DINTORNI 2
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LA MODISTA
DALLA MODISTA - E. DEGAS
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Di fronte alle mie finestre, sulla trafficata via Merulana, s'apre un piccolo negozio che si nota poco tra quelli più moderni ed illuminati che lo circondano. É un negozietto di cappelli gestito da una vecchina sempre linda ed agghindata all'antica, che ogni mattina s'affaccia sulla porta con uno straccio candido e sfrega con le poche forze la vetrina offuscata dallo smog e dalla polvere che s'alzano dalla strada.
Forse é per questo ininterrotto andirvieni, per la frenesia che pervade questa moderna società che quasi nessuno s'accorge dei bei cappellini un pò demodes che fan bella mostra di sé nel piccolo atelier: cappelli a falde larghe ricoperti di tulle screziato, di rosa o d'azzurro, piccoli copricapo di piume multicolori, calottine di velluto ornate di veletta e di rose d'organza...
Montati su piedistalli di plastica opaca i cappellini sembrano fiori aggrinziti da un sole troppo cocente. Tra di essi fa spicco qualche spillone di strass, qualche fiocco di seta... Quei fiori, quegli ornamenti sembrano emanare un profumo tenue e triste come quello che si ritrova dinanzi ad una tomba abbandonata o ripescando tra trofei e ricordi d'una passata esistenza.
Solo qualche vecchina, in tutto simile alla proprietaria, si sofferma dinanzi ai vetri, scruta nella penombra del negozio, scorge la sagoma dell'anziana signora china al lavoro ed entra spedita nell'interno, facendo vibrare la cicalina posta sul vetro dell'ingresso.
La donna alza gli occhi dal lavoro e, subito in piedi, si dà un gran daffare a presentare le sue ultime creazioni, spiegando dinanzi alla possibile acquirente i modelli appena realizzati, illustrandone le caratteristiche, i pregi del tessuto e delle rifiniture.
Ma spesso é inutile, l'anziana appena entrata é stata impulsivamente spinta nel negozio più che dal desiderio di comprare da una specie di nostalgia dei bei tempi andati, voleva toccar con mano quei bei velluti, quei fiori, quelle velette che evocavano un mondo ormai scomparso, altri luoghi, altra gente.
Spesso, dopo qualche osservazione a proposito del prezzo, dopo un discorso fatto di: "Ai nostri tempi... Una volta... Si ricorda?..", saluta in fretta la sua interlocutrice ritta dietro il banco, quasi vergognosa di aver dato modo ai ricordi di farsi strada, di salire in superficie e con un veloce cenno del capo, apre la porta che dà sulla strada.
Fuori c'é un altro mondo, gente che va e viene senza tregua.
Quel piccolo negozio le é sembrata una serena oasi fuori del tempo e dello spazio. Forse ci ritornerà, un giorno o l'altro per scambiare altre due chiacchiere con quella vecchina linda ed aggraziata che lavora, instancabilmente, ai suoi cappellini ornati di fiori e di piume, di velluti e di lustrini, a quei cappellini un pò demodés.
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LA VECCHINA
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É una vecchina piccola piccola, un pò tondetta, vestita dimessamente e, forse per nascondere una calvizie avanzata o per inveterata abitudine, porta in testa un fazzoletto annodato sotto il mento.
Sembra esser vecchia da molto, io me la ricordo sempre
così, gentile e premurosa; quando ti incontra é sempre lei la prima a salutare con un sorriso dolce ed uno sguardo benevolo da fatina invecchiata, precocemente. Due occhi azzurri e vispi, che sembrano attoniti di fronte alle sorprese che la vita può riservarle...
Ogni mattina si reca a Messa nella bella chiesa poco lontana dalla mia abitazione, ma durante il giorno chissà quante altre volte entra nelle numerose basiliche del circondario.
Sempre in movimento per il quartiere, spesso in compagnia di persone, più di lei bisognose di una mano o di conforto, si ferma volentieri a parlare con chiunque.
Di una sola cosa ha paura: di attraversare la strada con quel turbinio di macchine che sfrecciano di qua e di là senza ritegno e senza alcun pensiero per il disagio dei poveri pedoni costretti ad attendere un momento di pausa.
Non s'é ancora adattata a questa modernità, abituata com'era nella sua gioventù ad andare in giro in carrozza o col filobus, mezzi ordinati, lenti, comodi...
Perciò spesso la si vede sul bordo della strada in attesa di un qualsiasi passante a cui chiedere, senza vergogna, uno "strappo" sino al marciapiedi opposto.
Chi non la conosce, chi non é del quartiere, resta un attimo sorpreso e poi, prendendola magari per una delle tante folli che percorrono le vie della città, s'adatta aD afferrarla sottobraccio e a trascinarla quasi con sé fino a metterla in salvo...
Spesso però hanno paura di quella innocua richiesta e proseguono il proprio cammino a passo più svelto, senza neanche un cenno, senza una parola di risposta.
Ma la vecchina non se ne ha a male, resta ferma al suo posto in attesa di qualche anima buona, di qualcuno ben disposto e quando lo trova, alfine lo ringrazia con un bel sorriso e con uno sguardo benevolo che dai suoi occhi azzurrissimi, ora splendenti di felicità, colpisce proprio al cuore.
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LA MERCERIA
Proprio all'angolo della strada, dinanzi all'antica fontanella decorativa di ghisa, s'apre la piccola merceria gestita da Iole.
Nonostante il passare degli anni e l'imbiancatura dei capelli, il suo viso conserva un ché di giovanile e di luminoso, come quello di sua sorella Emma da poco in pensione.
Nel negozietto angusto file e file di scatoline di rocchetti di fili da ricamo, di gessetti colorati, di bottoni, ditali... un mondo infintesimale di piccole cose che piano piano sembrano andare in disuso, tanto ormai il progresso e la vita frenetica d'oggi stanno cancellando alcune attività artigianali e manuali come quella della sarta.
O forse a me sembra così perché di taglio, di cucito, di ricamo non ho mai capito niente, a malapena so attaccare un bottone e non so nemmeno rifare un orlo...
A mia madre piacevano invece molto tutte queste cose e di esse, riusciva benissimo... ricordo che a volte mi metteva accanto a lei che stava cucendo, con in mano una pezzolina di delicata pelle d'uovo su cui con pazienza aveva ricalcato un fiore o un altro piccolo disegno, una gugliata di fili colorati e m'insegnava pazientemente come puntare l'ago, come estrarlo... io tentavo ma le mie mani erano così impacciate... o forse era soltanto la mia mancanza di pazienza per quel lavoro docile, così contrario alla mia indole, che mi mancava...
Tanti anni fa il piccolo negozio dava di che progredire alla famiglia numerosa ma sfortunata: un figlio sempre malaticcio per via dell'asma, una figlia poliomielitica, un ragazzo aitante morto in giovane età vittima d'un incidente e le due ragazze, Iole sempre dietro al bancone del negozio, Emma che si vedeva di rado per via della sua professione d'ostetrica. La madre e il padre già anziani con Iole s'occupavano contemporaneamente del piccolo negozio e della ragazza in carrozzella e così il locale, anche senza clienti, era sempre affollato..
Mia madre che appunto all'epoca era un'abile ricamatrice e sarta, tanto che mi vestì sino all'età di 12/13 anni, mi mandava spesso sino all'angolo opposto della via ad acquistare qualcosa: un rocchetto di filo bianco, un cotone Ancora da ricamo, un gessetto colorato...
Prima di entrare nel negozio era di prammatica una bevuta alla fontanella: entravo nel negozio con la bocca rinfrescata e gocciolante che asciugavo con il palmo della mano e svelta snocciolavo la mia richiesta, dondolando su un piede e dando un'occhiata circolare agli scaffali stracolmi di magliette della salute, di coulottes, di busti, un pò intimidita dalla figura pesante e imponente dell'anziano gestore.
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I FORNAI
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Non appena compiuto l'acquisto traversavo di corsa via C. Botta e mi ritrovavo di fronte le invitanti vetrine del sor Stefano, traboccanti di liquerizie e di variopinte palline, di gomme da masticare. Col resto dell'acquisto e con le 10 lire avute in premio per un bel voto, era di prammatica comprare qualcuna di quelle leccornie: 10 pescetti da 1 lira o una chewing gum che facevo rotolare dal contenitore di vetro e ritornavo di corsa a casa, facendo a due a due gli scalini, già masticando...
Il negozio a due porte s'apriva proprio all'angolo della strada, un pò buio all'interno e straripava di bottiglie e di sacchi contenenti ogni varietà di pasta e di legumi, di zucchero e di verderame, di sapone in scaglie... Dietro il bancone, una specie di madia per il pane e poi tutta una sfilza di grossi cassetti di legno con una finestrella che permetteva di distinguere dall'esterno ogni tipo di pasta contenutovi....
La moglie del Sor Stefano, una donna forse un giorno d'una certa bellezza, era ora sfiorita, avvizzita sotto il camicione grigio che le serviva da vestito e da grembiale, grigi i capelli portati a crocchia sulla sommità del capo, un paio d'occhiali dalla montatura austera che le invecchiava ancor di più il volto.
Lui, invece, era piccolo, tarchiato e solido, con una faccia squadrata e aperta al sorriso, ispidi capelli bianchi, anche lui impaludato in un grembiale marroncino.
Una volta a settimana Sor Stefano arrostiva il caffé che poi vendeva già macinato e racchiuso dentro i bei barattoli di vetro che s'allineavano sui banconi.
Subito se ne percepiva l'aroma che invadeva tutta la strada, penetrando fin dentro le stanze e richiamando alle finestre tutto il vicinato, quasi fosse un segnale di festa. Dentro il negozio v'era una confusione di bottiglie, di bocce colme di ogni sorta di caramelle, pasticche alla menta, liquerizie di varie fogge, quei famosi pescetti bruni e succosi...
É sempre là il piccolo negozio, all'angolo della strada, gestito dal figlio, ormai quasi anziano anche lui, un uomo squadrato dai modi spicci che d'inverno indossa ancora uno di quei camicioni marroni e all'inizio dell'estate indossa un paio di pantaloncini color coloniale ed una canottiera bianca.
Sembra non darsi molto da fare Nino, con quell'atteggiamento un pò indolente e per via della concorrenza che la salsamenteria -
e panificio del Sor Antonio, proprio attaccata al suo negozio fuori moda che ormai sa di stantio, di vecchio, persino le caramelle alla menta e i bolligomma (così chiamavamo allora quelle caramelle gommose) verdi per lo più che in bocca duravano un pezzo... Persino lui, Nino, con quella vecchia zimarra stinta, sa un pò di stantio...
Rinnovato, almeno in parte, invece, é l'altra drogheria sul lato opposto della strada. Non c'é più quel bello specchio che troneggiava sul muro esterno, ricoperto di marmo, che separava le due porte d'entrata e su cui c'era un disegno a colori ed uno slogan pubblicitario stile anni quaranta. Da molti anni non c'é più neanche il vecchio bancone col ripiano di legno per affettare, consunto e logorato dal continuo uso dei lunghi coltelli che servivano per i salumi.
Il negozio ha poi una terza entrata che dà su un piccolo sgabuzzino riservato alla vendita di prodotti per la casa e la pulizia.
Dietro il piccolo banco di vetro c'era, stasera come tante altre, ancora l'anziana signora Ernesta che però ora scende raramente dall'appartamento in cui vive soprastante il negozio. Ormai é affaticata dagli anni e dalle esperienze ma sembra sempre lucida e vigile e ancora un tantino aggressiva come ai bei tempi, quando era ancora vivo Ubaldo, suo marito e lei metteva ordine tra la folla dei clienti e dei figli che l'aiutavano nella vendita.
Aveva sempre vissuto nel quartiere e in gioventù proprio nel portone in cui ero nata anch'io che allora veniva denominato "I due portoni".
Tutti i suoi fratelli e sorelle, una volta sposati avevano trovato un appartamento nello stesso stabile ed il padre anziano viveva con quella certa signora Nanda che io ben conoscevo. Era anche lui un vecchietto arzillo che al mattino gironzolava nei dintorni, battendo allegro il suo bastone sul selciato.
Di lui ricordo un solo aneddoto curioso: una volta invitata a pranzo, dalla signora Nanda, mi meravigliai molto che l'anziano ometto mettesse del vino rosso nella sua minestra per dare al brodo maggior sapore.
Era davvero un espediente culinario o era solo un parto della sua fantasia d'ottuagenario?
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LA MACELLERIA
http://www.museotorino.it/view/s/4616ac3c2fbf4274be54bc7583c3f4b
Come ogni volta, quando entro nella macelleria, vengo attratta dal biancore del bancone di marmo: sul davanti spicca, candida e triste, una testa di vitello scultorea.
É come un richiamo che risveglia i ricordi sopiti di me bambina, tanto piccola da trovarmi viso a viso con quello dell'animale raffigurato. Interdetta guardavo le orbite bianche, le piccole corna curiose, quel muso che mi stava dinanzi con un'espressione timorosa e tragica quasi e che mi faceva compassione.
La mia manina passava su quella lugubre rappresentazione un pò commiserandola, un pò provando un senso di frescura a quel contatto. Poi mi distraevo e seguivo i discorsi di mia madre e del Sor Mario che dall'alto del bancone, con quel camice sempre lindo e pinto, i modi signorili, sembrava anziché un macellaio, un chirurgo intento ad operare mentre con abilità e sveltezza, tagliava fettine di manzo o spezzatini.
Mi guardavo attorno affascinata e attratta dai macabri quarti di vitella appesi ai ganci di ferro, dai corpi inerti di gallina, appesi a testa in giù, dai toni accesi dei fegati e dei cuori di vitellone, dalle testine d'abbacchio spaccate in due e deposte sopra un banchetto più piccolo... non vedevo l'ora, tutto sommato, di uscire all'aperto e quando non ne potevo più e mia madre attendeva ancora il suo turno, ritornavo sull'entrata del negozio saltando fuori, rientrando e giocando con le strisce colorate della cortina di plastica calata innanzi alla porta d'accesso per aerare il locale e nel contempo per tener fuori le mosche e i cani.
Dopo la morte del Sor Mario, mia madre cambiò macelleria ed io m'ero quasi dimenticata di quella testa di vitello scolpita. L'ho riscoperta non molto tempo fa, ancora uguale, intatta, candida e al contempo funebre, contornata da bolle marmoree in rilievo, strana cornice per una così strana scultura...
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IL CANE A TRE ZAMPE
https://www.amoreaquattrozampe.it/cani/salute/cane-zoppica-zampa-cause/45554/
Nel vicinato tutti conoscono il cane che gironzola lungo un percorso ristretto e sempre uguale: via Merulana, via Angelo Poliziano, via Carlo Botta, via Mecenate, trascinandosi penosamente su tre zampe, poiché una delle posteriori a suo tempo fratturatasi, non si é mai rinsaldata
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É un cane bastardo un pò cocker, un pò setter, dal grosso corpo a salsiccia dei bassetthound, con un ventre flaccido che quasi tocca il selciato. Non appartiene a nessuno ma lì nel quartiere tutti lo amano e lo considerano parte integrante del paesaggio, alla stessa stregua d'un piccolo monumento, come la fontanella di ghisa là nell'angolo della strada.
Probabilmente il suo padrone era un anziano scomparso improvvisamente ed il cane s'é trovato d'un tratto solo e senza fissa dimora, senza le piccole cure a cui era abituato, confuso d'esser diventato un randagio, lui che un giorno aveva una cuccia comoda e un pasto caldo al giorno.
Ora si ferma dinanzi alla macelleria alzando interrogativamente il muso verso Franco, il macellaio, che l'ha già visto da lontano mentre arrancava con quel suo corpo sformato.
L'uomo entra nel retrobottega e ne riesce con un cartoccio di ossa e di frattaglie che aveva messo da parte; lo posa in terra, all'angolo del suo negozio e si ritira al riparo delle frange di plastica multicolori. Il cane é felice, scodinzola appena appena con fare riconoscente e umile per dimostrare la sua gratitudine; in breve tempo mangia quei bei bocconcini, poi s'avvicina alla fontanella sull'angolo opposto della strada a lambire un pò d'acqua.
Felice, infine se ne va sempre con quell'aria dimessa, s'avvia verso il Colle Oppio, arrancando faticosamente su per la breve salita.
Qualche ragazzaccio che non é del quartiere, talvolta lo fa oggetto di scherzi o di piccole cattiverie ma lui, forse per quel quarto di sangue inglese che gli irrora le vene, fa finta di non dar peso all'accaduto e con un'aria sofferente, compita ma non risentita, prosegue il suo ininterrotto cammino a passo lento lungo il perimetro del suo Quadrilatero: via Merulana, via Angelo Poliziano, via Carlo Botta, via Mecenate...
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LA BIBLIOTECA DEL COLLE OPPIO
http://www.annazelli.com/casa-medioevale-per-anziani-parco-del-colle-oppio-roma.htm
Dopo un alternarsi d'incertezze e di desideri, vi ho portato a vedere un film "La storia infinita", tratto dall'omonimo libro di Michael Ende, una meravigliosa storia per bimbe e adulti che non hanno dimenticato di appartenere anch'essi al mondo dell'immaginario - dove niente é impossibile - dove i mostri e le fate sono ugualmente accettati, dove qualsiasi fantasia può essere vissuta.
Forse più che a voi, che pure siete usciti entusiasti dal cinema, questo film é piaciuto a me, adulta alle soglie dei quarant’anni, il cui sguardo interiore si volta spesso indietro ai sogni dell'infanzia, non ancora accantonati come impossibili.
Già avevo letto il libro che poi ho consigliato a te, Donatella che, con docilità ma anche sofferenza hai cominciato a leggere, lasciandoti irretire piano piano dal racconto, presto abbandonato per la tua solita pigrizia, poiché il libro ti sembrava troppo consistente per la tua scarsa voglia d'applicazione.
Dato che tu sei figlia di questi tempi, inserita in questa società gestita da alienanti computer e tv, giochi con destrezza con gli omini colorati che mangiano auto, aerei, uomini ed ogni altra cosa che intralci il loro cammino, saltelli festosa in mezzo a paludi infestate da coccodrilli pronti ad ingoiarti, combatti guerre interplanetarie a bordo di navi spaziali, col semplice tocco d'una mano serrata intorno ad un elemento di dura plastica contenente miriadi di circuiti miniaturizzati.
Ma sì, sei anche obbediente e, spronata dal fatto che hai visto il film, finirai per leggere tutta "La storia infinita".
Io, invece, gioivo nel leggere, persino un libro al giorno, specie durante le vacanze estive che mi vedevano protagonista e preda di romanzi salgariani, io che mi sperdevo con Robinson e Gulliver ed aggrappata ad un'enorme palla di cannone come il Barone di Munchausen, arrivavo sulla luna.
Sulla luna ci arrivai davvero, parecchi anni dopo, in quella famosa alba del '65, dopo un'interminabile notte di attesa, con gli avventurosi astronauti americani, con essi saltellai sul suolo dell'oscuro satellite, vi impressi la mia impronta indelebile.
Ed in cuor mio mi rammaricai davvero che sulla luna non esistesse alcuna forma vivente, benché fosse già stato provato scientificamente.
Non mi sarei minimamente impressionata o sorpresa se ad accogliere gli uomini della terra si fosse presentata una delegazione lunare formata da buffi ometti con le antenne e con la voce metallica o alcuni di quei mostri, compagni d'avventure di Gordon. Forse é così, la conquista della luna é servita al progresso delle comunicazioni spaziali ma ha distrutto una briciola di fantasia nel cuore di molti sognatori...
Crescendo, le storie diventavano dense d'emozioni e sentimenti, scoprivo un mondo dominato dalle passioni, dalla sete di gloria e di potere, un mondo di cattiverie, di bramosia per il denaro ma anche un mondo romantico in cui l'amore governava la vita e le gesta di molti uomini e donne.
Ed ecco, anch'io mi trasformavo diventando l'eroina appassionata di Jean Austin, diventavo bellissima ed arrogante indossando le vesti di Rossella O’Hara...
Vivevo altre dimensioni passate, altre vite, mi emozionavo al primo bacio dei due protagonisti ed ero convinta che anche la mia vita sarebbe stata emozionante, avventurosa, interessante ed i miei sentimenti altrettanto appassionanti, intensi.
In molte mattine d'estate mi recavo alla piccola biblioteca allestita nel parco del Colle Oppio in un caseggiato verde di rampicanti dalle stanze buie e polverose da cui non vedevo l'ora di uscire, dopo aver scelto il libro che avrei letto quel giorno.
Ombra d'alberi e vecchie panchine disseminate intorno, ma io sceglievo un rudere di marmo su cui sistemarmi e m'immergevo nella lettura del libro per scoprire gli intenti e le emozioni dei protagonisti, alcuni realmente vissuti, altri che comunque mi apparivano altrettanto autentici.
Dei volumi letti durante la mia adolescenza, il più amato é stato Piccole Donne e gli altri libri che compongono la serie in cui viene narrata la saga delle quattro sorelle March.
Forse perché mi sarebbe piaciuta una famiglia così numerosa, perché mi piacevano i caratteri delle ragazze e più che in ogni altro protagonista, mi identificavo in Jo, generosa ed imprevedibile, con un piede nella realtà e l'altro immerso nelle storie che lei stessa inventava, anticonformista eppure radicata alle tradizioni d'un mondo borghese, tesa fino allo spasimo nello sforzo di raggiungere una sua identità.
Forse fu lei a farmi scoprire la vocazione di scrittrice ma, diversamente da lei, non ebbi coraggio per seguire la via lunga e faticosa che mi si presentava davanti e mi incanalai nei binari morti d'una vita normale.
Un luogo in cui, invece, mi sarebbe piaciuto vivere così come descritto in Orizzonte Perduto é la mitica valle di Shangri-Là, un sogno lungamente accarezzato dall'uomo, il ritrovato Eden, una terra lontana e inaccessibile in cui vivere in pace con lo spirito finalmente placato, senza gli assalti del desiderio di potere, di danaro, di beni materiali che tormentano gli uomini della società odierna.
Senza le ansie e gli affanni di raggiungere qualche meta illusoria che, non appena raggiunta, già perde di valore e d'interesse agli occhi di chi tanto si era affannato per averla.
Né violenza né crudeltà in Shangri-Là e nei suoi abitanti, solo un'immensa pace dello spirito in cui distendersi e meditare.
Vorrei con tutta l'anima che fosse vero, ma forse non esiste, non esisterà mai un'altra Shangri-Là, se non quella creata dalla fervida fantasia dell'autore che dice:"Ci sono momenti nella vita d'un uomo in cui sembra di intravvedere l'eterno".
L'UOMO DEI SOMARELLI
Cammina avanti e indietro segnando il passo dei quattro somarelli che tirano il carrettino lungo un breve percorso prestabilito.
Il tragitto inizia dall'ampia piazzuola delimitata da colonnine di marmo e da un pino secolare sotto cui usualmente i somarelli sostano e prosegue lungo tutto il viale, fino alla porta d'ingresso del giardino cintata da cancelli di ferro e sculture marmoree che rappresentano grossi vasi ricolmi di frutta esotica, secondo il gusto prettamente Liberty del '20. Una curva ed il trabiccolo é di nuovo sul viale, un'altra curva un altro viale che porta ad un imponente rudere romano.
E l'uomo magro, affilato é sempre lì, accanto ai suoi animali: tiene per la cavezza uno dei somarelli che procedono appaiati, due dinanzi al carretto due dietro e sta attento ai bambini che montano in sella e a quelli che s'inerpicano sul veicolo giallo tutto ornato di pupazzi e di sonaglini.
Ogni tanto un somarello fa uno scarto improvviso per un imprevisto ostacolo che gli si para davanti: un bambino in bicicletta, un pallone che rotola sul selciato... l'uomo, tirando la fascia di cuoio appesa attorno al collo dell'animale, lo riconduce sul percorso di sempre.
Eccoli sotto il pino: i bimbi scendono contenti, alcuni s'aggrappano ancora disperatamente al pomo della sella, cercando con pianti e capricci di convincere genitori o nonni restii ad un'altra corsa.
I somarelli si fermano due o tre minuti, giusto per dar tempo al loro padrone di farsi a ritroso la via già percorsa e con ramazza e secchio raccogliere gli escrementi disseminati sui viali.
Poi, ricomincia il monotono giro che da anni tutti e cinque ripetono senza alcuna protesta, se non qualche rara impuntatura di uno dei quattro somarelli che, stanco, si ferma in mezzo al viale e non vuol proseguire. Oppure con qualche raglio sonoro, simile ad un singulto doloroso a cui l'uomo non dà ascolto, ma che tutt'al più acquieta, blandendo l'animale con una manciata di biada non prevista, gettata nell'ampio sacchetto che penzola sotto il muso di ogni asinello.
Scudisciate non ne dà, l'uomo ai quattro somarelli che fanno parte ormai della sua vita da sempre, come prima avevano fatto parte di quella di suo padre e per quel che può li cura, li abbevera ogni tanto, lucida il loro pelame ormai irsuto, li richiama discretamente all'ordine, pronunciando i nomi che lui stesso ha dato loro con una sfumatura d'affetto.
Estate o inverno, pomeriggio dopo pomeriggio, l'uomo e i suoi animali sono là fino a sera, senza mai mancare alla quotidiana, gioiosa richiesta dei piccoli clienti.
Ma forse fra poco tempo, stanco di macinare chilometri, uno dei vecchi somarelli mancherà all'appello e i bambini, stupefatti da questa straordinaria assenza, chiederanno all'uomo perché e come mai
Lui, guardandoli dritto negli occhi e alzando la mano con un gesto sconsolato, dirà che l'asinello mancante é andato in pensione...
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L'UOMO CHE PARLA AI BIMBI
https://www.fiorentinisicresce.it/Home/Info/Lo-spazio-dei-bambini/Favole-in-crescita/Il-signor-Buffo/
É uno di quegli esseri d'età indefinibile, tra i cinque e i sessantanni ora, ma forse é stato sempre così, vecchio sin dalla giovinezza e tornato bambino solo ora: non alto, magro, un volto insolito con quel naso levantino e la bocca da maschera tragica, la pelle tesa sugli zigomi quasi a far affiorare le ossa del cranio e gli occhi infossati che brillano per la loro estrema mobilità.
Spesso indossa un camicione grigio ed ampio da cui la piccola testa emerge, rendendolo simile a un grosso condor, innocuo però. Per campare fa un pò di tutto: imbianchino, idraulico, falegname, muratore ma senza gran fortuna. Lo si vede spesso in giro per il quartiere alla ricerca di questa o quella cosa che gli necessita per portar avanti il momentaneo lavoro, sempre disposto ad attaccar bottone coi negozianti, coi garzoni, con gli abitanti del quartiere che, invece, tentano di evitarlo... alcuni cambiano persino direzione, quando l'intravvedono da lontano.
É innamorato dei bimbi, lui che non ha potuto averne dalla moglie e così s'affeziona ad ogni nuovo nato del quartiere di cui segue con interesse la crescita, chiedendo notizie sulla salute dei piccoli e sulle loro attitudini, dapprima alle madri o alle nonne che li conducono a spasso, poi più avanti nell'età, direttamente ai bambini ormai cresciuti ed in grado di rispondere autonomamente.
E mentre conversa con loro s'anima tutto, i suoi discorsi si ampliano, vaga da un argomento all'altro ed elargisce nozioni di filosofia, di vita, di religione condendo il tutto con citazioni latine che gli provengono dai suoi studi giovanili in seminario, interrotti forse a causa della guerra, forse da un mancamento di fede o chissà da che altro.
Parla e sembra che per lui il tempo non abbia senso ma i più, che vivono con l'angoscia dei minuti che passano, in special modo
mamme e nonne che stanno sulle spine perché debbon fare la spesa o preparare il pranzo, cercano di troncare in fretta il discorso avviato, strattonando i piccoli che, travolti da quell'ondata di parole di cui non comprendono il significato ma ancor più dal tono affettuoso con cui l'uomo si rivolge a loro, si voltano indietro a salutare con la manina alzata quell'essere insignificante agli occhi dei più.
Quasi a voler scusare le loro accompagnatrici frettolose e impazienti.
Ma l'uomo non se ne ha a male: la sua momentanea solitudine non lo rattrista. Girato l'angolo troverà altri piccoli interlocutori che per una manciata di minuti ascolteranno, assorti o curiosi i suoi evanescenti sermoni...
LE GATTARE
Non v'era razza d'animali più prolifica dei gatti di Roma. Chissà come, erano riusciti a creare le loro invadenti comunità negli angoli più verdi della città o nei dintorni dei numerosi ruderi romani che sembravano esser i loro preferiti.
Nel grande giardino una volta rigoglioso e tenuto con cura eppoi purtroppo abbandonato all'incuria dei passanti, le erbacce proliferavano e così pure un'orda di gatti di tutte le dimensioni e i colori. Gatti fulvi come piccoli leoni, gatti smilzi e grigi, bianchi con macchie nere, piccoli e giocherelloni, si annidavano negli angoli più ombrosi durante l'estate e in quelli più riparati nella lunga stagione invernale, a ridosso di vestigia di marmo disseminate lungo i viali.
Vivevano un'esistenza tranquilla e pigra, adagiati su chiazze d'erba folta o passeggiando al caldo sole romano riunendosi in gruppi ben distinti: quelli dei ruderi e quelli che vivevano in piccole grotte aperte sui fianchi del muraglione che costeggiava la Domus Aurea; ognuno di essi viveva pacificamente, attendendo pazientemente l'ora dei pasti.
Due volte al giorno, infatti, simili a benefiche fate, delle vecchine curve sotto il peso d'ingombranti fagotti, arrivavano chissà da dove. I pesanti fardelli e le sporte di plastica erano ricolmi di bocconcini prelibati che esse distribuivano ai loro beniamini.
Al loro arrivo i gatti si radunavano compatti in un'unica schieran e le seguivano, miagolando a mò di ringraziamento, fino ad un'ampia radura dove le vecchine dispensavano quel ben di Dio. I gatti, senza più pudore, si gettavano sul cibo azzuffandosi per qualche boccone più grosso poi, ultimato il pasto, sfregavano il ventre gonfio e sazio contro le gambe delle vecchine che, tutte contente, parlavano coi loro beniamini, elargivano carezze e sorrisi, trattandoli con grazia estrema come fossero bimbi.
Ma i gatti, ormai satolli, si dileguavano nei prati dirigendosi verso mete diverse, chi per una passeggiata chi per acciambellarsi al sole, con quella loro andatura lenta ed elegante, i musi soddisfatti all'aria.
Le vecchine, sia pur a malincuore, raccoglievano da terra quelle loro borse ormai vuote e con una certa mestizia nel cuore, dimessamente s'allontanavano dirigendosi verso l'uscita, conclusa ormai la loro quotidiana occupazione... Domani, i gatti sarebbero stati ancora là ad attenderle e questa certezza era per loro ciò che contava di più nella loro grigia, solitaria esistenza...
Di gatti, a Roma, ce ne sono ancora ma non così numerosi come una volta... su di essi hanno preso il sopravvento stormi di piccioni grassi e pettoruti che insidiano monumenti e fontane e si sono stanziati sotto i cornicioni degli antichi palazzi spodestando le rondini... pochi, sparuti gruppi di felini sopravvivono ancora al Colle Oppio e le vecchine, anch'esse molte meno d'un tempo, continuano a portar loro bocconi per sfamarli... ma adesso sono scatolette di cibo pronto, basta tirar via la linguetta e la scatola é bell'e aperta...
PIAZZA VITTORIO
https://blog-esquilino.com/2017/03/19/piazza-vittorio-una-storia-piena-di-problemi-e-ripensamenti/
Me la ricordo ancora Aghetina - così la chiamavano romanescamente, con quella sua treccia brizzolata e pesante, girata attorno al capo trattenuta a stento da grosse forcine di fero che gesticolava richiamando gli avventori al suo banco, ben tenuto e ben fornito, nel vicino mercato di P.za Vittorio. Frutta e verdura fresche facevan bella mostra nelle cassettine di legno allineate con cura, in prima linea le primizie, poi gli altri begli ortaggi, in un crescendo di colori: i verdi e i rossi accesi dei peperoni, i toni violacei delle melanzane, i colori quasi fosforescenti degli agrumi...
E lei, con quel suo camicione grossolano sbertucciava nel suo colorito dialetto romanesco richiamando i passanti distratti e quelli che sceglievano i pezzi migliori, toccando e ritoccando, stringendo seccata le labbra sottili e strizzando i piccoli occhi furbi di popolana aggressiva.
Le dava man forte la figlia Silvana che con la sua bellezza provocante richiamava clienti molto più delle incitazioni della madre. D'estate, sotto il sole che picchiava e faceva appassire in fretta ortaglie e frutti, le lunghe foglie delle lattughe biancoverdi e faceva ribollire il selciato del marciapiede, lei era là giovane ninfa leggiadra che si pavoneggiava in quei vestiti leggeri che le si incollavano addosso rivelando la sua procacità un pò aggressiva stemperata da quell'ingenuo vezzo di ornarsi le orecchie con due ciliegie, le più belle che riusciva a trovare nel cesto e che lucidate col palmo della mano, le imporporavano il viso, chiaro tra i capelli biondi.
É ancora là Silvana, l'ho rivista oggi dopo tanto, sola in quel banco sempre ben fornito. Un pò più pesante d'una volta nella corporatura, nel gestire e nel parlare, sempre così aggressiva e spigliata, che si dava da fare tra le cassette di frutta e di verdura e quando ha visto mia madre, le ha chiesto cosa le servisse con un gran sorriso. Andare a far la spesa era un rito giocondo allora quando tu, mamma, con noi piccoli appresso come due anatrelle che zampettassero dietro alla madre, agghindati nei vestitini graziosissimi e quasi ricercati che tu cucivi con passione, ti dirigevi verso il grande mercato del rione, a pochi passi da casa. Ci fermavamo subito ai banchi più curati e più provvisti anche se un pò più costosi, ma con articoli di prima scelta e ormai i rivenditori ti conoscevano e ti servivano bene, regalando a me e a Carlo qualche frutto per tenerci buoni.
Il martedì e il venerdì il percorso si faceva più lungo: arrivavamo sino al banco del pesce, anche quello il migliore tra i tanti. Nelle cassette bianche, allineati come un battaglione di soldati morti s'allungavano argentei i merluzzi e le alici, diafane sogliole, pomposi calamari. In una cassetta a parte, ancora vive e guizzanti, vibravano le anguille che io guardavo affascinata.
Sotto Natale il capitone era di rito e tu un pò ritrosa delegavi mio padre all'incombenza di acquistarne uno che poi ritrovavo nell'acquaio di marmo viscido e vegeto ma già consapevole della fine che l'attendeva: tentava ogni via per cercare uno sbocco ma le lisce pareti di pietra erano per lui insormontabili e aspettava quasi inerte il momento in cui mio padre, armato di un grosso coltello non gli staccava di netto la testa. Eravamo io e lui soli in cucina poiché io, sempre curiosa, volevo vedere tutto, sapere tutto e non mi sarei persa questa scena per niente al mondo.
Decapitato, il povero biscione continuava a contorcersi ed io continuavo a fissarlo non se se più disgustata o affascinata da quella morte cruenta ma inevitabile.
Mi facevano, invece, quasi ribrezzo tutti i volatili affastellati nelle piccole stie di vimini nei banchi appena dopo i pescivendoli, era tutto un chiocciare, un arruffar di penne, uno sbatter d'ali contro le piccole gabbie e l'odore che lì ristagnava non era quello salubre, marino di poco prima, ma un tanfo quasi che mi prendeva alla gola e che io cercavo di scacciare chiudendomi il naso, non respirando affatto per il breve tragitto che a volte compivamo per recarci oltre la curva, dove stazionavano dei rivenditori più a buon mercato.
Ma le loro mercanzie non piacevano né alla mamma né a me e talvolta facevamo il giro completo della piazza per ritornare ai soliti banchi più puliti anche se un pò più cari. Là, invece, era una babele di richiami, un caos di verdura e frutta di poco prezzo, buttati senz'ordine nelle cassette, mezzo ammaccate.
Venditori ambulanti berciavano in mezzo alla folla richiamando l'attenzione sulle loro mercanzie, le più strane. che sventagliava sotto il naso dei passanti quei mazzetti di cadaverini rosei e macabri che mi facevano pena... eppure erano bocconcini prelibati a sentir lei e molta gente si fermava ad acquistarne.
Di qua, c'era ordine e pulizia ovunque, anche nel banco della giovane ebrea segaligna, quasi una megera che vendeva olive di ogni tipo, semini, castagne secche e fusaglie assiepati nel banco stracolmo contornato da caschi dorati di banane e di datteri e poco più avanti un banco da frutta da esposizione dove i due padroni, moglie e marito lustravano mele e pere una per una prima di metterle nelle cassettine.
Insomma, era un mondo affascinante tutto da scoprire di cui a poco a poco conobbi ogni segreto, quasi ogni viso: il bel volto sereno della bella donna dai capelli composti che vendeva aglio, sedano, carote e rosmarino dietro un banchetto microscopico e ordinato, il viso ascetico del frate francescano dalla barba rossa che faceva la questua tra i banchi... e non mi spaventavo più quando incontravo i venditori di rane che sventagliavano verso di noi, proprio all'altezza del mio viso, quei grappoli di pallide rane scuoiate di fresco, inermi cadaverini danzanti, rosei e macabri che mi facevano pena.
E tu, mamma, ridevi dei miei timori e dei miei entusiasmi in tutto quel bailamme, conversando amichevolmente con i fornitori o con qualche conoscente incontrata per caso stringendo, ancora felice, la mia mano.
Il frate é un'istituzione: da quasi quarantanni lo si può trovare nel caotico mercato rionale, di rado ormai nei giorni freddi e piovosi, poiché s'avvicina all'ottantina e i piedi, nudi negli scomodi sandali come prescrive la regola, non lo sostengono più come una volta.
Non é più, difatti, come nei miei ricordi di bambina: alto, un corpo solido, barba e capelli rossicci che si distinguevano da lontano, che ondeggiavano sopra la massa compatta della folla. Ora é anziano, il corpo s’é fatto minuto e debole, la barba ed i capelli sono diventati bianchi; il saio consunto é d'un colore indefinibile e sfilacciata, consumata ai bordi é anche la borsa che sorregge a fatica e in cui rari sono i passanti compassionevoli che gettano un obolo in cambio del quale lui elargisce un sorriso affaticato ed un santino di Sant'Antonio.
A volte trascorrono intere mezzore senza che nessuno si curi di lui; chi lo spinge per la fretta, chi fa finta di non notare la sua mano protesa, chi lo insulta nel gergo colorito e scurrile dei venditori. I richiami, le risate che corrono dall'uno all'altro banco lo confondono, aumentano la sua enorme stanchezza.
Ha bisogno d'un pò di tregua! Per un pò si lascia trascinare nell'andirvieni frenetico degli acquirenti poi si ferma accanto ad un banchetto poco frequentato dove una vecchina che vende ortaggi e frutta gli offre un panchetto su cui riposarsi. Il vecchio frate accetta con un cenno del capo, accosta al corpo il saio e si estranea dal mondo che lo circonda, immergendosi in profonda preghiera. La vecchina gli offre anche un frutto e lui accetta con un sorriso riconoscente che trasfigura il suo volto che, sia pur affranto ed invecchiato, risplende ora d'una luminosa bellezza giovanile.
Dopo quella breve pausa ristoratrice, s'alza e di nuovo riprende a camminare tra la folla trascinando sull'asfalto sporco ed ingombro la sua logorata figura.
Ognuno serve Dio a suo modo, come può. E quando il vecchio frate sarà troppo stanco per camminare tra i banchi di piazza Vittorio, in quel luogo così intriso di materialismo dove la gente é per la maggior parte grossolana, atea e avida di denaro, un altro giovane frate prenderà il suo posto. Un altro frate scalzo che per anni regalerà ai passanti il suo sorriso e i suoi santini.
https://www.wikiwand.com/it/Piazza_Vittorio_Emanuele_II_(Roma)
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IL MERCATO DEI FIORI
https://www.ilcorrieredellacitta.com/news-roma/roma-riapre-il-mercato-dei-fiori-di-via-trionfale.html
Del mercato dei fiori posto all'imbocco di via Agostino De Pretis, ho un ricordo nebuloso e lontano, come di una cosa solo sognata, non vissuta. Si usciva la mattina presto, un giorno preciso della settimana, con un gruppo di signore attempate ma gioviali e mia madre, giovane e serena, allora, a cui piacevano molto i fiori d'ogni specie ma che doveva poi contentarsi di garofani scipiti o di economici anemoni anzichè di quelli più decorativi e costosi (ma questo è quello che penso io, forse a lei piacevano davvero i garofani che ora, ormai, non si vedono più…)
Alcuni miei coetanei ed io seguivamo, parlottando tra noi, i grandi che imboccavano via Merulana, prendevano la scesa di S. Maria Maggiore, girando poi sulla destra.
L'odore dei fiori, prima ancora di giungere alla meta, ci veniva incontro, inebriante: salivamo poi alcune scalette ed eccoci nell'ampio locale coperto, sovraccarico di panche, tavolinetti, banchetti stracolmi di piante e fiori d'ogni specie. Nel ricordo, lo stanzone si fa ancora più ampio e scuro poiché la luce del sole vi penetrava solo attraverso degli alti lucernari e i cunicoli adiacenti dove ancora abbondavano i fiori e i rivenditori che berciavano tra loro, sembravano cavee di un circo romano poco prima dei combattimenti.
L'aria era ferma, sovrastata da quell'odore, mistura di più specie, dolciastre e dominanti le viole, i mughetti, le rose, acre e pungente quello degli iris, delle fresie. Inebrianti comunque. Eppoi colori mai visti, mille sfumature di rosso, di rosa, gialli intensi, delicati violacei.
Incurante dei richiami materni, m'allontanavo dal gruppo e ferma in un angolo mi godevo quello spettacolo incredibile venato di sfumature iridescenti, ascoltavo gli inviti dei venditori, poi stanca di quella bolgia di colori, mi riavvicinavo al gruppo che stava ancora contrattando il prezzo di qualche piantina o di qualche mazzo, dopo aver raccolto da terra un umile fiorellino di cui non conoscevo neanche il nome, abbandonato sul pavimento.
Lo tenevo serrato nella mano sino a casa e quando vi giungevo esso era ormai appassito senza rimedio, a nulla valeva che io lo ponessi in un bicchiere colmo d'acqua dove stentatamente sopravviveva per poche ore, vicino alla finestra aperta della cucina in cui ristagnava ancora quel profumo di disfacimento.
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FESTE
Quando l'atmosfera natalizia o pasquale era già nell'aria ed io ne gustavo lo straordinario sapore, un pò stordita, mio padre e mia madre, contagiati negativamente, iniziavano a punzecchiarsi con inutili quanto dolorose schermaglie, sempre le stesse, che ogni anno puntualmente si replicavano: troppe spese, i soldi che mancavano, i vestiti nuovi da comprare, l'inutilità dei regali, ed altre mille cose del genere.
Mamma, con gli occhi ridenti della ragazzina che era stata, già sognava regali che non avrebbe mai ricevuto e piccoli doni da comprare per noi e da avvolgere nascostamente con carte sgargianti; cominciava anzitempo a far provviste come se Natale o Pasqua fossero sinonimi di inizio di carestie e s'affannava ad impastare enormi quantità di sfoglie che poi trasformava, con il nostro aiuto, in eserciti di tortellini schierati sulla spianatoia di legno e poi disposti in bell'ordine su vassoi di cartone argentato, ricoperti da un tovagliolo scompagnato.
Era forse un'abitudine, quella, contratta nella sua adolescenza quando viveva con i suoi, prima di otto fratelli, con una madre malaticcia ed un padre compagnone che sperperava danaro e tempo in inviti, cene e amici e durante le feste in numero più ampio del solito, sedevano tutti intorno al lungo tavolo che s'allungava a piacimento. Non mancava mai nulla a quella tavola, sovrabbondante di salumi, uova, carne e vino in quantità.
Magari i miei zii, ancora ragazzi, si passavano l'un l'altro pantaloni troppo corti per i più grandi e le camicie dai colletti già rivoltati, ma in tavola non mancava nulla.
A capotavola, il nonno teneva banco, il bicchiere nella mano alzata per un brindisi, lui sempre pronto alla battuta finale che avrebbe fatto sorridere i suoi ragazzi anche se ormai la conoscevano a memoria...
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LA FESTA DI S. GIOVANNI
Da poco é passato il 24 giugno, festa di S. Giovanni, una notte "magica" in cui si credeva alle streghe.
A Roma, nel rione in cui vivo, a metà tra le due grandi basiliche di S. Maria Maggiore e di S. Giovanni, questa festa popolare che un tempo aveva risonanza oltre i confini del quartiere, é oggi ridotta a ben poca cosa: una fila di bancarelle stracolme di paccottiglia da vendere a buon mercato, di soprammobili inutili,
di dolciumi impacchettati...
Una volta si credeva che in quella notte ci fosse l'arrivo delle streghe e si cercava di esorcizzarle in ogni modo portando strumenti magici tra cui le “spighette” riposte nella biancheria e il “garofoletto” ossia un piccolo fiore che veniva benedetto quel giorno durante la Messa.
Ma vi erano altre scaramanzie contro le streghe, enormemente curiose, ma io non ero in grado di concepire nemmeno l'idea delle streghe... per me eera una bella festa....
L’appuntamento notturno era in Piazza San Giovanni, illuminata d una miriade di fiaccole e lampioncini colorati, in piazza si portava del cibo, tra cui le lumache al sugo dal “forte sapore allegorico” in quanto i molluschi simboleggiavano la discordia (mangiandole, si sarebbero eliminate le avversità). Si beveva il vino dei Castelli e si cantavano serenate e stornelli.
Un’altra particolarità della festa era che in quella occasione venivano aperti al pubblico i bagni del Tevere, ed era permesso bagnarsi nella fontana di San Giovanni poiché si pensava che quel giorno il Santo facesse miracoli e donasse virtù.
Ed io che sono appena sopra gli "anta" e che ho ancora una freschezza interiore e le aspettative dell'infanzia, mi ritrovo a pensare alla bella festa di tanti anni fa, quando da metà della Via Merulana fin oltre le mura di S. Giovanni, era tutto un ininterrotto cordone di bancarelle: qui di giocattoli, là di dolciumi, quella dei rami e di ferro battuto con i suoi oggetti rilucenti che rifrangevano le centinaia di luci accese...
Ad ogni
crocicchio, un arco luminoso, sorto in poche ore, sorreggeva decine di lampadine disposte in modo da formare fiori o ventagli multicolori.
Il carrettino del venditore di porchetta (il succoso maialino ripieno di spezie e cotto intero alla brace) era sempre affollato; quello dei vetri di Murano straripava di ninnoli graziosi e delicati: ogni anno si ricomprava quel bicchiere di fattura comune su cui però, l'omino dal dolce accento veneto,
disegnava in pochi minuti un fiore accanto al nome del fortunato proprietario... e il venditore di palline ripiene di segatura, in un angolo, faceva dondolare la sua merce legata ad un sottile filo elastico, richiamando così l'attenzione di noi bimbi.
Le trattorie mettevan fuori i tavolini e grandi cartelli su cui, a lettere cubitali, si poteva leggere: LUMACHE DI S. GIOVANNI.
Gruppi di uomini attempati, di vecchia tradizione romanesca ed intere famiglie si riunivano in quella sera e nelle precedenti per l'annuale, rituale assaggio di lumache: al sugo, in bianco, con le erbette; nell'aria si spandevano aromi densi, frammisti a quello dolciastro dello zucchero filato che fondeva ininterrottamente nel grande caldaio di zinco e che faceva gola ai bimbi.
La gente andava e veniva lungo le strade chiuse al traffico (ma già, allora, non era questo caotico, rumoroso, assurdo di oggi...) con un aria svagata e felice.
Sul tardi, improvvisamente, un vocio, un brulichio, un accorrere di gente, un affacciarsi dai balconi e dalle finestre illuminate, annunciava l'arrivo dei carri e i bimbi più piccoli venivano subito issati sulle spalle degli adulti: enormi carrozzoni e serenate e serenate a le Nine, a le Nunziate...
E in noi bimbi d'allora, cresceva l'attesa del magico momento dei fuochi d'artificio. Improvvisamente il vociare della folla s'affievoliva, s'azzittiva del tutto... ed ecco nel cielo scuro della mezzanotte, la fioritura pirotecnica di zampilli luminosi e floreali che incendiavano la volta della grande città e scendevano poi lentamente a tuffarsi di nuovo nel buio...
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LA CHIESA DI SANT'ANNA
...Nella penombra della chiesa spicca, candida e netta, la statua della Madonna che sta sul limitare d'una piccola grotta naturale che s'apre inaspettata sulla sinistra della chiesa.
Dinanzi, candele e lumini che si consumano lentamente ed una profusione di fiori sempre rinnovati.
Per molti giorni la piccola chiesa è stata impraticabile a causa dello smantellamento dei ponteggi che per lunghi mesi hanno deturpato la sua bellezza e soprattutto nascosto lo plendido soffitto.
Oggi, dopo tanto tempo, ho alzato lo sguardo ed ho ritrovato i decori dorati dei cassettoni laterali e al centro, inaspettata, perchè non me ne ricordavo più, la bellissima immagine d'una schiera d'angeli in volo che sorreggono un Cristo Crocifisso, su uno sfondo scuro di cielo che fa risaltare ancor più la colorazione decisa e smagliante delle vesti e dei volti espressivi, tutti rivolti verso la Croce.
Sull'abside, su uno sfondo di palmizi e di deserto, un Cristo fanciullo vicino alla Madre, si china verso i Sapienti giunti da lontano, con fare regale ma amoroso...
L'ho riscoperto dopo anni di anonimato, poichè da poco ho ripreso a frequentare la chiesetta sotto casa, amorosamente curata dalle suore che vivono nel caseggiato annesso; quando posso, la mattina prima di andare in ufficio, mi soffermo per qualche minuto vicino alla porta, lo sguardo fisso alla Madonnina, a cui ininterrottamente chiedo grazie per me e per i miei parenti ed amici.
E i deboli ricordi dell'infanzia s'insinuano nel cuore, brevi e concisi come immagini di flash back d'un film: io decenne che bussavo al cancello di ferro e mi introducevo nel convento più silenzioso che mai in quelle prime ore di pomeriggio, i lunghi corridoi lucidi che mi portavano nella stanzetta di quella suorina anziana e vivace che mi preparava alla Prima Comunione.
Non rammento alcun altro particolare della stanza in cui m'accoglieva, ma che ritengo dovesse esser semplice come lei e della suora ricordo solo un paio d'occhi vivaci, quasi impazienti nell'attesa delle mie risposte alle sue immense domande: "Chi ci ha creati? Chi è Dio?... e la mia vocetta chiara ma un po’ perplessa ed emozionata rispondeva, senza incertezze: "Dio è l'essere perfettissimo, creatore e signore di tutte le cose, visibili e invisibili!"...
Eppoi, quel senso di mistico raccoglimento che mi trasportava lontano dal mondo e mi riempiva l'animo di sentimenti buoni, raccolta nella penombra della chiesa, dove le voci misteriose delle suorine, nascoste dietro le grate di ferro sopra l'abside, sembrava un coro d'angeli... quegli angeli riprodotti lassù sulla volta dove il mio sguardo interiore spaziava, cercando lo sguardo del Consolatore…
E mi beavo, racchiusa nella speciale solitudine di quei momenti, così sospesa tra le cose della terra e quelle del cielo, dell'immagine di quel Gesù dolente che mi vagava sopra il capo...
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L'UFFICIO D'IGIENE
https://ytali.com/2018/04/15/quel-palazzaccio-di-merulana-dove-rinasce-la-cultura/
É un palazzo grigio, triste, brutto. Ma alla sua destra, guardandolo di fronte, si allunga una tettoia di cemento dove, al riparo dalle intemperie notturne o diurne, un barbone - uno dei tanti che vivono in questa Roma sovraffollata - ha installato il suo abituale domicilio.
Lo si può trovare là nel tardo pomeriggio e di notte, raramente di mattina, poiché il traffico caotico della via Merulana lo desta prestissino e lo spinge a gironzolare per le strade, a girovagare per altri quartieri, alla ricerca d'un boccone caldo che forse non gli mancherà presso qualche istituto religioso o alla mensa della Caritas.
É un uomo alto dal bel portamento, ingobbito da quell'eterno spostarsi da una parte all'altra della città portandosi le sue poche proprietà compresse in uno zaino scuro che gli pesa sulle spalle. Indossa un lungo pastrano ch'era stato di color marrone, un paio di pantaloni militari ed un ampio maglione.
La barba fluente e i baffi nerissimi lo fanno rassomigliare ad un ieratico
pope russo; i capelli, anch'essi corvini, sono ravviati all'indietro e trattenuti in un codino.
Quando torna a "casa" dalle sue scorribande diurne, si stende sull'ampio gradino e lo si può vedere intento a scrivere qualcosa su un piccolo quaderno o a leggere oppure, se il sonno lo prende, disteso tra i suoi stracci, la bella, impenetrabile faccia rivolta al sole...
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DISEGNI E COLORI
L'unico disegno rimastomi dall'infanzia e' su una pagina di quaderno - forse di terza classe - su cui scritta con calligrafia minuta ma non incerta, c'e' scritto: "Da questa finestra non vedo... Palazzeschi? e proprio sotto il titolo c'e' l'illustrazione di una finestra ampia, un po' sbilenca in prospettiva, sul cui davanzale s'affaccia un vaso di fiori rossi e allegri.
Predominano dei toni tenui di rosa, di blu e dei verdi dei pastelli Giotto (un andirvieni frenetico ma parsimonioso di piccole scatole in cui si trovavano segnalibri illustrati, tenuti poi con cura).
Noi di quella generazione non abbiamo goduto della aggressività' dei colori acrilici, tutta una gamma di sfumature, avevamo colori precisi, netti:...
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Anche i colori che indossavo non sempre mi rispecchiavano e tuttora, spesso, non mi rispecchiano completamente, a causa di vari fattori.
Fino a 13/14 anni, mia madre pazientemente ed abilmente cuciva miei vestiti, sbizzarrendosi per la verità, in modellini deliziosi e irragiungibili – poiché costosi - ricavati dai vestitini esposti nelle vetrine di Canetta, meta delle nostre settimanali passeggiate che, lungo via dell'Impero, ci portavano all'Altare della Patria e da li, risalendo per via Nazionale e via Torino, di nuovo a casa
Fino a 10 anni le cose andarono bene, le stoffe a quadrettini dell'estate diventavano tra le sue mani festosi grembiulini che sembravano orti in festa da cui
s'innalzavano in volo delicatissime farfalline e sbocciavano fiori di varietà infinite, inodori ma sfumati dei densi colori delle treccine di tonalità del cotone moulinè', marca Ancora---
Gonne ampie con tasche in cui conservare una manciata di ciottoli levigati o caramelle Ambrosoli, volants sui corpetti o attorno al giro manica... D'inverno, gonnelline a pieghe o dignitosi vestitini alla collegiale, ravvivati da fiocchi di varie misure che mi perseguiteranno sino a 18 anni o giù di li', abbinati a scarpette severe e da calzettoni rigorosamente bianchi...
Poi, dai dieci anni in avanti cominciarono i guai: la scelta delle stoffe non era ancora esclusivamente mia. C'erano le mie due giovani zie, a me molto affezionate, che a volte mi regalavano tagli di stoffe da confezionare, di buon tessuto e' vero, ma naturalmente la scelta dei colori avveniva esclusivamente da parte loro: rosa confetto, celeste nuvola, colori zuccherosi che mal s'addicevano al mio colorito ed alla mia figura grassoccia, ma soprattutto alla mia personalità un poco aggressiva, un poco da maschiaccio : m'arrampicavo ancora, o per meglio dir, cercavo di arrampicarmi ancora sui basamenti dei vecchi lampioni di ghisa o tentavo vanamente di saltare le colonnine di marmo del Colle Oppio, per me decisamente troppo alti...
LA SIGNORA EDNA
... Ogni tanto penso che sarebbe bello scrivere alla Signora Edna per dirle che non mi sono dimenticata di lei, che la ricordo con molto affetto. Ma più che l' accavallarsi degli avvenimenti e dei contrattempi quotidiani è una sorta di pigrizia mentale che mi fa rimandare il momento di mettermi in contatto con lei.
Spesso avviene così con le persone che abbiamo conosciuto nel passato e che, invece, sarebbero forse molto contente - specie se sono ormai avanti con gli anni e immerse nella solitudine della vecchiaia - di riallacciare relazioni epistolari o telefoniche.
Forse perchè il loro atteggiamento affettuoso nei nostri riguardi potrebbe esser cambiato? Abbiamo paura di questo? E così, finiamo per ì lasciare ì in un canto i nostri propositi e i ì sentimenti ì di riconoscenza e d'affetto che, se esternati, farebbero felici chi ce li ispira.
Alla signora Edna sono debitrice di alcune importanti lezioni di vita. Quando ci conoscemmo, io non ero che una ragazzina grassoccia e piena d'entusiasmo. Era facile allora - appena quattordicenne - stare in mezzo ai bimbi, averne cura , parlare con loro, era semplice amarli e lasciarsi amare. Tutto facile, in quei tersi giorni trascorsi nella colonia marina estiva che la Signora Edna dirigeva...
Arrivavamo in massa, bambini e signorine, alla piccola stazione sull'Adriatico dopo un caotico viaggio su un vecchio treno che da Avezzano, attraversando tutto l'Abruzzo, reclutava bambini di ambo i sessi dai cinque ai dodici anni in ogni frazione o paesetto. Il percorso era servito a gettare le basi per un'intesa che doveva durare un mese, ma i bambini, per la maggior parte piagnucolanti e tristi per la separazione dalle madri, rimanevano malinconici sino due o tre giorni dopo la partenza.
Lei ci aspettava sulla banchina della stazione, le mani nelle tasche della uniforme verde e l'aria che sembrava severa e intransigente - questa era la prima impressione che provava chi non la conosceva - i capelli sconvolti da una minima brezza e che lei ravviava con un gesto deciso.
Io la conoscevo già da anni, perchè mia zia Maria appena diplomata in Economia Domestica aveva trovato lavoro presso l'OMNI di Avezzano, dove la signora Edna viveva assieme ad un'amica, l'ormai anziana signorina Mimì ed ambedue avevano preso sotto la loro ala protettrice la volenterosa e laboriosa giovane ed avevamo avuto modo di frequentarci e conoscerci.
Perciò la direttrice ora non m'incuteva più quel timore che scorgevo sul volto delle nuove vigilatrici anzi, ad ogni nuovo incontro in me crescevano affetto ed ammirazione per quella donna dall'apparenza rude, quasi mascolina.
…Appena dopo l'arrivo si mangiava nel grande giardino, poi si passava alla assegnazione dei bambini alle rispettive signorine. Ogni squadra aveva un nome simbolico, la mia era quella delle "Coccinelle", le più piccine, riconoscibili anche dal color rosso che bordava ogni loro indumento.
Io ero ormai una veterana e conoscevo le varie fasi di questa "investitura", poiché l'anno prima, sempre grazie a mia zia - che rivestiva il ruolo di economa della colonia - avevo trascorso lì un breve periodo, aiutando con un pò d'invadenza le altre signorine ed ero quindi la più spigliata nell'indossare i panni della vigilante, addossandomi la responsabilità che questo ruolo prevedeva, di curare la piccola squadra in ogni momento della giornata.
Un valido aiuto mi venne dalla giovane nipote della Signora Edna che, come me l'anno prima, si stava facendo le ossa.
Carla aveva la mia età, ma al contrario di me era una ragazzona alta e snella come un giunco, dall'aria dolce e tranquilla ancora fanciullesca, pronta a darmi una mano non appena se ne presentava la necessità. I primi giorni di colonia erano faticosi: bisognava ricamare un segno distintivo sulla biancheria delle bambine per poterla riconoscere nel caos dei lavaggi e della stiratura, aiutare le piccole a far toletta e a vestirsi - operazioni che senz'altro rendevano indispensabile per me l'aiuto di Carla - arrotolare gli asciugamani da mettere nel sacco da portare al mare, seguire i bimbi durante il bagno e in decine di altre operazioni.
Le giornate, organizzate minuto per minuto, erano piene e feconde di piccoli avvenimenti, a cominciare dall'alzabandiera mattutina che ci vedeva, piccoli e grandi, schierati in bell'ordine attorno al pennone, mentre accompagnavamo con un inno il lento alzarsi e dispiegarsi del tricolore. Qualche bimbo ciondolava ancora dal sonno ma poi, quasi che il canto lo rinvigorisse, gonfiava il petto come fosse pervaso di sincero ardore; i più piccoli a volte sbagliavano tempo o saltavano qualche parola ma ci mettevano tutto l'impegno. Appena terminato questo primo cerimoniale, ci lanciavamo tutti in un allegro arrembaggio attorno ai tavoli già disposti per la colazione.
Poi, col sacco degli asciugamani e costumi in spalla, marciavamo verso il mare percorrendo la verde pineta che ci separava dall'arenile, cantando a piena gola.
Sulla spiaggia v'era una zona riservata su cui ci stendevamo al sole o giocavamo coi bambini, costruendo castelli incantati di sabbia bagnata: piccole torri a cono s'ergevano, guarnite di conchiglie e sassolini iridescenti, castelli circondati da ampi fossati in cui i piccoli facevano scorrere secchielli d'acqua.Tutti speravamo che sopravvivessero sino all'indomani ma il vento della notte e il susseguirsi delle onde invadenti li disgregavano senza pietà.
Il momento del bagno era sottolineato da gridolini di gioia dei bimbi e di noi assistenti che, disposte in cerchio nell'acqua bassa e poco distanti dalla riva, controllavamo che nessuno uscisse dalla barriera delle nostre braccia unite. I più piccoli, che ancora non avevano fatto amicizia col mare, timorosi e tuttavia curiosi, a poco a poco s'inoltravano nell'acqua emettendo gridolini d'eccitazione, ma poi subito fraternizzando, giocavano coi più grandi ed esperti alzando verso di noi alti spruzzi, raccogliendo conchiglie e pietruzze colorate che, tornati a riva, mentre noi li strofinavamo energicamente e cambiavamo loro i costumini fradici, essi ci mostravano nel palmo della mano come tanti gioielli preziosi di cui spesso ci facevano dono per dimostrarci il loro affetto.
Facendo colazione con un frutto, restavamo per un pò sdraiati al sole a guardare il susseguirsi delle ondate, il lento movimento d'una barca a vela solitaria o l'attracco d'un grosso peschereccio carico di pesce. Anche noi grandi ci incantavamo con gli occhi fissi all'azzurro e le mani colme di sabbia mentre i maschietti più grandi certo sognavano d'imbarcarsi per terre lontane.
All'ora del pranzo tornavamo stanchi ed accaldati verso la colonia, posavamo i sacchi bagnati in vicinanza delle scale, ci davamo una rapida ravviata al viso e alle mani e ci sedevamo ai tavolini sparsi nel giardino, sotto un tendone azzurro che ci riparava dal sole del mezzogiorno. Le tovaglie a quadretti rallegravano ancor più lo scenario già bello di per sé; intorno a noi alti cespugli di oleandri bianchi e rosa creavano una barriera che ci nascondeva ad occhi estranei ma non così fitta da impedirci di intravvedere l'intenso colore del mare e, lontano, il torrione d'un castello diroccato che s'ergeva su un promontorio roccioso a un chilometro di distanza.
Rumorosamente, consumavamo un pasto sempre sostanzioso e ben cucinato, rumorosamente salivamo le scale per raggiungere le camerate dove ci attendevano due ore di riposo per ritemprarci a nuove fatiche.
Io spesso saltavo questo riposo per passare un'ora con la Signora Edna. Andavo giù nel suo ufficio - una piccola stanza caotica ma personale - e l'aiutavo a ricostruire giocattoli rotti, a preparare dei portasigarette con gli astucci vuoti delle Astor che lei fumava senza sosta o a dipingere sassi piatti e lucenti da usare come fermacarte.
Tutte cose che sarebbero servite d allietare un pomeriggio piovoso o una serata noiosa, da usare come premi di una lotteria o come tesori da scovare in una caccia sulla spiaggia, organizzata dalla Signora Edna alla fine di ogni turno; si partiva dalla colonia in possesso dell'indicazione iniziale, poi si correva in pineta seguendo le tracce che portavano i bimbi fin sulla spiaggia dove lei, qualche ora prima, aveva accuratamente nascosto i premi.
La ricerca galvanizzava piccoli e grandi, tutti tesi alla meta e quando finalmente qualcuno trovava il regalo agognato, erano gridolini di gioia a non finire, quelli che avevano vinto per la vittoria, gli altri contenti per la novità del gioco ed il movimento.
Il pomeriggio ricominciava con una distribuzione di panini imbottiti di cioccolato, poi, inquadrati in file regolari, ce ne andavamo in giro per il paese, al cinema o al campo sportivo dove i più grandicelli disputavano gare di calcio.
Concludevamo sempre il pomeriggio con una passeggiata in pineta e sotto i verdi alberi profumati ci disperdevamo alla ricerca di pinoli, poi ogni signorina riuniva intorno a sé la propria squadra per un gioco o una favola. Oppure, tutti in gruppo, i bimbi seduti in terra, cantavamo in coro canzoni che parlavano di cow-boys nostalgici e di animali, mentre la sera scendeva con un pò di malinconia.
A volte giocavamo a rimpiattino tra le piante degli oleandri e, uscendo trafelati dal nostro nascondiglio, trovavamo la signora Edna al centro della pineta con la sua aria di finta burbera, l'immancabile sigaretta tra le labbra, il tic impercettibile del capo con cui scansava i capelli che le ricadevano sulla fronte.
Eppure la sua aria di severità quasi altera cedeva posto ad una dolcezza infinita se si trattava di rialzare un bimbo caduto in terra, di curare una sbucciatura o qualche linea di febbre.
La sera, al ritorno in colonia, se c'era qualche bimbo ammalato, lei lo conduceva in infermeria dove subito approntava un lettino di fortuna caldo e accogliente in cui lo sistemava con cura, alzandosi amorevolmente durante la notte per controllare la temperatura.
Ricordo la tranquillità di quelle belle passeggiate lungo mare mentre il sole ci carezzava dolcemente le spalle nude ed il vento gonfiava i nostri grembiuli a quadrettini; l'acqua ci lambiva i piedi nonostante tentassimo di sfuggirla giocosamente, la rena s'attaccava ai talloni umidicci in una soffice, bruna crosta, i nostri corpi diventavano di giorno in giorno più scuri e gli occhi brillavano più limpidi nei visetti che s'arrotondavano.
Adele, dai lunghi capelli castani divisi in treccine e gli occhi incantati in cui mi specchiavo, mi chiamava Patriziotta e mi dava la mano fiduciosa, lasciandola a tratti per correr via, disegnando rapidi voli nell'aria come un piccolo uccello irrequieto, cercando di ricongiungersi alla sua ombra che volteggiava leggera sulla sabbia. Una volta partimmo presto dalla colonia portando cestini di merenda e ci avviammo baldanzosamente, verso la torre del castello a picco sul mare che si ergeva un pò fuori del paese, passando per la spiaggia.
Una volta arrivati, ci mettemmo alla ricerca di conchiglie, di piccoli rami che la corrosione dell'acqua aveva modellato in forme bizzarre ed ogni nuova scoperta sembrava ai bimbi più interessante della precedente: sparpagliati sull'arenile, tornavano presto indietro da noi signorine per consegnarci i loro tesori cosicché, alla fine della giornata, ne avevamo ognuna un sacchetto colmo.
La sera, dopo cena, i bimbi già sonnolenti e stanchi crollavano sui lettini in un sonno tranquillo e ristoratore; noi, finalmente senza pensieri né doveri, ci riunivamo al fresco della notte sopra la pietra bianca che costeggiava l'edificio, leggendo le notizie giunteci da casa, ascoltando la musica che proveniva dal vicino dancing e ridendo per un nonnulla, sottovoce, richiamate dalla signora Edna che ci zittiva affinché non turbassimo il sonno dei bambini.
Poi ad una certa ora, come prima aveva fatto coi bimbi, spediva a letto anche noi. Io, talvolta non ancora sazia d'emozioni, salivo sulla torretta che sormontava la costruzione - una specie di solarium che al buio incuteva un pò di timore - e da lì spaziavo con lo sguardo e con la fantasia sul paesaggio notturno punteggiato di luci, grata a Dio di quella esperienza gratificante che stavo vivendo e sognandone di future.
Le domeniche erano giornate campali: appena alzate, dopo il rituale dell'alzabandiera, assistevamo alla Messa che si svolgeva nel grande refettorio di lamiera ondulata e lucente dove veniva innalzato un altare di fortuna ammantato di lino bianco ed ornato di fiori dai delicati colori. Il giovane sacerdote celebrava il Sacrificio, rivolgendoci un viso ed uno sguardo angelico eppure pieno di ardore, che si addolciva ancor più guardando l'innocenza dipinta sui volti dei bimbi pervasi da un mistico sentimento di bontà.
Le voci chiare e gentili s'innalzavano in cantici sacri e a volte coprivano col loro vigore e con dolce irruenza le voci più acute o più gravi di noi signorine.
Uscivamo poi tutti all'aperto con gli animi rappacificati, in attesa dell'arrivo dei genitori in visita che si raccoglievano nel vasto cortile della colonia o ci raggiungevano in pineta.
I bimbi erano euforici e non si riusciva a tenerli a bada per molto, ma quelli che non ricevevano visite, invece, si rincattucciavano in un angolo tristi e muti e ci voleva tutta la nostra pazienza e fantasia per distrarli e far tornare sui loro visetti delusi un barlume di sorriso.
Un pomeriggio domenicale, mentre ci preparavamo alla merenda ed alla passeggiata giornaliera attraverso il paese, s'alzò un vento furioso che creando mulinelli di sabbia scalzò dai sostegni metallici il tendone azzurro, facendolo precipitare con fragore sui tavoli; la calma che fino ad allora aveva caratterizzato tutta la giornata, si trasformò in caos: i piccoli piangevano spauriti, i più grandicelli nel tentativo di placare le loro paure aumentavano la confusione, alcuni eccitati da tutto quel fracasso ridevano forte... insomma uno scompiglio.
Ci ritirammo nella casa, sedendoci sulle gradinate che portavano alla camerata e secondo le istruzioni della direttrice provvedemmo ad una distribuzione straordinaria di gelato che, invece di calmare gli animi, aggiunse altra euforia a quella già esistente. Riuscimmo a tenerli buoni per un pò con qualche canzone e qualche favola sino all'ora di cena - uova sode e cioccolata, poiché non era possibile cucinare - che consumammo alla bell'e meglio sempre seduti sulle scale per impraticabilità del refettorio.
Il tempo non accennava a migliorare, tuoni e fulmini imperversavano e ad ogni poco la luce elettrica saltava, lasciandoci al buio tra la sorpresa ed il timore dei bimbi che emettevano gridolini spaventati, seguiti poi da un sospiro di sollievo al ritorno dell'elettricità.
La Signora Edna era infaticabile: andava e veniva senza posa cercando una soluzione ad ogni problema, rallegrava tutti con battute di spirito, consolava i più piccoli e paurosi, aveva parole d'elogio per il comportamento di noi ragazze,dava ordini alla cuoca, alle inservienti, al giardiniere... senza un attimo di riposo. Fu una giornata memorabile e alla fine crollammo tutti, lei compresa, credo, che fu comunque l'ultima a ritirarsi nella sua piccola stanza al pianterreno, dove di solito la luce rimaneva accesa fino a tarda notte.
Ma, a parte qualche imprevisto, tutto filava liscio sotto la sua direzione severa ma materna e la sua onnipresenza protettiva ci dava sicurezza poiché sapevamo che se avessimo avuto bisogno del suo consiglio o del suo appoggio, lei non si sarebbe tirata indietro.
I giorni passavano quietamente tra giochi e canti e in fondo al cuore sentivo che avrei rimpianto le belle ore di quell'estate in cui dieci bimbi avevano contato su di me per un aiuto, per una risposta, un gioco ed ogni altra piccola cosa e mi avevano trascinato in girotondi spensierati, infrangendo il divario degli anni che ci separava.
Ero anch'io tornata piccola e fragile bimba, desiderosa di gioire e cantare all'aria aperta, contando gli aghi odorosi dei pini sparsi sul terreno, costruendo dorate e inconsistenti dimore di sabbia, respirando un'atmosfera di semplicità, annullando desideri più grandi di me.
Ma la bella esperienza finiva: l'atmosfera della partenza aleggiava nell'aria già da qualche giorno prima e per non eccitare i bambini si cercava di non far trapelare la data e l'ora esatta in cui si sarebbe partiti, ma essi, con la capacità di percezione dell'infanzia, sembravano esserne già informati.
La sera prima dell'addio s'andava a salutare il mare per l'ultima volta, tutti con l'animo rattristato, anche la Signora Edna che ci accompagnava in pineta e poggiata ad un grande tronco, guardava verso il mare, ascoltando il canto malinconico dei piccoli:
"Ciao, ciao Pineto, un giorno ancora, é giunta l'ora di ripartir...". cantavamo tutti in coro sull'aria dell'allor in voga "Piove" di Modugno... ed asciugavamo furtivi una larimuccia.
Il resto della sera si dipanava in un'atmosfera di agitazione e di nervosismo che contagiava indistintamente tutti e si disperdeva solo a notte inoltrata, quando noi vigilatrici - dopo esserci accertate che i bimbi dormissero stremati da tante emozioni - ci scambiavamo indirizzi e gli ultimi scherzi, per poi riunirci attorno alla Signora Edna e ascoltare le sue ultime raccomandazioni relative al viaggio di ritorno, che lei non avrebbe affrontato con noi poiché dopo due o tre giorni al massimo un altro gruppo di bambini sarebbe arrivato per un altro turno di vacanze.
E c'era tanto da fare per riorganizzare la casa: risistemare le stanze, i bagni, le suppellettili, far nuove provviste...
Poco prima la direttrice ci aveva chiamate, noi signorine, una per una, per consegnarci la piccola paga spettante per il lavoro svolto in quel mese dedicato ai bambini.
Poca cosa, ma erano i primi soldi guadagnati con impegno fisico e morale e sentivo di meritarli appieno, anche se m'ero impegnata disinteressatamente, profondendo amore e cure su quei piccoli esseri fiduciosi che ne avevano bisogno e diritto e che non chiedevano nulla. E più che da quei soldi, che mi sarebbero serviti per un vestito o qualche libro, ero stata ricompensata dall'affetto di quei bambini che mi si stringevano intorno per un abbraccio affettuoso con uno sguardo ora allegro, ora malinconico.
All'alba, il sole pallido della mattina in colonia ci trovava già alzati, i visi tirati e un pò tristi dei bimbi ci si stampavano in cuore indelebilmente quando, immobili e sull'attenti, ammainavamo per l'ultima volta la bandiera e
potevamo guardarci tutti in volto.
Poi il caos dei bagagli e del trasporto alla stazione tra i saluti e i baci tirati in direzione della giovane cuoca felliniana che, di nascosto, s'asciugava le lacrime. La sistemazione negli scompartimenti durava un'oretta e la Signora Edna seguiva i nostri movimenti dalla banchina della stazione, impartendo ordini concitati. Infine, il fischio del treno poneva fine all'andirvieni: ci affacciavamo tutti per salutare chi restava, con la gola chiusa dalla commozione.
La Signora Edna, col giacchetto verde girato attorno al corpo a proteggerla dalla brezza, il viso stanco e tirato per una notte insonne, guardava andar via quel carico di piccole vite che avevano allietato per un mese la sua solitaria esistenza.
Cara Signora Edna! La ringrazio per avermi dato la possibilità di rendermi utile a tanti bimbi a cui nel mio piccolo ho donato ciò che potevo, La ringrazio per la sua presenza amica; ricorderò sempre con piacere quei giorni in colonia belli e vitali, che ho aspirato profondamente come una boccata di aria fresca.
Porto ancora in me il ricordo di quell'estate piena di sole e di vento salato, di quelle pennellate d'azzurro e viola che riempivano il cielo al tramonto... ancora viva é la sorpresa che mi colse quando, una mattina, dalla vecchia soffitta vidi nascere un'alba ed un sole insonnoliti che facevano capolino da dietro la verde barriera degli alberi. Ed il ricordo d'una grande camerata colma di lettini, tante faccine intente ad ascoltare favole sotto gli amati pini. Io parlavo e vedevo passare sciami di stelle dorate, chiare speranze nei miti occhi di Adele, di Ornella dal riso festoso e la zazzera corta, nei dolci occhi bruni di Carla dai mille curiosi perché.
Porto tutto in cuore, anche il rumore del mestolo pieno contro il piatto e quello gracchiante del motore della vecchia Carolina, la cinquecento dipinta a nuovo con colori smaglianti.
Ciao, belle ore spensierate, ciao mare, ciao bimbi, cari visetti che il tempo forse cancellerà dalla mia memoria, ciao cara Signora Edna!
SCUOLE MEDIE
https://www.vaccarinews.it/index.php?_id=13332
Frequentavo la scuola media statale Silvio Pellico prospiciente la tetra (allora) piazza Dante dove quattro alberelli stentati facevano poca ombra su un'ampia zona di ghiaia.
Ogni mattina prima di entrare nel grande portone oscuro che mi avrebbe inghiottito per l'intera mattinata, entravo in una piccola cappella gestita dalla suore di fronte alla scuola, un gioiellino di nitore e di santità.
Una grata di ferro sbalzato divideva i fedeli dalle numerose suore e davanti ad essa io m'inginocchiavo, dopo aver fatto parlato un pò con il Cristo triste intagliato nel legno e crocifisso nella penombra dell'ingresso. Gli rivolgevo le mie preghiere più pressanti e lui sembrava, col suo silenzio lieve, rispondere ad ogni mia richiesta.
Era una breve visita, perchè mi attendevano le lezioni e, accostata pian piano la porta della cappellina, attraversavo la strada d'un balzo, facendo volteggiare le falde del mio grembiulino nero delle medie, allegra e speranzosa come una rondinella spensierata nell'aria di primavera.
L’unica cosa che forse ricordo con maggior definizione fu una gita all’Isola del Giglio…, che non mi ricordo come avvenne, che mi vide andare con la scuola media, io facevo la prima e la mia amica inseparabile Etta faceva la terza... ma solo perchè ho una, due foto di questa occasione...
GITA ALL'ISOLA DEL GIGLIO
...Un volo di farfalle su una gonna,
un berrettino bianco con visiera
di stile prettamente marinaro.
Sulla scaletta del traghetto traballante
io e te, compagna mia, in una foto,
sul volto controsole un gaio sorriso,
l'intenso gusto della libertà
per quella gita all'Isola del Giglio...
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