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UMBERTO II, IL RE CATTOLICO
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Quando Re Umberto II salutò con il dorso della mano sinistra, prima che il portellone dell’aereo si chiudesse, il sorriso ampio, stampato in volto, non sembrava forzato. La foto storica, ovunque presentata, inganna il tumulto di quell’uomo completamente solo.
Abito grigio, orologio al polso, la vera al dito e cappello nella mano destra. Era un Re che se ne andava, con la discrezione e la dignità che sempre lo contraddistinsero, dal suolo italiano per non farvi mai più ritorno.
Era giovedì 13 giugno 1946.
Ore 16.07.
Mentre si dirigeva verso l’aereo un vice brigadiere dei carabinieri lo aveva salutato e lui si era fermato a stringergli la mano. "Vi aspettiamo sempre, Maestà!", aveva detto il giovane con accento napoletano. Falcone Lucifero, ministro della real Casa dal giugno 1944, avvicinò il carabiniere e gli disse di passare l’indomani perché gli avrebbe consegnato un piccolo ricordo da parte del Re.
La commozione dei presenti era indicibile. Umberto II salì la scaletta del velivolo e si attardò un po’ nel salutare il gruppo di persone convenute a Ciampino per dargli l’addio.
Dalla torre del Quirinale un graduato aveva sorvegliato con il binocolo la zona dell’aeroporto, per togliere la bandiera con lo scudo sabaudo nel momento in cui il quadrimotore si levava in volo. Prima dell’addio all’Italia, Umberto aveva provveduto, a coloro che gli erano stati accanto in quelle ultime ore, a distribuire decorazioni e titoli nobiliari. Aristocratici dell’ultima ora che saranno chiamati "conti di Ciampino".
Poi l’aereo si mise in moto e alle 16,10 decollò. Fazzoletti bianchi a terra ondeggiavano. Qualcuno pianse.
Ben altro futuro si prospettava per l’erede al trono di Casa Savoia quando cento e uno salve di artiglieria, nel secolare parco del castello di Racconigi, salutarono il Principe nel giorno della sua nascita, il 15 settembre 1904. Alle ore 23 il dottor Morisani aveva annunciato a Vittorio Emanuele III: "Maestà, è nato un Principe di Casa Savoia!", il Re era impallidito e aveva sorriso. "Il mio animo si allieta in modo particolare per la speranza che il neonato possa col tempo servire al bene e alla grandezza della Patria" scriverà più tardi al sindaco di Roma. Poi telegrafa al Primo Ministro Giovanni Giolitti per comunicargli che ha deciso di destinare un milione di lire agli operai anziani e malati.
Il Re soldato era affiancato da una consorte propensa non ai salotti culturali e politici come la regina delle perle, sua madre, ma a stare a contatto diretto con il popolo e in particolare alle persone più umili e bisognose, con la sua carica di generosità tutta cattolica per cui approderà alla "Rosa d’oro della Cristianità" che Pio XI le consegnerà il 7 marzo del 1937 a riconoscimento del suo costante impegno nella carità. Elena (Cettigne, Montenegro, 8 gennaio 1873 – Montpellier, Francia, 28 novembre 1952) era così, toglieva a sé e ai suoi figli per dare agli altri. Nel 2001, in occasione dell’apertura dei festeggiamenti per il 50° anniversario della sua morte, il vescovo di Montpellier ha avviato la fase diocesana del suo processo di canonizzazione.
Quando nacque l’erede al trono le agitazioni degli scioperanti erano all’ordine del giorno: Milano, Genova, Torino, Bologna, Roma, Napoli, Venezia, Firenze, Verona, Brescia… Furono invase le tipografie dei giornali indipendenti, il lavoro impedito, i tranvieri fermati, come pure gli spazzini. Vennero arrestate le carrozze, i vetturini di piazza ingiuriati e bastonati, minacciata la chiusura dei forni, strappate le insegne dai pubblici esercizi, fatti chiudere i caffè, bastonati i frequentatori e ucciso, per non aver lasciato la sua birra sul banco, un avventore della birreria Casanova di piazza del Duomo a Milano, il dottor Giovanni Cadola.
Scriverà il giornale la Tribuna: "L’annunzio del Principe nato… diffonde un senso di sicurezza nel popolo d’Italia, il quale considera di lieto auspicio che il suo quarto Re derivi da Elena e Vittorio. Abbia di Elena la virtù dolce e severa, di Vittorio la volontà ferma, il sapere ampio, la percezione dell’onore che gli spetta, e della forza che gli deriva dal consentimento della popolazione".
Era stato tanto atteso l’erede di Casa Savoia. Dopo cinque anni di matrimonio il 1° giugno del 1901, l’anno seguente l’omicidio di Re Umberto I per mano di Gaetano Bresci (29 agosto 1900), era nata Jolanda. Il 19 novembre 1902 Mafalda, un’altra femmina e questa volta Elena piange, mentre Elena d’Aosta, il ramo Savoia rivale dei Carignano, si compiace e continua a chiamare il figlio Amedeo "mon petit roi".
In questo clima pessimistico, sul quale rimarcava l’eco della regina Margherita, ma anche l’attesa degli Aosta e del Vaticano (la Santa Sede temeva che con la nascita dell’erede al trono si venisse a creare il titolo di Principe di Roma), Vittorio Emanuele III esultò nell’inviare un asciutto e impermeabile telegramma alla madre: "Mamma, ho avuto un figlio. Si chiamerà Umberto".
Cento e uno salve di artiglieria, nel secolare parco del castello piemontese, mentre tutti, dai genitori, alla madre regina, alla maggior parte degli italiani, tiravano un respiro di sollievo. La gran paura, del passaggio di corona venne così fugata; mai si sarebbe pensato che quel Principe sarebbe stato l’ultimo Re d’Italia e allora, giù ai cancelli della residenza sabauda, la gente rumoreggiante applaudiva alla fausta nascita: bambini, anziani, poveri, borghesi, benestanti, curiosi, affezionati… Casa Savoia era salva. Il ramo sarà ancora Carignano.
Anche la sapida Matilde Serao si unisce al coro di entusiasmo, la quale sulle colonne del Mattino scrive: "Che chiederemo a Dio, che chiederemo alla Provvidenza, per te, per adornare la tua vita?... È vero, il mondo ha sete di pace, ma la pace non basta né all’uomo, né alla società, perché l’anima umana si elevi e si esalti in volo d’aquila. O piccolo Principe, il mondo ha sete di bene: il mondo ha orrore del male possa tu, o neonato di Elena e di Vittorio, o futuro Re d’Italia, diventare forte, ma restare buono; diventare un grande per te, per la tua nazione, per i tuoi tempi, ma restar buono. Rimanga in te, Principe, l’orrore del male; rimanga in te la innata invincibile incapacità del male: rimanga in te, o Re dei tempi novissimi, la savia innocenza del fanciullo".
Profetiche parole quelle della giornalista Serao: rimase buono ed innocente, nonostante gli orrori delle guerre e la solitudine privata della sua drammatica esistenza, più votata alla meditazione, alla religiosità, alla mistica cattolica, che all’azione terrena. Fin da giovanissimo manifestò un intimo fervore religioso, incline alla riflessione e alla meditazione.
La sua religiosità, dalla quale il padre Vittorio Emanuele rimase sempre orgogliosamente distante, si accrebbe di giorno in giorno.
Tra festeggiamenti, luminarie, omaggi popolari, donativi reali, Umberto (nonno paterno), Nicola (nonno materno), Tommaso (lo zio, duca di Genova), Giovanni, Maria fu battezzato il 16 settembre sera nella cappella del castello dal cappellano di corte, monsignor Biagio Balladore.
L’atto di nascita fu sottoscritto dal presidente del Senato Giuseppe Saracco e dal presidente del Consiglio Giovanni Giolitti. Testimone d’eccezione: Costantino Nigra, ambasciatore di Vittorio Emanuele II e segretario di Cavour. Con quest’ultimo anche il presidente della Camera Giuseppe Biancheri. Per l’occasione vennero assegnati tre collari dell’Annunziata, con i quali si diveniva cugini del Re: a Giolitti, al senatore Giuseppe Ciano Gerbaix de Sonnaz e all’ambasciatore conte Giuseppe Tornelli Brusati di Vergano.
La cerimonia pubblica del battesimo ebbe luogo invece al Quirinale di Roma e officiò monsignor Giuseppe Beccaria. La Santa Sede era rappresentata da un solo sacerdote, don Ferrarini, espressamente richiesto dal sovrano e giunto con licenza di san Pio X.
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Umberto divenne Principe di Piemonte e non certo di Roma, come avevano suggerito alcuni cortigiani non troppo accorti e diplomatici: "Ma Vittorio Emanuele aveva troppo orrore della retorica per indulgere a simili trovate scriteriate. Le sole cose a cui teneva, con la discernenza assicurata, erano la buona salute del figlio e il proposito di dargli un’educazione severa e senza debolezze, per crescerlo come era venuto su lui" (1).
L’infanzia di Umberto, gaia e protetta dalla materna Elena, fu assai diversa da quella del padre che ebbe scarsa attenzione da parte della regina Margherita, troppo occupata fra gli intellettuali e la politica.
Il calore e l’intimità familiare non vennero a mancare ad Umberto. Non si trovò, infatti, a vivere in una corte, un focolare domestico e mamma Elena era molto tenera con i figli e per Umberto, che chiamava "Bepo", aveva un forte debole. Tuttavia il vento iniziò a mutare quando si avviarono gli studi: il Re decise che occorreva formare il figlio privatamente, senza contatti con i coetanei. L’educazione di Umberto fu di stampo militare: disciplina, caserma, accademia, esercitazioni.
In definitiva Vittorio Emanuele adottò lo stesso criterio formativo che lui stesso aveva ricevuto: così, mentre Elena si prendeva tenera cura del figlio, Vittorio lo teneva a debita distanza e la pesante soggezione e la sudditanza che aveva creato fin dal principio nei confronti del figlio permasero fino alla fine della sua esistenza.
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Umberto doveva imparare il mestiere di re, guardando il sovrano, ma diversi passi indietro: fuori dal potere, fuori dalle faccende politiche: "in casa Savoia si regna uno alla volta" era la legge di sempre della Casa sabauda.
"Qualcuno obiettava che si correva il rischio di avere, venuto il momento, un Re sprovveduto, impreparato alle difficoltà del compito, esposto al rischio di fallire senza colpa. Vittorio Emanuele rispondeva che non era questo il rischio vero. Il rischio vero consisteva nel presentare un sovrano corresponsabile degli eventuali errori del suo predecessore, mentre bisognava insediarlo svincolato da qualsiasi tipo di passato…" (2).
Ecco comparire sullo scenario pedagogico l’ammiraglio Attilio Bonaldi. Uomo retto, onesto, ma esigentissimo e investito di tutta la responsabilità del mandato ricevuto. Era indubbio che dalla protezione e dalle coccole di mamma Elena, fra pic-nic, rilassanti pescate con la madre, giochi nel parco di Villa Savoia, vacanze trascorse a San Rossore, a Sant’Anna di Valdieri fra spiagge e monti, passare di colpo nelle mani dell’ammiraglio Attilio Bonaldi fu per Umberto un fatto traumatico. Dall’oggi al domani il Principe di Piemonte, ragazzo allegro, socievole, libero, diligente e molto sensibile, fu messo, per volere paterno, sotto la direzione dell’ammiraglio Bonaldi, dal quale non era possibile scappare e lo iato fra Vittorio Emanuele ed Umberto si ispessì tanto che il Principe prese sempre a chiamare il genitore "il Re mio padre".
Davvero diverso il figlio da suo padre: amava gli sport, il ballo, le conversazioni, era disinvolto e agile nel destreggiarsi fra i salotti. Tutto l’opposto di Vittorio Emanuele che non riuscì mai ad avere un rapporto disteso con Umberto, oltretutto c’era quell’"ingombrante" bellezza a dividerli.
Pur non condividendo i repressivi metodi dell’ammiraglio, Umberto, dall’età di nove anni, fu costretto a seguire impostazione ed insegnamenti fino a che il suo temperamento venne piegato: lo spontaneismo fu sostituito da un ferreo autocontrollo che divenne il filo conduttore di tutta la sua esistenza. La spensieratezza la lasciò nei suoi ricordi.
Al funerale di Attilio Bonaldi, Umberto non vi andrà. Una scelta più che eloquente, ma anche un segnale importante della sua personalità: non fu mai ipocrita, neppure per interesse dell’immagine pubblica, e dissimulatore non riuscirà neppure ad esserlo nella vita coniugale. Tutti sapranno del suo scarso interesse affettivo per Maria José (4 agosto 1906–27 gennaio 2001).
A 14 anni venne iscritto al Collegio militare di Roma, con sede a Palazzo Salviati, alla Lungara, dove rimarrà fino a 17 anni, quando presenterà domanda di arruolamento volontario nell’esercito, al primo reggimento granatieri. Si appassionò allo studio, in particolare gli piaceva l’archeologia, meno la narrativa e la poesia, benché provò molta simpatia per Gabriele D’Annunzio, forse più per le sue imprese che per la sua produzione letteraria.
Quando ebbe compiuti i vent’anni, il compito del governatore Bonaldi terminò e per mettere la parola fine, Principe ed Ammiraglio attraversarono insieme l’Atlantico sulla nave San Giorgio, scortata dalla San Marco. Vennero visitatI Argentina, Cile e Brasile.
Umberto conosceva quattro lingue e ciò lo favoriva nelle relazioni internazionali. Tutti sembravano soddisfatti del Principe di Piemonte: popolo, militari, nobili, notabili… era simpatico e accattivante.
Nel 1925 il Principe superò gli esami all’Accademia di Modena e divenne tenente in servizio permanente effettivo al 91° reggimento di fanteria di stanza a Torino.
Indimenticabili per Umberto saranno, dal 1924 al 1929, gli anni torinesi. Torino, l’ex gloriosa capitale d’Italia, è la nuova destinazione, ideale per il Principe di Piemonte e la sua dimora è Palazzo reale. Quattro anni per Umberto indimenticabili. Lontano dal padre si sentiva a proprio agio: il rigore e la disciplina militari non gli pesavano e la sera poteva dedicarsi ai suoi amici.
In Italia la situazione è esplosiva sia da un punto di vista sociale che politico. All’inizio degli anni Venti, il movimento operaio, a lungo soffocato dall’esperienza bellica della prima guerra mondiale, diventa il protagonista di un’impetuosa avanzata politica, tanto brusca e inattesa da assumere i connotati di una vera e propria rivoluzione. I partiti socialisti di tutta Europa sono a capo di tale fermento, coadiuvati dalle sempre più influenti organizzazioni sindacali. Le richieste vertono sulla riduzione dell’orario di lavoro, sulla sicurezza nelle fabbriche e nei cantieri, sulle forme assicurative per donne, bambini e ragazzi.
Le otto ore di lavoro giornaliere a parità di salario sono la bandiera di una lotta che va dall’Italia all’Austria, dalla Francia alla Germania, ispirandosi all’esperienza sovietica.
In Italia è evidente la debolezza della democrazia e degli uomini del Parlamento. La guerra ha fiaccato tutti e tutto. I movimenti cattolici si sono riuniti in una coalizione (il Partito popolare) già dal 1919, mentre la sinistra non riesce a organizzare le varie correnti rivoluzionarie, pagando questa frammentazione in termini di perdita di potere politico.
Si fa perciò strada il movimento che offre maggiori garanzie di rigore e di solidità, quello fondato nel 1919 da Benito Mussolini, che coniuga istanze socialiste e aspirazioni nazionalistiche. Cavalcando lo scontento popolare per la conferenza di pace di Versailles, colpevole di non aver riconosciuto all’Italia il suo ruolo di potenza vincitrice, il fascismo attacca il governo, esprimendo il suo appoggio a clamorosi atti di protesta, quale l’occupazione della città istriana di Fiume da parte dei volontari guidati dal poeta D’Annunzio. Il ritorno al governo di Giovanni Giolitti, nel 1922, provoca l’aperta rivolta dei fascisti, che ne approfittano per imprimere al loro movimento una svolta di chiara matrice antisocialista.
Forte dell’appoggio dei vertici militari e di larga parte del Parlamento, il 28 ottobre del 1922 il fascismo organizza la "marcia su Roma". Fallito il tentativo di fare dell’Italia uno Stato liberale e democratico, il Paese assiste, comunque, ad un forte ammodernamento del suo sviluppo industriale urbano. Le nuove case, sia dei ricchi borghesi come quelle degli operai, vengono edificate con il riscaldamento, acqua corrente ed elettricità e i nuovi quartieri sono costruiti lontano dalle fabbriche e dal centro. Si crea una fitta rete di trasporti urbani, gestita dall’amministrazione cittadina.
Nuovi gli accessori degli interni delle dimore che, dalla cucina alla stanza da bagno, irrompono nella vita quotidiana dell’uomo degli anni Trenta. Si diffonde l’automobile, chiaro segnale del rivoluzionario modo di fruire della vita moderna; vengono progettate e messe in commercio utilitarie con un prezzo accessibile ad una larga fascia sociale. Seguendo i precetti economico – produttivi già collaudati negli Stati Uniti dalla Ford per il modello T, ecco uscire dalle fabbriche tedesche la Volkswagen (macchina del popolo), mentre in Italia la Fiat propone con successo la Topolino.
Beni di lusso come il frigorifero e lo scaldabagno rimangono appannaggio delle classi agiate, ma fanno già la loro comparsa cucine a gas, ferri da stiro elettrici e il mezzo che porta nelle famiglie informazione, cultura e musica: la radio.
Umberto doveva essere un testimone muto, come lo era stato durante la prima guerra mondiale, che aveva mutato la sua quotidianità di undicenne, quando il padre lo portava con sé al fronte. Ci sono gli album fotografici che raccontano di Umberto, il quale, dopo lunghi viaggi in treno per arrivare a Udine e a Padova, saliva sull’auto scoperta accanto al Re e agli ufficiali di servizio.
L’erede doveva essere cosciente di ciò che accadeva in patria, in quella patria dove un giorno avrebbe regnato e la guerra, il volto più duro della storia di una nazione, gli doveva essere presentata in diretta con i suoi protagonisti. Quelle fotografie circolavano fra gli italiani e vedere il Principe Umberto prendere il treno e raggiungere i punti nevralgici del tragico conflitto dove perivano i figli, i fidanzati, i mariti, i padri esaltava la simpatia per Casa Savoia.
Fu in quelle occasioni che ebbe modo di conoscere Ugo Ojetti, Luigi Alberini, Luigi Barzini, Leonida Bissolati, Arturo Toscanini, Gabriele D’Annunzio… ma anche grandi eroi come Francesco Baracca, asso dell’aviazione (colui che per simbolo aveva il cavallo rampante che sarà ripreso da Enzo Ferrari), Fulco Ruffo di Calabria, il generale Elia Passavanti.
Il matrimonio fra Umberto e Maria José del Belgio, fierissima dello spiccato socialismo dei suoi genitori, fu combinato a tavolino. Ben altra impostazione ideologico-politica era quella della famiglia Savoia, dove lo spettro socialista era sinonimo di rivoluzione, disordine, caos, destabilizzazione. Due culture totalmente differenti e opposte quella belga e quella italiana. Basti osservare le due regine: Elena, donna dalla cultura tradizionale e cementata, Elisabetta del Belgio, modello femminile moderno e mondano.
Alla moda la regina Elena dava per nulla importanza, di politica si interessava, ma non si intrometteva. Ma quello che fece, non a tavolino, ma vestita in "borghese" (erano in tanti a non riconoscerla) durante il terremoto di Messina del 1908, fra le corsie degli ospedali, nelle povere case, fra la gente in strada…
Non pensò mai alla carnagione madreperlacea, né alle toilette, come la consuocera, ma plasmò figli culturalmente preparati, umanamente sensibilissimi, pronti ad affrontare le avversità più dure, grazie anche ad una fede cattolica alla quale si aggrapperanno tenacemente, in particolare Umberto, che morirà in esilio, Mafalda che verrà assassinata nel lager di Buchenwald e la regina Giovanna, terziaria francescana, che vorrà essere sepolta nel cappella dei frati Minori Francescani del cimitero comunale di Assisi.
Era il 1918 quando Maria José incontrò, per la prima volta, Umberto di Savoia, il promesso sposo. I loro destini erano stati programmati dalle cosiddette ragioni di Stato. Non sappiamo perché Vittorio Emanuele III avesse puntato su una casa reale che aveva poco, culturalmente e politicamente, da spartire con i Savoia. Certamente per i belgi Umberto, futuro Re d’Italia, era un erede da non lasciarsi sfuggire.
Al Poggio Imperiale si presentò alla dodicenne Maria José il gentiluomo di corte, il conte Solaro del Borgo, annunciando che il Re e la regina d’Italia la invitavano loro ospite a Battaglia, nei pressi di Padova.
La vita di corte aleggiava nei ricordi, carichi di nostalgia per gli ambienti della vecchia aristocrazia subalpina, antitetica alla nuova ambiziosa borghesia industriale. L’opacità che pareva scesa su Torino con lo spostamento della capitale fu cancellata di colpo. Si riaprì Palazzo reale e con esso la vita sociale. Umberto è davvero diverso, la simpatia che suscita è calamitante e per Torino si rinnova il sogno di una rinascita, di una nuova epoca di luce e di ribalta.
L’11 novembre 1925 si laurea a Padova in legge.
È bellissimo, somiglia alla mamma, gli occhi scuri e profondi, lo stesso ovale del viso, l’alta statura, l’eleganza nel muoversi e la gentilezza istintiva sono tipiche di Elena. Ma traspare anche la sensibilità d’animo e la finezza dell’intelligenza del tratto materno. Anche lo spirito riflessivo e il suo forte sentire cattolico lo accomunano a lei.
Torino risorge con Umberto, arbiter elegantiarum. Città avvezza alla chiusura, vive di ricordi risorgimentali e si sente frustrata, pensando di aver pagato un prezzo troppo alto per un’Italia più unita sulla carta che di fatto. Se in caserma il Principe è pedestre e pignolo, fuori si trasforma: apre i saloni, offre ricevimenti, partecipa alle feste, suona il pianoforte, ama la buona tavola, veste non solo elegantemente, ma è lui a creare uno stile di moda ed offre agli amici più stretti una "U" di brillanti da porre all’occhiello.
È sportivo: partecipa alle cacce, gioca a tennis e scia. Le sue fotografie con racchette e sci compaiono su tutti i giornali. Località di montagna, come Bardonecchia, Sestrière, Salice d’Ulzio, San Sicario, Clavière… all’epoca conosciute soltanto dagli appassionati di montagna, ora diventano stazioni sciistiche mondane e i ricchi si adoperano a costruirvi le loro ville.
Intorno alla sua persona viene a costituirsi un gruppo di giovani rampolli della nobiltà e dell’alta borghesia. Lo si vede un po’ ovunque, inaspettatamente. Le sue improvvisate arrivano nelle Langhe, nel Monferrato, in Valle d’Aosta ed è sempre accompagnato da una coda di automobili di amici ed amiche, che godono l’onore di essere ammessi nella cerchia eletta. Le ragazze si innamorano di lui a tal punto che molte finiranno per non sposarsi. Altre cadono ai suoi piedi.
Ecco il Principe ambito e chiamato "Prince charmant", avanzare fra uno stuolo di persone che brama la sua compagnia, il suo sorriso, la sua benevolenza. E la fama varca i confini nazionali. Le attrici straniere del cinema e del varietà affermano di essere mosse dal desiderio di conoscere Umberto. L’hollywoodiana Dolores Del Rio durante una tournée in Europa annuncia di voler venire in Italia per conoscere "il più bel Principe del mondo".
Il sogno di Umberto, che gode la sua libertà lontano dall’opprimente Roma, durerà una manciata di anni. Vittorio Emanuele III è furibondo nei confronti del figlio.
Maria José vorrebbe sposarsi presto, mentre Umberto non vuole proprio saperne. Lei non si è accorta ancora delle distanze culturali e caratteriali che li separano. Lui sì.
La morte della regina Margherita viene incontro ai desideri di Umberto di procrastinare le nozze. La famiglia Savoia si raccoglie in gramaglie a Bordighera intorno alla salma di chi aveva contribuito ad unire lo spirito nazionale. Il re, in abiti civili, porta all’occhiello il bottone nero e ha previsto sei mesi di lutto stretto.
Umberto fa ritorno nell’amata Torino e, promosso capitano, è assegnato al 92° Fanteria di stanza in città. Frequenta i salotti e i teatri della città, dove incontra la subrette Milly, la quale racconterà al giornalista Lucio Lami:
"Umberto e io eravamo grandi amici e null’altro. C’era tra noi una specie di patto non detto: io lo tenevo allegro, gli raccontavo i pettegolezzi sui suoi amici, fungevo da partner piuttosto decorativa; lui, offrendomi la sua confidenza, mi procurava una pubblicità che nessun agente al mondo avrebbe potuto offrirmi. Era galante, intelligente, pieno di fantasia. Mi accoglieva abbracciandomi e baciandomi sulle guance, non andò mai oltre. Ma si divertiva nel vedere il trambusto che la nostra storia provocava. Adorava le feste, le combriccole di amici e ci teneva che in quelle riunioni le donne fossero belle e di classe. No, non mi innamorai di lui: capii subito dal suo modo di agire che la nostra era un’allegra complicità nella quale non ci sarebbe stato posto per la passione. Però mi affascinava: aveva lo stile inconfondibile del grande signore, colto, gentile, pieno di buongusto" (3).
Oltretutto Umberto è credente e manifesta la sua religiosità, non fa nulla per celarla; la sua è un’etica cristiana che lo fa soffrire quando trasgredisce e quando ciò accade: "ne riceve choc tormentosi, tanto più se capisce di non potersi sottrarre all’errore" (4). Peccato ed espiazione gli sono sempre dinnanzi. In questa sua caratterizzazione ricorda moltissimo il suo antenato Carlo Alberto, che aveva terminato i suoi giorni in esilio, ad Oporto, in Portogallo, nello stesso Stato che Umberto sceglierà per vivere il suo isolamento, la sua prigionia.
Significativa la sua messa, assolutamente solitaria, alle sette di mattina della domenica nella cappella del Cottolengo, ma altrettanto importanti, per comprendere il valore della sua cristianità, le sue genuflessioni, rigorosamente compiute di fronte al cardinale di Torino Maurilio Fossati, ed il rispetto per ogni ricorrenza religiosa. Per non parlare dei suoi serissimi pellegrinaggi, in qualità di penitente a Santiago di Compostela, a Nazaret, a Betlemme… indossava anche il saio durante le processioni religiose. Non erano manifestazioni ad uso politico, era il suo modo d’essere, il suo mistico sentire.
Il sipario su Torino sta per calare, Maria José è nuovamente in Italia per le nozze di Amedeo delle Puglie – poi duca d’Aosta, eroe dell’Africa Orientale – con Anna d’Orléans. Il rito è celebrato a Napoli. Umberto con la sinistra regge il berretto gallonato e la sciabola, con la destra tiene il braccio della Principessa belga.
Il Principe ha fretta di ritornare nella sua bella Torino, città che gli somiglia molto: raffinata, nostalgica, garbata, sabauda nell’anima. È promosso maggiore e nel gennaio 1928 si mette in viaggio. Le sue mete sono l’Egitto, la Siria, il Mar Rosso, l’Oceano Indiano, l’Eritrea, la Somalia.
Tornato dai suoi viaggi Umberto è chiamato a celebrare Casa Savoia e a consolidare il legame con le forze armate con un sorprendente carosello storico-mlitare. Se ne era svolto uno già due anni prima a Pinerolo per il centenario della Scuola di Cavalleria. Ora il luogo della spettacolare manifestazione è lo stadio di Torino. Si festeggia una duplice ricorrenza: il decennale della vittoria del 1918 e il quarto centenario del duca Emanuele Filiberto "restauratore dello Stato". La tradizione medioevale dei caroselli comprende sfilate a cavallo, giochi equestri, rifacimenti di storiche singolar tenzoni in costumi d’epoca.
È il 6 maggio, lo stadio è affollatissimo, lo occupano centomila persone, ma altre restano fuori dai cancelli per mancanza di posto. Sono presenti Vittorio Emanuele, la regina Elena e i rappresentanti di molti Stati. I figuranti sono 1200, di cui 700 a cavallo. Alla straordinaria esibizione partecipano, in qualità di attori, sette principi ed Umberto è la stella che brilla nel firmamento. Cavalca un cavallo nero, veste i panni di Emanuele Filiberto, con cappello a pennacchio, giustacuore, calzamaglia e sella cinquecentesca. La bellissima sorella Jolanda, monta, invece, un cavallo bianco, indossa gli abiti di Margherita di Francia (5).
È la più importante e imponente celebrazione storica di Casa Savoia mai realizzata. Umberto trionfa e con lui la corona sabauda. Cambiano continuamente i quadri di scena. Le quadriglie di nobili e i plotoni di cavalleria nelle uniformi storiche rievocano le gloriose vittorie della Casa: Ingolstadt (1546), San Quintino (1557), Lepanto (1570), Staffarda (1690), Torino (1706) e via via fino a quelle risorgimentali in uno sventolio di bandiere e di stendardi, in un tripudio di motti e di orifiamme.
Umberto, perfetto condottiero, vive e assapora il suo momento magico, una simbolica incoronazione: la sua ermetica gloria.
Una sera, mentre il Principe è a cena, a casa di amici, arriva una telefonata. È Vittorio Emanuele. Siamo arrivati all’ultimatum, il tempo è scaduto: devono essere fissate le nozze dell’erede. Umberto torna a tavola pallidissimo, i suoi occhi sono velati.
Quell’unione non prometteva nulla di buono. Eppure né Vittorio Emanuele, né la regina Elena si erano ricordati dell’antico ammonimento della regina Margherita: "Le Orléans portano male. Le belghe pure. Le austriache non sono opportune, di sassoni non ce ne sono e le altre non sono cattoliche".
Il 25 ottobre 1929 Umberto, il giorno dopo l’annuncio ufficiale del fidanzamento, si reca con Maria José in corteo a rendere omaggio alla tomba del Milite Ignoto a Bruxelles. Ma là, ad attenderlo, c’è Fernando De Rosa con una pistola pronta per sparargli. Il ventunenne Fernando De Rosa, socialista italiano, era un fuoriuscito arrivato dalla Francia e al processo venne difeso dall’avvocato Paul Henri Spaak, futuro presidente del Consiglio belga. L’attentato era diretto al cuore della monarchia, accusata di essersi compromessa con il regime fascista.
Il contegno del Principe ammirò tutti: continuò ad elargire sorrisi e a salutare, come se non si fosse accorto di nulla. Dimostrò coraggio e impavidamente proseguì nel suo dovere. Aveva fatto suo l’insegnamento di suo nonno, Umberto I: gli attentati fanno parte degli incerti del mestiere di un sovrano.
Le nozze si celebrarono l’8 gennaio 1930: venne scelta questa data perché ricorreva il compleanno della regina Elena ed Umberto era legato a lei da un affetto infinito. La cerimonia si svolse nella cappella Paolina del Quirinale alla presenza del cardinale Aurelio Maffi, arcivescovo di Pisa, poi insignito del collare dell’Annunziata. Testimoni per Umberto furono il duca Emanuele Filiberto d’Aosta e il conte Vittorio Emanuele di Torino e per Maria José i suoi fratelli. Notaio della Corona Benito Mussolini, il quale sottoscrisse l’atto nuziale. Luigi Federzoni, presidente del Senato, fu l’ufficiale di Stato Civile.
La cerimonia venne a pesare sulle casse del Re per cinque milioni di lire. L’abito della sposa l’aveva disegnato Umberto, esperto in eleganza: un abito bianco di felpa di velluto a riflessi d’argento, ornato di ermellino, con un pesante mantello, ricamato in oro, lungo cinque metri che pesava moltissimo sulle spalle benché sostenuto da quattro gentiluomini di corte. Venne confezionato in Italia, dalla sartoria Ventura. Il velo, invece, proveniva dal Belgio, dono delle merlettaie di Bruges. Al momento dello scambio degli anelli dalla piazza del Quirinale furono lasciate libere nel cielo centinaia di colombe bianche.
Strano viaggio di nozze fu quello fra Umberto e Maria José, preceduto da una girandola di ricevimenti, di sfilate, di omaggi, di doni, spettacoli, caroselli, cortei, luminarie, feste popolari. Poi, l’amata Courmayer di Umberto, meta delle sue giornate sciistiche quando si fermava nella villa di Enrico Marone Cinzano. Appena arrivati telefonò alla sua compagnia torinese di giovani, invitandoli a raggiungerlo lassù. La brigata non aspettava altro e molte auto si misero in marcia per raggiungere Courmayeur. Occuparono un intero albergo.
Nella chiesa di Courmayeur troviamo una targa ricordo: "Qui pregarono le LL.AA.RR. i principi Umberto e Maria José di Savoia il 19 e il 26 gennaio 1930".
Tornati dall’infelice viaggio di nozze, la Principessa trascorse i primi tempi della sua nuova vita a Torino. Umberto era diventato colonnello e comandava il 92° reggimento di fanteria.
Mentre Umberto cercava di capire, di orientarsi, senza la possibilità però di intervenire in alcun modo, sua moglie si adoperò, contro il volere di Vittorio Emanuele, per creare una rete di informatori e di personaggi con i quali discutere sul futuro della Corona e dell’Italia.
Sulla scrivania del duce piovono continuamente rapporti dell’Ovra a proposito degli spostamenti del Principe: tutto quello che faceva o diceva era tenuto sotto controllo. Nacquero così calunnie e pettegolezzi infamanti sull’erede al trono. Quanto poi alle idee politiche di Umberto, nonostante la sua totale estraneità alle decisioni della Corona, gli informatori dell’Ovra mandavano a Roma notizie assai inquietanti: "Il Principe non si è detto contrario al regime fascista, ma è perplesso perché sente che suo padre è stato messo in disparte", oppure: "Umberto ha dichiarato apertamente che il fascismo blocca iniziative culturali di tendenza diversa da quella dettata da Mussolini" e ancora: "Parlando con Morozzo della Rocca, il Principe ha dichiarato di non essere favorevole alla Milizia. Sarebbe opportuno informare della cosa direttamente il duce…".
Umberto è spiato fin dai tempi torinesi, ma il suo equilibrio, il suo perenne selfcontroll gli permettono di contenere l’amaro. Continua a mantenere il suo sorriso e i suoi limpidi occhi: sarà sempre così, molto bravo a nascondere preoccupazioni, turbamenti, ansie, inquietudini.
Il fatto che all’erede al trono venisse riservato lo stesso trattamento che si usava per i sospettati di antifascismo la dice lunga sull’opinione che Mussolini si era formato sul giovane Savoia fin dal trasferimento di questi a Torino.
Siamo oramai nel settembre del 1943. "Se ci prendono ci tagliano la testa a tutti…", continuava a ripetere Badoglio passandosi le mani sulla gola (6), terrorizzato di essere preso dai nazisti, senza minimamente preoccuparsi delle teste degli italiani. Resterà "sempre un mistero come mai il re, Umberto e Maria José, pur su posizioni differenti, abbiano tutti favorito, in quel momento critico, l’avvento di Badoglio, del quale si conoscevano la grettezza, l’avidità senza limiti, l’ambizione sfrenata, il nepotismo, il carattere vendicativo, le modeste doti umane" (7). Oltre che, come affermava lo stesso Vittorio Emanuele III, "il cervello intorpidito dall’età".
Umberto è contrario a lasciare Roma per raggiungere il Sud con il padre e la madre. Vorrebbe tornare indietro. Dice: "La mia partenza da Roma… è senza dubbio uno sbaglio. Penso che sarebbe opportuno che io tornassi indietro; la presenza nella capitale di un membro della mia Casa in momenti così gravi, la reputo indispensabile".
Il Quirinale, per volontà di Re Umberto, viene aperto ai mutilatini e spalanca i giardini della reggia perché giochino con i suoi figli. Allo stesso modo i saloni del palazzo si aprono per offrire i pranzi ai bambini degli orfanotrofi. Dalla mamma aveva ereditato l’amore per i bambini; ogni istante libero dai suoi doveri istituzionali era per i bambini: organizzava assistenza, cure, educazione, istruzione. Per loro occorreva, secondo il pensiero del re, lavorare ed essere uniti, oltre ogni idea politica. "Lo stesso cuore, la stessa bontà di sua madre" si diceva.
Nel Paese sconfitto e affamato, spogliato delle colonie, minacciato al confine orientale dalle truppe del maresciallo Tito, occupato militarmente dagli angloamericani imperversavano bande di criminali e borsari neri; da qui violenze e omicidi, banche rapinate, treni assaltati. Viaggiare era davvero un’avventura. Occorrevano venti ore di treno per andare da Milano a Roma. Al sud banditismo e mafia agivano profondamente.
Dalle vie di Roma, come dalla maggior parte delle principali città italiane, spariscono i gatti perché finiscono nelle padelle della popolazione ed il pane è fatto con la polvere di marmo.
Nel giugno del 1944, dopo la liberazione di Roma, Vittorio Emanuele III nominò il figlio Luogotenente Generale del Regno in base agli accordi tra le varie forze politiche che formavano il Comitato di Liberazione Nazionale, che prevedevano di "congelare" la questione istituzionale fino al termine del conflitto.
Umberto, dunque, esercitò di fatto le prerogative del sovrano senza tuttavia possedere la dignità di re, che rimase a Vittorio Emanuele III, restato a Salerno. In realtà si trattava di un compromesso suggerito dall'ex presidente della Camera Enrico De Nicola, poiché i capi dei partiti antifascisti avrebbero preferito l'abdicazione di Vittorio Emanuele III, la rinuncia al trono da parte di Umberto e la nomina immediata di un reggente civile. Il Luogotenente si guadagnò ben presto la fiducia degli Alleati grazie alla scelta di mantenere la monarchia italiana su posizioni filooccidentali.
Umberto firmò su pressione americana il decreto legislativo luogotenenziale 151/1944, che stabiliva che "dopo la liberazione del territorio nazionale le forme istituzionali" sarebbero state "scelte dal popolo italiano, che a tal fine" avrebbe eletto "a suffragio universale, diretto e segreto, un'Assemblea Costituente per deliberare la nuova costituzione dello Stato" dando per la prima volta il voto alle donne.
Il luogotenente ora vive in un appartamento del Quirinale, mentre Vittorio Emanuele si trova a villa Maria Pia a Posillipo.
Le giornate di Umberto sono nutrite di mille e mille impegni. Si alza poco dopo le 7, riceve militari, nobili fedeli a Casa Savoia, uomini politici, funzionari dello Stato, reduci, mutilati, vedove di guerra, religiosi, studenti e partigiani. Raggiunge i fronti del Corpo italiano di liberazione (60 mila uomini), del quale aveva chiesto invano il comando. Visita gli Stati Maggiori, le truppe. Ma non basta, raggiunge paesi, città, piazze per incontrare di persona la gente.
Due o tre volte al mese, approfittando delle ispezioni al Sud, raggiungeva in aereo Napoli, dove andava a fare visita all’anziana duchessa d’Aosta, poi si recava a salutare i genitori: "Solitamente pranzava con loro e ripartiva subito dopo, visto che quelle visite lo opprimevano" (8).
Soccorre le famiglie diseredate a causa della guerra e continua ad essere vicinissimo ai soldati. Ma il suo animo è ormai bruciato ed una cortina grigia gli copre la mente, nonostante cerchi di essere sorridente:
"Mi accorgevo che col crescere della lotta politica crescevano anche le posizioni fideistiche. Insomma si tornava indietro al “credere” cieco che ci eravamo lasciati alle spalle. Ricordo di aver fatto questa amara riflessione in occasione di una mia sosta a Poggibonsi. Il comando era sistemato in un palazzo sulla piazza. La campagna politica infuriava, dalle finestre aperte entrava la voce degli altoparlanti […]
Erano giorni in cui sentivo il peso della storia. Ricordo soprattutto il mio volo del primo maggio 1945: decollai da Villafranca, presso Verona, con alcuni ufficiali americani, per una ricognizione. La linea tra zone liberate e territori ancora in mano ai tedeschi si faceva sempre più fluida. Partimmo con un caccia P51 e sorvolammo molti centri della Lombardia, poi ci abbassammo sulla Milano-Torino e notammo che i tedeschi in ritirata marciavano ancora con grande ordine, tanto che una loro batteria ebbe il tempo di fermarsi e di aprire il fuoco contro di noi. Riprendemmo quota per poi riabbassarci su Milano. La zona di San Siro era bloccata da veicoli ma non si capiva di chi fossero. Scendemmo sul centro e fummo sorpresi di vedere una folla immensa che inondava le vie. Piazzale Loreto brulicava di gente. Chiesi agli ufficiali americani se sapevano di cosa si trattasse, ma la cosa stupiva anche loro. Non sapevano che Mussolini era già stato ucciso e che pendeva dal distributore di quel piazzale" (9).
A Milano Umberto era guardato male e di fronte a villa Crespi, dove ricevette il questore Elia, il generale Cadorna e il generale Utili, il partigiano Sandro Pertini sparò alcune raffiche di protesta.
Il 9 maggio 1946, ad appena un mese dallo svolgimento del referendum istituzionale che doveva decidere tra monarchia e repubblica, Vittorio Emanuele III abdicò e si trasferì in Egitto con la regina Elena, assumendo il nome di Conte di Pollenzo. Gli esponenti dei partiti di sinistra e i repubblicani denunceranno la violazione della tregua istituzionale negoziata attraverso l'istituto della luogotenenza, che avrebbe dovuto essere mantenuta fino alla risoluzione del nodo istituzionale (anche se il presidente del consiglio Alcide De Gasperi cercò, di minimizzare parlando di "fatto interno a casa Savoia"). La speranza di Casa Savoia era di far recuperare consensi all'istituto monarchico con l'uscita definitiva di scena del vecchio Re e grazie anche alla maggiore popolarità del nuovo sovrano Umberto II. Non vennero effettuate cerimonie formali di successione, in quanto lo stesso Statuto albertino prevedeva che all'abdicazione del sovrano seguisse la successione come monarca del principe ereditario.
La paura serpeggiava fra gli uomini di Governo, sapevano che Umberto II avrebbe potuto reagire duramente, sostenuto dalla fedeltà dell’Arma dei Carabinieri e da una buona parte delle Forze armate. Sarebbe bastato un ordine di Umberto II per scatenare una nuova guerra civile fra l’Italia del Nord repubblicana e l’Italia del Sud monarchica, mentre le truppe di Tito premevano ai confini nordorientali e a Napoli e a Taranto scoppiavano tumulti popolari sedati a raffiche di mitra con la nuova polizia. A questo punto De Gasperi domanda ad Umberto di ritirarsi a Castel Porziano. La sera del 12 il Re lascia il Quirinale, ma resta a Roma andando a cena da un carissimo amico giornalista, Luigi Barzini, vicedirettore de il Tempo, il quale lascerà questa toccante testimonianza:
"Era davvero il nostro re, in un certo senso il primo vero Re d’Italia. Era l’uomo assolutamente privo di faziosità che occorreva al Paese dopo tanti disastri di faziosi. Nessuno degli uomini politici che l’hanno combattuto e calunniato con tanto accanimento e che oggi ha la scena politica tutta per sé può essergli paragonato, senza fargli grave torto"(10).
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Senza seguire i dettami della legalità si stabilì che l’Italia diventava repubblica (11): il 18 giugno 1946 venne proclamata, con effetto retroattivo dal 2 giugno, mentre la monarchia era decaduta il 13. Così per cinque giorni l’Italia non fu né monarchia, né repubblica. Il solo caso al mondo di uno Stato sospeso fra due sistemi.
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Le alternative del Re, che si posero il 13 giugno 1946 di fronte alla complicatissima situazione erano, in definitiva, quattro:
1 - dichiarare il Governo decaduto, costituirne uno nuovo: inchiesta msul Referendum e nuova consultazione.
2 - Non tener conto del colpo di Stato del Governo e rimanere e aRoma fino al giudizio della Cassazione, previsto per il 18 giugno.
3 - Emanare un proclama denunciando l’usurppazione e appellandosi al popolo.
4 - Lasciare l’Italia alla luce del sole, con gli onori di rito, senza abdicazione, nessun passaggio di poteri e nessun proclama alla Nazione.
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Ai molti pareri contrari, fra i quali quelli che insistevano per la maniera forte, il Re rispose di non assumersi la responsabilità di un’altra guerra civile, dopo la tragica stagione vissuta dal Paese fra il 1943 e il 1945. Scelse, quindi, la quarta opzione, rifiutando l’appoggio di tutti coloro (ed erano tanti) che l’avrebbero sostenuto e anche l’aiuto del generale Anders e delle sue truppe polacche,
Un regno, quello di Umberto II, durato dal 9 maggio al 2 giugno, 23 giorni appena. Una repubblica, quella italiana, nata dai brogli elettorali maturati in casa Togliatti (12).
Ad Umberto II parve di vivere una situazione irreale.
Quando partì per il Portogallo fra le mani aveva un vasetto di vetro, contenente terra italiana. Dirà più tardi, ormai lontano dal cielo italiano, durante il pranzo offerto in suo onore a Barcellona che fu costretto ad accettare per ragioni di educazione, ma che avrebbe preferito di gran lunga rifiutare: "Certo, in quelle ore non potevo essere brillante, da che – perché non dirlo? – durante quell’agitato viaggio, per religioso ch’io sia, avevo invocato la morte".
Era il 14 giugno 1946. L’esilio durerà 37 anni.
Quando giunse a Lisbona venne accompagnato a Colares, nei pressi della città di Cintra, dove la duchessa di Cadaval aveva messo a disposizione una sua proprietà. Là Umberto II trovò Maria José ed i bambini.
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Un eremitico stile di vita il suo, dove trovava spazio una profonda vita di fede, nella continua ricerca della modestia, della preghiera, della mortificazione. Non si considerava un ex Re d’Italia, si considerava un esiliato. Basti ricordare che, per non usare il passaporto diplomatico rilasciatogli dal nipote Re del Belgio, viaggiava con un passaporto da apolide con le conseguenze immaginabili: ad ogni frontiera veniva invitato al posto di polizia per accertamenti.
Non si apriva con nessuno, anche con gli ufficiali che hanno vissuto con lui più di trent’anni di esilio.
Incarnò il suo ruolo secondo uno stile personale, improntato alla riservatezza, alla discrezione, a un codice etico e religioso di insospettabile severità interiore. Decise di far ritornare allo Stato italiano la parte a suo tempo trattenuta della collezione di monete donata all’Italia da Vittorio Emanuele III all’Italia all’atto della partenza per l’esilio e che è una delle collezioni più belle del mondo, oggi conservata a Roma nel Museo delle Terme.
Le persone a lui rimaste fedeli continuavano a chiamarlo Re d’Italia ed Umberto si rifiutò sempre di riconoscere la legittimità della repubblica, affermando: "non sono gli italiani che mi hanno costretto all’esilio, ma alcune oligarchie di Partito che mercanteggiarono la repubblica con lo straniero".
Trentasette anni di amarissimo esilio, in estrema solitudine. Tuttavia, nonostante il peso di ansie e struggimenti, non si curvò e continuò ad esser un uomo alto, distinto, la cui dignità traspariva da tutta la sua figura. Confiderà Juan Carlos I di Spagna: "Lo zio Bepo, lui che aveva perduto il trono, mi ha insegnato come si fa il re!".
I suoi occhi erano pieni di malinconia e in un Paese straniero si consumarono i giorni di un condannato al dolore. Fu una vera e propria mortificazione continua, vissuta da un eremita legato a Cristo, nel quale ripose tutta la sua tragedia di uomo ripudiato dall’Italia e presto, dopo un solo anno, abbandonato anche dalla moglie, che portò con sé Vittorio Emanuele (12 febbraio 1937) a Merlinge, nei pressi di Ginevra.
Con Umberto rimasero le tre figlie Maria Pia (24 settembre 1934), Maria Gabriella (24 febbraio 1940) e Maria Beatrice (2 febbraio 1943), che presto diventeranno, a causa della loro vita sentimentale a volte tumultuosa, oggetto di morbose attenzioni da parte della stampa popolare e fonte di ulteriori dispiaceri per il padre.
Umberto II non fece mai pesare quella sua solitudine. Teneva tutto dentro, nel confino del suo spirito. Il presidente Sandro Pertini gli fece sperare che un giorno sarebbe tornato in Italia, e che sarebbe morto nel proprio Paese. Ma trascorso un po’ di tempo, non ci credette più.
La sua giornata si dipanava più o meno nella ritualità. Si alzava alle 7 di mattina, un’ora dopo andava nel suo studio, al secondo piano e lì leggeva giornali e posta. Poi la colazione: caffè, latte, pane con burro e marmellata, succo di frutta.
La memoria di Umberto era formidabile. Ricordava nomi, luoghi con una facilità infinita. Lungimirante, credeva nella prevenzione della guerra. Disse il 9 novembre 1963: "I cadetti di oggi, nel prepararsi a divenire i generali di domani, devono intendere bene che la missione odierna del soldato è quella di prevenire le guerre. La vera pace può essere conquistata solo da uomini degni di questo nome. Non vi si misurerà da come saprete morire ma da come saprete vivere".
Antepose i suoi doveri istituzionali a qualsiasi altra cosa. Sovrano di tutti gli italiani; proprio per questo non prese mai posizioni politiche. Il giornalista Luigi Barzini disse: "Non chiedeva mai cosa fosse vantaggioso per la causa monarchica, per la Corona, ma solo quale fosse il suo dovere di fronte alla legge, che cosa fosse più utile per l’Italia".
Fermezza e dignità fino in fondo e fino alla fine.
Da Cannes, dietro Mentone, vedeva nelle giornate soleggiate e limpide le coste italiane e la nostalgia era struggente. Non ebbe modo di sorvolare l’Italia neppure quando morì suo padre.
La passeggiata quotidiana, realizzata anche con la pioggia, era sulla spiaggia che da Cascais conduce al Guincho.
Una volta confessò: "Sorge il mattino e mi sorprendo quasi sempre con il pensiero all’Italia. Cala la notte, e prima di spegnere la luce e riposare ho la visione della piazza del Quirinale, di Roma… la città che non si può non amare". Temperatura permettendo, Umberto si tuffava nell’acqua dell’Atlantico, vicino alla scogliera della Boca do inferno, la bocca dell’inferno. Un richiamo sinistro e lugubre. D’altra parte lo stesso Umberto II era uso dire che il luogo del suo esilio si trovava alla fin do mundo. Altre volte raggiungeva il centro del paese di Cascais e lì s’intratteneva con i pescatori, l’edicolante, il gelataio italiano, Nello Santini che per Umberto II preparava grandi sorbetti di crema e nocciola. Poi, quasi sempre, i ragazzini gli correvano dietro e lo applaudivano dicendo: "O rey de Italia".
I suoi pasti erano assai frugali: una minestra, una fetta di carne o di formaggio, frutta fresca. Nel pomeriggio si interessava degli studi delle figlie, studi privati. In seguito si chiudeva nel suo studio, fra libri e monete. Dalle sei alle otto giungevano i visitatori: erano le comitive di italiani. Nel corso degli anni andranno a fargli visitata migliaia di persone. Dopo la cena, nuovamente nello studio.
Nel 1960 Umberto cambiò casa e traslocò nella seconda Villa Italia, non lontana dalla prima. Nell’atrio, sulla parete di fronte all’ingresso, in bella mostra, spiccava la bandiera sabauda, quella ammainata dal pennone del Quirinale il 13 giugno 1946. |
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Quando anche le figlie se ne andarono, il vuoto più completo lo circondò, lo divorò, la Boca do inferno si apriva di fronte a lui e sembrava risucchiarlo in un vortice di amarezze, delusioni, serenità perdute. A volte, la sera, si recava a Lisbona per ascoltare la voce di una donna bruna, dalla voce roca e melodiosa che sembrava uscire dall’anima. Si trattava di Amalia Rodriguez. Cantava i fados (fado significa destino), canzoni portoghesi appassionate e disperate, il rimpianto per una felicità mai avuta e nelle quali Umberto II si riconosceva. Andava ad ascoltare la cantante in un locale di Lisbona, due volte la settimana, e si sedeva in prima fila.
Quando la regina Giovanna di Bulgaria nel 1962 lasciò la sua casa di Madrid per donarla al figlio Simeone, per le sue nozze con l’aristocratica spagnola Margarita Gomez-Acébo y Cijuela, decise di trasferirsi ad Estoril, in Portogallo, ad un paio di chilometri da Cascais, proprio per vivere accanto all’amato fratello Umberto.
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La salute iniziò a tradirlo quando stava per compiere i sessant’anni. Nell’aprile del 1964 venne ricoverato in una clinica di Londra senza avvertire nessun familiare. Si trattava di cancro, come era accaduto alla sua adorata mamma e che 19 anni più tardi lo porterà alla morte. L’anno dopo Umberto venne ricoverato a Lisbona a causa di un incidente automobilistico. Il 1968 fu l’anno del secondo intervento a Parigi. Il mieloma osseo lo stava divorando.
Alla fine del 1983 Umberto II venne trasferito nell’ospedale cantonale di Ginevra. Uno dei più seguiti e validi giornalisti italiani, Giovanni Ansaldo, direttore de Il Mattino, scrisse un bellissimo articolo sul settimanale Tempo, dove curava una rubrica di commenti dal titolo Il Serraglio ispirati a fatti o personalità del momento.
L’articolo, pubblicato il 20 giugno 1964, è dedicato ad Umberto II, ricoverato in una clinica londinese. Esso trasuda di comprensione umana: |
"Non so se mi sbaglio, ma ritengo di no. Ritengo cioè di non sbagliare, pensando che la grave infermità di Umberto di Savoia ha ravvivato l’interesse sentimentale del nostro pubblico per lui. Anche quei molti italiani che non erano mai riusciti a farsi una idea chiara della sua personalità; anche quei molti italiani che, in mente loro, lo hanno giudicato un debole fin dagli anni della sua giovinezza quando, pure essendo nell’intimo suo contrario al regime fascista, non osò fare un gesto che palesasse la sua ostilità; anche quei molti italiani che ricordano come egli al momento del tragico abbandono di Roma, e della fuga da Pescara, abbia obbedito troppo docilmente alle sventurate decisioni paterne; anche quei molti italiani che guardando da lontano la sua vita di esilio hanno finito per pensare che egli sia soltanto un gran signore, intelligente raccoglitore di oggetti d’arte e di memorie araldiche della sua Casa, e nulla più, e in fondo lieto di non avere più responsabilità politiche e di vivere lontano dai guai; anche questi tutti numerosi italiani, dico, sono rimasti colpiti dal modo in cui Umberto II ha affrontato la battaglia suprema, quella da cui dipendeva la sua vita.
"Quella sua partenza da Cascais per Londra, senza altra compagnia che quella di un segretario, senza chiedere il conforto della presenza di nessun familiare; quel suo entrare nella London Clinic, segretamente, senza neppure chiamare attorno a sé i parenti più stretti sparsi per tutta Europa e impegnati chi nei suoi studi, chi nei suoi amori, chi nei suoi viaggi mondani; quella sua preoccupazione di non dare “disturbo” a nessuno; quel suo disprezzo della pubblicità così raro in un tempo in cui anche l’ingresso in clinica per farsi operare è per tanta gente di divulgato nome, un pretesto per farsi fotografare; tutto quel suo contegno insomma ha fatto capire che il “Signore di Cascais” può essere stato indeciso e privo di volontà nelle grandi crisi del suo Paese, può avere mancato di risoluzione, di passione, di “accento” in quel tremendo mese di maggio che è stato decisivo per la monarchia; ma ha tuttavia in sé un alto coraggio virile, ed una dignità davvero sovrana dinanzi alla battaglia ultima, quella le cui sorti si decidono sul tavolo operatorio…
E sapete chi si è accorto, nonostante i suoi giovani anni, di questa superiorità di spirito di Umberto II, di questa sua dignità davvero sovrana? Se ne è accorto il giovane Amedeo di Savoia Aosta, il figlio di Aimone, Duca di Spoleto, il fidanzato di Claudia di Francia. Il quale, andato alla London Clinic per sentire quando Umberto II contasse di essere disponibile per fare da testimone nel matrimonio, ha finito per restare a Londra parecchi giorni e per visitare il Capo del Casato parecchie volte. I giornali hanno favoleggiato su questi incontri in clinica; hanno detto che Umberto II si prepara a designare Amedeo come successore dei suoi diritti al trono, in caso di una “fantomatica” restaurazione monarchia in Italia. Figurarsi! Dovette trattarsi invece di incontri di simpatia: incontri in cui Umberto aveva il piacere di vedersi vicino un giovane Principe del suo Casato e del suo nome pieno di rispetto per lui; e in cui il giovane Aosta era lieto di testimoniare la sua devozione per il Capo della famiglia in esilio, mostratosi così calmo, così sereno anche dinanzi alla malattia, alla operazione, alla incombenza del rischio mortale. Mostratosi finalmente un re, con la maiuscola; un Re di se stesso".
Umberto II era convinto che l’istituzione monarchica era una realtà sempre al di sopra delle parti, per questo dichiarò categoricamente che "la monarchia non sarà mai un partito" e perciò non volle mai intraprendere un cammino politico, benché molti monarchici e simpatizzanti abbiano tentato di consigliarlo in questa direzione.
Dopo 30 anni di esilio il Re tornò a parlare agli italiani con un’intervista televisiva nel 1976. Nessun accenno polemico in quell’occasione, ricordò soltanto che Carlo Alberto rimase in esilio tre mesi, "io trent’anni". Poi, un nodo gli serrò la gola e con la mano fece cenno di non voler aggiungere altro. L’intervista si concluse con la risposta alla domanda: "Che cosa le manca di più?". "Cosa mi manca?... Il mio Paese" e le telecamere inquadrarono occhi colmi di tenerezza e di fiera e indicibile commozione.
Per le sue esequie, svoltesi sotto una pioggia battente, ad Hautecombe (13), vicino ad Aix-les-Bains nell'Alta Savoia, erano presenti diecimila persone, ma neppure un ministro italiano presenziò, disertarono, infatti, le autorità italiane (ad eccezione del console italiano di Lione). La RAI non trasmise la diretta televisiva (14).
Alle esequie erano presenti: il Re e la regina di Spagna, il Re e la regina dei Belgi, il Granduca e la Granduchessa del Lussemburgo, il Principe Ranieri di Monaco con il figlio Alberto, il Duca di Kent in rappresentanza della regina del regno Unito, gli ex Re di Bulgaria, Romania e Grecia, i rappresentanti delle Case d'Asburgo, Borbone, Baviera e di altre Case ex regnanti. La Santa Sede era rappresentata dal Nunzio Apostolico a Parigi.
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Umberto II ha voluto che, nella propria bara, fosse riposto il sigillo reale, grosso timbro che si trasmette di generazione in generazione quale simbolo visibile della legittimità nella linea dinastica e simbolo del gran maestro degli ordini cavallereschi di Casa Savoia.
In tal modo si ritiene che egli abbia inteso esplicitamente distinguere i suoi eredi dinastici da quelli civili, impedendo a questi ultimi di entrare in possesso del simbolo che avrebbe potuto ingenerare, nella pubblica opinione, la convinzione della loro qualità di successori dinastici.
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Umberto II è stato un uomo silenzioso, discreto, riservato "non toccato dal morbo ormai intollerabile della intervistomania, dell’esibizionismo e della chiacchiera" disse Geno Pampaloni, "Conduceva una vita modesta, era fedele al suo ruolo, con stile, coerenza e senza iattura. È morto da re; seppure lacerato dalla nostalgia per la sua terra, non ha mai sottoscritto, neppure nei giorni stremati dalla malattia che lo indeboliva, una qualsiasi parola di abdicazione o di resa.
In sostanza era una persona per bene, che ha dimostrato, nel giugno ’46 di anteporre il bene della Nazione a quello della dinastia. Non era uomo di potere, e anzi la sua signorile mitezza appariva improntata al contrario della sete di potere. La memoria che lascia è una memoria di pulizia, resa più umana e familiare dalla lunga malinconia dell’esilio".
Non si lamentò neppure quando il male lo divorava nelle fibre e nelle forze. Al ritorno da Londra, fu ricoverato all’Ospedale Cantonale di Ginevra, dove il 18 marzo del 1983 si spense, all’età di 79 anni. Morì con la parola Italia sulle labbra.
Affermerà la consorte: "Italia, Italia, non aveva sulle labbra altra parola fino all’ultimo giorno. Mi diceva “Vorrei rivedere Napoli, ti ricordi…”. Spesso voleva che tenessi le mie mani nelle sue e stavamo in silenzio, per ore. È stato un uomo di grande rettitudine e di virtù e la storia finirà per riconoscerlo. Neppure di fronte alle più atroci sofferenze perse la dignità e il rigore". Il 24 marzo la sua salma trovò dimora nell’Abbazia di Altacomba, in Savoia. La corona più prossima al feretro recitava: "Da Maria José a Umberto".
Nel maggio del 1982 Giovanni Paolo II incontrò a Lisbona Umberto II, il quale decise di donare al Papa la Sacra Sindone, massima reliquia della cristianità e per secoli proprietà di Casa Savoia.
Gli appartamenti reali dell’Abbazia di Hautecombe, come ci illustra il marchese, sono stati lasciati ai monaci benedettini assieme alla rinuncia dei diritti spettanti al Capo di Casa Savoia. L’archivio storico della dinastia è stato lasciato all’Archivio di Stato di Torino. La collezione di medaglie (circa 5000), alla quale ha lavorato con tanta passione (15) per tutta la vita, è stata lasciata, con la stessa formula utilizzata nel 1946 da Vittorio Emanuele III per le monete, al popolo italiano.
"Se fosse morto in Portogallo", racconta il marchese Fausto Solaro del Borgo, che da bambino amava starsene sulle ginocchia della regina Elena, "lasciò detto che doveva essere sepolto nel cimitero dei poveri con una croce di pietra".
Afferma il marchese Fausto Solaro del Borgo: "A questo sovrano va riconosciuto l’enorme merito di aver salvato l’Italia dalla rivoluzione".
Che cosa pensa della sua rinuncia di fronte ad una dubbia vittoria del referendum istituzionale?
"Due notti prima la sua partenza dall’Italia, mio padre fu chiamato per andare al Quirinale, erano circa le 23,00. A mezzanotte arrivò il nipote del Papa, Carlo Pacelli, con un automobile che li ha prelevati e, senza scorta, si sono avviati verso il Vaticano. A mezzanotte e mezza suor Pasqualina, la suora che si curava di Papa Pacelli, li aspettava all’ascensore privato. Il Pontefice ricevette il sovrano nel suo appartamento. Rimasero due ore dentro ed il rientro al Quirinale avvenne nel silenzio più assoluto. Quella notte il Papa, per risparmiare una “carneficina” domandò al Re di lasciare l’Italia. Mio padre si convinse che fu in quella circostanza che il Re non ebbe più tentennamenti e scelse di partire". Rimane, a testimonianza di questa insindacabile decisione del Sovrano, un preziosissimo documento del marchese Alfredo Solaro del Borgo, fra i più stretti collaboratori di Umberto II, che egli dettò nel gennaio del 1993 al figlio Fausto, autenticato e depositato da un notaio. Esso dimostra come l’11 giugno Umberto II venne invitato da Pio XII ad un incontro segreto, durato circa un’ora:
"Per memoria futura desidero ricordare due episodi risalenti all’epoca in cui S.M. il Re Umberto II lasciò l’Italia a seguito del referendum istituzionale del 2 giugno 1946 e che coinvolsero direttamente o indirettamente S.S. Paolo VI all’epoca in cui esercitava le funzioni di Sostituto della Segreteria di Stato di S.S. Pio XII prima di essere nominato Cardinale Arcivescovo di Milano.
S. E. Rev.ma Mons. Giovanni Battista Montini, al quale ero legato da fraterna amicizia risalente all’infanzia trascorsa assieme a Brescia e da una costante frequentazione a Roma, conosceva il rapporto di fiducia che mi legava a S.M. il Re Umberto II, ed era al corrente del primo episodio che intendo ricordare e che riguarda l’incontro che il Sovrano ebbe con S. S. Pio XII due notti prima della partenza per l’esilio, episodio ignorato per lungo tempo in Italia sino a quando ebbi occasione di riferire dopo la morte del Sovrano. Questo incontro fu chiesto da Sua Santità con l’intesa che restasse segreto. Io fui chiamato in Quirinale intorno alle 20 della sera e fui informato che il Pontefice avrebbe ricevuto il Sovrano alla mezzanotte.
Alle 23,30 arrivò in Quirinale il principe Carlo Pacelli, nipote di Sua Santità, per accompagnarci in Vaticano; il tragitto fu coperto senza scorta, in una macchina guidata dallo stesso principe Pacelli. Arrivati nel cortile di San Damaso, proseguimmo fino al cortile di Sisto V, dove era attesa suor Pasqualina, che ci fece salire con l’’ascensore che porta direttamente nell’appartamento privato del Papa. Il Sovrano fu subito introdotto dal Pontefice con il quale si intrattenne in colloquio per circa un’ora. Il Pontefice espose a S.M. il Re le Sue preoccupazioni per possibili disordini in Italia in conseguenza dei contestati risultati del referendum istituzionale e non è da escludere che il colloquio, che trasformò l’incontro in un congedo, abbia contribuito in maniera sostanziale alla decisione del Sovrano di lasciare l’Italia.
Il secondo episodio risale a una data, che non riesco a precisare, tra la fine del 1946 e l’inizio del 1947 quando già il Sovrano in esilio mi aveva nominato Suo procuratore generale con l’ingrato compito di affrontare con il Governo Italiano le trattative connesse con le problematiche patrimoniali, della Famiglia Reale, già sotto la prospettiva dell’avocazione poi definita dalla Costituzione della Repubblica entrata in vigore il 1° gennaio 1948.
Sin dalla partenza di S.M. il Re Umberto II per l’esilio S.E. Mons. Giovanni Battista Montini era stato per me un costante punto di riferimento e di consiglio, oltre che di concreto aiuto. Con lui fu possibile organizzare il trasferimento in Vaticano di quanto si poté allora recuperare del patrimonio privato della Famiglia Reale (depositato prima della partenza per l’esilio presso famiglie amiche) e fu Lui che si assunse la responsabilità di autorizzarmi a organizzare sotto la copertura diplomatica della Santa Sede, l’invio di quanto depositato in Vaticano alla Nunziatura Apostolica in Spagna per il successivo inoltro in Portogallo. Nei colloqui in Segreteria di Stato e in incontri che periodicamente avevo con Mons. Sostituto, mi era stato consentito confidare allo stesso la mia preoccupazione per l’impossibilità di far pervenire mezzi di sostentamento sia in Egitto agli anziani Sovrani, Vittorio Emanuele III e la Regina Elena, che a S.M. Umberto II e alla sua Famiglia ospitata in Portogallo da amici che avevano offerto Loro una prima sistemazione.
In effetti, al momento della partenza per l’esilio il Governo aveva bloccato l’intiero patrimonio dei Sovrani in Italia e all’estero, dove la sola disponibilità era costituita dalla somma riscossa dall’assicurazione sulla vita de Re Umberto I e depositata in Gran Bretagna presso la Banca Hambros, con l’autorizzazione della Banca d’Italia. Nella data più sopra indicata fui informato da Mons. Clarizio, Suo Segretario particolare, che S.E. Mons. Giovanni Battista Montini desiderava incontrarmi. Recatomi in Segreteria di Stato a seguito di tale convocazione, incontrai Mons. Montini il quale mi informò che S.S. Pio XII, venuto a conoscenza delle difficoltà finanziarie in cui si trovavano il Re Vittorio Emanuele III e la Regina Elena a seguito del mutamento istituzionale, desiderava mettere a disposizione degli anziani Sovrani in esilio la somma di lire dieci milioni che mi fu contestualmente consegnata in contanti dallo stesso Mons. Montini.
La generosa elargizione permise ai Sovrani di sopravvivere fino alla Loro morte e fu da me restituita, direttamente a S.E. Mons. Montini, dopo conclusione della causa intentata dal Governo della Repubblica a Londra per il sequestro dei fondi presso la Banca Hambros, che risolvendosi a favore degli Eredi Savoia nel 1951, consentì a S.M. il Re Umberto II di rientrare in possesso di una prima parte del Suo patrimonio e di disporre di fondi propri anche se in misura limitata. Su disposizione precisa di Sua Santità Pio XII, comunicatami da Mons. Sostituto, sempre sotto il vincolo del segreto, l’importo anticipato fu restituito senza alcuna corresponsione di interessi. Del generoso e spontaneo gesto del Sommo Pontefice, per espressa richiesta dello stesso trasmessami da S.E. Mons. Sostituto, non fu data notizia ad alcuno; ne erano a conoscenza solo S.M. il Re Umberto, il comm. Mario Nardi responsabile della Amministrazione della Casa Reale e il comm. Eraldo Paci, già alto funzionario del Ministro della Real Casa e successivamente della Presidenza della Repubblica, succeduto nella direzione amministrativa del patrimonio del Sovrano dopo la morte del comm. Nardi.
Quest’ultimo mi ha recentemente, su mia richiesta, confermato di ricordare perfettamente l’operazione che allora impostai e portai a termine con il comm. Nardi inviandomi la lettera che allego alla presente memoria […]" (169. Tale documento è di importantissimo e fondamentale valore storico: "In primo luogo esso lascia presumere, sulla base di considerazioni più che plausibili, che effettivamente la decisione di Umberto II di scegliere l’opzione dell’abbandono del Paese e la via dell’esilio sia stata influenzata proprio dall’incontro segreto con Pio XII, così, come, a suo tempo, non è da escludersi che la tanto discussa scelta del trasferimento del Governo da Roma al Sud fosse stata il risultato delle preoccupazioni del Pontefice per la salvaguardia di Roma" (17).
Palese, ed occorre ricordarla, la devozione di Re Umberto II al Sommo Pontefice. Più episodi si possono recuperare per suffragare tale affermazione che vanno dalla sua visita, appena nominato Luogotenente, l’8 giugno 1944 per rendere omaggio a Pio XII, alla volontà di donare la Sacra Sindone a Giovanni Paolo II.
Vita semplice, sobria, retta, cattolica. Nel suo quasi quarantennale esilio, Umberto II svolse opera di aiuto e sostegno verso gli italiani indiscriminatamente, in occasione di bisogni personali o di eventi drammatici. A Cascais ricevette decine di migliaia di persone e a tutti coloro che gli scrivevano rispondeva.
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"Poco prima della partenza per l’ultimo viaggio verso l’ospedale di Londra", ci racconta il marchese Fausto Solaro del Borgo, "fui incaricato di predisporre la riconsegna al governo italiano, con l’impegno che venisse mantenuta la massima segretezza e fosse data notizia del gesto del sovrano solo dopo la sua morte, impegno che fu mantenuto dal Governo.
La riconsegna del materiale avvenne tre settimane prima della morte del re, ed io accompagnai le due casse da Ginevra a Roma essendo stato prelevato dal Dc9 personale di Sandro Pertini.
Mi telefonò il presidente Fanfani, il quale aveva fatto nel frattempo valutare quanto era stato restituito e mi disse testualmente: “Dobbiamo tutti dire grazie ad un grande Signore al quale abbiamo portato via tutto e che ora restituisce 2 miliardi e 500 mila lire di valore” (del 1983!) -".
Sulla sua successione che cosa pensava Re Umberto?
"Considerava esaurita la funzione storica di Casa Savoia con lui, perciò non ha mai pensato ad un successore dinastico".
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Fra le carte di Re Umberto rinvenute a Cascais, nei cassetti della sua scrivania, sarà trovato un foglio scritto di suo pugno. Una citazione di una lettera di san Paolo ai Corinti, ricopiata in latino e tradotta subito dopo in italiano:
"Mihi autem pro minimo est ut a vobis iudicer (aut ab humano die). Sed neque meipsum iudico. Nihil enim mihi conscius sum: sed non in hoc iusticatus sum; qui autem iudicat me, Dominus est", "
"Poco importa a me d’essere giudicato da voi (o da un tribunale di uomini)… né mi giudico da me stesso, poiché non ho coscienza di aver commesso alcunché; ma non per questo sono giustificato: mio giudice è il Signore"
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Per approfondire:
Cristina Siccardi
Maria José-Umberto di Savoia. Gli ultimi sovrani d’Italia
Paoline Editoriale Libri
Autore: Cristina Siccardi
1 - S. Bertoldi, L’ultimo re. L’ultima regina. Umberto e Maria José di Savoia: la fine della monarchia, pp. 25-26
2 - S. Bertoldi, L’ultimo re. L’ultima regina. Umberto e Maria José di Savoia: la fine della monarchia, p. 28
3 - L. Lami, Il Re di maggio, Umberto II: dai fasti del "Principe bello" ai tormentati anni dell’esilio, pp. 73-74
5 - Il duca Vittorio Amedeo II, primo Re Savoia, è interpretato, in parrucca, corazza e tricorno, dal duca d’Aosta, mentre la moglie, Anna di Francia, impersona la sua omonima antenata. Il duca di Pistoia è Carlo Alberto e la moglie, Lydia von Arenberg è la regina Maria Teresa.
6 - Montanelli-Cervi, Storia d’Italia-L’Italia della disfatta, Fabbri Editori, cfr. pp. 164-165
7 - L. Lami, Il Re di maggio, Umberto II: dai fasti del "Principe bello" ai tormentati anni dell’esilio, p. 179
8 - L. Lami, Il Re di maggio, Umberto II: dai fasti del "Principe bello" ai tormentati anni dell’esilio, p. 246
9 - L. Lami, Il Re di maggio, Umberto II: dai fasti del "Principe bello" ai tormentati anni dell’esilio, p. 251
10 - L. Barzini, Il mio amico il re, in "Mercurio", luglio-agosto 1946
11 - Questo il proclama con il quale Umberto II lasciò l’Italia:
"Italiani!
Mentre il Paese, da poco uscito da una tragica guerra, vede le sue frontiere minacciate e la sua stessa unità in pericolo, io credo mio dovere fare quanto sta ancora in me perché altro dolore e altre lacrime siano risparmiate al popolo che ha già tanto sofferto.
Confido che la Magistratura, le cui tradizioni di indipendenza e di libertà sono una delle glorie d’Italia, potrà dire la sua libera parola; ma, non volendo opporre la forza al sopruso, né rendermi complice dell’illegalità che il governo ha commesso, lascio il suolo del mio Paese, nella speranza di scongiurare agli Italiani nuovi lutti e nuovi dolori. Compiendo questo sacrificio nel supremo interesse della Patria, sento il dovere, come Italiano e come re, di elevare la mia protesta contro la violenza che si è compiuta; protesta nel nome della Corona e di tutto il popolo, entro e fuori i confini, che aveva il diritto di vedere il suo destino deciso nel rispetto della legge e in modo che venisse dissipato ogni dubbio e ogni sospetto.
A tutti coloro che ancora conservano fedeltà alla Monarchia, a tutti coloro il cui animo si ribella all’ingiustizia, io ricordo il mio esempio, e rivolgo l’esortazione a voler evitare l’acuirsi di dissensi che minaccerebbero l’unità del Paese, frutto della fede e del sacrificio dei nostri padri, e potrebbero rendere più gravi le condizioni del trattato di pace.
Con animo colmo di dolore, ma con la serena coscienza di aver compiuto ogni sforzo per adempiere ai miei doveri, io lascio la mia terra. Si considerino sciolti dal giuramento di fedeltà al re, non da quello verso la Patria, coloro che lo hanno prestato e vi hanno tenuto fede attraverso tante durissime prove. Rivolgo il mio pensiero a quanti sono caduti nel nome d’Italia e il mio saluto a tutti gli Italiani. Qualunque sorte attenda il nostro Paese, esso potrà sempre contare su di me come sul più devoto dei suoi figli.
Viva l’Italia!
13 giugno 1946".
12 - Voti a favore della monarchia: 10. 718.502. Voti a favore della Repubblica: 12.718.641. Palmiro Togliatti intervenne direttamente per ritardare il rientro in Italia dei reduci dai campi di prigionia russi, in quanto ne temeva le testimonianze ai fini del voto. Non poterono votare neppure coloro che prima della chiusura delle liste elettorali (aprile 1945) si trovavano ancora fuori del territorio nazionale nei campi di prigionia o di internamento all'estero, o comunque non sul territorio nazionale. Di queste centinaia di migliaia di persone non furono ammesse al voto neppure quelle rientrate tra la data di chiusura delle liste e le votazioni. Furono inoltre escluse dal voto: la provincia di Bolzano con Bolzano, la Venezia Giulia con Gorizia, Trieste, Pola e Fiume, la città di Zara, in quanto non sotto il governo italiano, ma sotto il governo militare alleato o Jugoslavo (Zara, Pola e Fiume, non torneranno mai sotto il territorio italiano).
Secondo il messaggio di Umberto II si trattò di un colpo di Stato "in spregio alle leggi e al potere indipendente e sovrano della magistratura, il governo ha compiuto un gesto rivoluzionario assumendo, con atto unilaterale e arbitrario, poteri che non gli spettano e mi ha posto nell'alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire la violenza. Proclamo pertanto lo scioglimento del giuramento di fedeltà al Re, non a quello verso la Patria, di coloro che lo hanno prestato e che vi hanno tenuto fede attraverso tante durissime prove".
13 - Le spoglie dell'ultimo sovrano d'Italia riposano, per suo espresso volere, nell'Abbazia di Altacomba, a fianco di quelle del Re Carlo Felice, nella regione francese della Savoia dalla quale Casa Savoia ha tratto le sue origini storiche.
14 - Quando morì, l’unico segno di lutto in Italia fu portato dai calciatori della Juventus per volontà di Giovanni Agnelli.
15 - Costituì anche un’importante collezione di cimeli sabaudi e scrisse un vastissimo volume sulla medaglistica sabauda.
16 - Il documento, firmato dal marchese Alfredo Solaro del Borgo, è riportato nella Tesi di F. Nucera, Le relazioni diplomatiche tra il Regno d’Italia e la Santa Sede dal 1848 al 1946, A:A: 2007-2008, Pontifico Istituto Teresianum-Corso in Dirittto Consolare, Roma, pp. 55-56.
della stessa Autrice:
- per altre notizie sulla santità Sabauda vedere:
e su Casa Savoia:
Sui Savoia, in libreria, di
Cristina Siccardi:
- Elena. La regina mai dimenticata -
Ed. Paoline
- Mafalda di Savoia. Dalla reggia al lager di Buchenwald -
Ed. Paoline
- Giovanna di Savoia. Dagli splendori della reggia alle amarezze dell'esilio -
Ed. Paoline
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