario dei Memoriali sono a favore dell’Orsini di cui si è abusato della sua perfetta buona fede, magari della sua ingenuità o poco accortezza. Nelle pagine del dispositivo finale in cui si decide la condanna del “cardinale prediletto o preferito”, purtroppo, in una sorta di giudizio collettivo o collettaneo, vengono giudicati e condannati i famosi “beneventani”.
Fare distinzioni in merito serve e servirà a distinguere un mondo dai mondi personali e soggettivi di un popolo che è stato coinvolto in una chiamata di correità inconsapevole. Certi “beneventani” si sono macchiati di colpe e solo costoro, era giusto, che fossero condannati. Questo lavoro pregevole, originale, nuovo e recente va promosso a pieni voti, perché è finalizzato alla riapertura della verità. E’ indirizzato alle persone intelligenti e sagaci che avranno la possibilità di distinguere il grano dalla zizzania. Il bene dal male. E’ un testo che non fornisce alibi. Bisogna condividere la lettura fino in fondo, senza emettere giudizi, ma farsi l’idea che i progetti degli uomini sono sempre caduchi e destinati al fallimento. I progetti di Dio, attraverso l’umiltà e la semplicità dei suoi strumenti sono destinati ad essere imperituri ed eterni, come coloro che non moriranno mai, perché hanno vissuto secondo le regole di vita di san Paolo: “vivi come se tu dovessi morire subito, pensa come se non dovessi morire mai”.
Quella che è stata la vita di Benedetto XIII, Papa Orsini da Gravina in Puglia, Papa beneventano e di quella Chiesa universale che, nonostante i marosi e i flutti impetuosi, è ancora lì a segnare il tempo della sua bussola, della bussola di Dio, della bussola della eternità.
Giuseppe Massari
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INTERVISTA A VINCENZA MUSARDO TALO' SUL VOLUME DA POCO IN LIBRERIA "DALLA SICILIA ALLA PUGLIA - LA FESTA DI SAN GIUSEPPE"
(Un bellissimo volume per i devoti di San Giuseppe, di Vincenza Musardo Talò, storico e critico d'arte, docente presso la SSIS Puglia, Università di Lecce, già Segretaria generale del Centro Ricerche di Storia Religiosa in Puglia.
E' anche Socio ordinario della Società di Storia Patria per la Puglia, dell'Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano e presidente del Centro di Ricerca, Studio e Catalogazione dei Beni Culturali di Puglia.)
Dalla Sicilia alla Puglia la festa di San Giuseppe è una semplice raccolta di santini e immagini sacre riferite al santo di Nazareth? E’ il peregrinare faticoso per paesi e città alla ricerca del misto sacro-profano? E’ l’esercizio retorico culturale per ricostruire feticismi e misticismi profani e poplari? No. E’ la saggezza mirata a rivalutare un culto che è di popolo, che è di piazza, che è di fede, che è cultura, storia e arte, senza confusioni.
E’ un capolavoro di immagini e di testi, freschi di stampa, uscito in questi giorni, e concepito da chi ne è stata la curatrice, la dottoressa Vincenza Musardo Talò, per volere di una giovane casa editrice pugliese, la Talmus Art. Il santo degli artigiani, degli operai e dei falegnami; della buona morte e della vita indissolubile chiamata matrimonio, conquista un posto d’onore nella iconografia, ma, anche, nella ripresa e rivalutazione di un culto molto diffuso in due regioni meridionali: la Sicilia e la Puglia. Due realtà lontane, ma affini, definite nel testo “regioni sorelle”, perché di esse è stato colto il senso vero di una appartenenza, di una identità consacrata nella icona di un santo che pulsa nel cuore dei due popoli, segnandone la storia, i ritmi, i passi, l’autenticità di una fede; di un connubio antico, nuovo, moderno, sancito, non solo da quel mare Mediterraneo che unisce, ma dalla sacralità di due mondi che si incontrano sull’altare dell’amore verso lo sposo di Maria Vergine.
Culti isolati, personali e soggettivi, ma, anche comunitari, collettivi nella espressione di Confraternite, sodalizi religiosi, Pie Unioni. Una coralità di cuore che esprime generosità e gratitudine, senza finzioni, senza ipocrisie, senza falsi ed inutili pudori, perché la fede autentica è quella che si manifesta e non quella che viene nascosta o repressa per rispetto umano. In questa opera nuova, non è da sottovalutare il coraggio mostrato da Vittorio Sgarbi, il quale ha saputo leggere i segni di un popolo, della gente autenticamente genuina; ha saputo intercettare le istanze di fede raccolte non in un crogiuolo, non in fazzoletto bagnato di lacrime, ma nello specchio di una vita, perché la vita di Giuseppe è stato specchio di fedeltà, di servizio, di obbedienza, di silenzio, di operosità.
A questo meritorio lavoro va il plauso verso i tanti che hanno collaborato con la loro esperienza, con la loro voglia di ricercare, studiare, approfondire, conoscere e far conoscere il valore di un personaggio, staccato dal cuore della storia della Redenzione, per diventare medaglia di ogni singolo credente; di ognuno che ha sentito il bisogno del rifugio sicuro e sereno in colui che protesse nel rifugio del suo cuore immenso, la vita di Maria e di suo figlio, Gesù Cristo. Brevi considerazioni le nostre. Per meglio entrare nel clima di quest’opera, abbiamo affidato il compito alla sua curatrice, Vincenza Musardo Talò, che dobbiamo definire instancabile zelante e zelatrice di una missione. A lei il compito di illustrarci il capolavoro d’arte e mistero, attraverso l’intervista che segue.
D. Fra i tanti santi, perchè una ricerca e uno studio monografico sul culto riservato a San Giuseppe e una presentazione affidata ad un critico d'eccezione quale è Vittorio Sgarbi?
R. La volontà di realizzare un volume di studi e ricerche sul culto popolare di san Giuseppe nel Mezzogiorno d’Italia era da tempo fra le pieghe programmatiche della Casa Editrice TALMUS ART, che ha voluto affidarmi il progetto, libera di impiantarlo e strutturarlo al meglio. Un personale interesse sul culto e le tradizioni della festa del Santo, in termini socio-antropologico-culturale e religioso, mi hanno indirizzato in tal senso. Il pensare al prof. Sgarbi non solo come attore della Presentazione al volume, ma anche come co-autore, è dipeso dal desiderio di avere all’interno del volume, scritto da accreditati autori vari, una voce autorevole, un intellettuale di rilievo che accompagnasse il lavoro di tanti. Fuori da ogni retorica, abbiamo apprezzato il suo gesto generoso e tutti gli Autori gli sono grati. E’ inutile, poi disquisire sul valore del suo contributo, offerto al volume, circa l’iconografia Giuseppina nell’arte colta.
D. Perchè il riferimento solo a due regioni meridionali e non ad altre?
R. La volontà ad accostare una ricerca fondamentalmente sulle due regioni Puglia-Sicilia, trova giustificazione nel fatto che a noi questo binomio è sembrato essere il più esaustivo per raggiungere le finalità del volume stesso. E’ incredibilmente fascinoso e suggestivo il patrimonio di storia e di tradizioni su san Giuseppe fra le strade delle tante luminose civiltà che hanno attraversato queste due regioni-sorelle. E il volume ne dà ampiamente conto.
D. Considerando la diversità e la distanza dei luoghi presi in esame, cosa accomuna realtà territoriali e geografiche diverse tra loro per questa devozione?
R. Le connotazioni essenziali che accomunano queste due Terre solari e ricche di tanta laboriosa umanità, si riscontrano in quella tenace e caparbia volontà a mantenere, tutelare e valorizzare un’antica devozione, una testimonianza di fede dei Padri, i quali affidarono al Santo degli umili, dei poveri, del silenzio e del nascondimento, le angosce e le paure di una quotidianità sofferta e sofferente.
D. Quanto la iconografia dei santini, predisposta da Stefania Colafranceschi, ha contribuito alla buona riuscita dell'impresa?
R. Attraverso un variegato universo di costumanze e tradizioni comuni, il volume legge anche un aspetto delicato e intimo della devozione popolare a san Giuseppe, raccolto e testimoniato nei santini di una volta e magistralmente esemplato nella ricerca di Stefania Colafranceschi. A guardarli, questi minuti miracoli di carta, si coglie il delicato sentire delle folle devote dinanzi a una iconografia certamente popolare, ma capace di un trasporto di emozioni e di fede robusto verso il Santo che dopo Gesù e Maria fu il terzo protagonista del progetto salvifico dell’Altissimo. E voglio anche evidenziare l’impegno e l’attenzione delle confraternite di san Giuseppe, da sempre tese a mantenere e veicolare una devozione fatta di rituali segnici, che accompagnano la religiosità popolare nell’alveo sicuro della liturgia, nel mentre si mostrano degne custodi di un prezioso serto di valori e ideali del vivere umano, tanto magistralmente esemplato nella vita del Santo falegname di Nazaret. Ma, nel complesso, l’intero lavoro di studi e ricerche, depositato e offerto in questo volume, si configura come un’occasione di affettuosa condivisione di tante testimonianze di fede in san Giuseppe, comuni non solo in Sicilia e in Puglia, ma sparse per tutte le strade dell’ecumene, là dove è caro il nome di questo Santo patrono della Chiesa Universale.
Giuseppe Massari
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- sempre di Giuseppe Massari:
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