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Margherita Bays nacque l’8 settembre 1815 a La Pierraz, paesello della parrocchia di Siviriez nel Cantone di Friburgo (Svizzera), seconda dei sette figli di Giuseppe Bays e Maria Giuseppina Morel, modesti agricoltori e buoni cristiani. Dotata di vivacità e di un’intelligenza eccezionale, frequentò per tre-quattro anni la scuola di Chavennes-les-Forts; imparando a leggere e scrivere; sin da bambina dimostrò particolare inclinazione alla preghiera, per cui smetteva di giocare con le compagne e si ritirava nel silenzio dell’orazione. Ad otto anni ricevé la Cresima ed a 11 anni fu ammessa alla Prima Comunione nella parrocchia di Siviriez. Verso i 15 anni fece un periodo di apprendistato come sarta, mestiere che esercitò per tutta la vita sia a domicilio, sia presso famiglie del vicinato, retribuita a giornata. Margherita scartò la possibilità, da più parti sollecitata, di diventare una religiosa, preferendo rimanere nubile e santificarsi in seno alla sua famiglia e presso la sua parrocchia, dove praticamente rimase per tutta la vita. I tre fratelli e le tre sorelle, le erano profondamente affezionate, e lei cucendo e facendo i lavori di casa, creò con loro un’atmosfera di buon umore e di pace. Ma dopo il matrimonio del fratello maggiore con una loro domestica, dovette sopportare l’ostilità e l’incomprensione della cognata, divenuta padrona di casa al suo posto. All’atteggiamento scontroso e villano della cognata Josette, che fra l’altro le rimproverava il tempo passato in preghiera o a lavorare in tranquillità col cucito, mentre lei sgobbava duro nei lavori dei campi, Margherita per lunghi 15 anni oppose un silenzio e una pazienza, frutto di una carità, che suscitava l’ammirazione di quanti la circondavano. Il suo agire servizievole e il sopportare le ingiurie ricevute, portò alla fine la cognata a riconoscere i propri torti e Margherita con grande carità cristiana, l’assistette anche sul letto di morte. Sia nella propria casa sia in quelle dove si recava per lavoro, invitava i presenti a recitare con lei una o due poste di rosario. Assisteva alla celebrazione della Messa ogni giorno e ciò costituiva “il sommo della sua giornata”; la domenica giorno di festa e preghiera, dopo la Messa, rimaneva in chiesa in preghiera davanti al SS. Sacramento, faceva la Via Crucis per un’ora e recitava il rosario. Le piaceva fare a piedi lunghi e faticosi pellegrinaggi ai Santuari Mariani, sia sola che con amici; viveva costantemente nella presenza di Dio e alimentava questo sentimento con una costante preghiera. Da laica piena di zelo, dedicò il suo tempo libero ad un apostolato attivo fra i bambini, insegnando loro il catechismo e formandoli ad una vita morale e religiosa, nel contempo preparava con sollecitudine le giovani alla futura condizione di spose e madri. Visitava gli ammalati ed i morenti; aiutava i poveri da lei definiti “i preferiti di Dio”; introdusse nella parrocchia le opere missionarie e contribuì alla diffusione della stampa cattolica. Nei rapporti con gli altri non tollerava la maldicenza e la calunnia, mettendo in pratica la regola d’oro: “Quando non hai visto una cosa, non devi parlarne; se l’hai vista, taci”. A 35 anni, nel 1853, fu operata all’intestino per un cancro; sconcertata dal tipo di cure che richiedeva, supplicò la Santa Vergine di guarirla, ma di soffrire diversamente, con altri dolori che la facessero partecipare più direttamente alla Passione di Gesù. Fu pienamente esaudita l’8 dicembre 1854, nello stesso momento che a Roma papa Pio IX proclamava il dogma dell’Immacolata Concezione. Ma da quel giorno la sua vita fu tutta trasformata e per sempre legata a Cristo sofferente; una ‘misteriosa malattia’ l’immobilizzava in estasi ogni venerdì alle 15 e per tutta la Settimana Santa, rivivendo nel corpo e nello spirito le sofferenze di Gesù, dal Getsemani al Calvario. Le apparvero nel corpo le cinque stimmate della crocifissione, che le procuravano un grande dolore, ma che accortamente nascondeva ai curiosi. Il vescovo di Friburgo, mons. Marilly, volle un consulto medico per verificare le estasi e le stimmate, che autenticò ufficialmente l’origine mistica dei fenomeni. Negli ultimi anni della sua vita, il dolore si fece sempre più intenso, ma sopportò tutto senza un lamento, in totale abbandono alla volontà di Dio; e in questo clima compose la bellissima preghiera: “O santa vittima, chiamami a Te, è giusto. Non tenere conto della mia repulsione; che io completi nel mio corpo ciò che manca alle tue sofferenze.Abbraccio la croce, voglio morire con Te. È nella piaga del tuo Sacro Cuore che desidero esalare l’ultimo sospiro”. Secondo il suo desiderio morì nella festa del Sacro Cuore il 27 giugno 1879; i parrocchiani di Siviriez e dintorni, all’annuncio della sua morte, dicevano fra loro: “La nostra santa è morta”. I funerali si svolsero il 30 successivo, con la partecipazione di numerosi sacerdoti e una gran folla di fedeli; fu sepolta nel cimitero di Siviriez; in seguito fu traslata nella chiesa parrocchiale, dove riposano nella Cappella di San Giuseppe. La fama di santità di cui godeva in vita, proseguì e si ampliò dopo la sua morte, per cui prima nel 1929 poi nel 1953 si iniziarono i processi canonici per la sua beatificazione, che dopo lungo iter, hanno portato alla proclamazione come Beata di Margherita Bays, da parte di papa Giovanni Paolo II, il 29 ottobre 1995. Fonte: www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/91709 |
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Nacque il 25 aprile 1523 da Pierfrancesco de' Ricci e Caterina Panzano e ricevette il nome di Sandrina. Rimasta orfana di madre a cinque anni, fu accolta nel monastero benedettino di S. Pietro in Monticelli, la cui badessa era una sua zia. Fin dall'infanzia si sentiva spinta da impulsi interiori alla meditazione della Passione, in cui si incentrerà tutta la sua futura vita spirituale. Desiderando abbracciare la vita religiosa, con l'aiuto della matrigna, visitò diversi monasteri, ma dopo aver visto come in molti Ordini lo spirito religioso fosse affievolito, fece cadere la sua scelta sul monastero domenicano di S. Vincenzo di Prato, fondato da un ventennio. A causa dell'opposizione del padre, Caterina fu sul punto di morire; ma guarita prodigiosamente, non appena ebbe il suo consenso, entrò, il 18 maggio 1535, appena dodicenne, nel monastero di S. Vincenzo, aiutata dallo zio, p. Timoteo Ricci, e prese il nome di Caterina. Nell'ambiente del monastero fu dapprima circondata dal disagio e dalla diffidenza delle consorelle, che non comprendevano i suoi atteggiamenti estatici e le sue grazie straordinarie; ritenuta affetta da squilibrio psichico, fu quasi per essere dimessa alla vigilia della professione religiosa (24 giugno 1536), che ella, peraltro, strappò con lacrime e preghiere. In Caterina si alternavano fasi di malattie straordinarie e straordinarie guarigioni, come quella operatasi improvvisamente nella notte tra il 22 e il 23 maggio 1540, anniversario della morte del Savonarola. Con eroica sopportazione e con docile umiltà la giovane suora seppe cattivarsi a poco a poco l'ammirazione e il rispetto delle consorelle. I tormenti fisici e morali furono la preparazione a prove ben più straordinarie, che noi conosciamo, in parte, attraverso i Ratti, rivelazioni fatte da Caterina alla maestra di noviziato, suor Maddalena Strozzi, per imposizione dello zio, p. Timoteo. Il primo giovedì di febbraio del 1542, Caterina ebbe la prima estasi della Passione, fenomeno mistico che si ripeté settimanalmente per dodici anni: dal mezzogiorno dei giovedì alle ore 16 del venerdì, riviveva momento per momento le diverse fasi del Calvario nella più intima comunione spirituale con la Vergine, e per l'intero corso della settimana portava impressi nella carne i segni di un'atroce sofferenza. La notizia del fenomeno fu ben presto conosciuta anche al di fuori del monastero e procurò l'intervento delle autorità, tra cui il generale delI'Ordine, Alberto Las Casas. Poiché anche nelI'ambiente della Curia si parlava dello straordinario caso di Caterina, Paolo III inviò un cardinale per un esame, il cui esito fu positivo. Il 9 aprile 1542 fu concesso a Caterina l'anello del mistico sposalizio. Il 14 dello stesso mese ebbe le stimmate, che rimasero visibili sul suo corpo, non corrotto dal tempo; nel Natale successivo le fu promessa una corona di spine, le cui punture la trafissero fino alla morte. In prosieguo di tempo ebbe altre visioni che la facevano meditare sullo stato delle anime, su quello della sua comunità e sulle condizioni della Chiesa, dilaniata dalla rivolta protestante, e in cui sentiva potente l'invito del Signore ad offrirsi in sacrificio per l'unità della sua Sposa. Resa immagine del Crocifisso e arricchita di doni spirituali, Caterina iniziò allora una silenziosa e feconda azione apostolica di cui rimane il ricchissimo epistolario. Si formò intorno a lei un gruppo di discepoli, conquistati talvolta miracolosamente, che ricorreranno a lei per preghiere, consigli, beneficenza; intrecciò relazioni epistolari con s. Filippo Neri, s. Carlo Borromeo, s. Maria Maddalena de' Pazzi, il ven. Alessandro Luzzago, con la famiglia granducale dei Medici, con la madre di Cosimo I, con Giovanna d'Austria, con Bianca Cappello e coi Capponi, gli Acciaioli, i Rucellai, i Salviati, i Buonaccorsi. Ma svolse l'azione più feconda nel monastero, dove fu molte volte sottopriora e priora per ben sette bienni durante i quali la comunità fiorì materialmente e numericamente, contando persino centosessanta religiose, e si perfezionò spiritualmente, divenendo un modello di regolare osservanza. La meditazione della Passione, che era il fulcro della spiritualità di Caterina, fu espressa per la comunità con il Cantico della Passione, composto di versetti scritturali e passato nelle pratiche abituali dell'Ordine nei venerdì di Quaresima. Morì il 2 febbraio 1590; fu beatificata nel 1732 e canonizzata nel 1746. L'Ordine Domenicano la ricorda il 4 febbraio. Fonte: www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/31400 |
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Nacque a Genova, il 14 ottobre 1831, da una famiglia di agiate condizioni economiche, di buon nome sociale e di profonda formazione cristiana. Fu battezzata lo stesso giorno, nella parrocchia di S. Donato, con i nomi di Rosa Maria Benedetta. Nel padre Francesco e nella madre Adelaide Campanella, come gli altri loro cinque figli, trovò i primi essenziali formatori della sua vita morale e cristiana. A dodici anni ricevette la Cresima in S.Maria delle Vigne, dall'arcivescovo card. Placido Tadini. Giovinetta, le fu impartita l'istruzione in casa, come era d'uso nelle famiglie fortunate del tempo. Di carattere sereno, amabile, aperto alla pietà e alla carità, e tuttavia fermo, seppe reagire altresì alla conflittualità del clima politico e anticlericale dell'epoca, che non risparmiò nemmeno alcuni componenti della famiglia Gattorno. A 21 anni (5 novembre 1852), sposò il cugino Gerolamo Custo, e si trasferì a Marsiglia. Un imprevisto dissesto finanziario turbò ben presto la felicità della novella famiglia, costretta a far ritorno a Genova nel segno della povertà. Disgrazie ancor più gravi incombevano: la primogenita Carlotta, colpita da un improvviso malore, rimase sordomuta per sempre; il tentativo di Gerolamo di far fortuna all'estero si concluse con un ritorno, aggravato da ferale malattia; la gioia degli altri due figli fu profondamente turbata dalla scomparsa del marito, che la lasciò vedova a meno di sei anni dalle nozze (9 marzo 1858) e, dopo qualche mese, dalla perdita dell'ultimo figlioletto. L'incalzare di tante tristi vicende segnò, nella sua vita, un cambiamento radicale che lei chiamerà la sua "conversione" all'offerta totale di sé al Signore, al suo amore e all'amore del prossimo. Purificata dalle prove, e resa forte nello spirito, comprese il vero senso del dolore, e si radicò nella certezza della sua nuova vocazione. Sotto la guida del confessore don Giuseppe Firpo, emise i voti privati perpetui di castità e di obbedienza nella festa dell'Immacolata 1858; in seguito anche di povertà (1861), nello spirito del Poverello di Assisi, quale terziaria francescana. Nel 1862 ricevette il dono delle stimmate occulte, percepito più intensamente nei giorni di venerdì. Già sposa fedele e madre esemplare, senza nulla sottrarre ai suoi figli – sempre teneramente amati e seguiti – in una maggiore disponibilità imparò a condividire le sofferenze degli altri, prodigandosi in apostolica carità: "mi dedicai con più fervore alle opere pie e a frequentare gli ospedali e i poveri infermi a domicilio, soccorrendoli con sovvenirli quanto potevo e servirli in tutto". Le Associazioni cattoliche in Genova se la contesero, così che pur amando il silenzio e il nascondimento, fu notato da tutti il carattere genuinamente evangelico del suo tenore di vita. Nel timore d'essere costretta ad abbandonare i figli, prega, fa penitenza, chiede consiglio. S. Francesco da Camporosso, cappuccino laico, pur mostrandosi trepidante per le gravi tribolazioni che le si profilano, la sostiene, incoraggiandola; similmente il Confessore e l'Arcivescovo di Genova. Avvertendo però sempre più insistenti i suoi doveri di madre, volle l'autorevole conferma dalla parola stessa di Pio IX, nella segreta speranza di essere sollevata. Il Pontefice, nell'udienza del 3 gennaio 1866, le ingiunse invece di iniziare subito la fondazione. Accettò dunque di compiere la volontà del Signore. Superate inoltre le resistenze dei parenti e abbandonate le opere di Genova, non senza dispiacere del suo Vescovo, diede inizio a Piacenza, alla nuova famiglia religiosa, che denominò definitivamente "Figlie di S.Anna, madre di Maria Immacolata" (8 dicembre 1866). Vestì l'abito religioso il 26 luglio 1867, e l'8 aprile 1870 emise la professione religiosa insieme a 12 Consorelle. Nello sviluppo dell'Istituto fu collaborata dal P. Giovanni Battista Tornatore, dei Preti della Missione, il quale, espressamente richiestone, scrisse le Regole e fu poi ritenuto Confondatore dell'Istituto. Affidata totalmente alla Provvidenza divina, e animata fin dal principio da un coraggioso slancio di carità, Rosa Gattorno diede inizio alla costruzione dell'Opera di Dio, come l'aveva chiamata il Papa, e come la chiamerà sempre anche lei eletta a cooperarvi, in spirito di dedizione materna, attenta e sollecita verso ogni forma di sofferenza e miseria morale o materiale, con l'unico intento di servire Gesù nelle sue membra doloranti e ferite, e di "evangelizzare innanzitutto con la vita". Nacquero varie opere di servizio ai poveri e agli infermi di qualsiasi malattia, alle persone sole, anziane, abbandonate, ai piccoli e agli indifesi, alle adolescenti e alle giovani "a rischio", cui provvedeva a far impartire un'istruzione adeguata, e al successivo inserimento nel mondo del lavoro. A queste forme si aggiunse ben presto l'apertura di scuole popolari per l'istruzione ai figli dei poveri, e altre opere di promozione umano-evangelica, secondo i bisogni più urgenti del tempo, con una fattiva presenza nella realtà ecclesiale e civile: "Serve dei poveri e ministre di misericordia" chiamava le sue figlie; e le esortava ad accogliere come segno di predilezione del Signore il servizio ai fratelli, compiendolo con amore e umiltà: "Siate umili …, pensate che siete le ultime e le più miserabili di tutte le creature che prestano alla Chiesa il loro servizio …, e hanno la grazia di farne parte". A meno di 10 anni dalla fondazione, l'Istituto ottenne il Decreto di Lode (1876) e l'approvazione definitiva, nel 1879. Per le Regole, si dovette attendere fino al 26 luglio 1892. Molto stimata e apprezzata da tutti, collaborò a Piacenza anche con il vescovo, mons. Scalabrini, ora beato, soprattutto nell'Opera a favore delle Sordomute, da lui fondata. Nel 1878, inviava già le prime Figlie di S.Anna in Bolivia, poi in Brasile, Cile, Perù, Eritrea, Francia, Spagna. A Roma, dove aveva iniziato l'opera sua dal 1873, organizzò scuole maschili e femminili per i poveri, asili nido, assistenza ai neonati figli delle operaie della Manifattura dei tabacchi, case per ex prostitute, donne di servizio, infermiere a domicilio ecc. Ivi sorse la Casa generalizia, con l'annessa chiesa. In tutto, alla sua morte, 368 Case nelle quali svolgevano la loro missione 3500 Suore. Così visse fino al febbraio del 1900, quando colpita da una grave influenza, si peggiorò rapidamente: il suo fisico, messo a dura prova da penitenze, frequenti estenuanti viaggi, fitta corrispondenza epistolare, preoccupazioni e grandi dispiaceri, non resse più. Il 4 maggio ricevette il Sacramento degli infermi, e due giorni dopo, il 6 maggio, alle ore 9, compiuto il suo pellegrinaggio terreno, si spense santamente nella Casa generalizia. La fama di santità che già l'aveva circondata in vita, esplose in occasione della sua morte e crebbe, ininterrottamente, in tutte le parti del mondo. Espressione di un singolare disegno di Dio, nella sua triplice esperienza di sposa e madre, vedova, e poi religiosa-Fondatrice, Rosa Gattorno ha ben onorato la dignità e il "genio della donna" nella sua missione al servizio della umanità e della diffusione del Regno. Pur sempre fedele alla chiamata di Dio, e autentica maestra di vita cristiana ed ecclesiale, rimase soprattutto essenzialmente madre: dei suoi figli, che costantemente seguì; delle Suore, che profondamente amò; e dei bisognosi, dei sofferenti e degli infelici, nel cui volto contemplò quello stesso di Cristo, povero, piagato, crocifisso. Il suo carisma si è diffuso nella Chiesa col sorgere di altre forme di vita evangelica: Suore di vita contemplativa; Associazione religiosa Sacerdotale; Istituto secolare e Movimento ecclesiale di laici, attivamente operante nella Chiesa in quasi tutte le parti del mondo. Fonte: www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/90016 |
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La beata Cristina nacque nel 1242 a Stommeln (Colonia), a tredici anni volendo partecipare ad una vita più religiosa, entrò nel beghinaggio di Colonia. Il beghinaggio era una Comunità di beghine o l’insieme degli edifici (piccole casette) dove alloggiavano le beghine; l’Istituto beghinale ebbe origine intorno al 1170 in Belgio, le aderenti fanno voto di povertà, castità e obbedienza, ma solo temporaneamente, alcune di esse lasciano la comunità per sposarsi; trascorrono il tempo in preghiera, visitando i malati e facendo lavori di cucito e ricamo. Numerosissimi nel XIII secolo nei Paesi Bassi e in Germania, esistono tuttora in Belgio e Olanda. Ma Cristina, qualche anno dopo dovette lasciare la comunità, che tanto la soddisfaceva, per una malattia che l’aveva colpita. Il 20 dicembre 1267 conobbe un giovane frate domenicano svedese, studente a Colonia, Pietro di Dacia († 1289) con il quale entrò in sintonia spirituale con una prevalenza epistolare; lo stesso domenicano scrisse la ‘Vita’ della beata fino al 1286. La grande mistica ebbe estasi ed apparizioni e nel 1269 ricevé le stimmate, che divenivano visibili in certi periodi dell’anno, sulle mani e sui piedi; provata per tutta la vita da molte sofferenze, sopportate guardando sempre al valore della Croce, poté godere di relativa tranquillità dal 1289 alla morte, avvenuta il 6 novembre 1312, a Stommeln, dove era nata. Nel 1342 le sue reliquie furono trasferite a Nideggen; dal 1568 riposano nella chiesa di Jülich. Il suo culto fu approvato da papa s. Pio X, il 22 agosto 1908, la sua festa si celebra il 6 novembre. Immagine e testo tratti da: www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/91331 |
DODONE DI HASKE,
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Giovane pio e timorato di Dio, dopo la morte di suo padre, Dodone fu costretto contro la sua volontà al matrimonio, ma qualche anno più tardi abbracciò la vita religiosa, andandosi a ritirare nell’abbazia premostratense di Mariengaard, mentre sia la moglie sia la madre entravano nel vicino monastero di Bethlehem. Desideroso di servire il Signore in solitudine, chiese all’abate Siardo di potersi rifugiare in qualche luogo appartato, per cui venne inviato a Bakkeveen, dove prese a condurre una vita di rigida disciplina, abbandonandosi a lunghe veglie e ad estenuanti digiuni e mortificando il suo corpo con dolorosi supplizi. La fama di santità, che si era andata via via acquistando, richiamò su di lui l’attenzione di molti infermi, che andavano a visitarlo fiduciosi di essere risanati, verificandosi in molti casi miracolose guarigioni. Sulla fine del 1225 o al principio dell’anno successivo ottenne di trasferirsi nel romitaggio di Haske, ma anche lì venne raggiunto da quanti speravano di ottenere dal Signore, per suo tramite, la grazia di guarire dai loro mali. Secondo una notizia del contemporaneo Tommaso Cantimpré, Dodone avrebbe lasciato per qualche tempo il suo romitaggio di Haske per recarsi a predicare tra i suoi Frisoni onde esortarli ad abbandonare il barbaro costume dell’odio ad oltranza e della vendetta personale. Senza alcun fondamento, invece, il domenicanoFrancois-Hyacinthe Choquet lasciò scritto nella sua opera “Sancti Belgi ordinis Praedicatorum” che Dodone era appartenuto all’Ordine di S. Domenico. Il 30 marzo 1231, mentre era assorto in preghiera nel suo eremo di Hanske, Dodone perì tragicamente travolto nel crollo della sua cella, rovinatagli improvvisamente addosso. Subito dopo la morte sembra gli siano comparse le stimmate, che rimangono tuttavia molto dubbie. Sulla sua tomba ad Haske i Premostratensi eressero una loro casa e la chiesa di Nostra Signora di Rosendaal. Oltre che là, Dodone è venerato anche a Bakkeveen; la festa ricorre il 30 marzo. Immagine e testo tratti da: www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/93642 |
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Dorotea nacque il 6 febbraio 1347 in Prussia, nella cittadina di Montau, sulla Vistola. Le antiche biografie raccontano che fin da giovanissima mortificava il proprio corpo e che ricevette le stimmate invisibili, i cui dolori tenne nascosti. Andò sposa a sedici anni, nella cittadina di Danzica (Polonia), ad un maturo armaiolo, Adalberto, benestante e buon cristiano, ma dal carattere difficile. Ebbero nove figli che morirono tutti in giovane età, eccezion fatta per una che vestirà l’abito benedettino a Kulm. A lei la santa dedicherà un piccolo trattato di vita spirituale. A trentuno anni Dorotea ebbe le prime estasi, lo stato di amore languente per il Signore. Inizialmente ricevette dal marito solo rimproveri, in seguito però si impegnarono di comune accordo alla continenza e andarono pellegrini ad Aquisgrana. Durante un successivo viaggio a Roma di Dorotea, per venerare le tombe degli apostoli, Adalberto morì (1390) e Dorotea, profondamente trasformata, si trasferì a Marienwerder. Qui incontrò il suo direttore spirituale, Giovanni da Marienwerder (1343-1417), dell’Ordine Teutonico, professore a Praga. Era un saggio teologo e, accortosi della grandezza spirituale della penitente, iniziò nel 1392 a trascrivere le sue visioni e il suo insegnamento. Nel 1393 Dorotea si ritirò da reclusa in un locale nei pressi della cattedrale, facendo ogni giorno la comunione, cosa a quei tempi eccezionale. Con l’esempio edificava quanti andavano a trovarla e le vennero attribuite diverse conversioni. Non frequentò mai una scuola, ma aveva un discreto bagaglio culturale, grazie ai suoi viaggi e ai contatti con eminenti ecclesiastici. Oltre all’Ordine Teutonico, fu vicina alla spiritualità domenicana ed ebbe come modello s. Brigida, le cui reliquie passarono per Danzica nel 1374 e di cui conobbe la vita e le rivelazioni. Grazie all’intuito del confessore, tra il 1395 e il 1404, vennero alla luce diverse opere. Furono edite due “vitae” dai Bollandisti (una rimase inedita) e il “Septililium”, in cui i carismi della mistica sono presentati come effusioni straordinarie dello Spirito Santo. Sono sette le grazie ricevute da Dio: “de caritate”, “de Spiritus Sanctus missione”, “de Eucharistia”, “de contemplatione”, “de raptu”, “de perfectione vitae christianae”, “de confessione” . C’è poi il “Liber de festis” in cui le visioni sono riferite secondo le ricorrenze liturgiche. La dottrina di Dorotea si propone di rinnovare l’uomo attraverso tre percorsi: rimuovere il peccato che toglie all’uomo la somiglianza a Dio, rendendolo simile alle bestie, purificarsi attraverso l’umiltà e le penitenze che fanno crescere le virtù teologali e morali, partecipazione alla Passione di Cristo, dedizione ai poveri, desiderio dell’Eucaristia. Attraverso un lungo percorso di rinnegamento di sé l’anima è successivamente, in modo graduale, trasformata dallo Spirito Santo. Lo stadio ultimo è quello “unitivo”, che inizia col rinnovamento del cuore. Gesù parla a Dorotea, contrapponendo i suoi peccati alla beatitudine celeste, portandola al matrimonio spirituale con Dio. L’anima sente la presenza e la volontà divina, vivendo in sua costante uniformità, come in una dimora, ricevendo virtù, doni, beatitudini, frutti. È la perfezione cristiana, che si può raggiungere solo con la grazia del Signore. Dorotea morì a Marienwerder il 25 giugno 1394 e fu subito venerata come santa e patrona della Prussia. È rappresentata con in mano il libro delle rivelazioni, la corona del rosario e cinque frecce, le stimmate. La sua spiritualità è stata paragonata a quella di S. Brigida e S. Caterina da Siena. Fonte: www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/59380 |
LUCIA (BROCCADELLI) DA NARNI, Religiosa Domenicana
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Lucia da Narni, nata il 13 novembre 1476, fin dalla nascita fu favorita di grazie celesti. A quattro anni tutta la sua gioia era di intrattenersi con una graziosa immagine del Bambino Gesù che chiamava il suo “Cristarello”. Allietato da superne visioni, il suo cuore si staccò sempre più dalla terra, e a dodici anni fece voto di perpetua verginità. L’angelica purità di Lucia dava ancor più risalto alla sua naturale bellezza e i suoi nobili parenti vagheggiavano per lei le più ricche nozze. Lucia si scherniva con forza, ma essi giunsero fino alla violenza per piegare la sua volontà. Allora, per comando della Madonna, e dietro il consiglio del suo confessore, accettò di sposare un nobile giovane, il quale, per l’amore che le portava, s’impegnò di rispettare il voto di Lucia, sebbene in seguito mettesse a dura prova la sua virtù. Per cinque anni Lucia visse nella casa coniugale fra lacrime, preghiere e penitenze, per mantenere intatto il fiore del suo candore, finché ottenne di dividersi dal marito, che a sua volta, si fece Francescano, potendo cosi vestire l’Abito del Terz’Ordine di San Domenico. Fu allora dai superiori mandata nel Monastero di Viterbo dove, la notte del 25 febbraio 1496, ricevette le sacre Stimmate. Per volontà del Duca di Ferrara, che la venerava come santa, e per ordine del Pontefice, si recò a Ferrara per fondarvi un Monastero del Terz’Ordine, del quale fu la prima Priora. Morto il Duca, alcune suore, mosse dalla gelosia, ottennero che a Lucia fosse tolto ogni privilegio e messa all’ultimo posto, dove così umiliata passò i trentanove anni di vita che le restavano, consumandosi come un puro olocausto. Morì il 15 novembre 1544 a Narni. E’ sepolta nella cattedrale. Papa Clemente XI il 1 marzo 1710 ha confermato il culto. Immagine e testo tratti da: www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/90818 |
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Maria Grazia Tarallo nacque a Barra allora Comune autonomo, poi divenuto un quartiere della zona orientale di Napoli, il 23 settembre 1866 da famiglia benestante, seconda di sette figli. Trascorse l’infanzia e l’adolescenza formandosi ad una vita di pietà e manifestando già una precoce primavera dello spirito; a 25 anni, superata l’accanita opposizione dei genitori Leopoldo e Concetta Borriello, entrò nel 1891 nel monastero delle Crocifisse Adoratrici dell’Eucaristia in S. Giorgio a Cremano, accolta dalla fondatrice Maria Pia della Croce - Notari, che appena un anno prima aveva fondato la nuova Congregazione, il cui principio ispiratore era la riparazione dei peccati del mondo, in un‘epoca in cui imperava la massoneria e la religione era contrastata in ogni modo. Si dava un culto speciale alla Passione di Cristo e ai dolori di Maria, con l’adorazione perpetua del SS. Sacramento e penitenza austera, il tutto era condensato nel nome: Crocifisse Adoratrici, inoltre le suore erano dedite all’aiuto delle parrocchie e la preparazione sin dal grano, delle ostie e del vino per la celebrazione della Messa. Maria Grazia, che aveva preso il nome di Maria della Passione, aderì con entusiasmo a questo spirito e diventerà man mano una vera vittima riparatrice e il centro di tutta la sua preghiera e sofferenza sarà la santificazione dei sacerdoti. Si allontanò, nei suoi 20 anni da religiosa, solo due volte da S. Giorgio a Cremano, nel 1894 per due anni, insieme ad altre undici suore a fondare una nuova casa a Castel S. Giorgio nel salernitano e per altri due anni nella casa istituita nel complesso monastico di S. Gregorio Armeno, nel centro antico di Napoli. Nel 1910 fu fatta maestra delle novizie, compito che svolse con amore e dedizione, nel contempo già da tempo aveva visioni, estasi, stigmate, chiaroveggenze, profezie, vessazioni diaboliche, che attirarono su di lei l’attenzione dei contemporanei, accrescendo la sua fama di santità. Ebbe il dono della profezia, che lasciava gl’interessati stupiti, fra i quali il card. Prisco a cui predisse la sua consacrazione ad arcivescovo di Napoli; scrutava i cuori, aveva delle estasi; la Madre Fondatrice e il direttore spirituale padre Fontana, asserirono che suor Maria della Passione aveva delle stimmate sui piedi e sul petto; infine vi furono delle guarigioni prodigiose, a cui assistettero la Fondatrice e altre suore. Consumata dalle lunghe veglie di preghiera e dalle penitenze, morì a 46 anni a S. Giorgio a Cremano, dov’è tumulata, il 27 luglio 1912. Fonte: www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/90840 |
MARIA DI OIGNIES,
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Maria d'Oignies, beghina e mistica, nacque a Liegi nel 1177 circa da famiglia benestante. All'età di 14 anni si sposò, ma in seguito decise con il marito di dedicarsi ad una vita apostolica di castità e carità, lavorando in un lebbrosario. All'età di 30 anni, nel 1207, si ritirò in una comunità di conversi, ossia di suore e fratelli laici, coordinata da un gruppo di preti, fra cui Jacques de Vitry, futuro Cardinale d'Acri in Palestina e protettore del movimento delle beghine. Maria ebbe molta influenza spirituale su Jacques, che ne scrisse la biografia e che la aiutò la fondare la sua comunità autosufficiente di beghine e begardi. Nonostante le accuse di eresia che sarebbero state mosse al movimento negli anni successivi, Maria fu sempre molto ortodossa nelle sue convinzioni, tant'è che appoggiò con entusiasmo la Crociata contro i catari del 1209. Nel 1212 si racconta che Maria avesse ricevuto le stimmate, ben 12 anni prima di San Francesco. Morì nel 1213 all’età di 36 anni.
Immagine e testo tratti da: www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/59030 |
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La beata Mariam Thresia Mankidijan è stata la seconda religiosa indiana elevata agli onori degli altari da papa Giovanni Paolo II il 9 aprile 2000, dopo la beata Alfonsa dell’Immacolata Concezione. Nacque nello Stato del Kerala in India a Putenchira, il 26 aprile 1876 in una nobile famiglia decaduta, fu educata cristianamente dalla madre, che le morì quando aveva 12 anni, già giovanissima si dedicò alla cura dei malati e dei moribondi, consacrando la sua vita al Signore. Non riuscendo a farsi monaca né eremita, con tre amiche si mise al servizio della chiesa parrocchiale, visitando e confortando i più bisognosi, gli orfani e gli ammalati gravi, anche di vaiolo e lebbra. Non fu compresa subito né dall’Autorità ecclesiastica, né dagli abitanti del suo villaggio che non approvavano, che contrariamente all’usanza che le ragazze non dovevano uscire da sole, lei invece contravveniva a ciò. Fu gratificata da esperienze mistiche, visioni e fenomeni straordinari, l’esperienza dei dolori della crocifissione e stimmate; tutto ciò specie nei primi tempi suscitò intorno a sé, malintesi, derisioni, sospetti. Il suo direttore spirituale padre Giuseppe Vithayathil, la consigliò molto nell’attuazione di fondare una famiglia religiosa e dopo un tentativo di vita comunitaria presso le Carmelitane Scalze, ebbe l’autorizzazione del vescovo di istituire la Congregazione delle Suore della Sacra Famiglia. Scopi principali erano l’educazione cristiana della gioventù femminile, l’assistenza ai malati specie i più gravi e moribondi, l’aiuto ai più bisognosi, oltre naturalmente la preghiera e la meditazione. Guidò la nuova Congregazione per dodici anni, formando con grande cura le novizie, fondando tre nuovi conventi, due scuole, due convitti, una casa di studio e un orfanotrofio, in pochi e difficili anni, mentre nel mondo infuriava la Prima Guerra Mondiale. In seguito ad una ferita divenuta cancrenosa morì a 50 anni a Kuzhikkattusseny l’8 giugno 1926. La sua Opera si è diffusa in tante parti del mondo e nell’anno 2000 contava 1592 suore e 119 novizie. Fonte: www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/90017 |
OSANNA ANDREASI,
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Nacque a Mantova il 17 gennaio 1449 dai nobili Nicola Andreasi e Agnese Gonzaga. Desiderando fin dalla prima giovinezza di appartenere all'Ordine della Penitenza di s. Domenico, rifiutò le nozze e vestì a quindici anni l'abito di terziaria domenicana, serbandolo fino alla morte, avvenuta in Mantova il 18 giugno 1505. Fu chiamata spesso a compiti di suprema responsabilità, come la reggenza del ducato di Mantova, in assenza di Francesco II Gonzaga, della cui gratitudine seppe egregiamente servirsi per una continua opera di assistenza verso i poveri e i bisognosi della città o verso i familiari del medesimo Francesco, come Elisabetta, sposa del duca d'Urbino, che confortò nel durissimo esilio. Dalla storia della sua vita, tramandata dal domenicano Francesco Silvestri da Ferrara e dal benedettino Girolamo da Mantova, entrambi suoi contemporanei, appare come l'Andreasi componesse mirabilmente l'apparente dissidio fra vita contemplativa e vita attiva, travaglio di quelle grandi anime che l'interiore vocazione spingerebbe alla solitudine e la pietà per il dolore umano trattiene invece nel mondo. L'Andreasi assolse dunque i doveri che il suo rango non le risparmiava e il suo spirito si assumeva con fervore apostolico, confortata dai doni soprannaturali di cui Iddio si compiacque di ricolmarla: lo sposalizio mistico, l'incoronazione di spine, le stimmate, visibili, però, come semplice turgore e non accompagnate da lacerazione di tessuti, infine la trafittura del cuore che divenne il suo emblema iconografico. Il corpo della beata è custodito e venerato nel Duomo di Mantova; il culto ne fu permesso da Leone X e Innocenzo XII, nel 1694, e la festa collocata nel giorno anniversario della morte, il 18 giugno. Immagine e testo tratti da: www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/58275 |
STEFANA (STEFANIA) QUINZANI, Religiosa DomenicanaOrzinuovi, 1457 - Soncino, 1530 |
La Beata Stefana nacque ad Orzinuovi, ma, dopo un lungo soggiorno a Crema, visse poi a Soncino, dove nel convento dei Domenicani era luce a tutti di mirabile santità. Il Beato Domenicano Matteo Carreri, quando era ancora una piccola bimba, le predisse una ferita del divino amore. A sette anni Stefana fece voto di castità, e Gesù, apparendole, le mise al dito un anello prezioso. A 15 anni prese l’Abito del Terz’Ordine Domenicano, ma già in precedenza n’era stata rivestita dal glorioso Padre Domenico in una celeste visione. Fu cinta dagli angeli del cingolo di S. Tommaso, restando per sempre confermata in una perfetta purità. La Beata Stefana fa parte di quell’eletto stuolo di vergini Gusmane che hanno portato nel corpo e nello spirito tutti i dolori del Salvatore. Per quarant’anni, infatti, ogni venerdì, sperimentò l’intera Passione di Gesù e portò impresse nel proprio corpo le sacre Stimmate. Come a S. Caterina da Siena le fu cambiato miracolosamente il cuore, ed ebbe il dono di conoscere i più occulti pensieri e le cose future. Tanta copia di celesti carismi fruttificarono in un intenso apostolato che si estese ad ogni classe di persone. Un giorno Gesù, apparendole, le disse: “Figliola, tu mi hai fatto il dono, completo della tua volontà, quale ricompensa desideri?”; “Non voglio altra mercede che Te medesimo”, rispose Stefana. Mori santamente pronunziando le parole di Gesù sulla croce: “In manus tuas Domine, commendo spiritum meum!” Papa Benedetto XIV il 14 dicembre 1740 ha confermato il culto. Le sue reliquie, nel 1988, sono state riportate a Soncino. Immagine e testo tratti da: www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/57650 |
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Fonte: www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/91076 |
GIUSEPPINA COMOGLIO,
Laica OFS
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Nel centro storico di Torino vi è la parrocchia di S. Tommaso Apostolo, la cui prima costruzione risale al 1100 ca., grande centro di spiritualità francescana per l’annesso convento che per molti anni fu ‘Provincia Francescana’, è stata ed è inserita nel grande movimento spirituale che interessò specie nell’Ottocento e nel Novecento, la storica città di Torino e che produsse tante figure di altissima santità, operanti specie nel campo del sociale, tanto da meritarsi il titolo di “Città dei Santi”. Molti personaggi del secolo scorso attendono ancora il riconoscimento ufficiale della Chiesa della loro santità; alcuni di questi riposano nella suddetta Chiesa di S. Tommaso: le Serve di Dio Teresa e Giuseppina Comoglio, Lucia Bocchino Rajna, il servo di Dio Leopoldo Musso ed il venerabile Paolo Pio Perazzo. Le Serve di Dio Teresa e Giuseppina Comoglio, vissero sulla via della santità sin da bambine, figlie di Giuseppe Comoglio e della sua seconda moglie Rosa Perello, esse ebbero dai pii e devoti genitori, un’educazione cristiana, ereditando una grande devozione per il SS. Sacramento e per la Madonna. Il padre, giardiniere nelle ville signorili, rimase vedovo con una bambina di nome Giuseppina, poi morta a cinque anni, e sposò in seconde nozze Rosa Perello donna virtuosa, in seguito additata come “un modello delle donne cristiane”. I coniugi Comoglio ai quali era nata Teresa il 27 giugno 1843 a Piobesi, ebbero un’altra bimba (Agnese) che però morì a tre anni (la mortalità infantile era una piaga di quei tempi) e in seguito ancora un’altra bimba Giuseppina, nata il 17 marzo 1847 a S. Vito sulla collina torinese, alla quale fu dato il nome della sorellina morta. Papà Giuseppe riuscì a trovare un impiego come segretario in una fabbrica poco distante dal ‘Convitto Vedove-Nubili’, continuando comunque a fare il giardiniere, questo permise alla famiglia di spostarsi in via Monte dei Cappuccini 27; ma il 13 ottobre 1848 attaccato da una forte febbre e dopo due inutili salassi, il papà Giuseppe morì, lasciando solo Rosa con le piccole Teresa di 5 anni e Giuseppina di un anno. La povera vedova si trovò in miseria, svolgendo qualche umile compito nel Convitto su accennato, ma non mancò mai di dare alle figlie una profonda educazione religiosa, anzi fu protagonista di un piccolo prodigio, un giorno che non aveva i soldi per comprare il pane alle bambine, si fermò a pregare davanti alla Madonna del Pilone e lì trovò tra i sassi 3 monete e 40 centesimi, con cui poté comprare il pane. Per questo insegnò alle figlie a pregare spesso davanti a quel pilone e che in seguito diventò un punto di ritrovo di parecchi fedeli, per la recita del Rosario, al punto che i frati acconsentirono ad allargare la piazzetta antistante. Inoltre mamma Rosa conduceva spesso Teresa e Giuseppina alla Basilica del Corpus Domini per alimentare la loro devozione Eucaristica. Teresa la più grande, verso i 14 anni fu ammessa tra le Figlie di Maria della parrocchia della Gran Madre di Dio, seguita ben presto dalla sorella Giuseppina, progredendo quindi unite sulla via della perfezione; da allora si alzarono alle quattro e trenta del mattino per il canto delle lodi e per partecipare alla S. Messa, per poi cominciare il lavoro di fioraie, che svolgevano eccellentemente, specie Giuseppina, con i loro fiori di seta, oro e argento. Il precedente lavoro di modiste, fu da loro lasciato per la salute cagionevole di entrambe; invece fare le fioraie, permetteva di lavorare con indipendenza a casa e di avere tempo per le opere di carità. La vasta clientela era ammirata del loro lavoro, ma anche edificata dalla loro grande pietà, dalla pratica delle virtù cristiane e dallo spirito di preghiera che le animava. Con lo scopo di conseguire una più intensa perfezione cristiana, il 14 novembre 1883, vollero entrambe entrare nel Terz’Ordine Francescano, in seno al quale si sentirono sempre come suore, che pur non vivendo in forma claustrale, potevano però nell’ambito della propria casa dedicarsi all’apostolato in forma più agevole. In altre parti d’Italia le donne così votate, venivano chiamate “monache di casa”, sotto la guida di vicini conventi dei vari Ordini Religiosi. Intanto nella loro casa diventata come un monastero, si prese a venerare una statua della Madonna sotto il titolo della Gran Madre di Dio e un’oleografia del S. Cuore; sia la statua che il quadro, costituiranno il centro devozionale del loro amore per la Vergine e per il S. Cuore di Gesù. Il 1° novembre 1866 le due sorelle furono aggregate alla Fraternità di S. Tommaso, dov’era dirigente il venerabile Paolo Pio Perazzo, il ferroviere santo di Torino. Dopo la morte del padre, la famiglia aveva dovuto traslocare in vari posti, finché con l’interessamento del gesuita Enrico Vasco, loro direttore spirituale, furono sistemate nella casa parrocchiale di S. Massimo in Via dei Mille 28 secondo piano; si trattava di due stanzette semibuie ma comunicanti con una piccola tribuna prospiciente l’altare maggiore, ottima posizione per la visita diurna e notturna al SS. Sacramento; così s’intensificò in loro la devozione al S. Cuore “prigioniero d’Amore” nel Tabernacolo. Nonostante le loro numerose istanze all’arcivescovo di Torino, per fare rimanere aperte le chiese durante il giorno e per indire celebrazioni riparatrici al S. Cuore, esse però non riuscirono nell’intento. In questo periodo conobbero Paolo Pio Perazzo, il quale anch’egli innamorato dell’Eucaristia, recepì i loro desideri e le affiancò nell’opera di fondazione dell’Arciconfraternita dell’Adorazione Quotidiana Universale Perpetua, divenendone il maggiore propagatore, l’Associazione aveva due intenzioni, “risarcire” Cristo delle offese ricevute e “placare” la Divina giustizia. L’Opera dell’Adorazione cominciò nel 1870, superando vari ostacoli, come derisioni e ingiurie che piovevano loro addosso, venendo trattate anche da visionarie; fino al 1890 ebbe un carattere privato con una ristretta cerchia di circa duemila aderenti, con sede primaria nella Chiesa di S. Tommaso di Torino. Nel 1891 Teresa Comoglio si offerse vittima al Signore per l’Opera dell’Adorazione, il Signore l’esaudì e fin dal maggio 1891 si mise a letto, colpita da violente contrazioni nel corpo, alquanto gibboso; la medicina poteva far ben poco e il 2 giugno 1891 Teresa a 47 anni, donava la sua anima a Dio. I funerali videro la partecipazione di un’immensa folla perché era considerata una santa. L’anno successivo 1892, l’arcivescovo di Torino, diede l’approvazione diocesana all’Opera dell’Adorazione; per concludere su Teresa Comoglio, bisogna aggiungere, che dietro suo desiderio, il medico curante dott. Bonelli, la sera seguente al suo decesso alle ore 22, estrasse dal corpo di Teresa il cuore e lo portò al laboratorio Riberio, consegnandolo al flebotomo Ballario. Questi dopo averlo esaminato attentamente, riscontrò una ferita al ventricolo destro, come da una pugnalata, la cui ferita era larga nove millimetri, presente sin dai 7-8 anni di età e portata da Teresa fino alla morte. Il cuore, immerso nella formalina, è posto in un loculo preparato nella sacrestia di S. Tommaso. Giuseppina Comoglio sopravvisse alla sorella otto anni, durante i quali dovette cambiare residenza andando a S. Donato, accolta con gioia dalle Figlie di Maria. Il resto della sua vita non fu facile, divenne oggetto di critiche, calunnie, pettegolezzi giornalistici circa la statua della Madonnina, che operava anche prodigi, poi con la preoccupazione del pagamento delle rate per la costruzione della nuova Casa delle Figlie di Maria, delle quali era stata nominata superiora. Anche lei come la sorella, fu oggetto di fenomeni mistici, come la mancata bruciatura delle mani su una candela accesa, e le estasi; il dottor Bonelli che aveva curato anche Teresa, annotava diligentemente i fenomeni; un consulto medico nel 1892 la dichiarò prossima alla morte, per le violente trafitture che sentiva al cuore, che si arrestava improvvisamente per poi riprendere a battere e invece visse ancora altri sette anni, sempre tormentata da intensi e dolorosi mali. Morì il 2 maggio 1899 a 52 anni anch’ella a Torino, l’autopsia effettuata da valenti medici non esitò a dichiarare la presenza reale di stimmate, benché invisibili. Fu sepolta nel sepolcro dove già riposavano la madre e la sorella Teresa; nel 1930 il 30 gennaio i resti delle due venerate sorelle furono poi trasportati in un apposito loculo posto nella Chiesa di S. Tommaso. La loro tomba, come pure quella del loro grande collaboratore e realizzatore, della comune “Adorazione Quotidiana Universale Perpetua” poi approvata dalla santa Sede nel 1911, sono meta di pellegrinaggio. Unite nella vita, unite nel sepolcro e si spera caso eccezionale nella storia della Chiesa moderna, unite nella gloria delle anime elette e beatificate. La loro causa congiunta fu introdotta nel 1941. Fonte: www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/91786 |
LUISA PICCARRETA, Laica Terziaria
Domenicana
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Ecco un’altra grande e pur
nascosta figura di vittima di espiazione, consumata
sull’altare quotidiano del proprio letto di dolore,
portando sul proprio corpo una sofferenza, che le precluse
le gioie della cosiddetta felicità terrena, ma
per rivelarle le gioie più gratificanti, della
vita dello spirito unito con Dio. Luisa Piccarreta nacque
a Corato (Bari) il 23 aprile 1865, quarta delle cinque
figlie di Vito Nicola Piccarreta e Rosa Tarantino. Trascorse
la sua fanciullezza e adolescenza in una masseria agricola,
di cui il padre era fattore, situata al centro delle
Murge, in località Torre Desolata. Ricevette
la Prima Comunione e Cresima a nove anni e da quel momento
imparò a rimanere in preghiera per ore intere;
a undici anni si iscrisse all’Associazione delle
Figlie di Maria. Verso i tredici anni ebbe la visione
di Gesù, che portando la Croce sulla via del
Calvario e alzando gli occhi verso di lei, pronunziò:
“Anima, aiutami”. Da allora si accese in
lei un desiderio insaziabile di patire con Gesù
le sue sofferenze, per la salvezza delle anime; a 16
anni fece il voto di offrirsi come vittima di espiazione.
Iniziarono per lei quelle sofferenze fisiche, dovute
alle stimmate invisibili e agli attacchi del demonio,
che aggiunte a quelle spirituali e morali, la portarono
a vivere con eroismo le virtù cristiane. Luisa
per ricevere conforto ed aiuto per superare queste prove
così sofferte, si rivolgeva con la preghiera
alla Madonna. Subì fenomeni particolari, di cui
il più eclatante fu quello che era soggetta ad
una rigidità cadaverica, anche se dava segni
di vita e non esistevano cure che potessero risolvere
questa indicibile pena. La famiglia si rivolse alla
scienza medica, ritenendo questi fenomeni una malattia,
ma come detto senza successo e allora fu interpellato
un sacerdote, provvisoriamente ritornato nella sua famiglia,
l’agostiniano padre Cosma Loiodice, il quale recatosi
dall’inferma, tracciò un segno di croce
su quel corpo immobile, che fra la meraviglia dei presenti,
fece riacquistare all’inferma le sue normali funzioni.
Partito il padre agostiniano, ogni giorno veniva chiamato
un sacerdote qualsiasi, che con un segno di croce la
riportava alla normalità. Non fu compresa da
tutti, anzi gli stessi sacerdoti la consideravano una
ragazza esaltata, una nevrotica che voleva attirare
l’attenzione degli altri su di sé. Una
volta la lasciarono in quello stato cadaverico per più
di venti giorni; tutto questo era cominciato da quando
si era offerta come vittima d’espiazione e ogni
mattina al risveglio si trovava rigida, immobile, rannicchiata
sul suo letto e nessuno riusciva a stenderla o farle
fare qualche movimento; solo il segno della croce del
sacerdote, riusciva a sbloccarla. Non aveva un direttore
spirituale, perché Gesù le parlava interiormente,
correggendola e conducendola verso le vette più
alte della perfezione cristiana. Quest’avvenimento
non poteva passare inosservato, per cui una volta informato
l’arcivescovo di Trani, mons. Giuseppe Bianche
Dottula (1848-1892), avocò a sé il caso,
delegando un confessore speciale per Luisa Piccarreta,
nella persona di don Michele De Benedictus, il quale
con la sua prudenza e saggezza, impose alla ragazza
di Corato, dei limiti per cui non poteva fare niente
senza il suo consenso; le ordinò di mangiare
almeno una volta al giorno, anche se subito rimetteva
il cibo ingerito. Luisa doveva vivere solo della Divina
Volontà. Padre Michele dal 1° gennaio 1889
le diede il permesso di rimanere a letto, dove rimase
seduta per 59 anni, fino alla morte, ininterrottamente.
Il nuovo arcivescovo di Trani, mons. De Stefano (1898-1906)
delegò come nuovo confessore di Luisa, don Gennaro
De Gennaro, che lo fu per 24 anni. Questo sacerdote,
intuendo il lavorio interno di Dio su quest’anima,
le ordinò categoricamente di mettere per iscritto,
tutto ciò che la Grazia Divina operava in lei.
Nonostante che avesse frequentato solo la prima elementare,
Luisa Piccarreta cominciò il 28 febbraio 1899
a scrivere il suo diario, che consiste in un manoscritto
raccolto in 36 volumi. L’ultimo capitolo fu scritto
il 28 dicembre 1938, quando le fu ordinato di non scrivere
più. Ebbe dopo i primi due, altri due confessori
sempre delegati dalla Curia arcivescovile, l’ultimo
don Benedetto Calvi le fu vicino fino alla morte. All’inizio
del Novecento incontrò sant'Annibale Maria Di
Francia (1851-1927) un fondatore di Congregazioni di
Messina, il quale fu suo confessore straordinario e
censore dei suoi scritti, che venivano regolarmente
esaminati ed approvati dalle autorità ecclesiastiche.
Sant'Annibale curò la pubblicazione dei suoi
vari scritti, tra i quali ebbe successo il libro “L’orologio
della passione”, stampato in cinque edizioni,
le fece scrivere nel 1926, pure un quaderno di “Memorie
d’infanzia”. Il 7 ottobre 1928, si completò
la costruzione a Corato della Casa delle suore della
sua “Congregazione del Divino Zelo” e per
adempiere al desiderio del fondatore (nel frattempo
morto nel 1927 a Messina), Luisa Piccarreta fu trasferita
in quel convento. Dieci anni dopo tre dei suoi scritti
furono messi all’Indice; quando seppe della condanna
del sant’Uffizio, Luisa si sottomise subito al
giudizio dell’autorità della Chiesa, consegnando
all’incaricato romano tutti i diari manoscritti
(ed oggi ancora conservati negli archivi vaticani) e
riprovando lei stessa ciò che le veniva condannato
negli scritti pubblicati. Inoltre il 7 ottobre 1938,
esattamente dopo dieci anni dalla sua entrata in quel
convento, per disposizione dei superiori, dovette lasciarlo,
sistemandosi in un’abitazione, dove trascorse
gli ultimi nove anni della sua vita, assistita amorevolmente
dalla sorella Angelina e da alcune pie donne. Non possedeva
quasi nulla e il lavoro al tombolo che faceva da tutta
la vita, nei limiti delle sue possibilità fisiche,
era appena sufficiente al sostentamento della sorella;
lei invece i pochi grammi di cibo che mangiava, li rimetteva
subito dopo. Era un miracolo vivente, non aveva l’aspetto
di una moribonda ma nemmeno di una persona sana, eppure
non stava mai inoperosa. La sua giornata iniziava all’alba,
quando arrivava il sacerdote a benedirla e celebrare
la Messa (era un privilegio accordato da papa Leone
XIII e confermato dal suo successore s. Pio X nel 1907).
Poi seguivano due ore di ringraziamento e preghiera
e alle otto prendeva a ricamare; a mezzogiorno c’era
il frugale pasto, come detto il più delle volte
rimesso; nel pomeriggio vi erano alcune ore di lavoro,
poi veniva recitato il Rosario e alle otto di sera iniziava
a scrivere il suo diario e circa a mezzanotte si addormentava,
per ritrovarsi al mattino di nuovo rigida, rannicchiata
con la testa piegata a destra; sempre in preda a questo
stranissimo fenomeno inspiegabile. Siti web: www.luisalasanta.com/it - www.causaluisapiccarreta.it Fonte: www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/91918 |
MARIA DOMENICA LAZZERI,
Laica
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Davanti al mistero della sofferenza, sempre presente lungo la vita di ogni essere umano, ci si rimane sgomenti e nessun tentativo di spiegazione da parte di filosofi e teologi, riesce a farla accettare con serenità. Il male in tutte le sue componenti, fisico, morale, psichico, è considerato per i filosofi un problema, per Cristo ed i cristiani è un nemico, uno scandalo, una provocazione, ed esige una protesta, una mobilitazione, una rivolta. Non si spiega il male, lo si combatte! Lo stesso Gesù apre gli occhi al cieco, anche se è giorno di sabato! Si proclama venuto per i perduti, per i malati, per i peccatori. Davanti alle domande sul perché della sofferenza, all’infelice e tormentato Giobbe, Dio aveva semplicemente detto: “Chi sei tu per esigere spiegazioni da Dio?”. Quindi bisogna ammettere che le vie di Dio non sono le nostre. Dio ha una concezione molto positiva della sofferenza, al punto tale, che accoglie per sé stesso il dolore come una strada necessaria; spiega Gesù ai discepoli di Emmaus: “Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? E agli Apostoli: “In verità, in verità vi dico; se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. Quindi secondo il modo di vedere di Dio e nell’esperienza di Gesù, la Passione stessa sfocia impetuosa nella gloria del Risorto, la morte da’ il frutto abbondante della redenzione del mondo. Alla luce di quanto detto, la sofferenza è una realtà ineluttabile, il problema è tramutarla in occasione privilegiata di redenzione propria e di offerta per la redenzione degli altri nostri fratelli, pellegrini come noi in questa “valle di lagrime”, come recita l’inno ‘Salve Regina’. Ma ci sono state nel corso dei secoli, figure umane che hanno avuto la loro razione di sofferenza in quantità superiore agli altri, tanto da non avere intervalli ristoratori e fra queste vi sono state alcune, privilegiate, che hanno portato nel loro corpo le ferite, le stimmate ed i dolori della Passione di Cristo. Non sempre sono state comprese e credute, anzi spesso furono calunniate passando per autolesioniste, esaurite nervose, indemoniate, in preda ad autosuggestioni, ecc.; solo dopo tanto tempo e spesso dopo la morte, queste persone sono state considerate destinatarie di un dono speciale di Cristo, frutto della loro intima e completa unione con le sue sofferenze. Ne ricordiamo qualcuna: s. Francesco d’Assisi, s. Pio da Pietrelcina, s. Rita da Cascia, beata Maria di Gesù Baouardy carmelitana, beata Margherita Bays, beata Anna Katharina Emmerick, s. Gemma Galgani, ecc. A loro si aggiunge la Serva di Dio Maria Domenica Lazzeri, che nacque il 16 marzo 1815 a Capriana (Trento) ultima dei cinque figli di Margherita e Bortolo Lazzeri, mugnaio del paese. Dopo una tranquilla infanzia, frequentò con profitto la scuola del paese; adolescente, si dedicò presto al lavoro, alla preghiera e all’aiuto dei sofferenti, specie quelli delle epidemie degli anni Venti e si prese cura dei bambini, quando andò a prestare servizio presso le famiglie dei paesi vicini. È di quel periodo il suo amore per la lettura delle vite dei Santi, degli scritti di s. Alfonso Maria de’ Liguori, ma soprattutto dei racconti della Passione e morte di Gesù, per i quali dimostrava una spiccata predilezione. La morte del padre, avvenuta quando aveva 13 anni, le recò grande dolore, a ciò si aggiunse poco tempo dopo, una malattia di incerta diagnosi, che la colpì a lungo; queste sofferenze temprarono in lei l’attitudine ad una vita spirituale più intensa e ad una maggiore sensibilità verso gli infermi in genere. Fra i 17 e 18 anni, fu contagiata da un’epidemia influenzale detta “grip”, durante la quale si era prodigata nella cura degli ammalati, e cominciò il suo calvario. Dal 15 agosto 1833 fino all’aprile 1834, la malattia in un crescendo di sintomi strani e misteriosi, raggiunse nel mese di maggio 1834, una forma tanto grave quanto inspiegabile, cosicché Maria Domenica Lazzeri si trovò relegata a letto in una forma di stigmatizzazione totale, segnata da sofferenze estreme, non prendendo più sonno, né cibo, né bevanda, salvo la Santa Comunione, l’unico alimento che potesse ricevere ogni mese circa. Vera immagine vivente del Crocifisso, dai 19 ai 33 anni, cioè fino alla morte, visse immobilizzata nel letto, con le mani congiunte trafitte, così come i piedi e il costato da profonde ferite; con i piedi sovrapposti e il capo circondato da fori sanguinanti come punture di spine, in preda a tremore per le atroci sofferenze procurate dalle ferite delle stigmate, dalla sudorazione di sangue e avendo una quasi morte apparente ogni venerdì. Un quadro clinico inquietante, perché i fenomeni fisici erano inusuali e incurabili, legati ad una malattia non diagnosticabile. Il suo caso attirò l’attenzione di illustri clinici, fra i quali il primario dell’Ospedale Civico e Militare di Trento, dott. Leonardo Cloch, che studiò i fenomeni con attenzione, pubblicando una relazione negli “Annali Universali di Medicina” nel 1837, e poi con la collaborazione del dott. Antonio Faes dell’Università di Padova, stese analoghe relazioni presentate alla Sezione Medica degli scienziati italiani, riuniti nei Congressi di Napoli (1845), Genova (1846), Venezia (1847). La fama della giovane di Capriana, superò ben presto i confini del Trentino, diffondendosi in tutta Italia e in Europa; editori europei, dal 1836 al 1848, giudicando il fenomeno degno di essere conosciuto, presero a stampare varie opere divulgative, i cui autori spesso erano testimoni oculari, colpiti sia della straordinarietà della malattia, dalle stigmate, ma soprattutto della virtuosa capacità di sopportazione delle incredibili sofferenze e dallo spirito di preghiera, da parte di Maria Domenica Lazzeri. La sua vicenda attrasse l’attenzione e la visita personale a Capriana, di medici specialisti con esperienze di altre stigmatizzate o presunte tali, provenienti da tutta Europa e dalle più celebri Università; come pure di vescovi ed arcivescovi, fra i quali quello di Sidney in Australia. Per il suo caso, si organizzarono vari dibattiti religiosi e culturali dell’epoca, instaurando un’accesa polemica giornalistica, tra i gruppi cattolici e le associazioni protestanti europee ed australiane. Intanto Maria Domenica, chiamata dai suoi compaesani “la Meneghina” (abbreviazione di Domenica), proseguiva nel suo letto di dolore, l’esperienza terribile ma edificante, della Passione di Cristo, rannicchiata e in condizioni di inamovibilità con le mani aggruppate e i piedi sovrapposti, come inchiodati l’uno sull’altro, vera immagine vivente del Crocifisso. Pur essendo immobile nel letto, riusciva a sentire le omelie in lingua tedesca dalla chiesetta di Anterivo, paesino limitrofo e quelle in italiano dalla chiesa di Capriana; oltre questo dono di comprendere le lingue, lei che non aveva fatto scuole superiori oltre le elementari, la “Meneghina” ebbe anche il dono della trans-locazione, un fenomeno mistico, riportato nelle lettere del beato Giovanni Nepomiceno De Tschiderer († 1860) vescovo di Trento, col quale la giovane scomparve più di una volta dal suo letto per ritrovarsi a Caldaro (Bolzano) o a Cermes (Bolzano) a pregare con altre due stigmatizzate sue contemporanee. I suoi confessori furono i depositari del suo misticismo, da recenti documenti ritrovati, si apprende da un suo confessore, che la Madonna le aveva domandato: “Vuoi tu godere le insanguinate piaghe di Gesù?” alla quale lei aveva risposto: “Se ne sono degna e se lo merito, sia fatta la tua volontà”. Questo rivivere la Passione di Gesù non fu un carisma subito capito; la stessa Maria Domenica sperimentò con paura quanto le stava accadendo; ma quando i fenomeni non solo continuarono, ma si intensificarono e i medici non davano spiegazioni scientifiche, allora si mosse un fiume di visitatori, tra i quali Antonio Rosmini, superando l’asperità delle vie di accesso al piccolo paese montano di Capriana, per farle visita giungendo da tutta Europa. Fu necessario da parte del vescovo di Trento, mettere in atto severe misure d’accesso alla casa di Capriana, assecondando le richieste della stessa “Meneghina”, che non riusciva a sopportare tante visite, specie quelle degli stranieri, essa perdeva quella tranquillità necessaria ad alimentare il suo spirito nella meditazione e nella preghiera. Lo stesso vescovo De Tschiderer, prudentemente evitava di recarsi a visitarla personalmente, ma in privato e per iscritto la seguiva nel suo calvario, esprimendole rispetto ed ammirazione, e non esitò nel tempo a prendere le sue difese contro notizie false e parziali della stampa inglese. Un teologo don Divo Barsoni, scrisse di lei: “Dio l’aveva presa. L’aveva presa per fare di lei, nella partecipazione al suo mistero di dolore, un segno di amore e di salvezza”. Anche Maria Domenica, l’aveva compreso, dicendo: “Voglio soffrire fino all’ultimo giorno del mondo, se piace al mio Cristo. Soffrire è la mia salute”. Morì nella sua casa di Capriana il 4 aprile 1848 a soli 33 anni (gli anni di Cristo), dei quali gli ultimi 15, vissuti in quella tremenda sofferenza, che le meritò gli appellativi di “l’Addolorata di Capriana” e “il Crocifisso vivente”. Il suo ricordo seguì i numerosi emigranti della zona, che lo diffusero e tennero vivo anche in Stati lontani; la venerazione per la “Beata Meneghina” non cessò mai, anche se subì variazioni d’intensità nel tempo. Un primo atto ufficiale per la sua beatificazione, venne prodotto nel 1943, ma si era in piena Seconda Guerra Mondiale e fu seguito solo dalla ricognizione della salma nell’agosto 1944. Il 4 aprile 1995 è stato riaperto ufficialmente il processo informativo nella diocesi di Trento, che conclusasi positivamente, è stato dal settembre 2000, spostato a Roma presso la competente Congregazione Vaticana. Di lei non esistono foto, ma solo un ritratto che la ritrae a letto con le stigmate ben visibili e con le mani aggruppate; un’Associazione “Amici della Meneghina” è stata costituita a Capriana nella ‘Casa Modesta’ – via Casal, per la diffusione della sua memoria e venerazione. Fonte: /www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/92622 |
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Marthe Robin, sesta figlia di modesti contadini di Chateauneuf-de-Galaure, all'età di 16 anni fu colta da un male misterioso che in poco tempo la riduce alla paralisi, fino alla morte. Totalmente paralizzata, al buio in quanto ipersensibile alla luce, senza poter dormire, mangiare, bere, suo unico cibo sarà l'ostia consacrata. Alla fine del settembre 1930 Marthe vede il Cristo che le chiede: "Vuoi essere come me?". Marthe risponde con l'accettazione. Riceverà le stigmate e, da quel momento, ogni venerdì rivivrà la Passione di Cristo. Accetta di entrare nell'agonia di Cristo dal giovedì alla domenica, fino al dono delle stimmate. Soffre anche vessazioni diaboliche. Il mercoledì sera Marta riceveva l'Eucaristia andando in estasi. La piccola Marthe, pur al centro di fatti straordinari, volle essere sempre e soltanto una umile figlia della Chiesa. Soleva, infatti, dire: "Non parlate di me, il mio compito é quello di pregare ed offrire". E' stata la fondatrice dei Foyers de Charité (Focolari della Carità). Nel 1989 è stato introdotto il processo per la sua beatificazione. Immagine e testo da :/www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/93621 |
TERESA ELENA RIVETTI
DEL CUORE DI GESU', Religiosa Clarissa
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Suor Teresa Eletta Rivetti del cuore di Gesù nacque a Roma il 9 marzo 1723 da Filippo Rivetti ed Antonia Pomponi nella casa SS. Quirico e Giulitta. La madre, donna molto devota, per supplire al fatto che avrebbe voluto fare voto di verginità, promise di consacrare al Signore e alla Vergine i figli da lei nati, e si avvalse della mediazione di Santa Teresa, da cui il nome alla figlia, che fu battezzata il 19 maggio. Fin da bambina mostrò un'inclinazione non comune nell'amare il Signore e nell'esercitare le virtù, specialmente la carità, distribuendo ai poveri i soldi che le davano i genitori. In questo cammino iniziale fu seguita da Padre Piccioli. Il mercoledì fra l'Ottava di Pasqua del 1732, a nove anni, ricevette la Prima Comunione e fece voto di verginità nelle mani del confessore. La SS. Vergine le disse di averla accolta come figlia e che il suo divin figlio la prendeva come sposa "eletta". Il 19 giugno dello stesso anno ricevette il Sacramento della Cresima nella Basilica Lateranense. Dal momento che il Padre Piccioli era stato eletto Priore del Convento di Santa Maria Maggiore in Narni, la madre di Teresa, caduta malata, gli raccomandò la figlia, che allora aveva 14 anni. Il sacerdote pregò le monache Clarisse del Monastero di Santa Restituita di prenderla come educanda, e ciò avvenne il 29 giugno 1737. Fu accettata come Monaca Corale di Santa Chiara e vestì l'abito religioso a 16 anni. Il giorno della SS.Trinità, il 1° giugno 1739, e prese il nome di Suor Teresa Eletta del Cuore di Gesù. Il 14 giugno 1740 emise la Professione Religiosa. Poco tempo dopo, però, iniziò un periodo spirituale meno felice con fastidi e distrazioni nella preghiera. Il 1° gennaio del 1744, all'età di 20 anni, Teresa Eletta cadde in una grave malattia che in breve la ridusse agli estremi. Durante una notte le apparvero la SS. Vergine e San Domenico inducendola a deporre la freddezza con cui fino allora era vissuta. Dopo la visione Teresa Eletta incominciò a migliorare nel corpo e nello spirito, tanto che ebbe sempre più il desiderio di conformarsi allo Sposo Crocifisso e la sua vita fu un continuo progresso in tutte le virtù. Per il suo ardente desiderio di conformarsi al Crocifisso povero, fu da Lui insignita con le Sacre Stimmate, tra le quali si distingueva in modo particolare quella della parte del cuore, testimoniata visivamente da due consorelle, Suor Maria Teresa Marsiliani e Suor Angela Caterina, il 22 maggio 1751. Fu Maestra delle Novizie fino al 1758 e ricoprìl'ufficio di Abbadessa per nove trienni, dal 1762 al 1787. Da una lettera di suor Teresa Eletta scritta al Padre Spirituale, Padre Gregori, in data 17 gennaio 1751, si sa che anche la madre di Teresa entrò nello stesso Monastero della figlia. Suor Teresa Eletta morì il 19 maggio 1790, mentre ricopriva l'ufficio di Vicaria, all'età di 68 anni. Per ordine di monsignor Prospero Celestini, Vescovo di Narni, secondo un'antica consuetudine, fu tenuta esposta per tre giorni dopo la sua morte dentro lo stesso Monastero davanti alla grata grande che guarda la Chiesa, dove, con la partecipazione di tutto il Capitolo della Cattedrale, furono celebrate le esequie solenni, alle quali partecipò moltissima gente sia della città di Narni che dei paesi circostanti, per mostrare la grande stima e il concetto di santità che avevano della clarissa. Fu sepolta il 23 maggio 1790 nella Chiesa del Monastero, sotto la grata che serviva alle monache da comunichino e successivamente ricoperta dall'altare di Santa Filomena. Il 18 giugno 1846 fu aperto il Processo di Canonizzazione ad opera dell'allora vescovo di Narni, monsignor Giuseppe Maria Galligaris. La prima riesumazione fu fatta il 20 giugno e dopo varie testimonianze e relazioni dei medici fu chiuso il Processo diocesano con la tumulazione del corpo il 26 agosto 1846. Il corpo della Serva di Dio venne tumulato nella camera ad uso di Coretto situata dietro l'Altare Maggiore del Monastero e dove nel 1846 esisteva il comunichino. Il Processo venne riaperto con la seconda riesumazione del corpo, il 10 settembre 1915. Teresa Eletta fu tenuta in gran concetto di santità anche durante la sua vita, non solo a Narni, ma anche nelle città vicine, per l'esercizio continuo delle sue eroiche virtù e per le varie grazie soprannaturali donatele dal Signore. I documenti che la riguardano, così come il crocifisso che le parlò e il ritratto che le fu eseguito per ordine dell'Abbadessa, sono ora custoditi nel monastero delle clarisse della SS.Annunziata a Terni. Fonte:
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TERESA GARDI, Laica
OFS
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Le notizie su questa eccezionale Terziaria Francescana ci pervengono da una numerosa bibliografia, per lo più stampata in Emilia Romagna, ma soprattutto dal “Diario della vita e visioni della serva di Dio Teresa Gardi”, Imola, 1913; scritto dal frate minore osservante Carlo Francesco Zanini da Bologna, il quale fu suo direttore spirituale dal 1800 fino alla morte. Teresa Gardi Cricca, nacque ad Imola nella Casa Nanni, il 12 ottobre 1769; dopo la morte della mamma nel 1782 e del padre nel 1790, dovette badare lei alla casa e agli altri tre fratelli e sorelle rimasti. Trascorse la sua adolescenza e la prima giovinezza dedita al lavoro di casa, fra contraddizioni e dolori, conducendo una vita molto provata; nonostante fosse debole di salute, si dedicava a visitare gli ammalati, umile e paziente anche nelle calunnie, devota dell’Eucaristia e zelante nella purezza, fu donna dotata di virtù straordinarie. Nel 1801 a 32 anni entra nell’Ordine Francescano come Terziaria Secolare e l’anno successivo fece la sua professione il 15 ottobre 1802; dopo due anni trascorsi in purificazione interiore, nel 1804 si sente accendere da un grande amore verso Dio e iniziano a comparire estasi e visioni edificanti e dolorosissime, soprattutto dopo aver ricevuto la Comunione quotidiana e durante la Via Crucis da lei praticata ogni giorno. Il 25 luglio 1804 ricevette le Stimmate sulle mani, sui piedi e sul costato, ma per sua preghiera solo quella del costato resta visibile, quelle delle mani non appaiono esternamente, mentre sui piedi prendono forma di una crosta, che le causano molta sofferenza, specie nel camminare. Le molteplici sofferenze in più punti del corpo, estese non solo nelle parti stigmatizzate ma anche al capo, alle ginocchia, alle braccia, lasciano meravigliato il confessore succitato, che lo riporta nel ‘Diario’, di come si possa continuare a vivere senza un momento di tregua e di riposo, né di giorno né di notte. Teresa Gardi convinta di compartecipare alla Passione di Cristo, soffre volentieri e in silenzio, con pazienza e con amore per Dio. Come tutti i grandi santi e mistici, anche lei soffre di forti tentazioni contro la fede, la speranza e soprattutto contro la castità; e poi con lunghi periodi di aridità spirituale, che i teologi chiamano ‘la notte dello spirito’. Ma Teresa è arricchita anche di doni straordinari e quindi raggiunge anche i più alti livelli della preghiera, della contemplazione, del misticismo. Chiede a Dio che tutto ciò che le capita rimanga nascosto, solo per lei, per questo segreto lava di nascosto i fazzoletti intrisi di sangue, che continua a sgorgare dalla ferita nel petto. Chiede che le sue sofferenze le abbia quando non siano presenti altre persone o familiari, così da non arrecare fastidio a nessuno e questo dono le viene concesso; ella soffre ogni qualvolta è sola, e quando giunge qualcuno i dolori, i tremori, le ansie si arrestano. Muore a 67 anni di idropisia, il 1° gennaio 1837 ad Imola e sepolta nella Chiesa dell’Osservanza; il cardinale Giovanni Mastai Ferretti, vescovo di Imola dal 1832 al 1846, poi papa Pio IX oggi beato, fa apporre e approva una significativa epigrafe sulla sua tomba. Preoccupata costantemente che nessuno si accorgesse di lei, non lasciò notizie o scritti, non si scorgeva in lei niente di eccezionale, se non la santità del piccolo quotidiano, che permise comunque ai partecipanti ai suoi funerali di salutarla come ‘santa’. Il suo nascondimento proseguì dopo la morte, finché nel 1893 appare ad una signora di Imola e dietro sue precise indicazioni, si ritrova il già citato ‘Diario’ che il suo confessore aveva scritto a sua insaputa, descrivendo tutti i fenomeni straordinari di cui era investita. Dietro questa scoperta, la sua figura fu vista nella sua vera luce di mistica sofferente, e quindi il 9 febbraio 1912, si aprì il processo per la sua futura beatificazione, ma la morte dell’allora postulatore francescano bloccò la pratica, che ha ripreso il suo cammino a partire dal decreto della Santa Sede del 4 aprile 1995. Fonte: /www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/91685 |
CATERINA SAVELLI, Laica
consacrata
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Caterina nacque a Sezze il 28 febbraio del 1628, da Giovanni Battista Savelli e Nobilia Colonnelli, persone fortemente religiose, tanto che il padre, avvocato, esercitando il più delle volte gratuitamente la sua professione, si vide ridotto ben presto in disagi economici, a danno del patrimonio familiare. La vita di Caterina non fu segnata da fatti eclatanti, cosa che sembrò creare qualche difficoltà al suo biografo, il gesuita p. Giovanni Battista Memmi. Giustificandosi egli di come, dopo aver narrato alcuni eventi della fanciullezza di Caterina, passi subito a magnificarne le virtù, «senza additarne que’ gradi, per i quali appoco appoco ella vi s’incamminò, e fece progressi», confessò onestamente: «noi non abbiamo la serie cronologica de’ tempi, a ciò necessaria». Poi continua: «Aggiungasi a tutto ciò, che ella fu una povera Vergine, la qual visse umile, e nascosta, senza essere adoperata in quegli affari speciosi, che sogliono dar materia agli scrittori d’un filato, e successivo ragionamento, come sarebbero fondazioni di Monasteri, viaggi intrapresi, o forme intentate, e condotte a fine, o cose simiglianti, che colla loro varietà danno non picciolo risalto alle storie». Fu un’esistenza, però, quella di Caterina, che fin dal suo sorgere fu segnata dalla sofferenza: durante il parto insorsero complicazioni, così che si temette per la vita della madre, ciò che alla fine comportò gravi conseguenze per la bambina; le donne che assistevano Nobilia, infatti, prodigando alla partoriente tutte le loro attenzioni, lasciarono la bambina sul pavimento, in un angolo della stanza, e il rigore della stagione invernale rischiò di farla morire assiderata. Un’inserviente dell’ospedale, che era sopraggiunta anch’essa forse per dar soccorso a Nobilia, si avvide della situazione e, conscia del rischio che la bambina correva, le amministrò all’istante il battesimo. Caterina riuscì a sopravvivere ma, persistendo il debole stato di salute della madre, non si riusciva a trovare chi potesse allattarla; alla fine, si prese cura di lei quella stessa donna che l’aveva battezzata. Oltre a ciò, nei suoi primissimi anni di età, fu affetta da idropisia. A sette anni, quando cominciò a confessarsi, entrò in rapporto con i Gesuiti, che a quel tempo avevano in Sezze un collegio e officiavano nella chiesa dei S.S. Pietro e Paolo: sotto la guida del p. Bernardino Vittori, a dieci anni ricevette per la prima volta l’Eucaristia, il 17 gennaio 1638. Non molto tempo dopo morì suo padre, lasciando la famiglia in difficili condizioni economiche; il p. Stefano Vannotti, allora, succeduto al p. Vittori, decise di aiutare Nobilia inviando Caterina in casa di una donna di Sezze che accoglieva e manteneva a sue spese fanciulle desiderose di porsi al servizio di Dio. Caterina rimase per un anno in quella casa, e più tardi (e più volte) definirà quel tempo come il suo noviziato. Aspirando poi alla vita monastica, voleva recarsi a Roma presso un monastero di Cappuccine, le quali si erano dichiarate disposte ad accoglierla; una malattia sopraggiunse però ad indicarle che era volontà di Dio che essa dovesse restare nel secolo. Rimase cosi a Sezze, nella sua casa, organizzando il proprio tempo secondo un suo programma, in modo che le giornate fossero scandite da una regola precisa: «distribuì le sue occupazioni in tal maniera - scrive il suo biografo - che tutta la mattinata fusse libera per Iddio e per l’anima, il dopo desinare per i propri lavori e per attendere in qualche maniera al bene spirituale de’ prossimi». Caterina si dedicò con grande carità all’assistenza degli infermi, manifestò una costante attenzione ai poveri, ma soprattutto fu preoccupata della salvezza delle anime. Ben presto se ne sparse la fama e accorrevano a lei persone da tutto il territorio delle odierne province di Latina e Frosinone e dal territorio romano, soprattutto per consigli: infatti, secondo la deposizione del gesuita p. Giovanni Battista Mavillo, «mostrava la serva di Dio una prudenza tanto grande nel parlare quanto nell’operare, e particolarmente nel discernimento degli spiriti». In tal modo ella divenne punto di riferimento per tante ragazze che ricorrevano a lei per una guida spirituale. Si decise allora a fondare un oratorio dove istruirle nella vita interiore: fu dunque una vera e propria maestra di spirito, fondata sulla spiritualità ignaziana, di cui era stata penetrata sin da fanciulla, nel quotidiano contatto con i Gesuiti di Sezze. In sintonia con quel filone spirituale, Caterina, pur avendo ricevuto doni mistici non comuni, insisteva piuttosto sulle virtù sode da coltivare che non sulle estasi e visioni da chiedere al Signore: «chiedete piuttosto la morte che i ratti e le visioni», ripeteva spesso alle ragazze quando le udiva parlare di tali cose. Al pari del voto di verginità, professato fin da fanciulla, Caterina promise nelle mani del suo padre spirituale povertà e obbedienza, impegnandosi poi ad una clausura nel territorio di Sezze, da cui non uscì mai se non in rare occasioni. Ancor giovane ricevette il dono delle stimmate, cosa che fu da parecchi contestata ma sulla cui realtà deposero giurando molti testimoni: secondo la testimonianza scritta del p. Giovanni Frilli, che fu suo confessore, il fatto avvenne nel 1659, presso la chiesa dei S.S. Pietro e Paolo, durante l'esposizione del Santissimo Sacramento. Nel corso di un rapimento mistico, leggiamo nella biografia, Caterina «vide spiccarsi dalla sagra Ostia cinque acuti raggi, i quali andando ad investirla ciascuno rispettivamente nelle mani, ne’ piedi e nel costato, udì dirsi da Gesù queste, o simiglianti parole: Caterina, ecco che io ti partecipo un poco de’ miei dolori». Il 22 luglio del 1691 si chiudeva la sua operosa giornata terrena e fu tale il concorso di gente che le sue spoglie furono trasferite di notte, per timore della gente che voleva sottrarre ad ogni costo qualche reliquia: il corpo fu deposto vicino all’altare di S. Caterina, nella chiesa di S. Anna, che lei stessa aveva fatto edificare in atto di devozione alla santa, madre della Madre di Dio. Nel 1728 il cardinale Pietro Marcellino Corradini - che dalla Savelli era stato tenuto a battesimo - lo fece traslare nella chiesa della S. Famiglia, annessa alla casa madre della congregazione delle Convittrici della S. Famiglia (oggi Conservatorio “Corradini”). Un’esperienza cristiana, quella di Caterina, che si presenta con una sua singolarità: essa visse nel mondo, secondo lo stato di vita dei laici, ma vi visse da consacrata, avendo fatto voto, nelle mani del suo confessore, di osservare i consigli evangelici della povertà, castità e obbedienza; precorreva così, nel XVII secolo, tutte quelle forme di laicità consacrata che si sono affermate nel corso del nostro secolo e rappresentano oggi uno dei frutti più ricchi dell’ecclesiologia di comunione vitalizzata dal Concilio Vaticano II. Fonte: /www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/93760 |
SANTA VERONICA GIULIANI,
Religiosa Clarissa Cappuccina
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La parola "mistica" ha avuto nella nostra epoca un'estensione impropria. Basti pensare alle infelici espressioni di "mistica della razza", "mistica del superuomo". Nel senso proprio e primario la mistica è il campo dei fenomeni vissuti da taluni spiriti privilegiati, uniti allo spirito divino da un legame d'amore ineffabile. Di essi, noi comuni mortali conosciamo soltanto il lato spettacolare, il cosiddetto meraviglioso mistico, come il miracolo e la profezia, il dominio sui fenomeni della natura, le stesse manifestazioni diaboliche, le visioni, le estasi, gli incendi interiori, le stimmate. Ogni epoca ha avuto i suoi mistici. Oggi ricordiamo una santa, all'anagrafe Orsola Giuliani, nata nel 1660 a Mercatello, presso Urbino, settima figlia dei coniugi Francesco e Benedetta Giuliani, che all'età di diciassette anni entrò tra le suore clarisse di Città di Castello, assumendo alla professione religiosa il nome di Veronica. Nulla sarebbe trapelato dalle austere mura di quel convento della straordinaria esperienza mistica di sorella Veronica, se il suo confessore non le avesse ordinato di trascrivere sul suo diario, con l'imposizione di non rileggere nulla di quanto andava tracciando, le confidenze del Redentore, di cui riviveva puntualmente le sofferenze della passione. "L'anno 1697 - leggiamo sul suo diario - il venerdì santo, la mattina vicino al giorno, trovandomi in orazione... Iddio fece penetrare nell'anima mia la grazia col darmi i segni e i dolori che il Verbo divino aveva sofferti per la mia redenzione. Io sentivo nel mio cuore una pena di morte". Così descrive la ricezione delle stimmate: "Io vidi uscire dalle sue SS. Piaghe cinque raggi risplendenti e tutti vennero alla volta mia... In quattro vi erano i chiodi, e in una vi era la lancia, come d'oro, tutta infuocata, e mi passò il cuore da banda a banda". Dopo la sua morte, avvenuta a Città di Castello nel 1727, di venerdì, dopo 33 giorni di malattia, sul suo corpo, che mostrava ancora le ferite della passione, venne eseguita l'autopsia e i medici riscontrarono che il cuore era effettivamente trafitto da parte a parte. "Quando vidi queste stigmate esteriori, confida S. Veronica al suo diario - io piansi molto e con tutto il mio cuore pregai il Signore di volerle nascondere agli occhi di tutti". Il suo desiderio venne esaudito, vivendo ella in totale reclusione per tutta la vita. Ma le fitte pagine dei suoi diari, scritti per più di trent'anni e che pubblicati formarono ben quarantaquattro volumi, sono un vero tesoro nascosto che arricchì di stupende pagine la letteratura mistica. Fonte: /www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/33500 |
AGNESE DI BAVIERAFanciulla
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Figlia dell’imperatore Ludovico IV, nata nel 1345, all’età di quattro anni, insieme con nove compagne appartenenti a famiglie nobili, Agnese fu condotta nel monastero delle clarisse “am Anger” di Monaco, perché vi ricevesse un’educazione veramente religiosa. A ciò si opposero, nonostante la volontà contraria dell’imperatore, i grandi del paese, desiderosi che la fanciulla fosse allevata nell’ambiente della corte e indirizzata alla vita politica. Agnese resistette alle loro mene, volendosi consacrare a Dio nella solitudine del chiostro. Avvenne persino un’irruzione nel monastero per allontanarla da questo con la forza. Ma Agnese si rifugiò presso il tabernacolo e, abbracciandolo con le sue mani, pianse e supplicò il Signore perché le venisse in aiuto. Apparvero allora sul suo corpo, nelle mani, nei piedi e sul costato cinque piaghe ulcerose (probabilmente di natura pestilenziale), che furono considerate come stimmate. Poco dopo l’eroica fanciulla morì, all’età di sette anni, l’11 novembre 1352. La causa per l’approvazione del suo culto come beata è in corso fin dal 1705. Fonte: /www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/91002 |
CATERINA BRUGORA, Religiosa
Benedettina
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Esiste un quadro nella chiesa milanese di S. Simpliciano, della scuola di Bernardino Luini, che ritrae fedelmente la venerabile Caterina Brugora, figlia dei Signori della Pelucca, amata appunto dal Luini e costretta dai genitori a farsi monaca; del quadro stesso esistono varie copie nella Pinacoteca Ambrosiana e presso i discendenti della sua famiglia. Caterina nacque a Milano nel 1489 e fin dalla fanciullezza fu dotata di mistici favori, entrò nel monastero benedettino di S. Margherita, dove si distinse per la santità di vita, per il dono delle profezie e per la saggezza e prudenza dei consigli. Per questo la sua fama varcò le porte del monastero ed i milanesi ricorrevano a lei per avere aiuto e conforto nelle difficoltà, sia pubbliche che private. Il Signore le donò i segni visibili delle cinque piaghe e della corona di spine, che se pur la gratificavano spiritualmente, le procuravano atroci sofferenze. Morì il 19 settembre 1529; la venerazione della quale era circondata in vita, aumentò dopo la sua morte; il corpo venne trasportato nella cappella interna del monastero. Il Signore continuò a privilegiare la sua serva, quando nel 1612 si procedette ad una ricognizione del corpo, questo fu trovato intatto; quindi venne riposto in una bella cassa di cipresso. Il quadro sopra citato la raffigura con tutta una simbologia, che rispecchia lo svolgersi della sua vita; ella è in abito benedettino a mezzo busto con sul capo due corone, una di spine e una nobiliare; nella mano destra sorregge il Cuore di Gesù sormontato dal Crocifisso e nella sinistra appoggiata su un libro, una palma; sul petto i segni delle stimmate al costato; una colomba sulla spalla e sul ripiano un flagello, ricordando le sue penitenze; completa il quadro sullo sfondo, l’episodio del cavaliere Giambattista Pusterla, il quale per intercessione della venerabile Caterina Brugora, sfugge alle truppe francesi, venendo sollevato per i capelli da un angelo, salvandosi così dal campo della battaglia ormai persa. È ricordata nell’Ordine benedettino il 18 novembre, data della traslazione delle reliquie. Fonte: /www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/91266 |
GENOVEFFA DE TROIA, Laica OFS
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Ci sono creature che ricevono il doloroso dono dell’intendimento e contemplazione del mistero della Croce, alcune portano nel loro corpo i segni visibili del Crocifisso come le Stimmate o le piaghe della corona di spine o l’esacerbarsi dei dolori simili alla crocifissione, durante il periodo celebrativo della Passione, ecc. Ma se a queste creature, di cui è piena la storia mistica della Chiesa, viene data la consolazione visiva di tali segni; vi sono altre invece che in assenza di tali doni, soffrono nel loro corpo il tormento e le sofferenze della nuda croce, popolare, quotidiano e finanche putrefacente. A questa categoria di anime destinate alla Via Crucis, appartiene Genoveffa De Troia, nacque a Lucera (FG) il 21 dicembre 1887 da Pasquale De Troia e Vincenza Terlizzi e già nell’infanzia ebbe il segno profetico del suo spirituale destino, a quattro anni comparve sulla gamba destra una piaga infetta che non guarirà mai, accompagnandola per tutta la vita. Ogni anno la mamma la portava al celebre santuario della Vergine Incoronata per implorare la guarigione e fu durante l’ultimo pellegrinaggio, che durante la recita delle sue preghiere, Genoveffa sentì una voce che le diceva: “non guarirai”, al che lei rispose prontamente: “Sia fatta la volontà di Dio”, intento che sarà la nota caratteristica di tutta quanta la sua spiritualità. Visse nella povertà della famiglia, segnata dal lavoro incerto del padre; nel 1901 a dodici anni frequentò ma senza successo, la scuola delle Suore di Carità, per questo dovette imparare il mestiere di cucitrice, ebbe anche un’altra esperienza di un mese a servizio di una famiglia di Trani e poi di un’altra a Lucera. Nel 1913 seguendo l’occasionalità di un lavoro trovato dal padre, la famiglia si trasferì a Foggia, da cui non si allontanerà più, se non per sfuggire ai bombardamenti della seconda guerra mondiale, quando si spostò a Troia nel 1943 per farvi ritorno nel 1945. Nel fiore della giovinezza, la malattia che già covava da anni, si rivelò in tutta la sua drammaticità, costringendola a letto, da dove non si alzerà più. Si trattava della ‘lipoidosi o granulomatosi’ detta anche “Malattia di Hand-Schüller Christian”, progressiva e peggiorativa, caratterizzata da alterazione e deformazione delle ossa craniche, a volte aumento della testa, atrofia genitale, nel suo caso ella era ‘flagellata dalla testa ai piedi’, mentre il suo corpo si rimpiccioliva a poco a poco, vittima di un nanismo ipofisario, mentre lo stare sempre a letto le procurò piaghe da decubito putrescenti in varie parti del corpo; l’immagine che conosciamo di lei, la raffigura tutta coperta di bende. Ma tutto questo era da lei accettato come volontà di Dio e al suo capezzale si alternavano persone di ogni ceto a chiedere consigli, preghiere, conforti; ormai la sua angusta stanzetta era diventata come una piccola cappella il cui altare era il lettino su cui Genoveffa si immolava per i peccati del mondo. Diceva: “Il giorno sono a disposizione delle anime che mi manda Gesù. La notte, tutta per Gesù a pregare e soffrire con Gesù”. L’incontro con un frate cappuccino padre Angelico da Sarno, nel 1925, fu determinante per la vita spirituale della giovane sofferente, egli commissario del Terz’Ordine Francescano ne divenne guida sicura e fonte di pace; dopo vari spostamenti, dovuti all’incomprensione dei proprietari di casa, timorosi della malattia di Genoveffa, la sistemò in una piccola casetta in via Briglia a Foggia. Anche in questo si deve vedere la volontà di Dio che opera dove vuole e come vuole, la strada era posta in un quartiere non proprio esemplare, case di povere prostitute si affacciavano sulla medesima strada e lei debolmente diceva a padre Angelico: “Padre dove mi avete mandata?”. Ma la sua presenza diventa opera di ‘bonifica’ della zona, man mano aumenta il numero delle persone che si recano a visitarla, alcune famiglie le inviano ogni giorno il cibo della propria tavola, ma lei che non mangiava quasi niente, lo dirotta alle famiglie dei dintorni che soffrono la fame. Nell’anno 1931, indossò l’abito di Terziaria Francescana, la sua celletta, come la chiamava, si trasformò in cenacolo di preghiera e in centrale di apostolato in aiuto della parrocchia, dell’Azione Cattolica, dei missionari. Benché praticamente analfabeta, dettava lettere che inviava dovunque, portatrici del messaggio della perfetta letizia, senza saperlo ella dalla sua cattedra di dolore, insegnava quella spiritualità operosa, che poco distante da Foggia, a S. Giovanni Rotondo il futuro santo cappuccino Padre Pio da Pietrelcina, negli stessi anni, proclamava in modo più visibile con le sue stimmate e le sue iniziative sociali. Era anche il tempo dell’affermarsi delle ideologie razziali, con l’estetismo pagano del nazismo, che oltre il massacro degli ebrei, faceva morire con una iniezione, in pseudo ospedali tedeschi, i portatori di handicap, rei di offuscare con la loro presenza, la purezza della razza ariana, che Hitler cercò di esaltare con l’istituzione delle case dell’amore di Stato, in cui si combinavano unioni di prestanti giovani con avvenenti valchirie tedesche. E invece qui nel profondo Sud d’Italia, una portatrice di grave handicap, diventa guida spirituale, aiuto effettivo nei bisogni, conforto nelle immancabili difficoltà della vita sia fisiche che morali. Certo le teorie folli di Hitler sappiamo come sono finite, in un bunker bombardato, mentre la luce scaturita dalle sofferenze di Genoveffa prosegue ad illuminare questo mondo in perenne pellegrinaggio verso la verità, anche attraverso la sua “Famiglia spirituale” che prosegue dopo di lei e in suo nome, nell’ambito dell’assistenza nelle carceri e nell’accoglienza di minori a rischio, la sua opera di carità, che espletava senza muoversi dal letto. Nonostante che alla nascita, vista la sua gracilità, le avessero prognosticato 24 ore di vita, Genoveffa restò inchiodata alla sua croce ben 62 anni, morendo l’11 dicembre 1949; il suo corpo prima inumato nel cimitero di Foggia, fu poi traslato nel 1965 nella chiesa dell’Immacolata dei cappuccini. Sono in corso i processi apostolici per la beatificazione, che si spera avvenga al più presto, così da poter indicare con maggiore efficacia a tutti, i frutti della sofferenza donata a Dio, senza disperazione, di cui Genoveffa De Troia è senz’altro un esempio fra i più eclatanti. Fonte:
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MARIA DIOMIRA DEL VERBO INCARNATO
(MARIA TERESA SERRI), Religiosa Clarissa Cappuccina
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La venerabile Maria Teresa Serri, questo il suo nome da laica, nacque a Genova il 23 febbraio 1708 da Giovanni Serri e Teresa Curti di nazionalità svizzera. La sua infanzia fu contraddistinta da un precoce desiderio di sapere, pregare e soffrire; andava a scuola con la sorella e fin da allora amava passare parecchio tempo ritirata nella sua stanza in preghiera e nella meditazione dei dolori di Gesù, dovette sopportare le derisioni delle persone anche dello stesso ambiente familiare, a cui sembrava strano che una bambina fosse così solitaria e scrupolosa. Ad otto anni si trasferì con la famiglia in Svizzera, prima a Zug poi a Friburgo, per un breve soggiorno, ed in questo periodo prima di ritornare a Genova, Maria Teresa fece la Prima Comunione. Non frequentò più la scuola, ma in casa apprese il ricamo dalla sorella e ogni giorno aumentava per lei la contemplazione del Crocifisso; di nuovo la famiglia si trasferì questa volta a Pisa, qui incontrò un confessore comprensivo che le diede il permesso di ricevere la S. Comunione tutti i giorni, cosa molto difficile allora e incontrò anche un frate cappuccino che la iniziò alla pratica della penitenza corporale, cosa che l’aveva sempre attratta, da quando aveva visto un cilicio nelle mani del fratello. Ormai era chiaro che la sua strada era quella di consacrata a Dio, ma in che modo era ancora da definire. Trascorse due anni nel monastero delle Benedettine di Pisa, ma nonostante il desiderio favorevole delle suore, indecisa lasciò. Nel frattempo le morì il padre e lei entrò in contatto con le cappuccine di Città di Castello che volentieri l’avrebbero accolta, anzi le avrebbero data la cella lasciata vuota da s. Veronica Giuliani, da poco defunta. Si racconta che a farle decidere, ci fu una visione di s. Francesco, che le avrebbe detto: ”Non a Città di Castello, ma tra le cappuccine di Fanano”, monastero che si trovava nei pressi di Nonantola in provincia di Modena. Superate tante altre difficoltà che il demonio le faceva incontrare, finalmente il 5 ottobre 1730 entrò nel monastero, dove prese il nome di Maria Diomira del Verbo Incarnato, ormai pronta e decisa ad intraprendere la via che il Signore le mostrava. Il noviziato non fu facile, data la delicata costituzione fisica; il suo primo ufficio fu quello di inserviente del refettorio che durò per cinque anni. In seguito fu nominata badessa, ma in questa carica dovette subire le incomprensioni di parte delle religiose, che provocarono i rimproveri del cardinale Albani in visita al monastero, perché alle suore non veniva dato cibo a sufficienza, si credeva per risparmiare a causa di certi lavori da fare. Dopo un periodo d’intervallo in cui ebbe l’incarico della sacristia, nella Pentecoste del 1752, fu nuovamente eletta badessa; ma il modo in cui avvenne, non fu dei migliori, un influente prelato avrebbe voluto che venisse eletta una sua nipote e a tale scopo fu inviato un religioso che con prediche preparatorie aveva il compito di orientare le suore verso questa scelta, ma allo scrutinio la candidata del prelato prese un solo voto, quello di Maria Diomira, mentre tutte le altre avevano votato per lei.. Il religioso deluso riversò sulla eletta un’aspra rampogna; la madre badessa nel suo anelito di perfezione viveva nel tempo e fuori del tempo, purificata dal dolore e dalla penitenza. Per 40 anni portò sulla carne dal lato del cuore, una croce fornita di 33 punte aguzze. Stava male, cadendo in uno stato di prostrazione, quando per ubbidienza sospendeva le sue penitenze e diceva: “Segno evidente, che la volontà di Dio, per me è il patire”. Ebbe il dono di frequenti visioni di Gesù in croce e dell’ Ecce Homo, nella notte di Natale 1767, si sentì colpita da un dardo che le procurò una gioia incredibile e un dolore indicibile, era il preavviso dell’incontro definitivo con il suo Sposo; la vigilia dell’Epifania, si ammalò gravemente, ricevé gli ultimi Sacramenti; il 14 gennaio 1768 a 60 anni, tutta presa in una visione della S. Famiglia e dell’Angelo Custode si spense serenamente. Dopo la morte, sul suo corpo ritornarono visibili le stimmate, che aveva avuto prima di entrare in convento. Papa Leone XIII ne introdusse la causa di beatificazione il 21 dicembre 1901. Fonte: /www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/90973 |
MARIA DI
GESU' CROCIFISSO (MARIAM BAOUARDY), Religiosa Carmelitana
scalza a |
Facendo riferimento alla bella introduzione, della biografia della Beata Maria di Gesù Crocifisso, inserita nel volume “Santi del nostro tempo”, di padre Antonio Maria Sicari, carmelitano scalzo; non si può non rimanere meravigliati del provvidenziale intervento di Dio, che suscita in periodi particolari della storia dell’uomo e dell’evoluzione del suo pensiero, figure di santità che sconvolgono con la loro vita, l’ideologia atea, modernista, rinnegatrice di Dio, imperante nel loro tempo.Spesso queste figure sante sono persone semplici, e la loro semplicità è tanto più potente, perché sconvolge la presunzione, la superbia, l’arroganza di potenti e pseudo-sapienti. A questa mirabile categoria appartenne Mariam Baouardy, la quale nacque ad Abellin in Galilea, tra Nazareth e Haifa, il 5 gennaio 1846 da una famiglia araba ma cattolica, di rito greco-melchita. I genitori Giorgio Baouardy (lavoratore della polvere da sparo) e Mariam Chahyn, erano ferventi credenti ma infelici, perché avevano perso ben dodici figli, morti in tenerissima età. Un giorno intrapresero un pellegrinaggio di 170 km a piedi, diretti a Betlemme per pregare sulla culla di Gesù Bambino, chiedendo alla Santa Vergine il dono di una figlia, che avrebbero chiamata Mirjam in suo onore. Il loro desiderio fu esaudito e nove mesi dopo nacque la bimba, che fu battezzata e cresimata nello stesso giorno, secondo il rito orientale; un anno dopo nacque anche un maschietto, Baulos (Paolo). Ma la felicità dopo tante angosce, fu di breve durata, quando Mirjam o Mariam non aveva ancora tre anni, morì il padre e dopo pochi giorni anche la mamma per il dolore. I due orfani furono adottati da parenti, Mariam da uno zio paterno e il fratellino da una zia materna residente in un vicino villaggio. Nel 1854 quando Mariam aveva otto anni, lo zio si trasferì ad Alessandria d’Egitto portandola con sé, così i due fratellini non si rividero più. L’infanzia trascorse con tranquillità, fece la Prima Comunione un paio d’anni prima del tempo fissato, perché dietro le sue insistenze, il prete distrattamente disse di sì. Non ebbe un’istruzione (soltanto molto più tardi imparò a leggere e scrivere stentatamente); cresceva nella sua semplicità e umiltà come un angelo; in un momento di sconforto per la morte di due uccellini che accudiva, avvertì dentro di sé una voce: “Vedi, tutto passa! Ma se tu vuoi dare a me il tuo cuore, io resterò con te per sempre”. Verso i dodici anni fu fidanzata a sua insaputa, secondo l’uso orientale, ad un cognato dello zio e quando aveva 13 anni le dissero che era arrivato il momento del matrimonio; giunse il fidanzato portando ricchi gioielli e la sua famiglia adottiva le preparò vesti ricamate e sontuose. Ma Mariam non voleva affatto sposarsi e lo comunicò agli stupiti zii, questi non capivano il perché e pensando ad un capriccio di adolescente, coinvolsero il prete e il vescovo della comunità, affinché la convincessero ad ubbidire a loro; ma tutto fu inutile, quando il giovane proveniente dal Cairo, si presentò per la cerimonia, tutti aspettavano che Mirjam uscisse dalla sua stanza in abiti nuziali, invece lei si presentò con i lunghi capelli recisi, deposti in un vassoio. Questo gesto l’espose all’ira degli zii, i quali la relegarono in cucina tra le schiave di casa e soggetta alle loro prepotenze. Dopo tre mesi la ragazza si ricordò del fratello Baulos rimasto in Palestina e tentò di mettersi in contatto con lui. Si fece scrivere una lettera di nascosto e una sera si recò a portarla ad un servo arabo musulmano, conosciuto in casa degli zii e che sapeva in procinto di partire per Nazareth. Ma a casa di quest’uomo ci fu una sgradita sorpresa, la famiglia inizialmente l’accolse con gentilezze e ascoltò le sue peripezie familiari, poi l’uomo nell’ascoltarla si incolleriva sempre più e alla fine esortò Mirjam a lasciare il cristianesimo e convertirsi all’Islam. La ragazza oppose un fiero rifiuto: “Musulmana io? Mai! Sono figlia della Chiesa Cattolica e spero di restare tale per tutta la vita”. In quel tempo gli odi religiosi erano violenti e pronti a scoppiare per un niente; la risposta imbestialì l’uomo che le sferrò un violento calcio, che la fece stramazzare a terra e poi con la scimitarra le diede un fendente alla gola. Credendola morta, Mariam fu avvolta in un lenzuolo e depositata in un’oscura stradina. Cosa accadde poi, lo rivelò molti anni dopo la stessa Mariam, come in un sogno le sembrò di essere in Paradiso e aveva rivisto i suoi genitori; una voce le aveva detto: “Il tuo libro non è ancora tutto scritto”; risvegliatosi si era trovata in una grotta assistita e curata da una giovane donna, che come una suora portava un velo azzurro. Dopo circa quattro settimane, quella donna l’aveva condotta alla chiesa dei Francescani lasciandola lì. Maria Baouardy raccontò sempre, che per lei era la Vergine che l’aveva curata e mostrava la lunga cicatrice che le attraversava il collo; in effetti 16 anni dopo, un celebre medico non credente, che l’aveva visitata a Marsiglia, constatò che le mancavano alcuni anelli della trachea, esclamando disse: “Un Dio ci deve essere, perché nessuno al mondo, senza un miracolo, potrebbe vivere dopo una simile ferita”. Mariam celebrava sempre con solennità la festa della Natività di Maria, in ricordo di quell’otto settembre, quando fu ferita così gravemente. Abbandonata ormai la famiglia adottiva, con l’aiuto di un francescano, Mariam a 13 anni si mise al servizio come domestica di famiglie non agiate, ad Alessandria, Beirut, Gerusalemme, dove sul Santo Sepolcro emise il voto di castità perpetua; si spostava volontariamente presso famiglie sempre più bisognose, fino a prendersi cura di una famigliola malata e ridotta in miseria, per la quale si mise lei stessa a mendicare. Nel 1863, la famiglia siriana Nadjar presso la quale serviva, si trasferì a Marsiglia in Francia, portando con sé la diciassettenne Mariam, analfabeta. Qui avvertì più chiaramente la chiamata di Dio ad una vita consacrata; non riuscì ad entrare fra le Figlie della Carità, a causa dell’intervento della sua padrona, che non voleva perderla. Nel 1865 a 19 anni, fu ammessa fra le postulanti delle Suore di San Giuseppe dell’Apparizione; non poteva offrire altro che il suo lavoro manuale, per le incombenze più pesanti, a cui non si sottraeva, anzi anticipava le altre consorelle, tranquillizzandole nel suo approssimativo francese, dava del ‘tu’ a tutti e questa fu la sua caratteristica per sempre. Stava quasi sempre in lavanderia o cucina, ma in questi luoghi cominciò ad andare in estasi e aveva visioni; il giovedì e venerdì, comparivano sulle mani e piedi, stimmate sanguinanti, la prima volta fu il 29 marzo 1867; Mariam credeva che si trattasse di una malattia e vergognandosene, nascondeva le ferite con cura; credendo che potesse trattarsi di lebbra, visto che in Palestina aveva contattato dei lebbrosi, raccomandava alla Madre Superiora di stare lontana da lei, ma la Madre che aveva compreso l’eccezionalità del fenomeno, la tranquillizzava. Ma qualche mese dopo, sempre nel 1867, in assenza della Madre Generale, che la capiva e proteggeva, fu allontanata dall’Istituto, perché i suoi fenomeni turbavano troppo la comunità, consigliandola di entrare in un Istituto di vita contemplativa, più adatta per lei. Il 14 giugno 1867 Mirjam entrò nel Carmelo di Pau (Bassi Pirenei), presentata dalla sua vecchia maestra di noviziato, suor Veronica della Passione, che garantiva e dichiarò poi “quella piccola araba era obbediente fino al miracolo”. Il 27 luglio 1867, indossò l’abito carmelitano, prendendo il nome di Maria di Gesù Crocifisso; la sua condizione di analfabeta la relegava fra le converse e per lei che voleva solo servire, andava bene così; ma fu deciso invece di ammetterla come corista e la obbligarono ad imparare a leggere e scrivere, purtroppo senza successo, per cui nel 1870 ritornò conversa. Intanto continuavano le estasi, lei se ne vergognava, convinta che non sapesse resistere al sonno e si addormentava; non riusciva a completare una preghiera, come iniziava, dopo qualche strofa, diceva lei, si addormentava. Le stimmate sanguinavano nel giorno della Passione di Cristo, e si era aperta una piaga sul costato simile a quella di Gesù in croce. A 21 anni ne dimostrava dodici, tanto era minuta e come una bambina ne possedeva il candore senza conoscere alcuna malizia. Con le sue visioni, ebbe la facoltà di prevedere alcuni attentati contro il papa Pio IX, come la distruzione della caserma pontificia ‘Serristori’ di Borgo Vecchio, che saltò in aria il 23 ottobre 1869, da allora la Santa Sede prese ad interessarsi di quella novizia in Francia. Il 21 agosto 1870 fu inviata insieme ad altre carmelitane a fondare il primo Carmelo a Mangalore in India, anche in terra di missione, aveva gli straordinari fenomeni, che lei cercava di nascondere e benché fosse impedita nel fisico prostrato, non mancava ai suoi doveri in cucina e nei lavori pesanti; spesso sembrava che il demonio prendesse possesso di lei, alternando momenti di manifestazioni straordinarie di grazia. Con l’andare del tempo, la cosa impensierì sia la superiora che il vescovo, che l’accusarono di essere una visionaria, di ferirsi col coltello, di avere una troppa fervida immaginazione orientale, e forse di essere un’indemoniata. A Mariam, Satana le faceva commettere, ma solo esteriormente, serie mancanze contro la Regola, questo capitava proprio a lei che era sempre stata di un’obbedienza esemplare; le sembrava a volte di essere immersa in un lago circondato da serpenti e la Madonna le diceva: “Io sono tua Madre. Ti metto io in quest’acqua. Non ti muovere. Tu non mi vedrai, ma io veglierò su di te”. Alla fine nel settembre 1872 fu rimandata al Carmelo di Pau in Francia; riprendendo la semplice vita di conversa, fatta di tanto lavoro intervallato dagli episodi prodigiosi; illetterata com’era, componeva bellissime poesie incantata dalla natura e inventava strane e dolci melodie per cantarle. Intanto i prodigi continuavano a Pau; per sei giorni consecutivi fra luglio e agosto 1873, fu trovata in cima ad un gigantesco tiglio, poggiata sui debolissimi rami; solo quando la superiora, a voce alta le ordinava di scendere, lei leggera, quasi senza toccare i rami e le foglie, scendeva e si ridestava dall’estasi, raccontando che Gesù le tendeva le mani e la sollevava mentre saliva, ma in genere non ricordava nulla di tutto ciò, le consorelle con premura non le dicevano niente, facendogli trovare ai piedi dell’albero altri sandali, velo, cintura, che le erano rimasti impigliati negli alti rami. Nello stesso 1872 confidò ai Superiori, che il Signore voleva un Carmelo a Betlemme in Terra Santa, assicurando che le grandi difficoltà sarebbero state superate. Papa Pio IX in persona autorizzò la fondazione e così nell’agosto del 1875, dopo un pellegrinaggio a Lourdes, suor Maria di Gesù Crocifisso, con altre otto carmelitane, salpò per il Medio Oriente. Il 6 settembre era a Gerusalemme e l’11 giunse a Betlemme, dove fu costruito il primo monastero carmelitano a forma di torre sulla ‘collina di Davide’, secondo un progetto ideato da lei stessa, che diresse anche i lavori di costruzione; fu inaugurato il 24 settembre 1876 e il 21 novembre le suore poterono entrarvi. Progettò anche la fondazione di un Carmelo a Nazareth, dove si recò nel 1878 a vedere il terreno adatto; si recò in pellegrinaggio anche ad Ain Karem, ad Emmaus, al Monte Carmelo e ad Abellin, senza perdere il contatto con la presenza di Dio un solo istante. Fece arrivare in Terra Santa i Padri di Betharram, fondati da s. Michele Garicoïts e per i quali si adoperò per l’approvazione delle Costituzioni. Umile e illetterata seppe dare consigli e spiegazioni teologiche con chiarezza cristallina, frutto del dialogo continuo con lo Spirito Santo. Lo Spirito la faceva partecipe degli avvenimenti anche lontani, del mondo cattolico, dalle missioni in Asia all’attività apostolica del ‘suo’ papa Pio IX, alla cui morte partecipò in estasi, il 7 febbraio 1878; come. sempre in estasi, partecipò all’elezione del successore papa Leone XIII. Continuò a vivere a Betlemme i suoi ultimi anni della sua breve esistenza, fra estasi, visioni, levitazioni, bilocazioni, stimmate, ma anche tormenti demoniaci, ossessioni del maligno; sempre più attratta da Dio, pregava: “Non posso più vivere, o Dio, non posso più vivere. Chiamami a te!”. Il 22 agosto del 1878, mentre trasportava due secchi d’acqua per dare da bere ai muratori che lavoravano nel giardino del monastero, cadde inciampando su una cassetta di gerani fioriti e si ruppe un braccio in più parti, mentre la soccorrevano mormorò: “È finita”; il giorno dopo s’era già sviluppata la gangrena. Alle cinque del mattino del 26 agosto, baciando per l’ultima volta il crocifisso, morì a soli 32 anni; la “piccola araba” la cui breve vita fu straordinaria sotto tutti gli aspetti, fu tumulata nello stesso convento carmelitano di Betlemme. Ad Abellin suor Maria di Gesù Baouardy è venerata come “la Kedise” (la santa), sia da cristiani che da musulmani e tanti devoti raccontano di aver ricevuto miracoli per sua intercessione. La “piccola araba” è stata proclamata Beata il 13 novembre 1983, da papa Giovanni Paolo II, durante l’anno del Giubileo della Redenzione. Si riporta a conclusione, una strofa di un lungo salmo di contemplazione, da lei composto di getto: “A chi assomiglio io, Signore? Agli uccelletti implumi nel loro nido. Se il padre e la madre non portano loro il cibo muoiono di fame. Così è l’anima mia, senza di te, o Signore. Non ha sostegno, non può vivere ...”. Fonte: /www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/90045 |
RITA DA
CASCIA, Vedova e Religiosa Agostiniana |
Fra le tante stranezze o fatti strepitosi che accompagnano la vita dei santi, prima e dopo la morte, ce n'è uno in particolare che riguarda s. Rita da Cascia, una delle sante più venerate in Italia e nel mondo cattolico, ed è che essa è stata beatificata ben 180 anni dopo la sua morte e addirittura proclamata santa a 453 anni dalla morte. Quindi una santa che ha avuto un cammino ufficiale per la sua canonizzazione molto lento (si pensi che sant’Antonio di Padova fu proclamato santo un anno dopo la morte), ma nonostante ciò s. Rita è stata ed è una delle più venerate ed invocate figure della santità cattolica, per i prodigi operati e per la sua umanissima vicenda terrena. Rita ha il titolo di “santa dei casi impossibili”, cioè di quei casi clinici o di vita, per cui non ci sono più speranze e che con la sua intercessione, tante volte miracolosamente si sono risolti. Nacque intorno al 1381 a Roccaporena, un villaggio montano a 710 metri s. m. nel Comune di Cascia, in provincia di Perugia; i suoi genitori Antonio Lottius e Amata Ferri erano già in età matura quando si sposarono e solo dopo dodici anni di vane attese, nacque Rita, accolta come un dono della Provvidenza. La vita di Rita fu intessuta di fatti prodigiosi, che la tradizione, più che le poche notizie certe che possediamo, ci hanno tramandato; ma come in tutte le leggende c’è alla base senz’altro un fondo di verità. Si racconta quindi che la madre molto devota, ebbe la visione di un angelo che le annunciava la tardiva gravidanza, che avrebbero ricevuto una figlia e che avrebbero dovuto chiamarla Rita; in ciò c’è una similitudine con s. Giovanni Battista, anch’egli nato da genitori anziani e con il nome suggerito da una visione. Poiché a Roccaporena mancava una chiesa con fonte battesimale, la piccola Rita venne battezzata nella chiesa di S. Maria della Plebe a Cascia e alla sua infanzia è legato un fatto prodigioso; dopo qualche mese, i genitori, presero a portare la neonata con loro durante il lavoro nei campi, riponendola in un cestello di vimini poco distante. E un giorno mentre la piccola riposava all’ombra di un albero, mentre i genitori stavano un po’ più lontani, uno sciame di api le circondò la testa senza pungerla, anzi alcune di esse entrarono nella boccuccia aperta depositandovi del miele. Nel frattempo un contadino che si era ferito con la falce ad una mano, lasciò il lavoro per correre a Cascia per farsi medicare; passando davanti al cestello e visto la scena, prese a cacciare via le api e qui avvenne la seconda fase del prodigio, man mano che scuoteva le braccia per farle andare via, la ferita si rimarginò completamente. L’uomo gridò al miracolo e con lui tutti gli abitanti di Roccaporena, che seppero del prodigio. Rita crebbe nell’ubbidienza ai genitori, i quali a loro volta inculcarono nella figlia tanto attesa, i più vivi sentimenti religiosi; visse un’infanzia e un’adolescenza nel tranquillo borgo di Roccaporena, dove la sua famiglia aveva una posizione comunque benestante e con un certo prestigio legale, perché a quanto sembra ai membri della casata Lottius, veniva attribuita la carica di ‘pacieri’ nelle controversie civili e penali del borgo. Già dai primi anni dell’adolescenza Rita manifestò apertamente la sua vocazione ad una vita religiosa, infatti ogni volta che le era possibile, si ritirava nel piccolo oratorio, fatto costruire in casa con il consenso dei genitori, oppure correva al monastero di Santa Maria Maddalena nella vicina Cascia, dove forse era suora una sua parente. Frequentava anche la chiesa di S. Agostino, scegliendo come suoi protettori i santi che lì si veneravano, oltre s. Agostino, s. Giovanni Battista e Nicola da Tolentino, canonizzato poi nel 1446. Aveva tredici anni quando i genitori, forse obbligati a farlo, la promisero in matrimonio a Fernando Mancini, un giovane del borgo, conosciuto per il suo carattere forte, impetuoso, perfino secondo alcuni studiosi, brutale e violento. Rita non ne fu entusiasta, perché altre erano le sue aspirazioni, ma in quell’epoca il matrimonio non era tanto stabilito dalla scelta dei fidanzati, quando dagli interessi delle famiglie, pertanto ella dovette cedere alle insistenze dei genitori e andò sposa a quel giovane ufficiale che comandava la guarnigione di Collegiacone, del quale “fu vittima e moglie”, come fu poi detto. Da lui sopportò con pazienza ogni maltrattamento, senza mai lamentarsi, chiedendogli con ubbidienza perfino il permesso di andare in chiesa. Con la nascita di due gemelli e la sua perseveranza di rispondere con la dolcezza alla violenza, riuscì a trasformare con il tempo il carattere del marito e renderlo più docile; fu un cambiamento che fece gioire tutta Roccaporena, che per anni ne aveva dovuto subire le angherie. I figli Giangiacomo Antonio e Paolo Maria, crebbero educati da Rita Lottius secondo i principi che le erano stati inculcati dai suoi genitori, ma essi purtroppo assimilarono anche gli ideali e regole della comunità casciana, che fra l’altro riteneva legittima la vendetta. E venne dopo qualche anno, in un periodo non precisato, che a Rita morirono i due anziani genitori e poi il marito fu ucciso in un’imboscata una sera mentre tornava a casa da Cascia; fu opera senz’altro di qualcuno che non gli aveva perdonato le precedenti violenze subite. Ai figli ormai quindicenni, cercò di nascondere la morte violenta del padre, ma da quel drammatico giorno, visse con il timore della perdita anche dei figli, perché aveva saputo che gli uccisori del marito, erano decisi ad eliminare gli appartenenti al cognome Mancini; nello stesso tempo i suoi cognati erano decisi a vendicare l’uccisione di Fernando Mancini e quindi anche i figli sarebbero stati coinvolti nella faida di vendette che ne sarebbe seguita. Narra la leggenda che Rita per sottrarli a questa sorte, abbia pregato Cristo di non permettere che le anime dei suoi figli si perdessero, ma piuttosto di toglierli dal mondo, “Io te li dono. Fà di loro secondo la tua volontà”. Comunque un anno dopo i due fratelli si ammalarono e morirono, fra il dolore cocente della madre. A questo punto inserisco una riflessione personale, sono del Sud Italia e in alcune regioni, esistono realtà di malavita organizzata, ma in alcuni paesi anche faide familiari, proprio come al tempo di s. Rita, che periodicamente lasciano sul terreno morti di ambo le parti. Solo che oggi abbiamo sempre più spesso donne che nell’attività malavitosa, si sostituiscono agli uomini uccisi, imprigionati o fuggitivi; oppure ad istigare altri familiari o componenti delle bande a vendicarsi, quindi abbiamo donne di mafia, di camorra, di ‘ndrangheta, di faide familiari, ecc. Al contrario di s. Rita che pur di spezzare l’incipiente faida creatasi, chiese a Dio di riprendersi i figli, purché non si macchiassero a loro volta della vendetta e dell’omicidio. S. Rita è un modello di donna adatto per i tempi duri. I suoi furono giorni di un secolo tragico per le lotte fratricide, le pestilenze, le carestie, con gli eserciti di ventura che invadevano di continuo l’Italia e anche se nella bella Valnerina questi eserciti non passarono, nondimeno la fame era presente. Poi la violenza delle faide locali aggredì l’esistenza di Rita Lottius, distruggendo quello che si era costruito; ma lei non si abbatté, non passò il resto dei suoi giorni a piangere, ma ebbe il coraggio di lottare, per fermare la vendetta e scegliere la pace. Venne circondata subito di una buona fama, la gente di Roccaporena la cercava come popolare giudice di pace, in quel covo di vipere che erano i Comuni medioevali. Esempio fulgido di un ruolo determinante ed attivo della donna, nel campo sociale, della pace, della giustizia. Ormai libera da vincoli familiari, si rivolse alle Suore Agostiniane del monastero di S. Maria Maddalena di Cascia per essere accolta fra loro; ma fu respinta per tre volte, nonostante le sue suppliche. I motivi non sono chiari, ma sembra che le Suore temessero di essere coinvolte nella faida tra famiglie del luogo e solo dopo una riappacificazione, avvenuta pubblicamente fra i fratelli del marito ed i suoi uccisori, essa venne accettata nel monastero. Per la tradizione, l’ingresso avvenne per un fatto miracoloso, si narra che una notte, Rita come al solito, si era recata a pregare sullo “Scoglio” (specie di sperone di montagna che s’innalza per un centinaio di metri al disopra del villaggio di Roccaporena), qui ebbe la visione dei suoi tre santi protettori già citati, che la trasportarono a Cascia, introducendola nel monastero, si cita l’anno 1407; quando le suore la videro in orazione nel loro coro, nonostante tutte le porte chiuse, convinte dal prodigio e dal suo sorriso, l’accolsero fra loro. Quando avvenne ciò Rita era intorno ai trent’anni e benché fosse illetterata, fu ammessa fra le monache coriste, cioè quelle suore che sapendo leggere potevano recitare l’Ufficio divino, ma evidentemente per Rita fu fatta un’eccezione, sostituendo l’ufficio divino con altre orazioni. La nuova suora s’inserì nella comunità conducendo una vita di esemplare santità, praticando carità e pietà e tante penitenze, che in breve suscitò l’ammirazione delle consorelle. Devotissima alla Passione di Cristo, desiderò di condividerne i dolori e questo costituì il tema principale delle sue meditazioni e preghiere. Gesù l’esaudì e un giorno nel 1432, mentre era in contemplazione davanti al Crocifisso, sentì una spina della corona del Cristo conficcarsi nella fronte, producendole una profonda piaga, che poi divenne purulenta e putrescente, costringendola ad una continua segregazione. La ferita scomparve soltanto in occasione di un suo pellegrinaggio a Roma, fatto per perorare la causa di canonizzazione di s. Nicola da Tolentino, sospesa dal secolo precedente; ciò le permise di circolare fra la gente. Si era talmente immedesimata nella Croce, che visse nella sofferenza gli ultimi quindici anni, logorata dalle fatiche, dalle sofferenze, ma anche dai digiuni e dall’uso dei flagelli, che erano tanti e di varie specie; negli ultimi quattro anni si cibava così poco, che forse la Comunione eucaristica era il suo unico sostentamento e fu costretta a restare coricata sul suo giaciglio. E in questa fase finale della sua vita, avvenne un altro prodigio, essendo immobile a letto, ricevé la visita di una parente, che nel congedarsi le chiese se desiderava qualcosa della sua casa di Roccaporena e Rita rispose che le sarebbe piaciuto avere una rosa dall’orto, ma la parente obiettò che si era in pieno inverno e quindi ciò non era possibile, ma Rita insisté. Tornata a Roccaporena la parente si recò nell’orticello e in mezzo ad un rosaio, vide una bella rosa sbocciata, stupita la colse e la portò da Rita a Cascia, la quale ringraziando la consegnò alle meravigliate consorelle. Così la santa vedova, madre, suora, divenne la santa della ‘Spina’ e la santa della ‘Rosa’; nel giorno della sua festa questi fiori vengono benedetti e distribuiti ai fedeli. Il 22 maggio 1447 Rita si spense, mentre le campane da sole suonavano a festa, annunciando la sua ‘nascita’ al cielo. Si narra che il giorno dei funerali, quando ormai si era sparsa la voce dei miracoli attorno al suo corpo, comparvero delle api nere, che si annidarono nelle mura del convento e ancora oggi sono lì, sono api che non hanno un alveare, non fanno miele e da cinque secoli si riproducono fra quelle mura. Per singolare privilegio il suo corpo non fu mai sepolto, in qualche modo trattato secondo le tecniche di allora, fu deposto in una cassa di cipresso, poi andata persa in un successivo incendio, mentre il corpo miracolosamente ne uscì indenne e riposto in un artistico sarcofago ligneo, opera di Cesco Barbari, un falegname di Cascia, devoto risanato per intercessione della santa. Sul sarcofago sono vari dipinti di Antonio da Norcia (1457), sul coperchio è dipinta la santa in abito agostiniano, stesa nel sonno della morte su un drappo stellato; il sarcofago è oggi conservato nella nuova basilica costruita nel 1937-1947; anche il corpo riposa incorrotto in un’urna trasparente, esposto alla venerazione degli innumerevoli fedeli, nella cappella della santa nella Basilica-Santuario di S. Rita a Cascia. Accanto al cuscino è dipinta una lunga iscrizione metrica che accenna alla vita della “Gemma dell’Umbria”, al suo amore per la Croce e agli altri episodi della sua vita di monaca santa; l’epitaffio è in antico umbro ed è di grande interesse quindi per conoscere il profilo spirituale di S. Rita. Bisogna dire che il corpo rimasto prodigiosamente incorrotto e a differenza di quello di altri santi, non si è incartapecorito, appare come una persona morta da poco e non presenta sulla fronte la famosa piaga della spina, che si rimarginò inspiegabilmente dopo la morte. Tutto ciò è documentato dalle relazioni mediche effettuate durante il processo per la beatificazione, avvenuta nel 1627 con papa Urbano VIII; il culto proseguì ininterrotto per la santa chiamata “la Rosa di Roccaporena”; il 24 maggio 1900 papa Leone XIII la canonizzò solennemente. Al suo nome vennero intitolate tante iniziative assistenziali, monasteri, chiese in tutto il mondo; è sorta anche una pia unione denominata “Opera di S. Rita” preposta al culto della santa, alla sua conoscenza, ai continui pellegrinaggi e fra le tante sue realizzazioni effettuate, la cappella della sua casa, la cappella del “Sacro Scoglio” dove pregava, il santuario di Roccaporena, l’Orfanotrofio, la Casa del Pellegrino. Il cuore del culto comunque resta il Santuario ed il monastero di Cascia, che con Assisi, Norcia, Cortona, costituiscono le culle della grande santità umbra. Fonte: /www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/32950 |
GEMMA GALGANI, Laica |
Gemma Galgani nasce il 12 marzo 1878 a Bogonuovo di Camigliano (Lucca), riceve il battesimo il 13 marzo. Il 26 maggio 1885, nella chiesa di San Michele in Foro, l’arcivescovo di Lucca somministra a Gemma la Cresima. La mamma Aurelia muore nel settembre del 1886. Un altro grande dolore per Gemma fu la morte del fratello Gino, seminarista, avvenuta nel 1894, ad appena 18 anni. Nel 1895 Gemma riceve l'ispirazione a seguire impegno e decisione la via della croce, quale itinerario cristiano. Gemma ha alcune visioni del suo angelo custode che le ricorda che i gioielli di una sposa del crocifisso sono la croce e le spine. L'11 novembre 1897 muore anche il padre di Gemma, Enrico, e le misere condizioni della famiglia, la obblifano a lasciare la casa di via S. Giorgio per quella di via del Biscione, 13 (oggi via S. Gemma 23). Gemma trascorre un periodo a Camaiore, presso la zia che l’aveva voluta con sé dopo la morte del babbo, ma nell’autunno 1899 si ammala gravemente e ritorna in famiglia. I mesi invernali segnano grandi sofferenze per tutti e le ristrettezze economiche si fanno sentire penosamente sulla numerosa famiglia, oltre alle due zie Elisa ed Elena, vi sono i fratelli di Gemma, Guido, Ettore e Tonino, e le sorelle Angelina e Giulietta. Guido, il fratello maggiore, studia a Pisa e, dopo la laurea in farmacia, cerca di aiutare la famiglia lavorando presso l’ospedale di Lucca. Anche Tonino studia a Pisa con sacrificio di tutti. Nel periodo della malattia Gemma, legge la biografia del venerabile passionista Gabriele dell’Addolorata (ora santo). Gemma ha un'apparizione del venerabile che ha per lei parole di conforto. Gemma nel frattempo matura una decisione e la sera dell’8 dicembre, festa dell’Immacolata, fa voto di verginità. Nella notte seguente il venerabile Gabriele le appare nuovamente chiamandola "sorella mia" e porgendole a baciare il segno dei passionistiche gli posa sul petto. Nel mese di gennaio nonstante le terapie mediche, la malattia di Gemma, osteite delle vertebre lombari con ascesso agli inguini, si aggrava fino alla paralisi delle gambe. Ad aggravare la situazione, il 28 gennaio si manifesta anche un’otite purulenta con partecipazione della mastoide. Proprio in quei giorni, il fratello Guido si trasferisce a Bagni di San Giuliano dove ha ottenuto una farmacia. Gemma è confortata dalle visioni del venerabile Gabriele e del suo angelo custode, ma è tentata dal demonio, che riesce a vincere con l'aiuto del venerabile Gabriele, ormai sua guida spirituale. Il 2 febbraio i medici la danno per spacciata, secondo loro non supererà la notte, ma Gemma trascorre le giornate in preghiera, tra indicibili sofferenze. Il 3 marzo è il primo venerdì del mese e la giovane ha terminato una novena in onore della beata Margherita Maria Alacoque (ora santa) e si accostò all'eucarestia, quando avvenne la guarigione miracolosa. Il 23 dello stesso mese, tornata a casa dopo l’Eucaristia, Gemma ha una visione del venerabile Gabriele, che le indica il Calvario come meta finale. Il 30 marzo, Giovedì Santo, Gemma è in preghiera, compie l’«Ora Santa» in unione a Gesù nell’Orto degli Ulivi, e Gesù a un tratto le appare ferito e insanguionato. Nell’aprile seguente, preoccupata di non sapere amare Gesù, Gemma si trova nuovamente davanti al Crocifisso e ne ascolta parole di amore: Gesù ci ha amati fino alla morte in Croce, è la sofferenza che insegna ad amare. L'8 giugno, dopo essersi accostata all'Eucarestia, Gesù le appare annunciandole una grazia grandissima. Gemma, sente il peso dei peccati, ma ha una visione di Maria, dell'angelo custode e di Gesù, Maria nel nome di suo Figlio li rimette i peccati e la chiama alla sua missione Dalle ferite di Gesù non usciva più sangue, ma fiamme che vnnero a toccare le mani, i piedi e il cuore di Gemma. Gemma si sentiva come morire, stava per cadere in terra, ma Maria la sorreggeva e quindi la baciò in fronte. Gemma si trovò in ginocchio a terra con un forte dolore alle mani, ai piedi e al cuore, dove usciva del sangue. Quei dolori però anziché affliggerla gli davano una pace perfetta. La mattina successiva si recò all'Eucarestia, coprendo le mani con un paio di guanti. I dolori le durarono fino alle ore 15 del venerdì, festa solenne del Sacro Cuore di Gesù». Da quella sera, ogni settimana Gesù chiamò Gemma ad essergli collaboratrice nell’opera della salvezza, unendola a tutte le Sue sofferenze fisiche e spirituali. questa grazia grandissima fu motivo per Gemma di ineffabili gioie e di profondi dolori. In casa vi fu perplessità e incredulità per quanto avveniva, Gemma era spesso rimproverata dalle zie e dai fratelli, talvolta venivaderisa e canzonata dalle sorelle, ma Gemma taceva e attendeva. Nei mesi estivi conosce i Passionisti impegnati nella Missione popolare in Cattedrale e da uno di essi viene introdotta in casa Giannini. Gemma conosceva già la signora Cecilia, ma frequentandola nella casa di via del Seminario, inizia una vera e profonda amicizia con quella che le sarà come una seconda madre. Nel gennaio del 1900, Gemma comincerà a scrivere a padre Germano, il sacerdote passionista che avrebbe riconosciuto in lei l’opera di Dio e nel settembre successivo lo incontrerà personalmente. Sempre in settembre, Gemma lascia definitivamente la sua famiglia per andare ad abitare in casa Giannini, tornerà alla sua casa solo in rare occasioni per consolare la sorella Giulietta quando sofferente. Nel maggio del 1902 Gemma si ammala nuovamente, si riprende, ma ha una ricaduta in ottobre. Nel frattempo muiono la sorella Giulia (19 agosto) e il fratello Tonino (21 ottobre). Il 24 gennaio 1903, per ordine dei medici, la famiglia Giannini deve trasferire Gemma in un appartamento affittato dalla zia Elisa, Gemma vive così l’esperienza dell’abbandono di Gesù in croce e del silenzio di Dio. E’ fortemente tentata dal demonio, ma non smarrisce mai la fede, non perde mai la pazienza ed è sempre piena di amore e di riconoscenza verso chi l'assiste nella malattia. Al mezzogiorno dell’11 aprile 1903, Sabato Santo, come si usava allora, le campane aveano annunziato la risurrezione del Signore e alle 13.45, Gemma si addormenta nel Signore, assistita amorevolmente dai Giannini. Il 14 maggio 1933 papa Pio XI annovera Gemma Galgani fra i Beati della Chiesa. Il 2 maggio 1940 papa Pio XII, riconoscendo la pratica eroica delle sue virtù cristiane, innalza Gemma Galgani alla gloria dei Santi e la addita a modello della Chiesa universale. La data di culto per la Chiesa universale è l'11 aprile, mentre la Famiglia Passionista e la diocesi di Lucca la celebrano il 16 maggio. Fonte: /www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/31800 |
CATERINA DA SIENA, Religiosa
Domenicana
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Lo si dice oggi come una scoperta: "Se è in crisi la giustizia, è in crisi lo Stato". Ma lo diceva già nel Trecento una ragazza: "Niuno Stato si può conservare nella legge civile in stato di grazia senza la santa giustizia". Eccola, Caterina da Siena. Ultima dei 25 figli (con una gemella morta quasi subito) del rispettato tintore Jacopo Benincasa e di sua moglie Lapa Piacenti, figlia di un poeta. Caterina non va a scuola, non ha maestri. Accasarla bene e presto, ecco il pensiero dei suoi, che secondo l’uso avviano discorsi di maritaggio quando lei è sui 12 anni. E lei dice di no, sempre, anche davanti alle rappresaglie. E la spunta. Del resto chiede solo una stanzetta che sarà la sua “cella” di terziaria domenicana (o Mantellata, per l’abito bianco e il mantello nero). La stanzetta si fa cenacolo di artisti e di dotti, di religiosi, di processionisti, tutti più istruiti di lei. E tutti amabilmente pilotati da lei. Li chiameranno “Caterinati”. Lei impara faticosamente a leggere, e più tardi anche a scrivere, ma la maggior parte dei suoi messaggi è dettata. Con essi lei parla a papi e re, a cuoiai e generali, a donne di casa e a regine. Anche ai "prigioni di Siena", cioè ai detenuti, che da lei non sentono una parola di biasimo per il male commesso. No, Caterina è quella della gioia e della fiducia: accosta le loro sofferenze a quelle di Gesù innocente e li vuole come lui: "Vedete come è dolcemente armato questo cavaliero!". Nel vitalissimo e drammatico Trecento, tra guerra e peste, l’Italia e Siena possono contare su Caterina, come ci contano i colpiti da tutte le sventure, e i condannati a morte: ad esempio, quel perugino, Nicolò di Tuldo, selvaggiamente disperato, che lei trasforma prima del supplizio: "Egli giunse come uno agnello mansueto, e vedendomi, cominciò a ridere; e volse ch’io gli facessi il segno della croce". Va ad Avignone, ambasciatrice dei fiorentini per una non riuscita missione di pace presso papa Gregorio XI. Ma dà al Pontefice la spinta per il ritorno a Roma, nel 1377. Parla chiaro ai vertici della Chiesa. A Pietro, cardinale di Ostia, scrive: "Vi dissi che desideravo vedervi uomo virile e non timoroso (...) e fate vedere al Santo Padre più la perdizione dell’anime che quella delle città; perocché Dio chiede l’anime più che le città". C’è pure chi la cerca per ammazzarla, a Firenze, trovandola con un gruppo di amici. E lei precipitosamente si presenta: "Caterina sono io! Uccidi me, e lascia in pace loro!". Porge il collo, e quello va via sconfitto. Deve poi recarsi a Roma, chiamata da papa Urbano VI dopo la ribellione di una parte dei cardinali che dà inizio allo scisma di Occidente. Ma qui si ammala e muore, a soli 33 anni. Sarà canonizzata nel 1461 dal papa senese Pio II. Nel 1939 Pio XII la dichiarerà patrona d’Italia con Francesco d’Assisi. E nel 1970 avrà da Paolo VI il titolo di dottore della Chiesa. La festa delle stigmate di S. Caterina è, per il solo ordine domenicano, il 1° aprile. Fonte: /www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/20900 |
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A 13 anni emise il voto di verginità
e poi entrò nel Terz'Ordine. Il suo amore sconfinato a Gesù crocifisso e alle anime le rese amabili anche le sofferenze fisiche, i dolori lancinanti delle stigmate e le calunnie che subì negli ultimi anni della sua vita. Immagine tratta da: /www.santiebeati.it |
GELTRUDE (GERTRUDE) LA GRANDE, Religiosa
Benedettina
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Invece delle origini familiari, conosciamo le sue passioni giovanili: letteratura, musica e canto, arte della miniatura. Per una ragazza del suo tempo, queste non sono cose tanto comuni. Gertrude, infatti, ha fatto i suoi studi, ed è certo quindi che veniva da una famiglia benestante. Ma non era figlia di nobili, come hanno scritto alcuni, confondendola con un’altra Gertrude. Comunque, già all’età di cinque anni, la sua famiglia la mette a scuola nel monastero di Helfta, in Sassonia, che all’epoca segue le consuetudini cistercensi. E qui Gertrude trova la grande Matilde di Magdeburgo, maestra di spiritualità e anche di bello scrivere: la narrazione delle sue esperienze mistiche, Lux divinitatis, costituisce un elegante testo poetico. Matilde è il personaggio decisivo nella vita interiore di molte giovani che l’avvicinano, maestra di una spiritualità fortemente attratta dal richiamo mistico. A questa scuola cresce Gertrude, che tuttavia non sembra percorrere tranquillamente la frequente trafila alunna-postulante-monaca. Alcune fonti, addirittura, le attribuiscono momenti di vita “dissipata”. Però a 26 anni diventa un’altra; o, come dirà successivamente lei stessa: il Signore, "più lucente di tutta la luce, più profondo di ogni segreto, cominciò dolcemente a placare quei turbamenti che aveva acceso nel mio cuore". Una mutazione che sorprende molti, e che lei stessa attribuisce a una visione, seguita poi da altri fenomeni eccezionali come visioni, estasi, stigmate. E in aggiunta vengono a tormentarla le malattie. Ma accade a lei come ad altre donne e uomini misteriosamente “visitati” che l’infermità fisica, invece di fiaccarli, li stimola. Gertrude vorrebbe vivere in solitudine questa avventura dello spirito, ma non sempre può: le voci corrono, arriva al monastero gente per confidarsi, per interrogarla, anche semplicemente per vederla. E questa contemplativa malata ha momenti di stupefacente attivismo, nel contatto con le persone e nell’impegno di divulgatrice del culto per l’umanità di Gesù Cristo, tradotta nell’immagine popolarissima del Sacro Cuore. Accoglie tanti disorientati e cerca di aiutarli. Per raggiungerne altri scrive, sull’esempio di Matilde, e lo fa con l’eleganza che è frutto dei suoi studi. Quell’impegno di adolescente e di giovane nelle discipline scolastiche l’ha preparata a essere “apostolo” nel modo richiesto dai suoi tempi. E anche precorritrice di Teresa d’Avila e di Margherita Maria Alacoque. La fama di santità l’accompagna già da viva, e dura nel tempo, anche se ci vorrà qualche secolo per il riconoscimento ufficiale del suo culto nella Chiesa universale. Ma per chi l’ha conosciuta e ascoltata, Gertrude è già santa al momento della morte nel monastero di Helfta, all’età di circa 46 anni. Fonte: /www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/30050 |
GIOVANNA MARIA BONOMO, Religiosa
Clarissa
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Nacque ad Asiago nella casa paterna al centro del paese il 15 agosto 1606, da Giovanni, ricco mercante, la cui famiglia aveva possedimenti non solo ad Asiago, ma anche nei paesi vicini, e da Virginia della nobile famiglia dei Ceschi di Borgo Valsugana. Aveva appena dieci mesi quando, si racconta, ricevette improvvisamente dal Cielo l'uso della parola, per distogliere il proprio padre da una cattiva azione. A cinque anni aveva già penetrato, per ispirazione divina, il mistero della presenza eucaristica. Ancora bambina imparò benissimo il latino senza l'aiuto di professori o di ripetitori. La Beata aveva appena sei anni quando la madre morì nel 1612 e nel 1615 il padre, non potendo attendere degnamente alla sua educazione, la condusse a Trento nel monastero di Santa Chiara, guidato dalle Clarisse che provvidero a impartire alla Bonomo un'educazione secondo i costumi dell'epoca, basata su religione, letteratura, musica, lavori di ricamo e danze. A soli nove anni, cioè a un'età eccezionale per quei tempi, venne ammessa alla prima Comunione. In quell’occasione, Giovanna Maria pronunziò un voto di verginità al quale si mantenne fedele per tutto il resto della sua vita. A dodici anni Maria scrisse al padre la sua intenzione di farsi monaca Clarissa e di rimanere a Trento. Giovanni Bonomo dapprima ostacolò in ogni modo la vocazione della figlia, la fece rientrare ad Asiago per avviarla alla vita matrimoniale, ma alla fine acconsentì al desiderio della figlia riservandosi tuttavia di scegliere personalmente l'ordine e il monastero. Nella chiesa di Santa Chiara a Trento fu novizia e la domenica accompagnava la messa col suono del violino, attirando nelle chiesetta, fuori le mura, numerose persone. Finalmente, a quindici anni il 21 giugno 1621 Maria entrò nel monastero benedettino di San Girolamo a Bassano. Le fu imposto il nome di Giovanna Maria e l'8 settembre 1622 fece la professione dei voti di povertà, castità e obbedienza. Cominciò allora il cammino verso la perfezione seguendo le tre vie tradizionali: purificativa, illuminativa e sensitiva. La sua vita era costellata da visioni celesti e per circa sette anni ebbe “molte grazie” e poté godere di gioie celestiali, soprattutto nelle sue frequenti esperienze mistiche, che diventavano più intense quando riceveva la Comunione. Il privilegio di giungere al culmine dell'esperienza divina, al dialogo con il Salvatore, comportò anche la prova di grandi tribolazioni nel corpo e nello spirito. A vent’anni, durante una delle solite estasi, Gesù le pose al dito l'anello dello sposalizio mistico, da allora per alcuni anni dal pomeriggio del giovedì fino alla sera del venerdì o la mattina del sabato, riviveva in estasi tutti i momenti e tutti i dolori della Passione di Cristo. Ricevette anche le stigmate! Questi fenomeni da un lato la riempivano di gioia, ma dall'altro l'angustiavano, perché la facevano apparire agli occhi degli altri “ciò che non è” come diceva lei stessa. Pregò intensamente finché le fu concessa la grazia che scomparissero le stigmate e che le estasi accadessero soltanto di notte, permettendole così di condurre una vita normale nel monastero. Ebbe anche il dono della bilocazione. La fama di santità che si diffondeva, le suscitò la contrarietà di alcune consorelle, del confessore e della Curia di Vicenza che per sette anni le proibì di recarsi in parlatorio e di scrivere lettere. Perfino il confessore la considerava “pazza” e arrivò al punto di proibirle la Comunione finché un giorno la Sacra Particola le fu portata da un Angelo. In quel periodo fu anche colpita da malattie fisiche: febbri periodiche e poi continue, sciatica, ecc. La situazione cambiò nell'ultimo ventennio della sua vita. Le fu permesso di riprendere la corrispondenza e fu anche eletta badessa nel giugno del 1652. Il 1° agosto 1655 fu eletta priora fino al 1664, quando fu eletta nuovamente badessa. Insegnò alle monache che la santità non consiste nel fare cose grandi, ma nel compiere perfettamente le cose semplici e comuni. Molti, anche nobili, ricorsero a lei per consigli e molti bisognosi godevano della sua grande carità, virtù che insieme all'umiltà e all'eroica pazienza furono le caratteristiche della sua vita. Ma era ormai vecchia, colma di meriti ma anche carica di dolori, sotto il cui peso finalmente piegò le stanche ginocchia a Bassano il 1° marzo 1670. Il centro della sua spiritualità, iniziata alla scuola francescana e portata a compimento in quella benedettina, ma con influssi carmelitani e ignaziani, è imperniata sulla figura del Cristo, lo sposo mistico, contemplato nelle fasi più salienti della sua vita terrena, come si può anche ricavare dai suoi scritti, tra cui primeggiano le “Meditazioni sulla Passione di Nostro Signore Gesù Cristo” e le numerose lettere rimaste. Molte guarigioni prodigiose furono attribuite alla sua intercessione tanto che nel 1699 fu introdotto il processo di beatificazione che si concluse il 9 giugno 1783 quando fu solennemente beatificata da Pio VI con grande gioia della popolazione di tutto il Veneto e in particolare di Bassano ed Asiago che l'acclamarono patrona. L'ultimo prodigio si verificò nella sua patria natale durante la prima guerra mondiale, quando nonostante i furiosi bombardamenti che distrussero tutta Asiago, la statua a lei dedicata nel 1908 davanti alla sua casa natale, rimase inspiegabilmente intatta. Il Martyrologium Romanum la ricorda il 1° marzo. Ad Asiago viene festeggiata il 26 febbraio. Fonte: /www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/92489 |
MARIA DI GESU' (LOPEZ
DE RIVAS), Religiosa Carmelitana scalza
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La Riforma Teresiana del Carmelo, dalla Spagna, si diffuse in Europa e poi in tutto il mondo grazie anche a numerose personalità, alcune ingiustamente poco conosciute. Tra queste vi è la Beata Maria di Gesù che Teresa definì il suo “Letradillo”, cioè il piccolo dottore teologo. Durante gli ottanta anni della sua lunga vita, la Spagna conobbe potenza e splendore, ma anche la successiva decadenza. Maria, dal monastero di Toledo da cui quasi mai si allontanò, visse i vari avvenimenti alla luce della fede, che guarda ben al di là della realtà terrena. Ci parlano di lei alcune relazioni autobiografiche, qualche suo scritto e la testimonianza dei contemporanei e dei santi con cui strinse rapporti, prima fra tutti Santa Teresa. Maria Lopez de Rivas nacque da nobile famiglia a Tartanedo (Guadalajara) il 18 agosto 1560. Il padre morì quando aveva solo quattro anni ed essendo l’unica figlia ereditò un patrimonio considerevole. La madre, vedova a soli diciannove anni, si risposò e la piccola rimase presso i nonni e gli zii paterni a Molina de Argon, dove fu educata cristianamente. Di “rara bellezza”, tra i quattordici e i diciassette anni sostenne la lotta con se stessa e con i familiari per il desiderio che sentiva di consacrarsi al Signore nell’ordine carmelitano da poco riformato. Lasciando agi e ricchezze, vi fu introdotta dal gesuita Padre Castro il 12 agosto del 1577. Entrò nel monastero di Toledo, accolta dalla stessa Teresa che nove anni prima lo aveva fondato. La Madre preannunciò alla comunità la futura santità della postulante e alle prime remore per la sua accettazione dovute alla salute precaria rispose: “La facciano professare, anche se dovesse restare a letto tutti i giorni della sua vita. Questa è la volontà di Dio”. Teresa proponeva una totale donazione di sé al Signore e ciò corrispondeva al desiderio di Maria, nonostante la sua timidezza si manifestasse, a volte, in modo “sanguigno e collerico”. Professò l’8 settembre 1578. I primi anni furono dedicati prevalentemente all’orazione, iniziandosi a manifestare in lei doni mistici come le stigmate alle mani, ai piedi, al costato e al capo. A ventiquattro anni fu nominata maestra delle novizie, ricoprì poi questo incarico ben otto volte, alternato al compito di sacrestana, infermiera e sottopriora. Si assentò da Toledo per cinque mesi nel 1585, per la fondazione e l’avvio di un nuovo monastero a Cuerva. Per la prima volta a trentuno anni fu nominata priora. Nel 1600, quando mancava un anno alla scadenza del secondo triennio di priorato, durante una visita canonica, il superiore diede superficialmente credito alle accuse infondate di una monaca deponendo la Beata dalla carica. Suor Maria accettò la prova senza risentimento, conservando inalterato il buonumore. Per un ventennio sopportò umilmente le calunnie, alcune malattie e afflizioni spirituali con cui il Signore provò la sua santità: era la notte interiore dello spirito. Un anno dopo la morte dell’accusatrice, per la quale Maria pregò intensamente per ottenerle un sereno trapasso, veniva pubblicamente riabilitata dallo stesso superiore che davanti alla comunità le chiese perdono. All’unanimità fu rieletta priora il 25 giugno 1624. Successivamente, a causa della malferma salute, ottenne di essere solo consigliera e maestra delle novizie, carica che ricoprì fino alla morte. Il giorno dell’Epifania del 1629 il Signore le disse: “Maria, tu mi chiedi di essere liberata dalla prigionia del corpo, sappi che non è ancora tempo, perché se finora hai vissuto per te, adesso devi vivere per altri; per il tuo riposo un’eternità ti attende”. E lei davvero donò tutta se stessa per il bene della comunità e del prossimo. In quegli anni si costruiva la nuova chiesa del convento e lei si adoperò per la buona riuscita dell’opera, avvalendosi anche di buone amicizie per raccogliere i fondi necessari. Nonostante fosse molto anziana e con diversi malanni, causati in parte dalle penitenze, condivise sempre la vita comunitaria di preghiera, nell’ammirazione dei fedeli che affollando la chiesa riuscivano a scorgerla dalla grata. Il 13 settembre 1640, ormai allo stremo delle forze, chiese alla superiora il permesso di morire. Dopo aver ricevuto Gesù Eucaristia spirò. Erano le dieci del mattino. Aveva ottant’anni, di cui sessantatre consacrati al Signore. Una vasta fama di santità la circondava, suor Maria aveva risposto pienamente a quanto, un giorno, si sentì dire dal Signore: “Figlia il tuo amore è così veemente, che nessuno lo merita al di fuori di me”. Il miglior elogio ce lo dà la Santa Madre Teresa che la ebbe collaboratrice anche nella stesura dei suoi scritti. Maria, invece, fu sentita come importante testimone ai processi di canonizzazione di Teresa, che avvenne nel 1622 con sua somma gioia. La nostra Beata conobbe S. Giovanni della Croce (il primo incontro fu il 17 agosto 1578) e quando il santo scappò dalla prigionia e si rifugiò nel monastero di Toledo, Maria fu tra le sue più attente ascoltatrici. In merito scrisse due relazioni fortunatamente ancora oggi conservate. La confidenza tra i due durò molti anni e il mistico dottore la tenne sempre in grande considerazione. Il primo Provinciale del Carmelo riformato, Padre Gerolamo Gracian della Madre di Dio, riferì d’aver constatato in Maria le stigmate della Passione del Signore, misticamente impresse sul suo corpo: «avendo (ella) chiesto a nostro Signore di concederle qualcosa che le facesse sentire fisicamente la sua Passione, ebbe dal Redentore, che le apparve, una corona di spine sul capo, da cui le risultò un dolore così forte che mai le si levava». Strinse relazioni con la Beata Anna di S. Bartolomeo e col Venerabile Domenico di Gesù e incontrò pure il Re di Spagna Filippo III che le chiese preghiere. Come tutte le grandi mistiche i suoi piedi erano però saldi a terra. Ben comprendeva le necessità del prossimo sofferente e tante furono le persone che cercandola per conforto, ne trassero grandi benefici, con colloqui alla grata o attraverso relazioni epistolari. Le sue grandi devozioni furono per il Bambin Gesù che definiva «dottore dell’infermità d’amore», per il Sacro Cuore, per Maria, per l’Eucaristia. Alle consorelle ripeteva: «Figlie, sanno che siamo di casa con il SS. Sacramento, che viviamo insieme a Sua Maestà, sotto il medesimo tetto? Se i religiosi fossero consapevoli di tale privilegio, nessuno riterrebbe acquistarlo a troppo caro prezzo, fosse pure di lacrime e di sangue». Amava ripetere: «Solo colui che è tanto fortunato da rendere Cristo padrone del proprio essere sa conoscere Dio Divino ed Umano; costui cammina per sicuro sentiero». Beatificata il 14 novembre 1976 da Papa Paolo VI, la sua festa ricorre il 13 settembre. Fonte: /www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/92634 |
MARIA MADDALENA DE' PAZZI, Religiosa Carmelitana scalzaFirenze, 2 aprile 1566 - 25 maggio
1607
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Una santa da capogiro. Parte della sua vita si svolge come fuori dal mondo, in lunghe e ripetute estasi, con momenti e atti quasi “intraducibili” oggi: come lo scambio del suo cuore con quello di Gesù, le stigmate invisibili, i colloqui con la Santissima Trinità... Scene vertiginose di familiarità divino-umana; dopo le quali, però, lei ritorna tranquilla e laboriosa monaca, riassorbita nella quotidianità delle incombenze. Appartiene alla casata de’ Pazzi, potenti (e violenti) per generazioni in Firenze, e ancora autorevoli alla sua epoca. Battezzata con il nome di Caterina, a 16 anni entra nel monastero carmelitano di Santa Maria degli Angeli in Firenze e come novizia prende il nome di Maria Maddalena. Nel maggio 1584 soffre di una misteriosa malattia che le impedisce di stare coricata. Al momento di pronunciare i voti, devono portarla davanti all’altare nel suo letto, dove "dì e notte sta sempre a sedere". Ed ecco poi quelle estasi, che si succederanno per molti anni. Le descrivono cinque volumi di manoscritti, opera di consorelle che registravano gesti e parole sue in quelle ore. (Parole sorprendenti: nelle estasi, lei usava un linguaggio colto, “specialistico”, di gran lunga superiore al livello della sua istruzione). Questi resoconti, che lei legge e corregge, e che acuti teologi perlustrano in punto di dottrina, contengono – espresso in mille modi e visioni e voci – l’invito appassionato a ricambiare l’amore di Cristo per l’uomo, testimoniato dalla Passione. Più tardi le voci dall’alto le chiedono di promuovere la “rinnovazione della Chiesa” (iniziata dal Concilio di Trento con i suoi decreti), esortando e ammonendo le sue gerarchie. Maria Maddalena esita, teme di ingannarsi. Preferirebbe offrire la vita per l’evangelizzazione, segue con gioia l’opera dei missionari in Giappone... Voci autorevoli la rassicurano, e allora lei scrive a papa Sisto V, ai cardinali della Curia; e tre lettere manda ad Alessandro de’ Medici, arcivescovo di Firenze, che poi incontra in monastero. "Questa figliola ha veramente parlato in persona dello Spirito Santo", dirà lui. Maria Maddalena gli annuncia pure che presto lo faranno Papa, ma che non durerà molto (e così gli ha predetto anche Filippo Neri). Infatti, Alessandro viene eletto il 10 maggio 1605 con il nome di Leone XI, e soltanto 26 giorni dopo è già morto. Per suor Maria Maddalena finisce il tempo delle estasi e incomincia quello delle malattie. Del “nudo soffrire”, come lei dice, che durerà fino alla sua morte, già accompagnata da voci di miracoli, che porteranno nel 1611 l’apertura del processo canonico per la sua beatificazione, a pochi anni dalla morte avvenuta nel 1607. Papa Clemente IX, il 22 aprile del 1669, la canonizzerà. Le spoglie di santa Maria Maddalena de’ Pazzi ora riposano, incorrotte, nell’omonimo monastero, a Firenze. Fonte: /www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/27450 |
ROSINA FERRO, Laica OFS e
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Rosina Ferro, nata a Villareggio (TO) nel 1851, era la domestica del parroco di un paesino vicino. All'età di 24 anni Rosina ebbe il privilegio di ricevere le apparizioni della Madonna. La giovane vide al margine della strada la “Madre dei dolori” silenziosa e circondata dagli Angeli. Per tutto il mese di luglio e agosto, la vide alle ore 15, sempre allo stesso posto. Tempo dopo, Rosina ricevette le sante Stigmate e soffrì ogni venerdì la Passione di Gesù Cristo, Nostro Signore. La sua vita fu assai travagliata e dovette più volte trasferirsi. Ebbe anche modo di incontrare Papa Pio IX. Infine si stabilì a Torino. Entrò tra le Figlie di Maria, tra i terziari francescani e domenicani. Morì abbandonata da tutti in una stanzetta in centro a Torino nei pressi del Santuario della Consolata. Dopo il suo decesso il suo corpo mortale tornò miracolosamente giovane, come le era stato predetto in una delle numerose apparizioni. La sua salma riposa oggi nel Cimitero Monumentale di Torino. Fu raccolto tutto il materiale e le testimonianze necessarie per avviare la sua causa di canonizzazione ed il tutto fu inviato a Roma. Alla sua memoria fu scritta la biografia: “Leggenda medioevale in pieno secolo decimonono e vigesimo ossia cenni biografici di Rosina Ferro da Villareggio”. Fonte: /www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/93600 |
ELENA AIELLO, Religiosa Fondatrice Montalto Uffugo (Cosenza), 10 aprile
1895 – Roma, 19 giugno 1961
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Nata a Montalto Uffugo, nel Cosentino, il 10 aprile 1895, Elena Emilia Aiello, cresce in un ambiente familiare esemplarmente cristiano. I suoi genitori, Pasquale e Teresa gestivano una sartoria ed erano buoni e onesti, sempre disponibili ad aiutare gli otto figli. Buona e sveglia, a 4 anni ripeteva le formule del Catechismo e viene mandata presso le Suore del Preziosissimo Sangue per frequentare la scuola e seguire i corsi di Catechismo. Apprendeva con gioia la Parola di Dio tanto che le Suore, quando aveva 8 anni la facevano insegnare la Dottrina ai più piccoli. Dopo la morte della mamma avvenuta nel 1905, Elena si adopera in famiglia come può, aiuta il papà nella sartoria, compie i lavori domestici e inoltre soccorre i poveri e gli ammalati. Vuole diventare Religiosa e amare Dio nella sofferenza. Sceglie l'Istituto delle Suore Del Preziosissimo Sangue, ma cade ammalata grave, subisce dolorose operazioni senza anestesia che sopporta con fede eroica, viene espulsa dalla congregazione e rimandata a morire a casa, ma ? miracolata, e Gesù le dice che sarebbe guarita, ma il venerdì santo di ogni anno avrebbe sofferto le pene della croce. E' stato cos„ ogni anno. Elena sudava Sangue e sul suo corpo si formavano le stigmate che il sabato santo scomparivano miracolosamente. Un'amica, Luigia Mazza, detta Gigia, era anch'essa desiderosa di farsi religiosa, e si consiglia con Elena. Le due si trasferiscono a Cosenza e fondano l' Istituto delle Suore Minime della Passione di N. S. Gesù Cristo. Suor Elena sceglie per se e le sue figlie come modello di vita la Passione di Gesù e il primato della carità testimoniato da S. Francesco da Paola. Umiltà, carità e sacrificio sono le basi su cui Madre Elena edifica la sua famiglia religiosa che, si inserisce nella missione della Chiesa per risanare il tessuto sociale del suo tempo e soccorrere i fratelli più deboli e disagiati, in modo specifico l'infanzia bisognosa. Infatti Madre Elena, istituisce per gli orfani alcuni istituti e, apre un Istituto Magistrale per garantire un futuro alle ragazze che devono abbandonare l'orfanotrofio. Recatasi a Roma per l'apertura di una nuova casa, in via Dei Baldassini, vi muore il 19 giugno 1961. Strepitosi miracoli e conversioni si verificano a partire dal giorno dopo la sua morte fino ad oggi. Madre Elena riposa nella Cappella di Casa Madre, in via dei Martiri 9 a Cosenza. Giovanni Paolo II l'ha dichiarata Venerabile il 22 gennaio 1991. Fonte: /www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/91338 |
MARIA MADDALENA (MARGHERITA) MARTINENGO
- Religiosa Clarissa Cappuccina
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Margherita Martinengo nacque a Brescia il 4 ottobre 1687. La sua era una famiglia importante: il padre, Conte Leopardo, era Capitano della Repubblica Veneta. Per le complicazioni del parto la mamma, Margherita Secchi d’Aragona, morì dopo cinque mesi; la beata ne aveva ereditato il nome. Crebbe in un ambiente sereno, con diverse nutrici, ma nonostante le cure fu sempre malaticcia, soffrendo in particolare di debolezza di stomaco. All’età di cinque anni prese come mamma e modello la Madonna. Frequentò la scuola delle Orsoline manifestando predisposizione per la lettura e la preghiera. Il palazzo dei Martinengo aveva una ricca biblioteca, oltre a molte opere d’arte. Di quegli anni si ricorda un episodio singolare: un giorno cadde dalla carrozza in corsa senza farsi alcun male. Disse di aver sentito il suo Angelo Custode prenderla in braccio. A dieci anni fu accolta dalle Agostiniane, ove vi erano due zie, per perfezionare la sua istruzione e la sua spiritualità. Il momento tanto atteso della Prima Comunione ebbe un risvolto eccezionale: la sacra particola cadde a terra, Margherita si prostrò e la prese dal pavimento. Un freddo improvviso la scosse, sentì dentro di sé la presenza di Dio. Due anni dopo, per sottrarsi alle attenzioni delle due zie monache, andò dalle Benedettine dove erano religiose altre due zie. Anche queste però erano più preoccupate della sua futura collocazione sociale che del travaglio interiore che stava vivendo. Con le altre convittrici era allegra e vivace e amava ripetere che voleva farsi santa. Pensavano scherzasse, ma il Signore faceva sul serio. A tredici anni fece voto segreto di verginità. Tre anni dopo si prospettò l’idea di un buon matrimonio: Margherita disse al padre che voleva farsi cappuccina, ma trovò una ferma opposizione. Seguirono mesi di incertezze. Fece un periodo di prova proprio dalle Cappuccine, poi un viaggio col padre a Venezia. Tornata a casa passò un’intera notte in preghiera, poi prese la decisione definitiva: le vesti eleganti da contessina cedevano il posto al rude saio. Entrò in monastero l’8 settembre 1705, condotta da un corteo di carrozze. Scrisse: “che spasimo provai quando feci l’ingresso! Diedi quel passo con tanta violenza che credo di certo non sarà più grande quella del separarsi l’anima dal corpo”. Prendeva il nome della Penitente che era stata la prima Testimone del Risorto. La vita della comunità, una trentina di suore, era scandita dalla preghiera, cinque ore di giorno e tre di notte, e dal lavoro. Il rapporto con la maestra delle novizie fu burrascoso, ma suor Maria Maddalena soffrì nel silenzio. Per nulla al mondo, anche se le sue origini erano nobili, avrebbe voluto primeggiare. Le novizie svolgevano i lavori più semplici: coltivare l’orto, accudire agli animali, cucinare. Essa non li aveva mai fatti prima eppure era tra quelle che lavoravano di più. Soprattutto però ebbe inizio un rapporto profondo col Signore, scrisse: “la mia orazione non ha mai principio perché non ha mai fine, vivendo sempre unita a Dio nel mio interno”. Le sue facoltà erano “tutte ingolfate in Dio”. Alcune ore della notte, invece del riposo, le dedicava alla preghiera, “specchio nel quale si mira Dio”. La sua unione con l’Altissimo è totale: “quanto più mi profondo nel mio niente tanto più mi perdo in Dio e mi scordo del tutto di me”. Amava molto il silenzio ma col suo carattere gioviale non mancava di rallegrare le consorelle con composizioni poetiche. Iniziarono i disturbi di salute che l’accompagneranno per tutta la vita. Fece la professione con un “amore ardentissimo a Dio intenso e continuo, che abbruci ogni difetto ogni imperfezione ogni neo di colpa”. L’umile suora iniziò anche un magistero attraverso la corrispondenza diretta ai familiari e a religiose di altri monasteri. Cristo “parve mi si mutasse il cuore, dandomi Gesù il suo divin cuore, vera fornace di sempiterno amore”. Aveva il grande timore di non essere diligente. Era consueto, a quei tempi, imporsi penitenze con cilici, suor Maria Maddalena ne aveva a decine. Guardava Colui che si era caricato di tutti i mali del mondo morendo sulla croce. Quali mai potevano essere i suoi peccati? La risposta è che chi vuole uniformarsi a Dio si sente continuamente imperfetto: “la strada del patire e dell’annegar se stessi è la più breve per giunger al possesso del Sommo Bene”. Il Venerdì Santo del 1721 Maria Maddalena ebbe il dono dello sposalizio mistico, alle consorelle che avevano sentore delle sue esperienze diceva “pensate un po’ se il Signore vuol fare a me miserabile tali favori”. A trentasei anni fu nominata maestra delle novizie, incarico importante e delicato; lo sarà tre volte. La sua condotta suscitò gelosie e alcune suore le divennero “contrarie”: Dio la metteva alla prova. Col successivo incarico di “ruotara” ebbe rapporti con l’esterno e la sua fama si diffuse nella città. Nel 1732 fu eletta badessa. Temendo che non fosse rispettato abbastanza il voto di povertà, mandò alcuni paramenti della chiesa alle Cappuccine di Venezia. Non mancarono le tentazioni: “vivo come una creatura esiliata e dal cielo e dalla terra, tanto arida e desolata, senza sentimento di Dio”. Il 18 luglio 1734 ebbe la prima emottisi, lo rivelò a poche. Il suo corpo, già provato da tante penitenze, deperì velocemente. Il 12 luglio 1736 fu nuovamente eletta badessa. Una delle “contrarie” dirà che nel suo governo c’era qualcosa di divino. All’affanno dei medici rispondeva “io spero di aver presto a morire per tante cose ch’essi non sanno. Sono tutta in Dio, non penso ad altro”. Gli ultimi mesi furono penosi, soffrendo meditava la Passione di Cristo: “i misteri della sua santissima vita e passione e morte li ho tutti scolpiti nel cuore, non per averli meditati, ma per averli veduti”. Tutti i particolari delle ultime giornate furono annotati dalle consorelle. Qualche anno prima aveva scritto: “che contenti per un’anima nel mirare il crocifisso che l’è posto nell’ultima agonia in mano!”. Spirò, da poco passata l’una di notte, il 27 luglio 1737. Qualche ora dopo tutta Brescia le rese omaggio. La Beata Maria Maddalena Martinengo è una grande mistica francescana, con influssi di spiritualità carmelitana. Possediamo numerosi suoi scritti, sia diretti alle consorelle che autobiografici, redatti per obbedienza ai confessori e che tanto le costarono. Erano cose “intese dall’anima per esperienza e non per scienza”. “Tante cose le intendo, ma non so spiegarle; altre le spiego, ma dico spropositi”. A noi oggi dice: “O creature tutte, perché non correte ad amare sì smisurata bontà di Dio?”. Leone XIII la proclamò beata il 18 aprile 1900 Fonte: /www.santiebeati.ithttp://www.santiebeati.it/dettaglio/90389 |
Venerabile Diomira
Allegri, religiosa
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Ai giorni nostri molti sono gli stigmatizzati (o
i presunti tali). La più attendibile sembra essere
Natuzza Evolo, di Paravati, in Calabria. |
Cloretta Robertson: Il caso di Cloretta
Robertson di Oakland, California, è insolito
per due motivi: non è cattolica ed è stata
la prima rappresentante della razza nera ad avere le
stimmate. Circa tre settimane prima della Pasqua del
1972 guardò un film sulla crocifissione. Qualche
giorno dopo cominciò a perdere sangue dai palmi
delle mani. Fu visitata da due psichiatri i quali esclusero
che la ragazza si fosse procurata le ferite da sè.
Il sanguinamento si ripeté ogni giorno, per qualche
minuto, fino al Venerdì Santo, quindi cessò
e non ricomparve più. |
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Giorgio Bongiovanni: al quale si manifestarono
le stigmate in occasione di una sua visita al santuario
di Fatima in Portogallo, celebre per le asserite apparizioni
della Vergine. |
Bibliografia
Dello stesso autore:
- Beati e Beate: - Beata Colomba da Rieti- Beate Ambrosiane- Le beate terziarie minime di Milazzo: quattro o tre?
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Santi Martiri:
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Iconografia dei Santi: - Chi sarà mai costui - - Iconografia dei SantI - Prima parte
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- I Santi e il Cane
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Santi e Sante: |
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- Santi 14 Ausiliatori
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- San Marco- San Mario
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- Come la ginestra... (Santità calabrese)
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Altro: - Sacro Cuore di Gesù
e Santità e Sacro Cuore
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