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INCONTRI
di Patrizia di Cartantica
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LA CONTESSA
httpsmole24.it20120220virginia-oldoini-contessa-di-castiglione-la-missione-della-camicia-da-notte
La vecchia Contessa percorreva a piccoli
passi il lungo corridoio che la separava dalla sua
stanza, poggiandosi ad un bastone da passeggio.
Avanzava con grazia ed energia nonostante avesse
già passato l'ottantina; tale portamento le
proveniva dalla rigida educazoone giovanile e che
nella nobiltà è innato, quasi un segno
distintivo di casta, derivante da tradizioni
secolari e tramandato attraverso il sangue.
Quando la conobbi, in quella anonima corsia d'ospedale, indossava una vestaglia di seta rossa
dal taglio giovanile ed orientale che la
rischiarava tuta in viso e che, sulla schiena, le
disegnava un paesaggio di casette allegre e
comignoli svettanti, di alberi gonfi, di fiumi e
nuvole.
I colori accesi facevano contrasto col grigio
argenteo dei capelli rialzati, come una corona
attorno al viso ancora gioioso, segnato solo da
qualche piccola ruga, in cui dominava un sorriso
cordiale e affascinante che faceva dimenticare la
sua età.
Doveva essere stata una gran bellezza ai suoi
tempi: alta di statura più della media, un corpo
ben proporzionato e curato e quel volto solare con
uno sguardo che scrutava dritto negli occhi ogni
interlocutore e d'un tratto s'illuminava tutto -
con quella stessa malizia biricchina di certi
bimbi intelligenti ed indocili che ne hanno
commessa una delle loro - quando diceva qualche
battuta di spirito perchè, nonostante l'età e le
vicissitudini, aveva un'estrema energia vitale che
la sorreggeva più del bastone su cui si poggiava,
piuttosto per civetteria che per reale necessità.
Io, affascinata da questa sua personalità irrefrenabile, ascoltavo con ammirazione le sue
storie, frammenti brevissimi d'una lunga vita
trascorsa tra gente del suo lignaggio, i suoi
rapporti con la madre che, come tutti i nobili, si
attorniava di dame di compagnia e di servitori.
I suoi occhi brillavano d'eccitazione al ricordo
del lungo percorso da Roma a Torino che il Conte
suo padre aveva intrapreso alla bell'età di
settantanove anni... e l'episodio del giovane
servo sardo, uno "sciuscià", come lo definiva
lei, che per essere ammesso al servizio della sua
nobile casa in qualità di cuoco aveva detto
d'avere, oltre ad uno zio carabiniere, un fratello "all'Università'". Il ragazzo entrò a far parte
della schiera di domestici e restò con loro molti
anni; solo poco prima d'andarsene svelò il
segreto: il fratello all'Università l'aveva
davvero ma ci sarebbe rimasto per sempre,
conservato in un vaso colmo di formalina, come
fenomeno dalle tre mani.
Continuava poi con l'arguto racconto di quando
durante la guerra svolgeva la sua attività di
crocerossina, curando soldati malati e feriti.
Alcuni di essi, invece, sanissimi tentavano
giornalmente di marcar visita presentandosi al
dottore; lui allora, con un'occhiata d'intesa
rivolta alla Contessa, le consigliava di praticare
ai giovani un'iniezione secondo la miracolosa
ricetta del "Dottor Pureau"... il che voleva dire
somministrare agli ipotetici malati della
semplice, pura acqua di fonte, che danni non ne
avrebbe procurati.
Rideva, la vecchia Contessa raccontandomi
questi aneddoti, mostrando una chiostra di denti
non più suoi ma che le donavano un simpatico,
accattivante sorriso e poi faceva una sosta,
perchè il flusso di parole le provocava un
ansimare affannoso da cui doveva riprendersi. Poi,
passava ad un altro argomento: avevo mai sentito
parlare di quel tal Padre Talbot dell'Ordine dei
Gesuiti? Aveva il dono di scoprire le malattie che
affliggevano i suoi amici, facendo vagare su una
mappa del corpo umano un semplice pendolino e dai
movimenti, più o meno oscillanti, traeva le sue
conclusioni, sempre azzeccatissime. Fu lo stesso
Talbot che, nell'agosto del 1950, le aveva telefonato inaspettatamente, per esprimerle il suo
profondo rammarico per la scomparsa del marito,
morto solo da alcune ore...
Io l'ascoltavo senza interromperla e, guardandola
con ammirazione, pensavo tra me: "Che spirito
indomabile ha questa donna, che volto
indimenticabile!".
Anni dopo, sfogliando alcune riviste
femminili pubblicate nel Ventennio, su cui
figuravano spesso le vicende delle Loro Maestà Umberto e Maria Josè, dei loro figli ancora
infanti, di consanguinei vari saliti alla ribalta
della cronaca, che io leggevo col gusto d'una
bimba immersa in un libro di fiabe, rividi la
Contessa!
Non poteva che essere lei! Avrà avuto trentanni
in quell'istantanea virata in color seppia che
riproduceva le immagini del Re d'Italia e della
consorte in mezzo ad un folto gruppo di parenti ed
amici per un'occasione mondana: la giovane donna
indossava un magnifico vestito di raso lungo fino
ai piedi che le fasciava il corpo levigato e
sinuoso come quello d'una mitica sirena. Un
diadema di pietre le coronava i capelli raccolti
ed una mano ingioiellata, affusolata e candida,
spiccava sul color bruno cangiante dell'abito come
un fiore raroappena sbocciato sul lungo stelo
d'una pianta.
Ecco il suo volto liscio d'allora, d'una bellezza
perfetta, un decolletè invitante e due occhi
maliziosi e quel sorriso biricchino che saltellava
agli angoli della bocca espressiva e che
l'obiettivo carpiva così impertinentemente in
quell'occasione ufficiale.
Cara Contessa, come avrei voluto mostrarle quella foto di tanti anni prima e rivedere, sul
suo bel viso solare, quell'espressione divertita,
quasi fanciullesca...
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ROCCO
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Rocco è amico di tutti, specie dei bambini;
è un bambino anche lui mai cresciuto mentalmente,
sebbene abbia forse passato, anagraficamente, la
trentina.
Ti viene incontro la sua faccia larga, aperta ai
sorrisi ma ottusamente persa dietro immagini
infantili, ti prende per un braccio e ti chiede
cosa fai o come si chiama il piccolo che gli ronza
accanto e che lui riconosce come potenziale
compagno di giochi.
Con voce strascicata e un pò
gutturale, imbastisce un breve discorso, saltando
qua e là qualche consonante o vocale, prendendo
spunto dall'irrequietezza del bimbo e
minacciandolo bonariamente, perchè - se non farà
il bravo - ci penserà lui, Rocco, a dargli
qualche sculacciata.
La madre, una donna non ancora anziana ma spenta,
lo segue con uno sguardo triste, ogni tanto lo
rimprovera moderatamente, con garbo affinchè non
vada in giro a disturbare gli altri villeggianti,
mentre il padre, un ometto silenzioso e asciutto
se ne sta in un angolo, assorto come chi porta su
di sè un peso enorme o come chi abbia sulla
coscienza qualcosa da scontare.
Rocco è diventato amico del Carlon, il
gigantesco proprietario della pensione, s'aggrappa
al suo braccio che gli dà fiducia e sicurezza,
gli rivolge domande a cui lui risponde in tono
allegro, si aggira con lui tra i tavoli,
s'interessa ai giochi di carte.
Si ferma al mio tavolo, dove il piccolo ha
sciorinato la sua inesauribile troupe di soldatini
e cow-boys, è affascinato dall'aeroplanino verde
e dal carro armato. Chissà se avrà' mai avuto,
nella sua oscura infanzia, qualche giocattolo con
cui passare lunghe interminabili ore che hanno
composto le sue giornate di bimbo diverso,
allontanato o forse dileggiato dai suoi
coetanei...
Ed ora, Rocco si avvia alla partenza, saluta
tutti con un'affettuosa pacca sulla spalla ed un
abbraccio caloroso, ma ha un'ombra di tristezza
negli occhi miti. Ritorna al paese col suo greve
fardello di cui spero non abbia cognizione,
rallegrato forse dal ricordo delle ore serene
trascorse fra queste montagne, ore in cui si è
sentito importante perchè tutti i pensionati lo
chiiamavano per nome e lo salutavano
amichevolmente.
Importante perchè ogni sera, sia pur inutilmente,
tentava di cambiare sull'apposita bacheca appesa
al muro della sala-ristorante, il foglietto del
menu del giorno successivo, ma le sue mani
insicure e tozze non vi riuscivano e Rocco, sia
pure a malincuore, s'affidava allora a quelle più
esperte, ormai avvezze, del suo amico Carlon... |
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I PICCOLI CANTORI DI PERPIGNANO
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La grande chiesa è illuminata a giorno, nel
pomeriggio inoltrato di fine estate; i fedeli
raccolti attendono che i piccoli cantori di
Perpignano eseguano il previsto concerto. Eccoli che entrano senza rumore e prendono
posto sul podio appositamente innalzato per loro,
vestiti in pantaloncini blu e camicia bianca a
maniche lunghe; sul petto una piccola croce brilla
ad ogni riverbero di luce.
Il giovane maestro - non avrà più di ventanni -
è forse l'anziano del gruppo formato da
ragazzetti dagli otto ai tredici anni, fà un cenno
e i giovanetti iniziano a cantare dei pezzi molto
impegnativi con le loro voci ancora bambine e
cinguettanti che si librano sino all'ampia volta
stellata.
Gli astanti ascoltano in silenzio, presi da
questa rappresentazione straordinaria ed
applaudono con calore ad ogni finale; i visi dei
bimbi sono soddisfatti e così pure il volto
sudato del direttore che con le sue mobili mani
impartisce gli ordini ai coristi per l'esibizione
successiva.
Il tempo passa, i pezzi musicali si
susseguono l'uno all'altro, la sera s'inoltra e la
stanchezza si posa sui bimbi arrossati dallo
sforzo del canto e dal calore che si sprigiona dai
loro corpi affiancati.
Come sono belli! E quel brunetto in alto, a
sinistra, che volto angelico!.. e quel biondino in
basso, com'è buffo, sbadiglia dal sonno; chi si
stropiccia gli occhi girandosi per non farsi
notare, chi dondola sui piedi rattrappiti dallo
spazio angusto, chi cambia impercettibilmente
posizione... |
E quel giovane tenore grassoccio, nel suo vestito
nero e la cravatta a farfalla, gonfia la gola come
un canarino tronfio e pettoruto ed emette il suo
canto solitario, lungo e intenso, con una voce non
ancora adulta e non più infantile...
L'ultimo pezzo viene salutato dagli
ascoltatori con un applauso di ringraziamento
fragoroso e sentito.
I piccoli ed il giovane maestro salutano a loro
volta con un profondo inchino e rivolgono alla
platea un addio, in un italiano stentato e col
loro accento francese dalle erre rotonde; ad uno
ad uno sfilano dinanzi agli spettatori, entrando
nella penombra assorta della sagrestia come tanti
piccoli usignoli che rientrino al nido dopo un
intermezzo canoro... |
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IL BECCHINO
E' un uomo basso, tarchiato, con un torace poderoso, frutto dell'impegno costante a cui il
suo fisico è sottoposto. E' il becchino di un
piccolo paese toscano o, come lui si definisce, "operatore comunale".
Attorno a sè ha la sua famigliola: due ragazze ed
una moglie minuta e poco avvenente che però
sembra esser piena di energia. A lui piace parlare, forse a causa
dell'ambiente silenzioso in cui lavora. Certo, per
un uomo come lui, così estroverso, dev'essere
davvero monotono passare giorno dopo giorno in un
cimitero a contatto con tanta gente triste e
sconsolata in quei momenti di dolore.
Ed ora, finalmente, se ne sta qui tra tanta
gente allegra: giovani che giocano in riva al
mare, nonne e neonati che sguazzano nell'acqua,
circondato da quest'atmosfera solare, a
crogiolarsi nell'ozio, attorniato dalla sua
famigliola, felice di potersi rilassare
impegnandosi tutt'al più nella risoluzione delle
parole crociate, felice di poter scambiar quattro
chiacchiere coi suoi vicini.
E la sua testa tizianesca si agita mentre
s'infervora in non so quale discorso pseudo
politico o sociale, ma non s'arrabbia, non se la
prende per nulla. Parla con quel suo tono di voce un pò forte ma tranquillo.
La sera lo rincontriamo al Luna Park: le luci
s'accendono e si spengono senza sosta, il vocio
della gente è superato dal rumore incessante
degli altoparlanti in cui i gestori delle giostre
urlano a perdifiato, giovani in cerca di svago lo
spintonano e ridono senza ritegno, lui fa
spallucce e sorride...
Vicino a noi, un uomo corpulento con una moglie
grassa ed una bambina, anch'essa grassoccia,
tentano invano di pescare alla draga - una piccola
gru di ferro - un orologio da pochi soldi, ma
nonostante i ripetuti tentativi e il prendere
accuratamente lamira, non vi riescono, si
spazientiscono, accusano di truffa il gestore del
piccolo baracchino - uno zingaro bruno dai lunghi
baffi - che sta consumando col suo bambino una
magra cena costituita da un panino imbottito. Lo zingaro si dà da fare, si mette ai comandi,
finalmente pesca un orologio, a riprova della sua
serietà.
L'uomo grasso, incitato dalla moglie ritenta la
fortuna ma essa non è dalla sua parte neanche
questa volta... ne nasce un bisticcio rumoroso tra
lui, moglie e figlia: chi strilla, chi lancia
improperi, chi frigna... un chiasso indiavolato
che si assomma a quello già esistente e che dà fastidio anche a me, pur abituata al gran caos di
Roma...
Il becchino si dimena, accanto a me,
decisamente a disagio; sembra un pò fuori posto
in quel luogo ma quel suo fare calmo e quasi
svagato e un lampo giovanile negli occhi, dice: "S'immagini come mi sento io che sono abituato a
tutto quel silenzio!" |
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IL CAPPELLANO
https://milano.fanpage.it/milano-morto-per-arresto-cardiaco-lex-cappellano-del-politecnico-positivo-al-coronavirus/
Tra poco compirà ottantacinque anni, il
Reverendo Cappellano dell'ospedale sorto ad opera
dell'ordine religioso fondato, circa cinquecento
anni fa, da S. Giovanni di Dio. Ma ha un
portamento eretto ed un volto liscio, sereno e non
gli si darebbero più di settantanni.
Sarà la pace interiore di cui è pervaso e
quell'aria di pacata, rassegnata tranquillità che
caratterizza chiunque approdi sulle rive
dell'isola dei malati.
Il Cappellano esegue giornalmente un giro
rituale di visite agli ammalati: bussa ad ogni
porta con discrezione e che gli si risponda o no,
lui entra per portare un saluto, una parola di
conforto a chi soffre e a chi è in attesa d'un
intervento, una parola di Fede e di speranza a chi
crede.
Con voce pacata e stanca, da vecchio, racconta
qualche fatterello a lui capitato recentemente o lontano negli anni, s'informa sulla salute del
paziente, annuncia la celebrazione della Messa
vespertina nella cappella del II piano. Ma la sua stanchezza anagrafica è di breve durata; subito
si erge nelle spalle con impeto a darsi e a dare
energia all'interlocutore.
Sono sessantasette anni che dura questo suo
lungo viaggio che lo conduce di porta in porta
senza fine e alla mattina, alle sei e mezza,
eccolo là, già pronto a dire Messa con le mani e
la voce tremule ma col cuore sempre pronto a
comunicare con Dio.
La Cappella è un lungo locale che s'affaccia sul
cortile interno dell'ospedale; pareti candide su
cui risalta il ferro battuto dell'immagine sacra
posta in fondo all'abside e dei piccoli angeli
neri che reggono le luci, disposti in fila sulle
pareti laterali.
Una Madonna tutta bianca mostra il suo dolcissimo
sorriso a chi entra e sembra seguirlo lungo la
navata con uno sguardo compassionevole e
confortante.
Il Cappellano svolge la funzione seguendo il
vecchio rito in lingua latina, coadiuvato da una
suora giovane e fragile che lo accompagna anche
nel canto, un inno grave che il vecchio intona con
voce profonda e vibrata.
La Messa si conclude in breve tempo ed il
sacerdote s'avvia lentamente verso la scala di
ferro che s'apre dietro l'altare e che scende al
piano inferiore, per iniziare il suo giro di
visite agli ammalati che stanno per entrare in
sala operatoria, portando loro una parola buona.
La sua figura stanca ma eretta scompare alla
vista, mentre s'ode soltanto un ciabattar di
sandali sui gradini di marmo...
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L'UOMO IN NERO
Usciamo dalla voragine scura che è la
stazione di Napoli Centro, per tuffarci nella
piazza dove la luce del mezzogiorno è accecante,
dove lingue e volti si confondono, odierna Babele
che inghiotte nelle sue fauci fameliche anche noi.
Da lì un dedalo di vie e strettoie,
maleodoranti alcune per gli scarsi servizi urbani,
affollatissimii altri per via di mercati e
traffici più o meno loschi.
Andiamo incontro a coloratissime bancarelle,
accolti da imprecazioni ed inviti di venditori:
pinnacoli di pagnotte di pane che dal selciato
s'innalzano, come un dono votivo, sino
all'immagine sacra d'una Addolorata appesa
all'angolo del vicolo a proteggere i suoi
abitanti, bancarelle di pesce scongelato (che vuol
essere venduto per freschissimo) che emana, nel
disfarsi, un odore acuto e inconfondibile
d'ammoniaca.
Chi grida, chi incita al consumo di frittelle appena tolte dal fuoco: un caos, insomma! al centro del quale - imperturbabili, immobili
quasi - se non fosse per la vivezza del gesto con
cui gettano le carte su di un tavolino di fortuna
addossato al muro - due uomini segnati dall'età,
giocano a scopa come se stessero al chiuso d'una
stanza, nel privato della loro casa, in un luogo
accogliente, nient'affatto infastiditi dal frastuono della vita cittadina.
Camminiamo scansando immondizie e folla e
finalmente raggiungiamo un viale che s'apre sul
mare e che, confrontato alla pullulante strada di
poco prima - che effettivamente rispecchia Napoli
- non ha alcun legame con la città: è un viale
grande e anonimo, deserto, ordinato, spoglio;
potrebbe appartenere a qualsiasi altra città (mi
ricorda, infatti, un lunghissimo viale percorso
nella Milano di tanti anni fa...).
Mezzogiorno: il sole dell'estate piena ci
crocifigge all'asfalto finchè, dopo tanto, un
tram sovraccarico arriva sferragliando; vi saliamo
e ci facciamo strada tra la folla di facce
sorridenti di napoletani veraci.
Restiamo sulla piattaforma antistante la
cabina del guidatore, guardando a destra e a
sinistra per assimilare quanto è più possibile
di Napoli. A destra compare, corruscata e
massiccia, la sagoma del Maschio Angioino e tra me
e te, Paolo, s'accende una piccola disputa poichè
tu sei convinto che si tratti del castel dell'Ovo.
Io, pacatamente, mi ribello, cercando lungo il
mare l'altro colosso immobile, quando qualcuno
accanto a noi, interviene a sostenermi: "Esatto,
signuri', chisto è 'o Maschie Angiuine, 'Castello
sta' dall'ata parte..." e indica in direzione
della brulicante selva di imbarcazioni che affolla
il porticciolo di Santa Lucia.
Questa precisazione dà la stura ad un lungo
monologo dell'uomo, unico oratore e protagonista.
E del protagonista ha la stoffa: sui trentanni,
corporatura robusta, tutto vestito di nero dalle
scarpe al giubbetto, occhi neri e capelli neri,
impomatati ed attaccati al cranio, baffi neri e
spioventi.
Posata a terra una borsa anch'essa nera ed
un'incredibile mazza da golf, di cui il giovane si
serve come un bastone da passeggio.
Ci sommerge con la sua esuberante loquacità' e col
suo desiderio d'esserci utile eppoi, prendendo
spunto dal nostro accento decisamente romano, ci
racconta d'aver passato la sua adolescenza a Roma
dove, per amore d'una giovinetta s'era fatto
tatuare su un avambraccio il suo nome.
Affinchè non crediamo che siano solo sbruffonate,
le sue, alza la manica della camicia nera e per un
attimo intravvediamo l'incisione e il nome: "ELVIRA".
Continua nel suo soliloquio, interrompendosi
di tanto in tanto per illustrarci le meraviglie di
Napoli che si susseguono frettolosamente dietro i
finestrini dell'auto. Coinvolti da tanto
entusiasmo ciceroniano, gli chiediamo se può
consigliarci un ristorante per il pranzo; ci
avevano parlato d'un certo "Ciro"... "Ma quale,
signuri'? - prosegue l'uomo - Ciro 'a mmare, Ciro
'a Mergellina o Ciro a Santa Lucia?...".
Per noi l'uno vale l'altro, purchè non sia
costosissimo. Il nostro improvvisato tutore ci
avverte che proprio nei paraggi ce n'è uno che fa
al caso nostro.
Intanto, il tram sta per imboccare la
galleria che porta Fuorigrotta e la fermata si
trova dall'altra parte del tunnel. L'uomo in nero,
con un rapido sorriso sul volto bruno, ci avverte
di prepararci, si avvicina al conducente e con un
fare tra il comando e la preghiera, gli dice: "Ne', per favore, fate scegnie ccà chisti duje
amice mieje...".
Il tramviere blocca istantaneamente la vettura
incurante del traffico che dietro s'accalca
rumorosamente. Frettolosi e grati, scendiamo
ringraziando, mentre l'uomo in nero, dall'alto
del predellino, ci saluta con un sorriso di
sufficienza come a voler dire: "Ne', signuri', e'
ccosa e niente!".
Il tram sferragliando prosegue la sua corsa e lui,
nell'angusto spazio della piattaforma, alza a mò
d'addio, la mazza da golf...
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IL CHIRURGO
Grosso, imponente, il naso che spicca subito
sulla faccia da uomo ormai maturo, che vive nel
mondo senza tante illusioni, due occhi che
guardano in profondità...
La moglie è una donna altrettanto solenne, non
già per l'imponenza del corpo, ma per la
magrezza, scurissima di pelle e di capelli,
probabilmente tinti, paludata da uno stravagante
vestito anch'esso nero. Due grosse borse sotto gli
occhi deturpano il volto non attraente ma che a
suo modo doveva esser stato estremamente
seducente. I denti spiccano bianchi e felini sul
colore bruno del volto che ricorda antichi
crittogrammi egizi. Oppure forse è peruviana,
com'è più probabile per la dolce cadenza del
parlare, una discendente di quel superbo popolo
dell'altopiano andino.
La figlia, poco più che ventenne, bionda e paffuta sembra appartenere ad un'altra famiglia.
Non veste come i suoi coetanei in jeans e
camicetta, indossa una gonna classica ed un
pullover grigio.
I suoi due fratelli più giovani, obesi e bolsi
siedono in un altro scompartimento del treno,
assorbiti da quegli infernali congegni che
irradiano musiche assordanti.
Le due donne parlano senza interruzione con un
altro personaggio, un conoscente incontrato per
caso che sembra interessarsi, non solo per
convenienza, agli argomenti della conversazione:
il giardinaggio, i gatti, i cani... Ognuno dei tre
parla come se fosse sul podio d'un'improvvisata
riunione politico/sindacale e gli altri a turno
l'ascoltano... Non tanto l'uomo, ma le due donne,
madre e figlia, non perdono il ritmo serrato con
cui conducono la conversazione.
L'uomo imponente tace, sopraffatto dal fiume
di parole in cui riesce raramente a tuffarsi,
intrecciando a malapena un brevissimo discorso con
l'altro uomo... da quell'intervento capisco che è
un chirurgo, oltretutto di fama. Rientrano, però,
in lizza la figlia e la moglie che gli tolgono la
parola e tengono banco con un'aria
d'intransigenza, come a dire: "E per oggi hai
parlato anche troppo!".
Lui tace, sembra ascoltare ma so con sicurezza che
vaga chissà dove coi suoi pensieri affollati
dietro la larga fronte. Coi suoi grandi occhi liquidi guarda le sue
antagoniste loquaci, logorroiche che sputano
sentenze con quell'aria di persone viziate dai
soldi e dalla società, guarda i due govani bolsi
e forse pensa sempre di più ai suoi ammalati, ai
problemi della sua clinica, a quello che dovrà
fare l'indomani, insomma ai casi suoi!
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IL PROFESSORE
https://www.comingsoon.it/film/il-professore-e-il-pazzo/56024/scheda/
Ha uno sguardo intenso e indagatore, il
Professor Schultz, quando osserva un paziente che
presto dovrà essere operato. Ma, nello stesso
tempo ha un volto ancor giovane ed aperto, una stretta
di mano maschia e decisa che non lascia posto alla
disperazione, ai dubbi e infonde, invece,
coraggio, fiducia e speranza.
Nei giorni riservati alle operazioni,
nell'ospedale è tutto un fervore di preparativi,
di controlli, tutto un via vai di assistenti e di
giovani dottori che svolgono il volontariato post-universitario. I pazienti che dovranno sottoporsi
agli interventi debbono sottostare ad una sequela
di operazioni preparatorie che li snerva e nello
stesso tempo li frastorna al punto tale che il
fatidico momento arriva quasi inaspettato.
E nella sala antistante quella operatoria, dove i
pazienti vengono sistemati, è tutto un cicaleccio
di strumenti e di discorsi, come in qualsiasi
altro luogo di lavoro. Ma, non appena si varca la
soglia della sala operatoria, un silenzio irreale
cala sull'uomo o sulla donna in attesa sul
lettino.
Nel dormiveglia della preanestesia s'odono rumori
distinti, distaccati l'uno dall'altro, provenienti
da lontananze misteriose e nella luce accecante della lampada posta proprio sopra il loro capo, la
figura del chirurgo appare ai malati gigantesca,
possente, confortante. La voce profonda e serena,
tenera quasi del Professor Schultz, li culla e li confonde in una narcosi beata, un Eden prenatale
in cui nulla è sofferenza e dolore.
Come un nuovo Prometeo che rubi un raggio di
magica luce agli dei, il Professore inizia il suo
paziente lavoro: con rigore cronometrico e
perfezione incide, disintegra in piccoli
corpuscoli, polverizza il male in microcosmi
invisibili ad occhio nudo, cauterizza, disinfetta,
sutura.
Sempre calmo, sicuro di sè, in perfetta sincronia
di movimenti con i suoi assistenti, rende perfetto
o il più possibile vicino alla perfezione, ciò
che era malato o imperfetto. Tutto fatto!
Con lo sguardo e con qualche cenno di mano agli
assistenti, impartisce alcuni ordini relativi alle
operazioni ordinarie ch'essi possono eseguire
ormai da soli, simile ad un maestro di musica che
diriga un concerto e, come scendendo da un podio,
s'allontana dalla sala tra gli applausi muti dei
presenti.
Si spoglia degli indumenti non più sterili ed
eccolo, col suo completo verde allegro e la
calottina che gli imprigiona i capelli corvini.
Tanto sembra giovane e spensierato ora che il suo
delicato compito è stato portato a termine, che
lo si scambierebbe per uno di quei dottorini
appena laureati del volontariato.
Ma è solo un momento: il Professor Schultz
ricompone il suo volto giovanile ad una più seria
maschera professionale e con voce sicura e
perentoria impartisce ordini e prescrizioni alle
infermiere di turno che, come tutte, lo guardano
con ammirazione e affetto...
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L'OPERATO
https://www.stateofmind.it/2018/06/uomo-attraente/
Avanti e indietro lungo i corridoi del
reparto ospedaliero che lo ospita, sembra non aver
pace. E, invece, è una sorta d'allegra agitazione
che lo pervade dacchè, operato agli occhi per una
cataratta giovanile, s'è reso conto che le
previsioni più nere possono essere accantonate.
Ormai vede meglio di prima senza quel velo opaco
che gli annebbiava lo sguardo.
Ha passato da poco la cinquantina, è magro e
scattante, con una testa di ricci color sale e
pepe che gli dà un'aria scanzonata nonostante i
lineamenti un po' duri, tipici d'un protagonista
d'un romanzo pasoliniano.
Forse gli è rimasta dentro la nostalgia di
quell'adolescenza passata in fretta per colpa
della guerra...
E' un irrefrenabile ciarliero o forse è
disperatamente solo e qui, dove tutti hanno
bisogno di parlar di sè, di fugare paure e dubbi
sul futuro o di avere notizie sull'intervento che
presto seguirà o sulla degenza, lui si sente
autorizzato a propinare-notizie e consigli,
incoraggiamenti, speranze.
E' un modo come un altro per sentirsi importante,
indispensabile, lui che, forse, nella sua vita di
tutti i giorni non lo è. Poichè, se interpellato
sulla sua professione, recalcitrante quasi
borbotta: "Io sto nel campo degli alimenti
zootecnici... animali da macello...", lasciando
nel vago l'interlocutore.
... Macellaio, scaricatore al Mattatoio,
raccoglitore di carcasse... chissa'!
Da quando è li', in quella stanzetta del
secondo piano, curato e vezzeggiato quasi da
tutti, interpellato da ogni nuovo arrivato, la sua
presenza riveste davvero importanza con
quell'influenza positiva che ha sul morale dei
malati, che si riscuotono dai loro angusti e scuri
pensieri.
Spronati dalla sua irruenza quasi fanciullesca,
cominciano a sperare in un prossimo futuro
luminoso...
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SOTTO LA PIOGGIA
http://www.mammaincitta.it/la-pioggia-delle-mamme/
Il pomeriggio è piovoso, di quella pioggia
insistente che, iniziata nella notte precedente,
ha continuato interrotta per tutto il giorno; a
tratti sembra esser stata spazzata via dal vento,
ma poi ricomincia querula, monotona.
Nel grigiore lampeggiano allegre le insegne al
neon dei negozi oggi semivuoti e le luci dei
fanali delle auto. Poca gente s'avventura, in un
pomeriggio così nella strada dove le pozzanghere
rifrangono anch'esse i colori delle luci.
La donna coi due bambini, invece, s'avvia allegra
lungo il lucido nastro d'asfalto; le tre figure
risaltano, colorate, con le loro mantelle
impermeabili e si riparano sotto tre grandi
ombrelli multicolori che invadono tutto il
marciapiede.
Vociano vivaci mentre camminano frettolosamente,
senza tener conto della grigia cortina di pioggia.
I bimbi intrecciano discorsi e risa al riparo
degli ombrelli, sporgendo dei tanto in tanto la
testolina, un pò per gioco, un pò per sentire
la carezza fresca di quell'acquerugiola lieve.
Come due uccellini che si sporgono dal nido
soffice e protettivo, per dare un occhiata al
mondo, all'immensità che li circonda...
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EDMONDINA
La sua carica vitale, la sua estroversione,
propria della sua origine romagnola, l'eleganza
dei suoi abiti un pò retrò ma ben fatti - anzi
li fa lei stessa, poiche' a 83 anni ancora non ha
ceduto le armi e ringraziando Dio è non solo in
grado di badare a se stessa ma lavora ancora di
fino, con ago e filo e mette su certi abitini da
far invidia - belle gambe, buon portamento, gran
voglia di vivere, serenità su quel suo viso
percorso da mille rughe… il suo corpo scattante
nonostante l'età…
Talvolta, ma è raro, si lamenta di qualche
presunta malattia... ma poi dice “Le lacrime le
butto dietro le spalle...
Inventa forse piccole bugie per nascondere
qualche sua dimenticanza, qualche falla della
memoria, le notti insonni...
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STORIA DEL MOSCERINO
https://www.repubblica.it/salute/2019/02/20/news/le_notti_brave_del_moscerino_della_frutta-219636725/
... Quand'ecco spuntare il moscerino! Come
non commuoversi a questo punto? Come non
scriverne?
Il moscerino... era tanto tempo che non si faceva
vedere, piccola cara creatura discreta. E
impavida, anche, perchè nonostante la mia
presenza non scappa.
E' una materializzazione? E di che, poi?
Ecco, ora sfiora le mie mani, si posa un attimo
sul foglio, vola pacatamente per la stanza.
Mi sembra carico di esperienza, vissuto. E sento
che mi conosce bene, che sa tante cose di me e
quasi mi vuole bene.
... No, gente, non presteròorecchio alle vostre
sghignazzate di derisione, alla vostra
compassione...
Siete voi che non capite, siete voi che non potete
andare oltre i vostri cinque sensi. Io che invece
vedo la poesia nelle piccole cose comuni, io so
che questo piccolissimo essere che mi sta intorno,
è una delle infinite arcane forme dell'ignoto...
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STORIA DELLE PICCOLE STAZIONI
https://it.vecteezy.com/vector-art/479327-illustrazione-della-stazione-ferroviaria
Avete mai notato l'atmosfera irreale, fuorI
del tempo che vi prende passando col treno davanti
a certe piccole stazioni di paese?
Sembrerebbero tutte eguali: una fontanella, una
statua, un'aiuola coi fiori, al rapido sguardo
d'un viaggiatore disattento che vi passa davanti a
gran velocità'.
E, invece,ognuna di esse ha una qualche propria
e distinta caratteristica: qui c'è la statua d'un
uomo famoso, immortale, qui quella d'un eroe morto
in battaglia, là quella d'un cane in attesa del
ritorno del suo padrone.
Laggiù una fontanella dal getto allegro, spumeggiante,
qui una che scroscia con una solennità da chiesa,
grave e compunta.
Stazioncine affollatissime e stazioni deserte, là
il sole, qui la pioggia sferzante. Mille volti
diversi...
Ma di notte tutto si uniforma, anche i volti
diseguali delle stazioncine di paese, immobili
sotto lo stesso fisso cielo.
E se la notte è tersa e serena, mentre il treno
rallenta e si ferma per una sosta prevista c'è anche modo di ascoltare le loro intime voci: voci
fatte d'un coro di grilli assiepati nel folto dei
giardinetti, di qualche latrato sommesso o acuto,
della sonorità dell'acqua che cade sul marmo
candido delle fontanelle, cristallina d'inverno,
pastosa d'estate, fatta del suono di mille
campanellini annuncianti il passaggio d'un nuovo
treno su un altro binario.
Ed eccoli, i fari lampeggianti dell'altra
locomotiva, il fischio prolungato che ne annuncia
l'arrivo, lo stridere dei freni all'approssimarsi
della stazione…
Ecco la sagoma scura che si snoda vibrando dinanzi
all'occhio frastornato, come un lungo serpente di
ferro, una fugace visione di finestrini illuminati
e volti lieti, un sorriso, una parola colta nel
vento, scompartimenti vuoti, inanimati e neri come
orbite vuote...
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MARGHERITA
https://www.deartibus.it/drupal/content/ritratto-di-donna-bruna |
Margherita mi puntava addosso quei suoi occhi
nerissimi e acuti che avevano un'irrequietezza
estrema e tutto afferravano e scrutavano, senza
darlo a vedere, dietro la mobile facciata del viso
non bello, bruno e un pò butterato, che si
modificava di momento in momento, seguendo un
pensiero interno e, a seconda degli argomenti
toccati e dell'interlocutore...
Era un'attrice nata a cui mancava un palcoscenico,
ma lei non se ne dispiaceva poichè qualsiasi
luogo diventava il suo personale teatro.
Difatti, quale miglior palcoscenico che la vita
stessa? Il contatto con mille diversi personaggi
di cui lei s’appropriava in un attimo per apparire
di volta in volta diversa, ora trasformandosi,
mimetizzandosi, celandosi o scoprendosi a tratti.
Aveva quel dono naturale di immergersi quasi con
tutta se stessa in una parte e recitarla finchè
ne aveva voglia, poi quando si stancava,
ricacciava all'indietro dalla fronte i capelli
corvini con un movimento quasi altero del capo.
Mi ricordava la grande Anna Magnani per questo
gesto e per l'impetuosità di Nannarella aveva
quello spirito popolaresco, aggressivo, a volte anche grave, quel bisogno di comunicare, quella
disperata necessità di fingere, di fingersi
un'altra.
Ma di lei le mancava la grande umanità, quella
melanconia assorta, quello scoppiettio improvviso
di risa di vera ilarità...(anche la sua risata è
un infingimento) che capovolgeva il dramma in una
farsa.
Negli occhi bruni di Margherita intravvedevo un
lampo prolungato di cattiveria pura, di invidia
meschina che stravolgeva il suo capolavoro di
recitazione.
E faceva di lei, che tanto desiderava d’essere all'altezza d'un mondo a cui non apparteneva, se
non per forza di volontà, un piccolo essere di
cui avere compassione.
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L'AZZECCAGARBUGLI
https://acciarino.com/2014/07/15/chi-e-azzeccagarbugli/
E' un piccolo Azzeccagarbugli, traffichino, tipo
Fracchia, l’impiegato rappresentato al cinema da
Paolo Villaggio.
Ogni tanto, quale sua silenziosa interlocutrice,
mi interpella con un "Che ne dice?" passando dal
lei al tu e viceversa secondo le questioni che
vengono affrontate nel discorso e ritornando poi
al lei, con quella indecisione congenita che segna
ogni istante della sua vita.
Senza mai prendere posizione, temendo un qualche
contrasto con qualcuno che conti, qualcuno più
importante di lui. Sentirlo parlare al telefono è
lo stesso: indeciso, ossequioso... contatta decine
e decine di persone per sbrogliare questa o quella
matassa legale in cui da solo si impelaga...
persone con titoli onorifici e poco ci manca che
si alzi in piedi.
E a quel "Che ne dice?", che rispondere, se non si
attende – in realtà - risposta alcuna?
Anche fisicamente, è una nullità: nè alto nè basso,
nè grasso né magro, una faccia tonda su cui gli
occhi roteano, dietro due lenti spesse,
guardinghi, come se temesse sempre d'essere
disapprovato o spiato o ripreso da qualcuno che ha
qualche occulto potere... e una bocca a fessura un
pò infida quando, di rado, ci si sorprende un
sorriso tirato o mellifluo, rapido e quasi senza
suono.
L'abbigliamento è in carattere: un vestito quasi
sempre scuro, dal taglio un pò all'antica, una
camicia che dà sul giallino, dal colletto già
stazzonato, cravatte che più insignificanti di così
non si potrebbe...
Come lui, del resto, Azzeccagarbugli per antonomasia.
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UNA DONNA
https://www.pinterest.it/pin/398427898286376597/
La donna siede su di una sedia, contro la parete
bianca, le mani abbandonate in grembo, come due
fiori appassiti sul verde tenero del vestito a
larghe foglie. Ed anche il resto del corpo, dai
piedi minuti alle esili gambe è composto,
perfettamente in squadra con il tronco, su cui a
malapena s'intravvede la rotondità del seno.
Il collo, liscio come una colonna marmorea, sale
verso il volto, anch'esso levigato non già da una
gioventù rigogliosa, ma dal tempo.
E questo viso d'un pallido avorio antico ha la
stessa bellezza e staticità innaturale d'un fiore
di plastica o d'una statuina cinese. E' immobile
se non fosse per un'impercettibile contrazione
d'un muscolo che pulsa all'angolo della bocca poco
carnosa, sottile.
Tutto il suo atteggiamento è d'abbandono, gli
occhi solo, febbrili e allucinati vibrano di
tanto in tanto sotto il battito delle ciglia
chiare, rivelando l'iride color d'un terso cielo
mattutino, in cui s'indovina una vita intensa,
sotterranea, che appartiene solo a lei.
Guardandola si prova una tristezza intensa,
inconsolabile, simile a quella che si percepisce
dinanzi alle rose thea di quel certo color
carnicino che s'aprono pomposamente all'aria nel
massimo momento di fulgore, ma già la loro
bellezza è minata, qualche petalo si slabbra e
s'accartoccia e presto si abbandonerà al vento...
Sembra persa in un ricordo lontano... Oppure
attende l'epilogo d'un evento tragico, luttuoso o
è l'attesa di qualcosa di lungamente desiderato?
E' un rimorso, una paura, un sogno che la rendono
così immobile eppure così febbrile...?
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L'UOMO CHE AMAVA LA MUSICA
https://www.e-coolture.it/2020/05/musica-la-frequenza-della-bellezza.html
Sin dall'infanzia aveva molto amato la musica
specie quella operistica che durante le feste,
numerose nel paese in cui viveva e vive tuttora,
venivano proposte come momento centrale degli
spettacoli, suonate da bande musicali, spesso
molto ben orchestrate, provenienti dai paesi
vicini.
Avrebbe voluto poter prendere lezioni di musica,
imparare a suonare qualche strumento, magari il
pianoforte o almeno la chitarra, ma al padre, uomo
burbero e di pocheparole, dal caratterechiuso
anche se non ingeneroso, tale inclinazione
appariva troppo poco virile, bighellona.
E al
ragazzo, estroverso ed affettuoso, che però non
riusciva a comunicare col genitore, venne vietato
qualsiasi approccio in campo musicale.
Più avanti negli anni era ormai troppo tardi, a
parer suo per imparare e, intanto, gli impegni e
la famiglia crescevano, ma finalmente ebbe i mezzi
necessari per soddisfare almeno in parte
quell'antico amore di adolescentte.
Ora ha attrezzato in casa una stanza destinata
solo alla musica in cui troneggia imponente un
costoso pianoforte. Sulle pareti scaffali e
contenitori dove, archiviati con cura estrema,
egli cataloga dischi di musica leggera, operette e
tutta l'operistica italiana, in varie prestigiose
versioni, persino le prime tremolanti esecuzioni
fonografiche di Caruso e l'indimenticabile vocina
di Toti dal Monte.
L'uomo. che è quasi vicino alla quarantina, ha tre bimbi, tre frugoletti simpatici e ben educati,
spiritosi e fantasiosi come tre felici folletti a
cui, un pò per suo desiderio, un pò per naturale
inclinazione, egli fa impartire lezioni di musica.
E così nella casa affollata c'è chi suona il
pianoforte, chi canta, chi ascolta attento.
Nell'aria, sempre un ininterrotto cicaleccio, un
trillio, un concerto di vocine che rallegra lo
spirito.
Quotidianamente, quando rientra in casa dopo una
giornata di lavoro per cui non nutre amore, l'uomo
si reca nella "sua" stanza attorniato dai
chiassosi bambini e al suono triste o allegro di
opere e canzonette, si ritempra alla fonte
rigeneratrice della musica.
Gli evocano, forse, quelle arie dolci o tristi o
inneggianti a battaglie e vittorie, ricordi
dell'infanzia perduta, la nostalgia di volti e
cose morte per sempre. E la libertà, la serenità,
l'innocenza di quei giorni spensierati in cui,
partendo dalla stradina sterrata che iniziava al
limitare del paese, correva su per la montagna,
facendo a gara con altri coetanei per raggiungere,
primo fra tutti, l'ormai dimenticata chiesetta di
San Michele....
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IL PROFESSORE
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Una figura coi capelli che conservano ancora le
ramature antiche d'una tintura, ormai radi sul
cranio e allungati sul collo, un naso oblungo che
taglia un viso enigmatico e come scolpito nella
stessa pietra delle statue dell'Isola di Pasqua…
Più che ottantenne ha però uno spirito vivace,
arguto e la sua conversazione cattura gli uditori,
poiché ha una cultura superiore e vivace ed è un
appassionato di arti varie, mai però prevaricatore
nei confronti dei suoi ospiti, anche se a lui
inferiori in questo campo, è premuroso ed attento
verso di loro senza alcuna ostentazione ed è il
primo che nella vita mi abbia salutato con un
baciamano...
Una volta o l'altra, vorrei quasi darle un bacio,
professore...
E' un pomeriggio di mezza estate, neanche troppo
caldo se si percorrono, come noi abbiamo fatto, le
ombreggiate e silenziose vie dei Parioli che
dischiudonoai nostri occhi le loro coreografichearchitetture: grappoli di verde pendono ad
agghindare vecchie mura color ocra, balconcini di
ferro panciuti ed aggressivi, torrette che
s'alzano verso il cielo a dominare le forme armoniche o disarmoniche dei tetti sottostanti.
Ci perdiamo quasi nel dedalo di vie che si
intrecciano, digradanti o in salita, per
convergere su piazza Euclide e raggiungere poi la
costruzione che cerchiamo e a cui dò appena
un'occhiata, catturato ormai lo sguardo dall'alto
cancello di ferro battuto che s'erge a nascondere
l'ampio e verdeggiante parco dell'ambasciata
portoghese.
Dinanzi al portone d'ingresso ci sbarra il passo
una cancellata; ci preannunciamo per citofono e la
inconfondibile voce del Professore - un pò nasale,
un pò monocorde - ci guida verso una porticina
laterale e all'ascensore incassato nella struttura
bianca che lentamente ci porta su. E lui è là, sul pianerottolo ad attenderci, a fare
gli onori di casa. Come sempre nel salutarmi
accenna un leggero baciamano, che mi imbarazza,
in linea con tutta la sua personalità.
Alto, legnoso, sia per l'artrosi che per l'età, è tuttavia agile e disinvolto nell'accoglierci
nell'ampio salone sovraccarico – ma non è una
definizione negativa - di gingilli, di quadri, di
collezioni, un pout-pourri di ricordi e dininnoli
che rappresentano una parte della sua vita.
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Ero curiosa, dopo averlo conosciuto, di vedere
questa casa in cui abita e in cui da anni accoglie
il nostro giovane amico da poco sacerdote, più che
altro per completare l'idea che mi ero fatta di
lui.Di famiglia forse nobile o dell'alta borghesia
milanese, esponente di molti movimenti culturali,
instancabile direttore d’una rivista letteraria,
enciclopedico conoscitore di lingue straniere,
insegnante di giapponese e fine cultore del teatro
giapponese No e Kabuki su cui ha scritto pregevoli
testi letterari, ambasciatore in vari paesi... e
chissà quante altre cose ancora che non avrò mai
l'opportunità di scoprire né l'ardire di chiedere.
Si vede che è abituato a viver da solo - se non
fosse per le sporadiche, brevi presenze di Jozo -
e che la sua esistenza si consuma quasi tutta là
in quell'appartamento antico che s'affaccia sul
verde parco intravisto poco prima e che si delinea
in tutta la sua bellezza intensa - come fosse un
sogno, un quadro - affacciandosi dalle ampie
vetrate della piccola veranda: sotto di noi e
davanti a noi un fitto intrecciarsi di tonalità di
verde, una piccola strada di ghiaia che porta ad
una costruzione, molto più antica della casa in
cui ora siamo, ornata di statue... e un silenzio
ovattato interrotto soltanto da qualche rapido
trillo di uccelli.
La stanza, dicevo, separata in due da una parete
divisoria incorniciata da un listello di legno
sagomato e istoriato sulla sommità, è davvero
ingombra: al centro della parete più grande che
delimita l'angolo della conversazione, divano e
poltrone di paglia viennese ricoperte da cuscini
damascati, un piccolissimo tavolino d'ebano, un
carrellino contenente liquori e proprio al centro
l'ampia bocca d'un camino inutilizzato ma colmo di
decorativi ciocchi di legna, due scansie cariche
d'oggetti, una cassapanca su cui, dinoccolato e
scomposto, s'allunga un Pierrot di porcellana
quasi ricoperto da una bandiera croata: uno scudo
a scacchiera rossa e bianca sormontato da una
corona che spicca chiara sul fondo d'un blu
elettrizzante.
Più in là, accanto alla finestra,
un mobile intarsiato e dall'altra parte una
piccola consolle su cui spiccano, incastonate in
vecchie cornici, alcune foto di famiglia ed altre
con dedica autografa di alcuni illustri
personaggi: Papa Pio X, Pio XI, il Re Umberto, un
ambasciatore del Giappone, amico fraterno del
Professore che era diventato Padrino della figlia
in occasione della Prima Comunione; un ritratto di
quell'allora bimba, vestita col kimono e seduta a
terra nel tipico atteggiamento giapponese, spicca
sulla parete attigua.
Dall'altra parte, adibita alla refezione, uno
stretto tavolo e due mobili, qualche lampada, una
fruttiera ricolma di vivide mele verdi...
Disseminati tra tutte queste suppellettili, una
miriade di gatti - il Prof. ne fa collezione da
anni poichè li ama svisceratamente - in varie pose
e di vari materiali: in ceramica, in vetro, in
stoffa, in legno. Sembrano saltellare per tutta la
stanza, occhieggiano buffi, contriti o aggressivi
da ogni angolo, persino sui muri; sulla parete
divisoria, due lampi di colore giallo
fosforescente ed eccone uno che sembra balzare in
avanti dal nero assoluto dello sfondo d'un
quadro... altri tre, nati dai tratti leggeri d'una
matita, giocano ignari in un angolo...
Su tutta questa miscellanea di oggetti, un pò
kitsch e un pò decadente - ma forse son io che la
intendo così - si stende, quasi palpabile un velo
di polvere stantia e qualche ragnatela s'annida
tra le gambe intarsiate dei tavoli a rendere la
scena un pò melanconica.
Ma tutta questa presunta immobilità si dissolve
quando il vecchio entra in scena e dal fondo della
scomoda poltrona si erge nelle spalle per gettare
quà e là, con quella sua voce nasale ma tonante
quando s'appassiona ad un argomento, i semi di
quella sua profonda cultura o qualche domanda
insieme interessante e provocatoria che suscita
discussione... si dipanano vari discorsi, l'uno
porta all'altro come una conseguenza logica e lui
lascia parlare ora l'uno ora l'altro di noi
tendendo l'orecchio quasi a voler cogliere, tra le
tante, l'idea più originale (o forse quella più
banale) da riafferrare, pronto, al minimo languire
della conversazione
Si vede che è gaio in questo
scambio continuo, si trova a suo agio in mezzo a
questo guazzabuglio di parole... E’ come un
giocoliere che tiri in aria una clava colorata ed
attenda che ricada giù e nel frattempo ha già
lanciato, in sequenza, altri oggetti che girano
con un moto giocoso, vorticoso...
Il nostro amico Jozo, nella parte stavolta
dell'anfitrione, mi sembra un pòa disagio, un pò
sconcertato, forse voleva un attimo di requie al
suo girovagare, ma di buon grado s'affanna a farci
star comodi, a preparare bibite rinfrescanti e
quando il prof. con tono semiserio ci propone di
rimanere a cena, forse dentro trasalisce; noi
pur desiderandolo molto, siamo un pò incerti se
accettare o no quest'invito inatteso e spontaneo.
Ma ecco, in un quarto d'ora o poco più viene
imbastita una cena semplice che avrà come piatto
forte l'unica cosa che il prof. sappia ammannire,
un saporito risotto alla pseudo milanese.
Lo stretto tavolino d'ebano viene ricoperto d'una
piccola tovaglia senza fronzoli, loro due prendono
i soliti posti l'uno di fronte all'altro e noi
quelli ai lati opposti. Sul tavolo, acqua e vino
in abbondanza, un vino scuro e pesante, l'unico
vero vino a detta dell'anziano amico che, presumo,
viva nutrendosi pochissimo, eccezion fatta per il
caffè, il vino e le sigarette. Non si può,
difatti, ricordare il professore senza abbinare la
sua immagine ad un alone di fumo... appena spenta
una già è alla ricerca di quella successiva che
spesso neanche stacca dalla bocca.
Idiscorsi continuano su un tono allegro, giocoso e prendendo bonariamente in giro il nostro giovane
amico, il professore con aria profetica prevede scherzosamente il suo futuro, preannunciandogli un
avvenire luminoso nell'ambito ecclesiastico, sino
al cardinalato... poi si ferma in silenzio e
ammicca verso di noi, come a dire: "E se Dio
vorrà... c'è ancora un altro gradino..."
Jozo, rosso e confuso non sa se stare al gioco, se
lasciarsi punzecchiare o rispondere in tono serio.
La già efficace parlantina di Paolo, contento per
aver trovato un ascoltatore così arguto, ora
rinvigorita dal corposo vino pugliese diventa un
effluvio di battute, di idee, di proposizioni
che trovano il suo interlocutore per un attimo un
tantino annebbiato - è solo un breve momentaneo
effetto poiché il vecchio subito si riprende, reso
ancor più vigoroso ora dall'alcool, ed è pronto ad
illustrare un lungo, impegnativo progetto che ha
intenzione di sviluppare nei prossimi mesi - la
creazione di un'università nella cittadina di
Grosseto. Paolo che è nato a pochi passi da lì,
maremmano dalla testa ai piedi, si sente al
settimo cielo per quest'insperata iniziativa e non
fa che sollecitare, incitare, galvanizzare ancor
di più - se fosse possibile - il gentiluomo a
percorrere la via intrapresa.
Intanto, con la scusa che non mangio da iersera,
il mio piatto non è mai vuoto, mi coccolano quasi.
La cena è finita e come si usava ai vecchi tempi
ci si trasferisce sulla veranda dove due poltrone
un pò sbiadite e due sgabelli formano un circolo
quasi perfetto attorno ad un minuscolo tavolino su
cui, quasi subito appaiono digestivi e
rinfrescanti.
Dagli alti vetri aperti non entra un
refolo di vento e dietro di essi la notte è come
un tappeto di velluto nero... solo dopo un pò
l'occhio s'abitua e discopre le sagome lontane dei
palazzi e le frange più scure delle palme del
giardino sottostante. Neanche una stella in questo
cielo cittadino opaco per lo smog...
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Continua
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