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IL PARATO DI BENEDETTO XIII PER
SAN LUIGI GONZAGA, SAN STANISLAO KOSTKA
A 370 ANNI DALLA NASCITA (1650 - 2 FEBBRAIO - 2020)
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A 290 DALLA MORTE (1730 - 21 FEBBRAIO - 2020)
DEL SERVO DI DIO BENEDETTO XIII
FEBBRAIO 2020
PRESENTAZIONE
La storia non è arte che mescola, che confonde. E’ arte che scomoda, produce e conserva. E’ arte che si ripete e si rinnova. La storia è proposta, anche quando gli altri la impongono, la falsificano, la riducono a polvere e cenere dei loro egoismi. Anche quando la rinchiudono nella cassaforte della presunzione, della idolatria e della ipocrisia, trasformandola in falsa, bugiarda, screditata.
Ciò che stiamo per raccontare è la storia che si chiama amore. Di ciò che è specchio di trasparenza, di luminosità, di fulgore; di tutto ciò, nel caso specifico, è stato intercettato, captato e proiettato nella lucentezza e non nella profanazione dell’oro; nella sfera della memoria da conservare e glorificare, secondo quanto i Padri della Chiesa hanno sancito, sacralizzando ed attualizzando ciò che è racchiuso ed evidente nel racconto dell’incontro tra i Magi e il Bambinello di Betlemme, a cui fu donato oro, incenso e mirra. Cristo, sia pure in fasce, non disdegnò il dono dell’oro. Poteva farlo, attraverso i mezzi di cui il Padre disponeva o poteva disporre. Lo accettò, lo condivise facendone scrigno della sua saggezza e lungimiranza.
L’oro donato a Cristo, attraverso parati sacri, come nel nostro caso, o attraverso forme di devozione e donazione di oggetti sacri quali calici, ostensori, pissidi, deve essere letto come atto di fede, di gratitudine e non come espressione di una ricchezza da ostentare, da mostrare quasi si fosse nella oreficeria della vanità. L’oro della fede è quello che Cristo ha sempre accettato e gradito.
L’oro della fede, dell’amore è il sigillo per confermare e consolidare il vincolo di famigliarità e di condivisione; dell’appartenenza al Creato dei valori e non a quello della materia; a differenza di chi, dei molti che, ritengono o stanno ritenendo, pensando di fare scuola e diventando, invece, i maestri del disorientamento e della confusione, affermano che l’oro sia da demonizzare, da nebulizzare nella sfera del conservatorismo o del tradizionalismo della Chiesa antica e superata. L’oro è arte e tradizione.
L’oro è arte nella tradizione, nella conservazione e valorizzazione dei suoi maestri, dei suoi laboratori, dei suoi artigiani, dei suoi prodotti finiti a servizio della Chiesa e della gloria a Dio che attraverso di essa viene resa. La sartoria sacra, per i sacri riti della liturgia, è stata maestra. Ha fatto scuola nel novero delle sue tecniche; in quella palestra di apprendimento della fede, della preghiera, del mistero racchiuso nelle stoffe, nei ricami, che erano e dovevano, per diventare, nel tempo del mondo e dell’eternità lode a Dio.
Sentimenti e valori, oggi scomparsi, perché la conciliarietà della Chiesa ha voluto sminuire, perdere il sacro per sponsorizzare il protestantesimo, per confondersi con esso, sperando di sopravvivere al modernismo. La Chiesa dei tempi è quella che deve vivere nel tempo, senza diventare del mondo, pur vivendo in esso.
Non c’è e non ci può essere una Chiesa nuova o una nuova chiesa se manca Cristo che rivoluziona e rinnova se stesso, come ha fatto quando ha attuato il Piano di Salvezza per redimere il mondo, per elargire la misericordia del Padre. Purificata, anche, attraverso le devozioni di fede genuina ed autentica, calata e cotta nel crogiolo dell’amore, della fede e della speranza. L’autore
Benedetto XIII, il papa della canonizzazione, in un dipinto di Francesco Santulli
Sagrestia Basilica Cattedrale di Gravina in Puglia
Immaginetta ricordo dell’avvenuta canonizzazione dei due gesuiti
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EVOLUZIONE STORICO FOTOGRAFICA
DEI PARAMENTI LITURGICI GRAVINESI
(Nelle foto di DON VITO CASSANO)
Prima di intraprendere il cammino lungo i meandri di questa ricerca storica e tra le righe della relazione sul restauro del parato di Benedetto XIII, redatta, il 7 novembre del 1988, dalle monache dell’Abbazia S. Maria di Rosano di Pontassieve, in provincia di Firenze, bisogna partire da un punto fermo e preciso, visto gli equivoci, che alcuni pseudo storici, hanno ingenerato.
Bisogna partire, per fare chiarezza, da un dato storico inequivocabile: il viaggio compiuto, la prima volta, da pontefice, a Benevento, il 1727.
E’ nel corso di questa visita, e non alla sua morte, come asserito da qualche sprovveduto sapientone, che l’Orsini donò alla Chiesa di Gravina il parato che aveva utilizzato, il 31 dicembre 1726, per elevare agli onori degli altari i beati Luigi Gonzaga e Stanislao Kostka e non anche il carmelitano Giovanni della Croce, come la solita fonte ha evidenziato in qualcuna di quelle pubblicazioni “accreditate”,canonizzato, invece, il 27 precedente dello stesso anno.
Immaginetta ricordo dell’avvenuta canonizzazione dei due gesuiti
La notizia è riportata ampiamente nel testo: Il Tesoro delle reliquie Fasti e riti di Vincenzo Maria Orsini Papa “Beneventano”, Artemide Edizioni, giugno 2000.
All’interno di questa pubblicazione vi sono alcuni contributi chiarificatori ed essenziali. Il primo è scritto a quattro mani: da don Giovanni Giordano e da Maurizio Cimino e riguarda l’illustrazione delle schede sul materiale orsiniano, che fu oggetto di una mostra, curata da Vega de Martini, tenutasi a Benevento nel 2000. “Il parato fu poi donato dallo stesso pontefice alla Cattedrale di Gravina sua città natale nel 1727, come risulta dall’inventario n. 487 conservato presso la Biblioteca Capitolare di Benevento”.
Carmine Tavarone, all’interno dello stesso citato catalogo, con il suo contributo: L’oro e il nero. Benedetto XIII, Sommo Regnante, tra desideri claustrali e “sacrosante” cerimonie, scende più nei dettagli circa il menzionato parato.
“Nelle cerimonie di quel dicembre del 1726, Benedetto XIII aveva indossato tre diversi paramenti di seta di lamina d’argento e ricamati preziosamente in oro. Li donò dopo i solenni cerimoniali, alle Cattedrali delle sue rimpiante terre meridionali.
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EVOLUZIONE STORICO FOTOGRAFICA
DEI PARAMENTI LITURGICI GRAVINESI
(Nelle foto di DON VITO CASSANO)
Quelli della canonizzazione di San Luigi e Santo Stanislao passarono alla Cattedrale di Gravina.
Così essi vennero descritti:
“Una cappella intera dello stesso fondo di lama d’argento con nobile ricamo d’oro, consistente in 2 piviali, 1 pianeta, 3 dalmatiche, 1 funicella, 3 stole, 3 manipoli, borsa, velo da calice,, un gremiale, un velo da spalle, un covertoro di paramenti, una covertina lunga per lo legio, una veste da faldistorio, 2 cuscini, un paio di scarpe, un paio di sandali, due guanti tessuti con seta et oro. In oltre una dalmatica, et una funicella di cremisino bianco con passamano e merletti d’oro costa 2300 ducati”.
Tavarone completa, integra, conferma e arricchisce la vicenda della donazione di tutti e tre i parati voluta dall’Orsini.
“A Gravina, dunque, e alla sua Cattedrale, nella quale da Visitatore Apostolico (nel 1714 n.d.r) aveva fatto sistemare anche il fonte presso cui aveva ricevuto l’acqua del battesimo, il Sommo Pontefice volle donare i paramenti serici che lo avevano accompagnato durante la lunga cerimonia della canonizzazione del trentuno dicembre del 1726.
Nell’ambito dello stesso verbale e dello stesso documento d’archivio, il n. 487, alla Metropolia di Manfredonia mandò quello della cerimonia del ventisette, in cui i santi proclamati furono: Pellegrino Laziosi, Giovanni della Croce e Francesco Solano; alla Cattedrale di Benevento, l’intera cappella di pari bellezza e valore che gli era servita durante la cerimonia della sua prima canonizzazione, avvenuta il 10 dicembre del 1726, in cui i gradini della gloria furono concessi a Toribio da Mogrovejo, Giacomo della Marca e Agnese da Montepulciano.
Confrontando le notizie, sui paramenti sacri conservati a Gravina, tra quelle sopra riportate con quelle ricavate dall’Archivio Diocesano di Gravina, Fondo Vescovile, Relatione ad Limina, II W 3 Relazioni, Relazione di monsignor Camillo Olivieri del 5. 11. 1746, per alcuni pezzi, i dati non coincidono, vi sono delle discordanze; così anche per quelli riportati nella relazione delle monache benedettine di Rosano. Intanto, andiamo con ordine.
Questi preziosi parati furono segnalati per la prima volta dal segretario del vescovo di Gravina, monsignor Camillo Olivieri, nella Relatione ad Sacra Limina del 1746, ove si legge: “La chiesa cattedrale di Gravina è provvista a sufficienza e riccamente di sacra suppellettile, accresciuta dal medesimo vescovo e da Papa Benedetto XIII, col dono di paramenti sacri per le messe e delle vesti preziosissime, di cui nessuno potrà ammirare di più ricche e così facili in nessuna altra chiesa di questo Regno”. Qui, per opportunità è necessario ribadire come l’estensore abbia esagerato, ignorando, forse, che lo stesso pontefice aveva donato un parato di simile fattura e bellezza alle chiese di Manfredonia e Benevento.
Ma torniamo alla descrizione del segretario vescovile.
“Si aggiungono un bellissimo faldistorio (sedia a braccioli) con pomi d’argento di eccellente arte, un bastone vescovile d’argento e altre vesti vescovili di minore valore che l’eminentissimo Spinelli, arcivescovo napoletano, erede fiduciario del cardinale Finy, fece dono a questa chiesa”.
L’estensore, senza far riferimento né alla fabbrica e né all’artista che li aveva realizzati fa un elenco dettagliato dei “parati nobili della felice memoria di Benedetto XIII”: “ due piviali di lama d’oro, cioè uno ricamato d’oro finissimo con la spalliera consimile trenata di canettiglia d’oro, con quattro anelletti d’argento indorato e due crocchetti consimili con l’impresa del suddetto papa Benedetto XIII.
(Per impresa deve intendersi lo stemma papale, le insegne papali o blasone che dir si voglia. n.d. r).
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L’altro consimile ma colla spalliera trenata di fila d’oro, quattro anellettti d’argento e due crocchetti colla medesima impresa; due pianete dell’istessa lama con ricamo ricchissimo d’oro, una coll’impresa del suddetto pontefice Benedetto XIII con stocchetti d’oro con due veli di calice consimili con i loro corporali e palle e altre pianeta senza impresa; due dalmatiche dell’istessa lama con ricamo d’oro finissimo con otto anelletti d’argento con stola e due manipoli consimili con lacci di seta e fila s’oro e fiocchetti d’oro coll’impresa dell’istesso papa; due altre dalmatiche dell’istessa lama con ricamo d’oro in mezzo, ed all’intorno stola e due manipoli con lacci di seta bianca e fiocchetti d’oro con otto anelletti d’argento; due dalmatiche di ormisino bianco trenate d’oro senza stola e manipoli; un faldistorio della suddetta lama con ricamo d’oro e con l’impresa del medesimo papa; un velo umerale di detta lama ricamato d’oro ed in mezzo una sfera di galloni d’oro con due fiocchetti di seta b e fila d’oro bianca; un leggile di detta lama ricamato d’oro con francia d’oro all’intorno e colla medesima impresa; un gremiale di detta lama con ricamo d’oro e francia d’oro all’intorno ed in mezzo una croce consimile; una tovaglia di detta lama con ricamo d’oro all’intorno e francia per coprire detto apparato; un paio di sandali di detta lama ricamati d’oro con quattro fiocchetti d’oro; un paio di scarpe consimili con fiocchetti d’oro; un paio di guanti di seta bianca ricamati d’oro con quattro fiocchetti d’oro; due coscini di lana consimile a suddetti parati, cioè uno fatto ricamato d’oro e galloni d’oro intorno con quattro fiocchetti di seta e fili d’oro intorno e l’altro solo ricamato intorno con quattro fiocchetti consimili al primo.
Fin qui la descrizione di ogni singolo pezzo dell’intero apparato liturgico, che, come si accennava prima, non corrisponde a quello che le monache di Pontassieve hanno restaurato.
La cosa che balza evidente nel raffronto, sia con quanto rilevato da Carmine Tavarone e sia con la descrizione innanzi riportata, è la presenza di una mitria, che faceva parte del parato sottoposto a restauro circa 32 anni fa.
Ma sulla relazione delle monache restauratrice torneremo appresso, trascrivendo integralmente la loro dettagliata relazione tecnico-storica.
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Nel corso di questo lavoro di retrospettiva, focalizzato su aspetti poco noti, forse, inediti, per i quali, altri avrebbero dovuto e potuto apportare luce di chiarezza, balza, inaspettatamente, qualche altro riferimento curioso, bizzarro, non so quanto attendibile. Nel caso di specie, l’inattendibilità non è di chi ha riportato e citato le fonti, cioè Padre Giuseppe Bartolomeo Vignato, il maggiore e più quotato biografo dell’Orsini giovane, frate, cardinale, arcivescovo e papa, ma le fonti stesse, molto probabilmente inquinate da veri falsi storici, dovuti ad ignoranza, a superficialità, a pressapochismo. Nel secondo volume: Storia di Benedetto XIII dei frati predicator
Da Manfredonia a Roma, Antoniazzi Editore Milano, 1953, l’autore, il già citato Vignato, confratello dell’Orsini, riporta una notizia, desunta da Matteo Spinelli, autore delle Memorie storiche di Manfredonia, riguardante alcuni doni fatti dall’Orsini papa, alla Chiesa di Manfredonia, del seguente tenore e in questi termini: “… nonché tutto il sacro paramento che servì per la solenne canonizzazione del beato Stanislao Kostka della Compagnia di Gesù (1729)”.
E’ evidente che qui, lo storico sipontino, non era a conoscenza del documento beneventano, risalente al 1727, ma sbaglia anche la data della canonizzazione del Kostka, che, ripetiamo, fu nell’anno 1726, il 31 dicembre. Purtroppo, altri storici hanno propinato confusioni nel dare alle stampe testi, divenuti strumenti di disorientamento, soprattutto per studiosi e studi successivi.
Riprendo sempre dal Vignato, purtroppo indotto in errore, poi, spiegherò i motivi, perché si è servito del testo e dell’autore della Cronotassi dei Vescovi della Santa Chiesa Cesenate, don Gioacchino Sassi: “donò alla cattedrale la preziosa mitra, da lui usata in occasione della canonizzazione di San Luigi Gonzaga”. Questa circostanza, purtroppo ha trovato riscontro in una pubblicazione postuma di Giuseppe Sirotti: “Cesena Diciotto secoli di storia. Dall’arrivo del cristianesimo alla cattedrale odierna, a cura di Gian Angelo Sirotti, Città di Cesena 1982”: “Nell’anno 1724 il card. Orsini veniva eletto Papa ed assumeva il nome di Benedetto XIII.
Alla nostra Cattedrale regalò, contenuta in una ricca custodia in marocchino bulinato, dorato e recante un grande stemma del Papa stesso, la mitria bianca da lui adoperata per la canonizzazione di S. Luigi Gonzaga, donatagli in occasione della Postulazione. Mitria e custodia si conservano tuttora”.
Alla luce di questa ultima “sorpresa”, ho contattato l’Ufficio Beni Culturali della Diocesi di Cesena, nella persona del professore Marino Mengozzi nonché il direttore dell’Archivio diocesano, il professore Claudio Riva, i quali mi hanno assicurato della assoluta infondatezza della notizia, ma, addirittura, alla luce di un recente inventario dei beni ecclesiastici presenti in loco, mi hanno smentito categoricamente la presenza di un pezzo di parato che potesse risalire all’Orsini quando gli unici sono riconducibili a Pio VI.
Al termine di questa vicenda, che si è tinta di giallo, sulla quale ho cercato di fare chiarezza il più possibile,si può solo concludere sostenendo che ai tempi di don Gioacchino Sassi, probabilmente, poteva essere conservata e custodita una mitria di Benedetto XIII, ma non facente parte del parato della canonizzazione di San Luigi Gonzaga; che “il misterioso” oggetto sacro sia andato perduto dopo la morte dell’autore della Cronotassi dei vescovi di Cesena e che chi si è rifatto, inizialmente, a quella fonte, ha ritenuto di poterla considerare affidabile, tanto da affermare che si conservano sia la mitria che la custodia.
Inoltre, personalmente, sono convinto e sostengo una mia tesi, non solo avvalorata dai riscontri oggettivi e soggettivi da me effettuati, ma considerando e avendo conosciuto, tra le infinite letture sull’Orsini, il rigore, la precisione, la puntigliosità del Nostro, a cui, certamente, non poteva sfuggire di redigere un verbale, quello del 1727, al numero di inventariazione 487, che non comprendesse la Chiesa di Cesena. Se la cattedrale di Cesena non fu considerata, non fu contemplata, significa che mancò tra i destinatari dei doni orsiniani.
Concluso questo capitolo, se ne apre un altro. Quello più importante relativo alla manifattura dei pregiati pezzi. Null’altro, per esempio, o per quanto riguarda le supposte ipotesi che il parato destinato alla Cattedrale di Gravina fosse stato interamente sostenuto economicamente dai Gonzaga o dai famigliari del pontefice. Non lo si può escludere aprioristicamente, ma non essendoci stati, finora, riscontri documentali ed oggettivi, tutto è da ritenere aleatorio e fittizio. Ora, invece, godiamoci la relazione del restauro, stilata dalle monache di Pontassieve, a conclusione del loro certosino lavoro.
RESTAURO CONSERVATIVO DEL PARATO DI BENEDETTO XIII
“Il parato del papa Benedetto XIII (1724 – 1730), che si trova attualmente presso la Cattedrale di Gravina di Puglia, è composto di: 1 Pianeta, 1 Dalmatica, 2 Piviali, 2 Tonacelle, 2 Veli omerali, Stole e manipoli corrispondenti, 2 Veli dell’ostensorio, 1 Velo del leggio, 1 Mitria, 1 Faldistorio, Calze, scarpe, guanti. Tale parato, come risulta da documenti dell’epoca, fu usato da Benedetto XIII nel 1726 per la canonizzazione di S. Luigi Gonzaga.
L’imponente mole di lavoro che dovette richiedere questo parato, fregiato dello stemma degli Orsini, originari di Gravina di Puglia, e quindi preparato proprio per questo Pontefice, fa escludere l’ipotesi che la confezione del parato stesso sia stata affidata ad una piccola impresa o a un Monastero (cosa ormai possibile, dato che l’arte del ricamo nel 700 si svincolò, in certo qual modo, dalle “botteghe artigiane” per assumere pian piano il carattere di piccola impresa libera).
Infatti la canonizzazione di S. Luigi Gonzaga avvenne dopo due soli anni dall’elezione a Pontefice di Benedetto XIII. E’ quindi molto probabile che tale lavoro sia stato commissionato a uno dei centri di ricamo italiani o, eventualmente francesi.
Può essere interessante ricordare qui i grandi centri italiani che fino al 300 si affermarono per perizia e organizzazione: 1) Quello del Piemonte, che certamente risentiva dello stile francese. Nella provincia il ricamo ecclesiastico si affermava ancor più che nella stessa Torino, centro attivissimo di ricami non religiosi. 2) Quello fiorentino così famoso che si parlava addirittura dell’”opus florentinum” non inferiore all’”opus francigenum et romanum” (cfr. M. Salmi 1973 pag. 93). 3) A Napoli poi i ricamatori, dato il loro numero elevato, avevano un regolamento migliore degli orafi stessi. Il parato di Benedetto XIII quindi sarà stato quasi certamente affidato a uno dei grandi centri di ricamo in un’epoca in cui era difficile sottrarsi all’influsso del barocco. Per esso venne usato il “Gros de Tour” (teletta nel linguaggio comune), che era quanto di più raffinato si potesse trovare tra i tessuti per paramenti sacri. Un trattato del XV sec. sull’arte della seta in Firenze, pubblicato per la prima volta dall’editore Barbera nel 1868, così descrive la tecnica della sua tessitura: “La Teletta ha l’ordito doppio e ‘l ripieno di seta e di metallo. Da ritta figura l’oro o l’argento, da rovescio la tela, che è come un moerre.
Si chiama anche tocca e si rimette in quattro licci facendone levare uno per volta alla calata della lama e due a quella della trama”. La “Teletta” è tessuta in 50 cm. di altezza. La decorazione
del parato, come si è detto, non si è sottratta all’influsso del barocco, che di fatto però appare chiarissimo solo nello stemma degli Orsini. In esso si ritrovano tutte le caratteristiche che la parola “barocco” ha nel linguaggio comune, prima fra tutte la pesantezza di linee resa ancor più evidente dalla eleganza e leggerezza del disegno che orna tutto il parato.
Benchè la caratteristica del barocco, del bel barocco,, si esprima nelle linee curve e nelle volute, in questo parato si esprime soprattutto nella ricchezza del disegno e nella profusione degli ornamenti, che del resto sono un’altra caratteristica di questo stile. Il gusto del committente e la perizia degli artisti hanno voluto e realizzato per Benedetto XIII quanto di più bello poteva dare l’arte del tempo unita al gusto del classico, per cui citroviamo di fronte a un’opera bella perennemente.
Caratteristico a questo proposito il disegno del velo dell’ostensorio, che mostra un equilibrio perfetto fra il tratto geometrico e l’eleganza delle volute.
Anche nel limitato spazio delle calze si ritrova evidenziata al massimo la leggerezza e l’eleganza dell’ornato, che spazia libero su tutta la superficie, senza lasciar posto al rimpianto di un mancato bordo di finizione. Degno di nota è il disegno a china che si ritrova su tutti i pezzi del parato, per il quale l’artista avrà certamente incontrato non lievi difficoltà, data la superfice ruvida e ondulata del tessuto.
Quanto al ricamo, chi l’ha eseguito aveva coscienza di trovarsi di fronte a un disegno bello e classico, per cui l’ago doveva seguirlo preoccupato solo di metterne in rilievo la bellezza e l’eleganza. Non si trovano perciò né colore né fantasia di punti, ma il filo di seta si nasconde sotto la lamina d’oro, dentro poca canutiglia, dentro il cordonetto o appare timido sul filato oro riccio o liscio con punti magistrali non troppo frequenti e alternati. A questo parato, a più di 250 anni di distanza dalla sua confezione, è stato fatto un restauro conservativo. Anche se il processo di deterioramento del tessuto e del metallo non avesse raggiunto lo stato attuale, un riporto del ricamo su nuovo tessuto non sarebbe stato possibile data la minuziosità del disegno.
La situazione del parato era inoltre aggravata dagli innumerevoli rammendi apportati ai singoli pezzi nel corso di due secoli circa, soprattutto nei piviali e nella dalmatica. Come supporto dei rammendi fatti sono stati usati di volta in volta stoffe di diverso spessore.
L’ultimo strato era costituito dalla fodera originale dell’intero parato, che si presentava rovinata solo in parte. Si crede di poter affermare che si tratti della fodera originale dal taglio dei vari pezzi ritrovati.
Ciò è soprattutto evidente nel dietro della pianeta, nelle stole e nei manipoli. Tale fodera era di “ermesino” di pura seta. Con uguale tipo di stoffa, tessuta a Firenze dall’”Antico Setificio Fiorentino”, è stato rifoderato il parato. I rammendi non sono stati rimossi per evitare irreparabili lacerazioni del tessuto.
Sono invece stati tolti i vari strati di supporto affinchè un adesivo applicato a caldo potesse bloccare il processo deterioramento.
Al piviale dell’Arcidiacono assistente, in uno dei tanti interventi di restauro “domestico”, è stato tolto completamente il bordo esterno dello stolone (forse perché ritenuto troppo rovinato) ed è stato sostituito con un pizzo oro, attualmente ridotto a brandelli. Trattandosi di un restauro conservativo, si è ritenuto opportuno rilevare la mancanza del bordo originale con una documentazione fotografica e quindi sostituire la parte asportata con un bordo di seta giallo-oro. Le tonacelle del diacono e del suddiacono, hanno subito, forse all’inizio del XX sec., un riporto di ricamo su teletta d’argento.
Il lavoro è stato eseguito con cura, ma purtroppo queste due tonacelle, a causa dell’appesantimento del ricamo e della qualità scadente del tessuto usato, risultano molto diverse dagli altri pezzi del parato. Inoltre esse, probabilmente, a causa della loro conservazione in luogo umido, presentano grosse gore che non è stato possibile eliminare.
Piviale “ a uso dell’arcidiacono” in buono stato di conservazione
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Piviale “ a uso del vescovo” in pessimo stato di conservazione e irrimediabilmente compromesso prima del restauro e irrecuperabile anche in sede di restauro
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Il faldistorio, bellissimo nella completezza del disegno, è corredato di due cuscini che presentano particolarità degne di rilievo. Sulla parte posteriore i cuscini hanno come fodera una pelle, presumibilmente di montone conciata al vegetale, che presenta una decorazione risultante da un contrasto cromatico che, osservando il rovescio della pelle, si può supporre dovuto all’impressione a caldo di un ferro decorativo. Le parti scure sarebbero dovute al al calore del ferro da impressione.
Con l’attuale restauro, la pelle del cuscino inferiore è stata rimossa ed è stata sostituita con tessuto a mano di canapa e lino. Tale pelle è stata poi montata su una superficie rigida, perché possa essere oggetto dell’interesse che merita. Il ripieno dei cuscini è di lana di pecora e crine di cavallo.
Per evitare la deformazione degli angoli erano state poste in essi delle palle di canapa e lino, legate con refe di tessitura. Il velo omerale, che si presenta in condizioni veramente precarie, ha già subito un riporto su stoffa completamente diversa da quella dell’intero parato.
Dalla custodia della mitria sono stati rimossi i vari biglietti ferroviari e indirizzi che erano stati applicati direttamente sulla pelle e che hanno provocato macchie di colore. Sono stati inoltre rimossi, tagliati a mano da lamella di rame, i due piccoli ganci laterali, che hanno ridato alla custodia la sicurezza di una chiusura stabile”.
Mitria e le due infule posteriori con su incisi i segni araldici dell’Orsini
TRATTAMENTO FATTO ALL’INTERO PARATO
“Ogni singolo pezzo è stato completamente scucito e disfatto. Sono stati rimossi i supporti dei rammendi, quindi tutte le parti sono state pulite con alcool denaturato e poi sono rimaste per alcuni giorni sotto l’azione di uno strato di bicarbonato. A parte sono stati ripuliti galloni, fiocchi, frange e pizzi di finizione. Questi ultimi sono stati restaurati con un lavoro molto paziente. I rammendi e i restauri sono stati eseguiti sulla stoffa tesa in telaio da ricamo, dopo che era stato bloccato lo sfaldamento del tessuto con una tela adesiva applicata a caldo.
Ai pezzi che potevano tollerare una maggiore rigidità sono stati applicati due strati di tela adesiva. Il tutto è stato poi rifoderato e i singoli pezzi sono riapparsi non nel loro primitivo splendore, ma adorni della bellezza e del fascino che il tempo posa sulle cose. Niente di nuovo è stato fatto; tutto è stato rispettato.
La gloria resta a coloro che ci hanno preceduti. A noi la gioia di aver posato i passi sulle orme di chi ebbe tanto amore per il bello. Vogliamo sperare che tale amore abbia condotto loro e conduca noi alla visione della bellezza eterna che è Dio”.
Che dire? Una relazione minuziosa, attenta, precisa, così come è stato il lavoro eseguito. Un lavoro che ha fatto scoprire, che ha fatto emergere, anche e purtroppo, manomissioni effettuate nel passato, magari da mani meno inesperte, in un restauro, come è stato definito. “domestico”.
A tal riguardo, Maria Pia Pettinau, attingendo da altri testi, da altre fonti, nel capitolo: Piviale e scarpe dal parato donato da Benedetto XIII, Gravina in Puglia, Cattedrale, all’interno del Catalogo: Potere e Liturgia. Argenti dell’età barocca in Terra di Bari, Adda Editore 2014, scrive: “Il parato, restaurato per la prima volta a Napoli, nel 1840 42 presso il Laboratorio di Maria Luigia Guarracino, fu poi oggetto di revisione per alcuni anni, a partire dal 1975 presso il Monastero di S. Maria delle Suore Domenicane di Gravina”.
Non è escluso, quindi, che in una di queste fasi, il restauro si sia rivelato approssimativo, superficiale, che, per fortuna, non ne ha compromesso la sopravvivenza, il valore storico, la bellezza artistica di questo originale completo di arredi sacri. Un intervento di restauro che ha valorizzato al massimo i maestri realizzatori e il santo Sommo Pontefice che li volle donare alla sua città natale.
Un lavoro di gratitudine verso chi ha reso magnifica la Chiesa di Gravina, dotandola di un patrimonio inestimabile. Bello da essere fruito, da essere catturato alla vista degli esigenti, degli amatori, dei cultori e degli estimatori. Da non poter essere più chiuso o conservato nelle casseforti dell’oblio.
Scopo di questo lavoro è anche questo. Sollecitare la riapertura del Museo d’arte sacra, Frà Vincenzo Maria Orsini, scrigno d’arte , custodia preziosa,dentro il quale si trovano questi gioielli di oreficeria, di argenteria e di maestria ricamatrice.
Un Museo che ebbe il suo atto di nascita, il suo primo vagito all’indomani dell’ultimo restauro curato dalle Monache di Pontassieve. In quella occasione, Luisa Rossi, pubblicò sulla Rivista Internazionale di Storia dell’Arte e di Arti Liturgiche, Arte Cristiana, 762, 1994, un articolo, all’interno della sezione: Musei Ecclesiastici in Terra di Bari, VII, con il seguente titolo: Mostra permanente presso la Cattedrale di Gravina.
Ricostruendo, brevemente, la storia e la provenienza del parato; facendo riferimento al più recente restauro del 1988 e alla sistemazione presso una sala adiacente ed annessa alla sagrestia della Cattedrale, esattamente nella sala del Capitolo, passa poi all’elenco completo dei singoli pezzi dell’arredo liturgico, fino ad inoltrarsi in una breve descrizione tecnico storica.
A proposito dei paramenti liturgici di Benedetto XIII, la Rossi, confermando, sostanzialmente, quanto già è stato elencato da altri in precedenza, scrive:
“Ne fanno parte due pianete, una tunicella, una dalmatica, un velo per leggio, un velo per ostensorio, due piviali, stole, cuscini per faldistorio, manipoli, calzari, guanti, un velo omerale e uno da calice, una mitra con custodia in cuoio e alcune tonacelle. Il tessuto con il quale sono stati realizzati i vari elementi del parato è chiamato gros de tour, ovvero teletta, e costituiva nel Settecento il più prezioso materiale per paramenti liturgici.
Si tratta di una stoffa in seta a doppio ordito intessuto con fili d’oro e d’argento: questa tecnica conferisce una particolare lucentezza allo sfondo sul quale si sovrappongono i ricami d’oro.
Questi ricoprono tutti i pezzi del parato sviluppando fitti motivi floreali a volte contornati da nastri intrecciati. Spesso compare, in posizione privilegiata, lo stemma del Papa costituito da quello Orsini della Tolfa sormontato dal cane dell’ordine Domenicano al quale Benedetto XIII apparteneva”.
Piviale parte anteriore con la riproduzione dello stemma papale
Al di là di queste brevi note, successivamente, molte altre, persone, direttamente o indirettamente, si sono occupate, come scrivevo all’inizio, di questo importante ed imponente corredo liturgico. Addirittura sono arrivate ad individuare i presunti “artefici” della costruzione, della tessitura sartoriale ed artistica, a differenza di chi, precedentemente, senza supporti storici, ma sulla base di ipotesi molto labili, sosteneva che non poteva escludersi un ottimo laboratorio di ambito napoletano, considerato il passato episcopale del papa nella diocesi beneventana e i suoi rapporti privilegiati con Napoli,dove i duchi Orsini di Gravina avevano dimora stabile nel palazzo omonimo.
Le due studiose in questione, che di recente, hanno dedicato le loro ricerche e i loro studi al parato orsiniano, sono state: Maria Pia Pettinau Vescina, storica dell’arte sartoriale e specialista in tessuti antichi, e Marzia Cataldi Gallo, laureata in Lettere Moderne con specializzazione in Storia dell’Arte. L’una, sia pure per similitudine, per fattura e bellezza, tra quello conservato presso il neonato Museo diocesano di Manfredonia e il nostro, con il suo contributo: “Un dono per la “Prima Sposa”.
Il Parato Orsini, inserito all’interno della pubblicazione: Museo Diocesano di Manfredonia, Guida al percorso espositivo, a cura di Nunzio Tomaiuoli e Antonello D’Ardes, Claudio Grenzi Editore, 2016; e l’altra nel secondo capitolo: Gli artisti e gli artigiani del papa, dedicato ai ricamatori, nella voluminosa pubblicazione: Il papa e le sue vesti. Da Paolo V a Giovanni Paolo II (1600 – 2000), Edizioni Musei Vaticani, 2016
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Piviale parte anteriore con le insegne papali
Dalla Pettinau Vescina, estrapoliamo alcune parti del suo scritto, relativamente ai ricami del parato di Manfredonia, “che trovano perfetta rispondenza tecnico-stilistica in quelli di Gravina”. Tra l’altro, la stessa studiosa, nel già citato volume: Potere e Liturgia, ribadiva: “Il parato di Gravina è stilisticamente assimilabile a quello meno consistente, per numero di elementi, donato alla Cattedrale di Manfredonia”.
Intanto seguiamo il suo percorso descrittivo “Il parato realizzato in gros de Tours laminato, è ricamato a punto steso in più filati d’oro e d’argento, in canutiglia e laminetta d’oro. Il disegno, anche se caratterizzato da una evidente omogeneità stilistica, si differenzia nei vari elementi del parato ed è in linea con il gusto del tempo. La pianeta presenta sulla colonna, siglata in fondo dallo stemma della pontefice, e sulla croce, un fregio impostato sulla fitta successione in verticale di un intreccio di nastri mistilinei e foglie acantiformi.
All’esterno di tali sezioni e lungo il bordo perimetrale dell’oggetto si dipana una decorazione che combina stilizzazioni e conformazioni gigliacee, fiori di cardo, viticci e foglie di vite.
Nei partiti laterali fra le bordure si svolge a grafia leggera e improntato a forte dinamismo, un ornato a motivi vegetali filiformi, quasi astratti, fra i quali osservano distillate inflorescenze di cardo, allusive della Passione e simboliche corolle dai petali gigliati, formanti croci.
Questi motivi si ripropongono sulle superfici della dalmatica e spaziano sull’ampiezza del piviale disponendosi a raggiera in composizioni formate da girali ora affrontati, ora contrapposti, dai quali muovono racemi, forme quadrangolari, palmette. Da queste pendono come gioielli lunghe inflorescenze rovesciate di acanto che più di altri elementi segnalano le direttrici del disegno.
Se i motivi si addensano in particolare su colonna e croce della pianeta, sullo stolone e scudo del piviale e risultano meno serrati ma evidenti nelle bordure, la leggerezza decorativa delle spaziature è soltanto apparente, mascherata dall’aspetto fantasioso e filiforme di più soggetti, dall’utilizzo di laminette “senza profilo” e filati metallici. Ed è proprio l’oro, con le vibrazioni modulate della sua varietà, con le sue proprietà di lucentezza e inossidabilità ad assumere il valore simbolico della luce divina e dell’eternità.
Stola e manipolo evidenziano un disegno opportunamente pensato per le loro forme e dimensioni”. Il dato più importante e più significato, che emerge dalla relazione di Maria Pia Pettinau Vescina, anche e soprattutto ai fini di questo lavoro, è la possibile conoscenza del laboratorio di fabbrica.
Infatti, ella sostiene che: “per i tre parati (cioè di Benevento, Manfredonia e Gravina n.d.r.), si ipotizza uno stesso laboratorio, forse quello romano dei “Fratelli Banchieri e Compagni” esperti nella tecnica di applicazione della laminetta d’oro “senza profilo”, la stessa riscontrabile nei parati da essi forniti ai pontefici Clemente XII (1730 -1740) e Benedetto XIV, successori del nostro Papa”.
Piviale “ a uso del vescovo” in pessimo stato di conservazione e irrimediabilmente compromesso prima del restauro
e irrecuperabile anche in sede di restauro
Prima di andare a scoprire le “sorprese” che ci riserverà Marzia Cataldi Gallo, frutto dei suoi studi e delle sue ricerche, è opportuno evidenziare un dato sottolineato dalla Pettinau, quando a conclusione delle sue note riportate nel catalogo - guida al Museo di Manfredonia, scrive: “Tenuto conto delle generose elargizioni di Benedetto XIII non può meravigliare la totale assenza dei suoi paramenti nella sacrestia pontificia”.
Ciò trova riscontro in una pubblicazione di Luciano Orsini: La Sacrestia papale. Suppellettili e paramenti liturgici, Edizioni San Paolo 2000, in cui non c’è traccia di nessun oggetto sacro o parato o pezzo di esso che fosse riconducibile o che fosse appartenuto all’Orsini. Infatti, contattato da me , a suo tempo, lo stesso autore,ammise la clamorosa assenza, senza darsi una giustificazione e una spiegazione plausibile.
Cercai io di istradarlo, avendo acquisito elementi che andrò elencando, adducendo la sola motivazione possibile: le continue elargizione compiute dal pontefice a favore delle Chiese che aveva servito. Annalisa Salierno, studentessa, laureanda nell’Anno Accademico 2003 – 2004, nella sua tesi di laurea, da me letta e acquisita alle opportune conoscenze: Storia delle arti applicate e dell’oreficeria. “Il Parato Conti” da tessuto da tappezzeria a paramenti sacri, discussa all’Università della Tuscia, presso la Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali, avendo consultato il manoscritto 486, conservato presso la Biblioteca Capitolare di Benevento, : Inventario delle Suppellettili Sagre donate dalla Santità di Nostro Signore Benedetto Papa XIII fatte à proprie spese dal primo giugno MDCCXXIV, enumera le cappelle intere donate con le relative destinazioni. Alla Metropolia di Benevento, alla Collegiata di S. Spirito e di San Bartolomeo di Benevento; alle Collegiate di Paduli, Montefusco, Montecalvo, Altavilla e Vitulano, tutti comuni rientranti nel novero della vastissima diocesi sannita.
Per dare maggiore corpo e forza alla diaspora generosamente voluta dal pontefice, non bisogna dimenticare il dono fatto alla chiesa romana di Santa Maria della Vallicella, fondata da San Filippo Neri, santo cui era particolarmente devoto, consistente in un piviale in seta laminata in argento con decorazioni floreali in oro: nel bordo ci sono due stemmi pontifici di papa Orsini e sei scudi con immagini di santi: Caterina, Domenico, Pietro, Paolo, Tommaso e Rosa. Il piviale è ricoperto di ricami a punto a stelo, punto piatto e punto passato con grande profusione di lustrini.
Sullo scudo un ricamo che ritrae l’Assunta. Decorato. Ai figli di San Flippo, gli oratoriani di Napoli, tramite la pubblicazione di padre Antonio Bellucci, Filippino anch’egli, “Il paramento sacro donato da Michele Krasowski al Sommo Pontefice Benedetto XIII, in Napoli MCMXXXI, veniamo a conoscenza che, la pianeta donata al Pontefice, nel 1725, dal polacco Michele Krasowski, insieme a tutto il resto del parato, a sua volta, l’Orsini ne fece dono ai padri Filippini, detti anche Girolamini, di Napoli.
Purtroppo, il resto del parato è andato perso o distrutto. Forse, si è salvata la sola pianeta.
Piviale di Benedetto XIII donato alla Chiesa della Vallicella di Roma |
Pianeta donata da Michele Krasowski a Benedetto XIII
e da questi donata ai Padri dell’Oratorio di Napoli
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Ora andiamo a scoprire cosa ci riserva Marzia Cataldi Gallo, all’interno delle sue note apparse nel citato volume. Scrive la studiosa: “Nel 1725 durante il pontificato di Benedetto XIII (1724 – 1730) Francesco Banchieri e Marcantonio de Romani,con Romolo Guij, Giovanni Pietro Salandra e Giuliano Saturni, sono citati come compagni Ricamatori del Sacro Palazzo”.
Se è possibile fare una annotazione e precisazione e, magari, un confronto tra quanto scritto dalla Pettinau Vescina e dalla Cataldi Gallo, è quella che: la prima fa riferimento ai Fratelli Banchieri e Compagni, la seconda ad uno specifico Banchieri, cioè Francesco e non ai fratelli dall’unico cognome, aggiungendovi gli altri, cioè i compagni. In questo, sostanzialmente, le notizie, tra le due, concordano e coincidono.
Tornando, invece, alle notizie che ci fornisce Marzia Cataldi Gallo, è giusto riprendere il suo ragionamento.
“Pertanto i completi liturgici conservati in Puglia datano 1725 – 1726; in attesa di una più approfondita ricerca si può notare una certa analogia con il piviale di Santa Maria in Vallicella nel modo di definire le aree in cui il filo d’oro è fermato con fili di seta a punto stuoia, il cui uso è particolarmente vistoso nella pianeta di Benevento, nei ricami all’interno della colonna centrale e lungo i bordi, mentre il corpo della pianeta presenta l’arioso decoro all’epoca definito in “lama senza profilo, che orna numerosi parati della Sacrestia nel Seicento e nel Settecento”.
Anche qui coincidenza descrittiva tra le due studiose.
Per concludere e riportare un dato di più certezza sui realizzatori ricamatori, è bene riportare quanto scritto da Marzia Cataldi Gallo e ripreso da un documento conservato presso l’Archivio di Stato di Roma. “Per i lavori eseguiti con la stessa tecnica in quegli anni i pagamenti risultano tutti per Francesco Banchieri, forse il leader di quella Compagnia”.
Pianeta, stola, manipolo, borsa per o di corporale, custodia in cuoio della mitria, mitria, scarpe pontificali e guanti |
Scarpe pontificali |
Pianeta, stola, manipolo, borsa per o di corporale,
custodia in cuoio della mitria,
mitria, scarpe pontificali e guanti |
Guanti |
Dalmatica |
Calzare |
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Riccio del pastorale, di ignoto argentiere romano, con il particolare della immagine della Madonna col Bambino
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Particolari del pastorale con impressi i santi Stanislao Kostka,
con in braccio Gesù Bambino, e Luigi Gonzaga con il crocifisso
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Le immaginette ricordo stampate in occasione della canonizzazione dei due giovani gesuiti. |
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